Sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo dell'11 ottobre 2011 - Ricorso n.11410/02 - Giovannina Caiazzo e altri c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, funzionario linguistico


 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
SULLA RICEVIBILITÀ
del ricorso n. 11410/02
presentato da Giovannina CAIAZZO e altri
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita l’11 ottobre 2011 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
David Thór Björgvinsson,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith,cancelliere di sezione,

Visto  il ricorso sopra menzionato, presentato il 15 marzo 2002,
Viste  le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dalle ricorrenti,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

Le ricorrenti, sigg.re Giovannina Caiazzo, Filomena Colucci, Giovanna Iasevoli, Rosa Bifulco, Anna Giuliano, Pasqualina Napolitano, Maria Marinelli e Carolina Fusco, sono delle cittadine italiane, nate rispettivamente nel 1958, 1953, 1953, 1954, 1955, 1963, 1941 e 1951, e residenti rispettivamente a Cicciano (Napoli), Sirignano (Napoli), Baiano (Napoli), Comiziano (Napoli), Cicciano (Napoli), Torino e, le ultime due, a Piazzolla di Nola (Napoli). Sono rappresentate dinanzi alla Corte dagli avv. Giovanni Romano e Umberto Russo del foro di Benevento.
Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente E. Spatafora, e dai suoi co-agenti, P. Accardo e S. Coppari.

A.Le circostanze del caso di specie

I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

1.La procedura di fallimento

Le ricorrenti erano dipendenti della società C. S.r.l., che fu dichiarata in fallimento dal tribunale di Napoli, con una sentenza depositata il 27 ottobre 1988.

Le ricorrenti chiesero di essere ammesse al passivo del fallimento al fine di ottenere le retribuzioni non pagate e il trattamento di fine rapporto (T.F.R.) alle quali ritenevano di avere diritto. Il 3 aprile 1989 il giudice accolse tale domanda per gli importi seguenti:

  • sig.ra Giovannina Caiazzo 828.500 lire italiane (ITL) (ossia circa 428 euro (EUR));
  • sig.ra Filomena Colucci 1.420.482 ITL (ossia circa 734 EUR);
  • sig.ra Giovanna Iasevoli 1.231.290 ITL (ossia circa 636 EUR);
  • sig.ra Rosa Bifulco 1.421.916 ITL (ossia circa 735 EUR);
  • sig.ra Anna Giuliano 963.326 ITL (ossia circa 498 EUR);
  • sig.ra Pasqualina Napolitano 667.734 ITL (ossia circa 345 EUR);
  • sig.ra Maria Marinelli 1.520.594 ITL (ossia circa 785 EUR);
  • sig.ra Carolina Fusco 2.418.988 ITL (ossia circa 1.250 EUR).

Il 22 maggio 1989 il giudice deposito lo stato passivo del fallimento.

Il Governo ha prodotto un documento dell’I.N.P.S. (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) attestante che, tra l’8 novembre 1991 e il 17 gennaio 1994, quest’ultimo ha liquidato alle ricorrenti il loro trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda presentata dalle stesse ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982 (si veda la parte «Diritto interno pertinente», infra).

Inoltre, il Governo ha fornito una dichiarazione del giudice delegato del fallimento datata 13 luglio 2006 attestante che, in una data non precisata successiva al deposito dello stato passivo del fallimento, le ricorrenti hanno anche ottenuto il pagamento delle mensilità non pagate per le quali erano state ammesse al passivo del fallimento.

Le ricorrenti non hanno fornito alcuna informazione relativa al pagamento in questione né al momento della presentazione del ricorso dinanzi alla Corte né in occasione delle osservazioni in risposta a quelle del Governo. Inoltre, esse non hanno contestato tali informazioni, così come esposte dal Governo.

L’8 aprile 2003 la procedura di fallimento fu chiusa per la ripartizione dell’attivo del fallimento.

2. Il procedimento intentato conformemente alla legge n. 89 del 24 marzo 2001 («legge Pinto»)

Il 16 aprile 2002 le ricorrenti presentarono un ricorso dinanzi alla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto», per lamentare l’eccessiva durata della procedura di fallimento, «che ha comportato, nella fattispecie, la violazione del loro diritto di proprietà», in particolare a causa della prolungata impossibilità di recuperare i loro crediti.
Con decisione depositata il 20 giugno 2003 la corte d’appello accordò a ciascuna delle ricorrenti la somma di 2.250 euro (EUR) per danno morale, più le spese.

3.La procedura in esecuzione della decisione resa conformemente alla «legge Pinto»

Tra il 10 agosto e il 13 settembre 2004 le ricorrenti notificarono al ministero della Giustizia una ingiunzione di pagamento e, tra il 6 settembre e il 18 ottobre 2004, avviarono una procedura di pignoramento presso terzi al fine di ottenere l’esecuzione della decisione della corte d’appello di Roma depositata il 20 giugno 2003.
Tra il 9 gennaio e il 20 settembre 2006 le ricorrenti ottennero ciascuna il pagamento di circa 3.400 EUR.

B. Il diritto interno pertinente

Legge n. 297 del 29 maggio 1982

Articolo 2: Fondo di garanzia

«1. È istituito presso l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) il "Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto" con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto [...].

2.Trascorsi quindici giorni dal deposito dello stato passivo […] il lavoratore o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del fondo [sopra menzionato], del trattamento di fine rapporto di lavoro [...].»

MOTIVI DI RICORSO

1.Le ricorrenti sostengono di avere subito una violazione del proprio diritto al rispetto dei loro beni in quanto non avrebbero ottenuto il pagamento dei loro crediti, in particolare a causa dell’eccessiva durata della procedura di fallimento. Invocano l’articolo 1 del Protocollo n. 1.

2.Con lettera in data 20 agosto 2002 le ricorrenti hanno presentato un nuovo motivo di ricorso basato sull’articolo 6 § 1 della Convenzione, sotto il profilo del diritto di accesso a un tribunale, e dell’articolo 13 della Convenzione, in quanto non avrebbero a disposizione una via di ricorso per controllare l’attività del curatore fallimentare e chiedere la liquidazione dei beni facenti parte del fallimento.

3.Con lettera in data 18 agosto 2003 le ricorrenti hanno sollevato un ulteriore motivo di ricorso basato sull’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione in quanto, in tale data, l’amministrazione non aveva ancora pagato loro la somma accordata dalla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto».

IN DIRITTO

1.Le ricorrenti sostengono di avere subito una violazione del proprio diritto al rispetto dei loro beni in quanto non avrebbero ottenuto il pagamento dei loro crediti, in particolare a causa della eccessiva durata della procedura di fallimento. Invocano l’articolo 1 del Protocollo n. 1.

2.Invocando gli articoli 6 § 1 della Convenzione, sotto il profilo del diritto di accesso a un tribunale, e 13 della Convenzione, denunciano il fatto di non avere a disposizione una via di ricorso per controllare l’attività del curatore fallimentare e chiedere la liquidazione dei beni facenti parte del fallimento.

3.Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, le ricorrenti lamentano infine il fatto che, al 18 agosto 2003, l’amministrazione non aveva ancora pagato loro la somma accordata dalla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto».

Gli articoli in questione, nelle loro parti pertinenti, recitano:

Articolo 6 § 1 della Convenzione

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…)»

Articolo 13 della Convenzione

«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»

Articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

Il Governo ha prodotto un documento dell’I.N.P.S. attestante che, tra l’8 novembre 1991 e il 17 gennaio 1994, quest’ultimo ha liquidato alle ricorrenti il loro trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda da esse presentata ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982.

Inoltre, il Governo ha fornito una dichiarazione del giudice delegato del fallimento datata 13 luglio 2006 e attestante che, in una data non precisata successiva al deposito dello stato passivo del fallimento, le ricorrenti hanno anche ottenuto il pagamento delle mensilità non pagate per le quali erano state ammesse al passivo del fallimento.

Poiché nel procedimento dinanzi alla Corte sono state tenute nascoste delle circostanze fondamentali, secondo il Governo il presente ricorso dovrebbe essere rigettato in quanto abusivo.

In via sussidiaria, il Governo sostiene che le ricorrenti hanno omesso di proporre ricorso per cassazione contro la decisione della corte d’appello di Roma ai sensi della «legge Pinto» depositata il 20 giugno 2003. Le vie di ricorso interne non sarebbero quindi state esaurite. Inoltre, sostiene che la procedura di fallimento è stata particolarmente complessa. Per di più, le ricorrenti non avrebbero beneficiato di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione in quanto i crediti ammessi al passivo del fallimento non sarebbero né certi né definitivi.

Le ricorrenti confermano i loro motivi di ricorso senza fare alcun riferimento alle informazioni fornite dal Governo relativamente ai pagamenti effettuati dall’INPS e all’ottenimento delle mensilità non pagate nel corso della procedura.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso basati sulla allegata mancata liquidazione dei crediti delle ricorrenti derivanti dalla loro ammissione al passivo del fallimento (motivi di ricorso nn. 1 e 2), la Corte osserva che un ricorso dinanzi ad essa può essere dichiarato abusivo quando il ricorrente omette deliberatamente fin dall’inizio di informare la Corte di un elemento essenziale per l’esame della causa (mutatis mutandis, Al-Nashif c. Bulgaria, n. 50963/99, § 89, 20 giugno 2002, e Keretchachvili c. Georgia (dec.), n. 5667/02, 2 maggio 2006).

La Corte osserva di primo acchito che la presente causa è affine alla causa Basileo e altri c. Italia ((dec.), n. 11303/02, 23 agosto 2011).

Rileva inoltre che, dalla totalità delle informazioni fornite dal Governo, debitamente provate, risulta che, al più tardi nel 1994, ossia ben prima della data di presentazione del ricorso dinanzi alla Corte (il 15 marzo 2002) nonché del ricorso ai sensi della «legge Pinto» (il 16 aprile 2002), le ricorrenti avevano ottenuto il pagamento del loro trattamento di fine rapporto da parte dell’I.N.P.S. Inoltre, in una data non precisata successiva al deposito del passivo del fallimento, le ricorrenti hanno anche ottenuto il pagamento delle mensilità non pagate che costituiscono la seconda parte del loro credito.

Del resto, la Corte non vede alcun motivo per discostarsi dalla versione dei fatti presentata dal Governo convenuto. Osserva inoltre che le ricorrenti non hanno fornito alcuna informazione riguardante tali pagamenti nel momento in cui hanno presentato il ricorso dinanzi alla Corte e le loro osservazioni in risposta a quelle del Governo. Del resto, esse non hanno in alcun modo contestato i fatti, così come esposti dal Governo convenuto.

La Corte constata dunque che le ricorrenti hanno omesso di fornire delle informazioni fondamentali sui fatti della causa allo scopo di indurla in errore. Poiché le stesse hanno commesso un abuso del loro diritto di ricorso, questa parte del ricorso deve essere rigettata in quanto abusiva in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

Per quanto riguarda il motivo di ricorso delle ricorrenti relativo al ritardo nell’ottenimento del risarcimento accordato alle stesse nell’ambito del procedimento «Pinto» (motivo di ricorso n. 3), la Corte osserva che la corte d’appello competente non ha tenuto conto, nella sua decisione, del fatto che i crediti delle ricorrenti erano stati soddisfatti. In effetti, questo elemento non è stato indicato da queste ultime in occasione del loro ricorso «Pinto» e non è stato sollevato dal ministero della Giustizia dinanzi al giudice competente.

Secondo la Corte, la circostanza che la corte d’appello di Roma abbia riconosciuto alle ricorrenti, su una base erronea, un risarcimento morale, non può dare origine a dei diritti per queste ultime rispetto alla Convenzione, in quanto le conclusioni del giudice in questione derivano, almeno in parte, dal comportamento colpevole delle ricorrenti.

Questa parte del ricorso deve dunque essere rigettata in quanto manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, all’unanimità,

Dichiara  il ricorso irricevibile.

Stanley Naismith Cancelliere
Françoise Tulkens Presidente