Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'11 ottobre 2011 - Ricorso n. 11389/02 - Mauro di Gennaro e Gianni Antonio Tedeschi c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, funzionario linguistico

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
SULLA RICEVIBILITÀ
del ricorso n. 11389/02
presentato da Mauro DI GENNARO e Gianni Antonio TEDESCHI
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita l’11 ottobre 2011 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
David Thór Björgvinsson,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato, presentato il 14 marzo 2002,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

I ricorrenti, sigg. Mauro Di Gennaro e Gianni Antonio Tedeschi, sono due cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1967 e nel 1953 e residenti rispettivamente a Roccarainola (Napoli) e a Sperone (Avellino). Sono rappresentati dinanzi alla Corte dagli avv. Giovanni Romano e Umberto Russo del foro di Benevento

Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dai suoi co-agenti, P. Accardo e S. Coppari.

A.Le circostanze del caso di specie

I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

1. La procedura di fallimento

I ricorrenti erano dipendenti della società D.B.B. S.r.l.

Con sentenza depositata il 3 ottobre 1991 il tribunale di Napoli dichiarò il fallimento della società.

Il 27 e il 29 novembre 1991 i ricorrenti presentarono dinanzi al tribunale delle domande di ammissione al passivo del fallimento allo scopo di ottenere le ultime tre retribuzioni non pagate e il trattamento di fine rapporto (T.F.R.) ai quali ritenevano di avere diritto.

In data non precisata il tribunale accolse tali domande.

Il 17 giugno 1993 fu depositato lo stato passivo del fallimento.

Secondo un documento dell’I.N.P.S. (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) che il Governo ha fornito contestualmente al deposito delle sue osservazioni, il 1° marzo 1994 l’Istituto ha liquidato al sig. Di Gennaro il suo trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda presentata in tal senso da quest’ultimo ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982 (si veda la parte «Diritto interno pertinente» infra).

Secondo una dichiarazione fatta dal curatore fallimentare in data non precisata, anche il sig. Tedeschi ha ottenuto il pagamento in questione.

Il 18 luglio 2007 la procedura fu chiusa per la ripartizione finale dell’attivo del fallimento.

2. Il procedimento intentato conformemente alla legge n. 89 del 24 marzo 2001 («legge Pinto»)

Il 16 aprile 2002 i ricorrenti presentarono un ricorso dinanzi alla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto» per lamentare l’eccessiva durata della procedura di fallimento, «che ha comportato, nella fattispecie, la violazione del loro diritto di proprietà», in particolare a causa della prolungata impossibilità di recuperare i loro crediti.

Con decisione depositata il 20 giugno 2003 la corte d’appello accordò a ciascuno dei ricorrenti la somma di 1.500 euro (EUR) per danno morale più le spese.

3. La procedura in esecuzione della decisione resa conformemente alla «legge Pinto»

Poiché il ministero della Giustizia non aveva pagato le somme accordate ai ricorrenti dalla corte d’appello di Roma, il 10 agosto e il 2 dicembre 2004 ciascuno dei due ricorrenti notificò al ministero un atto di precetto.

Di fronte all’inerzia del ministero, il 6 settembre 2004 e il 10 gennaio 2005 ciascuno dei due ricorrenti intentò una procedura di pignoramento presso terzi.

Con due ordinanze depositate in date non precisate, il giudice dell’esecuzione accolse tali domande. Le ordinanze furono eseguite dal ministero della Giustizia il 9 gennaio 2006 e il 12 settembre 2005 per gli importi rispettivamente di 2.807,47 EUR e 2.695,54 EUR per i due ricorrenti.

B. Il diritto interno pertinente

1.Legge n. 297 del 29 maggio 1982

Articolo 2: Fondo di garanzia

«1.È istituito presso l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) il "Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto" con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto [...].

2.Trascorsi quindici giorni dal deposito dello stato passivo […], ovvero dopo la pubblicazione della sentenza, per il caso siano state proposte opposizioni o impugnazioni […] il lavoratore o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del fondo [sopra menzionato], del trattamento di fine rapporto di lavoro [...].»

2 Decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992

Articolo 1: Garanzia dei crediti di lavoro

1.Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento […], il lavoratore […] può ottenere a domanda il pagamento, a carico del Fondo di garanzia istituito e funzionante ai sensi della legge 29 maggio 1982, n. 297, dei crediti di lavoro non corrisposti di cui all'art. 2 [di questo stesso decreto] [...].

Articolo 2: Intervento del fondo di garanzia

1.Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell'art. 1 [di questo stesso decreto] è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono la data di inizio [della procedura di fallimento]. La domanda di pagamento viene presentata ai sensi dell’articolo 2 comma 2 [...] della legge n. 297 del 29 maggio 1982. [...]

MOTIVI DI RICORSO

  1. I ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto al rispetto dei beni in quanto non hanno ottenuto il pagamento dei loro crediti, in particolare a causa della eccessiva durata della procedura di fallimento. Invocano l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
  2. Con lettera datata 20 agosto 2002 i ricorrenti hanno presentato un nuovo motivo di ricorso basato sull’articolo 6 § 1 della Convenzione, sotto il profilo del diritto di accesso a un tribunale, e dell’articolo 13 della Convenzione in quanto non disporrebbero di una via di ricorso per controllare l’attività del curatore e per chiedere la liquidazione dei beni facenti parte del fallimento.
  3. Con lettera in data 18 agosto 2003 i ricorrenti hanno sollevato un nuovo motivo di ricorso, basato sull’articolo 1 del Protocollo n. 1 in quanto, in tale data, l’amministrazione non aveva ancora pagato loro la somma accordata dalla corte d’appello di Roma conformemente alla legge Pinto.

IN DIRITTO

  1. I ricorrenti lamentano la violazione del proprio diritto al rispetto dei loro beni in quanto non avrebbero ottenuto il pagamento dei loro crediti, in particolare a causa della eccessiva durata della procedura di fallimento. Invocano a questo titolo l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
  2. Invocando gli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione, denunciano il fatto di non disporre di una via di ricorso per controllare l’attività del curatore e per chiedere la liquidazione dei beni facenti parte del fallimento.
  3. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, i ricorrenti lamentano infine il fatto che, al 18 agosto 2003, l’amministrazione non aveva ancora versato loro la somma accordata dalla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto».

Gli articoli in questione, nelle loro parti pertinenti, recitano:

Articolo 6 § 1 della Convenzione

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…).»

Articolo 13 della Convenzione

«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»

Articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

Il Governo ha prodotto un documento dell’I.N.P.S. che attesta che, il 1° marzo 1994, quest’ultimo ha liquidato al sig. Di Gennaro il suo trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda da lui presentata ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982.

Inoltre, il Governo sostiene che i due ricorrenti hanno omesso di chiedere il pagamento delle mensilità non pagate ai sensi del decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992.

Questa parte del ricorso dovrebbe pertanto essere rigettata per mancanza della qualità di vittima dei ricorrenti.

In via sussidiaria, il Governo sostiene che la procedura di fallimento è stata particolarmente complessa. Inoltre, i ricorrenti non avrebbero beneficiato di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione in quanto i crediti ammessi allo stato passivo del fallimento non sarebbero né certi né definitivi.

Quanto al motivo di ricorso basato sull’articolo 13 della Convenzione, secondo il Governo i ricorrenti avrebbero potuto presentare dei ricorsi ai sensi degli articoli 26 e 36 della legge sul fallimento al fine di denunciare le manovre o l’inerzia rispettivamente del giudice delegato e del curatore fallimentare.

I ricorrenti confermano i loro motivi di ricorso senza fare alcun riferimento alle informazioni fornite dal Governo per quanto riguarda l’attribuzione dei pagamenti effettuati dall’I.N.P.S.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso basati sulla allegata mancata liquidazione dei crediti dei ricorrenti derivanti dalla loro ammissione al passivo del fallimento (motivi di ricorso nn. 1 e 2), la Corte osserva che, secondo le informazioni fornite dal Governo, debitamente provate, il 1° marzo 1994, ossia ben prima della data di presentazione del ricorso dinanzi alla Corte (il 14 marzo 2002) nonché del ricorso ai sensi della «legge Pinto» (il 16 aprile 2002), il sig. Di Gennaro aveva ottenuto il pagamento del suo trattamento di fine rapporto da parte dell’I.N.P.S.

Inoltre, secondo una dichiarazione del curatore fallimentare, in data non precisata anche il sig. Tedeschi ha ottenuto il pagamento in questione. La Corte non vede alcun motivo per discostarsi dalla versione dei fatti presentata dal governo convenuto. Essa rileva inoltre che i ricorrenti non hanno fornito alcuna informazione riguardante tale pagamento nel momento in cui hanno presentato il ricorso dinanzi alla Corte e le loro osservazioni in risposta a quelle del Governo. Del resto, essi non hanno in alcun modo contestato i fatti, così come esposti dal governo convenuto.

La Corte constata dunque che delle informazioni fondamentali sui fatti della causa sono state omesse allo scopo di indurla in errore. Poiché i ricorrenti hanno commesso un abuso del loro diritto di ricorso, questa parte del ricorso deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione (Basileo e altri c. Italia (dec.), n. 11303/02, 23 agosto 2011).

Quanto al resto dei crediti per i quali i ricorrenti sono stati ammessi al passivo del fallimento, ossia le ultime tre mensilità non pagate alle quali ritenevano di avere diritto, la Corte rileva, così come il Governo, che essi hanno omesso di presentare una domanda dinanzi all’I.N.P.S. al fine di ottenerne il pagamento ai sensi del decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992.

Secondo gli articoli 1 e 2 di questo decreto, i ricorrenti avrebbero potuto in effetti chiedere tale pagamento entro quindici giorni dal deposito dello stato passivo del fallimento, deposito avvenuto il 17 giugno 1993.

Poiché i ricorrenti non hanno utilizzato le vie loro aperte al fine di recuperare, nell’immediato, i crediti derivanti dal loro contratto di lavoro, la Corte ritiene che, tenuto conto dei diritti tutelati dalla Convenzione, qualsiasi ritardo nella liquidazione di questi ultimi derivante dalla durata della procedura di fallimento non possa essere imputato al governo convenuto.

Considerate tutte le circostanze del caso di specie, la Corte ritiene dunque che questa parte del ricorso sia manifestamente infondata e debba essere rigettata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Passando ora ad esaminare il motivo di ricorso dei ricorrenti relativo al ritardo nell’ottenimento del risarcimento che è stato loro riconosciuto nell’ambito del procedimento «Pinto» (motivo n. 3), tenuto conto delle considerazioni sopra esposte, la Corte osserva che la circostanza che la corte d’appello di Roma abbia riconosciuto ai ricorrenti un risarcimento morale per l’eccessiva durata della procedura non può dare origine a dei diritti per questi ultimi rispetto alla Convenzione, poiché essi hanno avuto a disposizione un rimedio per recuperare i loro crediti entro breve termine, rimedio che hanno omesso di utilizzare.

Questa parte del ricorso deve dunque essere rigettata in quanto manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, all’unanimità,

Dichiara  il ricorso irricevibile.

Stanley Naismith
Cancelliere

Françoise Tulkens
Presidente