La prevenzione dei suicidi in carcere - Quaderni ISSP Numero 8 (dicembre 2011)

Ministero della Giustizia
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

Istituto Superiore di Studi Penitenziari

Quaderni ISSP Numero 8 - La prevenzione dei suicidi in carcere
Contributi per la conoscenza del fenomeno

Dicembre 2011
 

5 - L’obbligo giuridico di impedire un reato: profili pratici ed operativi in tema di gestione di particolari eventi da cui può derivare la responsabilità penale.
a cura di Maria Grazia Grassi - vicecommissario di polizia penitenziaria

abstract

Viene menzionato l’obbligo giuridico di impedire un evento ex art. 40 del Codice Penale, la cui “clausola di equivalenza” stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. I due orientamenti in tema di individuazione delle posizioni di garanzia sono la teoria formale dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, che desume il dovere di azione da fonti giuridiche a ciò preposte, e la teoria funzionale che fa leva, invece, su principi di tipo sostanziale. Teorie che tendono sempre più ad un’integrazione tra di esse. Gli orientamenti sia di natura formale, sia di natura funzionale, danno entrambi alla posizione di garanzia – protezione una connotazione che tiene conto dei principi di legalità, solidarietà e responsabilità personale nei casi in cui si verificano eventi di estrema gravità all’interno delle strutture penitenziarie. Diverse circolari dipartimentali in materia di assistenza sanitaria e tutela della vita e della salute delle persone detenute, vincolano l’Amministrazione penitenziaria per il conseguimento di tale obiettivo, proprio in quanto i detenuti sono affidati alla sua custodia.

Ai fini della disamina della tematica che si intende trattare ossia, al fine del riscontro dell’esistenza di una possibile responsabilità penalistica di colui che appartenente all’Amministrazione Penitenziaria in generale e, più nello specifico, appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria non impedisca il compimento ad opera della popolazione detenuta di gesti anticonservativi ovvero l’estremo gesto dell’auto-soppressione , non può non procedersi preliminarmente alla ricerca del fondamento dell’obbligo giuridico dell’ intervento impeditivo del verificarsi di un particolare evento dannoso. Nell’ambito del nostro ordinamento l’obbligo giuridico di impedire un evento è riconducibile alla fattispecie del reato omissivo improprio, disciplinato ad opera del legislatore nella sola parte generale del c.p., mediante la previsione di una cd. “clausola di equivalenza” in base alla quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” (ex art. 40 cpv. c.p.).

In tal modo, il reato omissivo improprio finisce con l’essere ricostruito dall’interprete in base all’innesto della disposizione di cui all’art. 40 cpv. sulle norme di parte speciale che prevedono le ipotesi di reato commissivo suscettive di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive. Proprio per effetto di un simile innesto sorge una nuova fattispecie incentrata sul mancato impedimento dell’evento: questa nuova fattispecie non rappresenterà una semplice forma di manifestazione della fattispecie com-missiva espressamente prevista ma, piuttosto, una fattispecie con carattere autonomo. 

L’autonomia dei reati omissivi impropri nascenti dal combinato disposto tra la singola norma di parte speciale, che prevede il reato in forma attiva, e la clausola di equivalenza fissata dall’ art. 40 cpv. è data dal punto di vista strutturale dalla ricorrenza dei seguenti elementi: l’obbligo giuridico di impedire l’evento, comportante l’esistenza di una fonte da cui lo stesso scaturisca;la condotta omissiva; l’evento da intendersi in termini naturalistici; il nesso di causalità tra l’omissione e l’evento. La responsabilità che si incardinerà in capo al soggetto agente non scaturirà dal fatto che si è tenuta una condotta di mero non facere, ma piuttosto dalla circostanza di non aver fatto qualcosa di determinato, dal non compiere l’azione richiesta ovverosia il non facerequoddebetur. E’ bene chiarire che l’ obbligo di impedimento di un evento può radicarsi in capo al soggetto agente solo se ed in quanto questi rivesta il ruolo di cd. garante della tutela di uno specifico bene giuridico a protezione del quale è stata predisposta una disposizione legislativa che ne vieti la compromissione o la lesione. La posizione di garanzia occupa, dunque, un posto di assoluta centralità nel contesto della fattispecie omissiva impropria, al punto da potersi considerare il fulcro della responsabilità penale per omesso impedimento del-l’evento.

Infatti, essa assolve una pluralità di importanti funzioni, prima tra tutte quella di indicare le situazioni fattuali, giuridicamente rilevanti, in presenza delle quali l’ordinamento fa scaturire la doverosità dell’azione impeditiva dell’evento. Si può dire pertanto che la posizione di garanzia, per un verso, riassume le diverse situazioni tipiche dell’obbligo di agire e, per l’altro, esprime i criteri da cui dipende l’individuazione del soggetto obbligato all’azione.

Non a caso la dottrina maggioritaria [1] considera le fattispecie omissive improprie quali reati propri, nel senso che la posizione di garanzia è costituita da obblighi a contenuto particolare, che gravano solo su specifici soggetti e non su altri. Inoltre, la posizione stessa costituisce l’elemento cui va correlato l’evento, ovvero la base del giudizio di causalità dell’omissione, la cui particolarità è quella di avere natura ipotetica. Per tali ragioni, la posizione di garanzia deve considerarsi la base ricostruttiva della fattispecie omissiva impropria, quale risulta dalla combinazione della norma incriminatrice tipizzata in termini commissivi e la clausola generale di equivalenza tra fare ed omettere, di cui all’art. 40 co. 2°c.p. .

Eppure, a fronte della convergenza di opinioni che si registra sull’importanza della nozione di posizione di garanzia nel contesto del reato omissivo improprio, profonde discordanze sussistono in relazione ai criteri che devono guidare l’interprete nell’individuazione sia delle situazioni tipiche da cui dipende l’obbligo di impedire l’evento, sia, conseguentemente, dei soggetti obbligati ad assicurare la tutela del bene giuridico. I due orientamenti che si contendono il campo in tema di individuazione delle posizioni di garanzia sono la tradizionale teoria formale dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, che desume il dovere di azione esclusivamente da fonti giuridiche a ciò abilitate, e la teoria funzionale che fa, invece, leva su criteri di carattere sostanziale.

La dottrina e la giurisprudenza largamente prevalenti [2] tendono ad individuare una fonte giuridica degli obblighi stessi, prescindendo da ogni indagine in ordine alla loro funzione. In altre parole, secondo la teoria formale, la situazione fattuale tipica, da cui dipende l’obbligo di impedire l’evento, va individuata in base ad una fonte formale (il così detto “trifoglio”, ossia la legge, il contratto e la precedente attività pericolosa), idonea a ricondurre ad una tale situazione una rilevanza a livello dell’intero ordinamento giuridico. Questa impostazione rivela in modo evidente le proprie ascendenze liberali, in primo luogo, perché mostra una spiccata sensibilità per la certezza del diritto e per il favorlibertatis, in quanto valorizza anche nel campo dell’omissione la garanzia della legalità sub specie della riserva di legge: l’ancoraggio della posizione di garanzia ad una fonte formale, infatti, mira a scongiurare l’eventualità che l’obbligo di agire venga desunto da meri doveri etici, religiosi o sociali.

In secondo luogo, le forti venature liberali si rinvengono anche nella circostanza che l’impostazione formale si mostri restia all’espansione delle fattispecie di responsabilità penale per omissione; infatti, già nelle prime formulazioni della concezione in esame, emerge con forza l’idea che l’intervento penale debba esprimersi, di regola, attraverso la imposizione di divieti, che si ascrivono nell’ambito della più generale regola dell’alterum non ledere ma che, a differenza di quanto accade nel campo dell’illecito civile extracontrattuale, vengono assoggettati al principio di frammentarietà, tipico dell’intervento penalistico. Ancora, l’esigenza di un contenimento della responsabilità per omesso impedimento dell’evento viene suffragata da un altro argomento che fa leva sulla minore “invasività”[3] del divieto rispetto all’obbligo di agire: il divieto, si osserva, comprime meno le libertà individuali di quanto non faccia l’obbligo di agire, per la semplice ragione che “il divieto di un’azione rende lecite tutte le altre possibili, mentre l’obbligo di agire rende impossibili tutte le altre condotte, ponendosi in alternativa ad esse”[4].

Invece, la concezione funzionale dell’obbligo di agire e della correlativa posizione di garanzia mira a potenziare quella forza espansiva del dovere di solidarietà, fino al punto di equiparare alla violazione del divieto dell’alterum non ledere la delusione di una aspettativa di un comportamento; a conferma di tale impostazione da alcuno [5] è stata richiamata l’efficace metafora con la quale l’essenza dell’omissione, il tralasciare un’azione sulla quale l’ordine sociale fa affidamento “svelle una ruota del congegno della società, sicchè il relativo meccanismo funziona in modo difforme dalle aspettative programmate”.

Si comprende pertanto che, nel delineare i connotati della posizione di garanzia, i sostenitori della teoria funzionale pongano l’accento soprattutto sull’esigenza di tutela di determinati beni giuridici e sulla necessità di costituire la posizione di garanzia in base allo scopo di protezione della fattispecie incriminatrice [6].

Non può omettersi di segnalare che le suindicate teorie non risultano essere, ad oggi, in netta contrapposizione in quanto, grazie alle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, esse tendono ad un progressivo avvicinamento e ad una reciproca integrazione. Inoltre, le inadeguatezze delle suddette teorie a caratterizzare l’obbligo di garanzia e a differenziarlo da altri tipi di obblighi di agire possono essere superate attraverso la ricostruzione dell’obbligo di garanzia nei suoi precisi elementi costitutivi, alla luce dei principi di legalità, solidarietà, libertà e di responsabilità personale. In base al principio costituzionale di legalità-riserva di legge [7] requisito primo è la giuridicità dell’obbligo di garanzia, nel senso che esso deve trovare la propria fonte giammai in norme soltanto morali, poiché l’inosservanza dei doveri impeditivi morali, se sovente esprime carente solidarietà umana, non può dare luogo a responsabilità penale per non impedimento; né, tanto meno, in mere situazioni fattuali di garanzia ( ad ex. convivenza more uxorio ) ma sempre e soltanto in fonti giuridiche formali, costituite, per quanto detto in precedenza dalla legge e dal contratto.

In base al principio di legalità-tassatività[8], il secondo requisito è la sufficiente specificità dell’obbligo di garanzia, con la conseguente esclusione degli obblighi indeterminati, poiché è l’azione doverosa stessa ad avere una funzione di tipizzazione del reato di non impedimento. Così, può affermarsi che gli stessi doveri costituzionali generici (quali i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale ex art 2 Cost.), che costituiscono il fondamento costituzionalmente legittimo della responsabilità omissiva, non siano idonei a fondare la diretta punibilità per il singolo reato. Terzo requisito, in base al principio di solidarietà[9] è la specificità dei soggetti beneficiari dell’altrui obbligo di garanzia, che attiene alla stessa essenza e funzione di tale obbligo, perché la tutela rafforzata solidaristica va circoscritta ai soli soggetti incapaci di adeguata autotutela. In base al principio di libertà[10] il quarto requisito è la specificità dei soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia, poiché questo può gravare, non mai sulla generalità dei consociati, ma solo su specifiche categorie predeterminate di soggetti, che si trovano in un particolare rapporto giuridico con il bene da proteggere (ad es. genitori, medici ospedalieri) o con la cosa fonte di pericolo da controllare (ad es. proprietario di animali pericolosi o di edifici che minacciano rovina).

Pertanto, come in precedenza specificato, il reato omissivo per mancato impedimento dell’evento non è un reato comune, realizzabile da chiunque, ma un reato proprio di specifiche categorie di soggetti.

In base, poi, al principio della responsabilità penale personale [11] è possibile individuare ulteriori requisiti:

  • l’imprescindibile esistenza di poteri giuridici impeditivi, sottostanti all’obbligo di garanzia, i quali consistono in poteri di vigilanza circa l’insorgere  di situazioni di pericolo e di intervento su tale situazione, e che sono conferiti al garante da una specifica norma, nonché indispensabili per adempiere all’obbligo di garanzia. Invero, l’obbligo di garanzia e, quindi, l’affidamento della tutela dei beni al garante sussistono nei limiti della compresenza di doveri e di speculari poteri giuridici impeditivi, conferiti in via generale (ad es. in materia di rapporti familiari tra genitori e figli minori) o particolare (ad es. in tema di affidamento dell’incolumità dei lavoratori, nel luogo di lavoro, al datore di lavoro). Tali poteri caratterizzano l’obbligo di garanzia e lo differenziano da ogni altro obbligo di agire, onde imprescindibile risulta essere l’accertamento giudiziale sul se l’evento verificatosi rientri o meno nei poteri impeditivi del soggetto;
  • La preesistenza del poter-dovere impeditivo rispetto alla situazione di pericolo, perché solo così il garante può esercitare i poteri-doveri di vigilanza ed intervento e, quindi, di tutela anche preventiva del bene affidatogli;
  • La possibilità materiale del garante di compiere l’azione impeditiva idonea, venendo meno altrimenti l’obbligo di garanzia sulla base del brocardo latino “ ad impossibilianemotenetur”. Inoltre, in caso di azione impeditiva “libera”, nel senso che la fonte dell’obbligo non descrive l’azione richiesta, occorre distinguere tra l’impossibilità assoluta, che preclude cioè ogni azione impeditiva ed è quindi liberatoria dell’obbligo ( ad es. bagnino colto da improvviso svenimento), e l’impossibilità relativa, cioè limitata ad una o a talune delle possibili azioni impediti-ve ( ad es. la madre, incapace di nuotare, è pur sempre tenuta ad invocare il soccorso altrui per salvare il figlio caduto in acqua). A questo punto è possibile distinguere all’interno del genusposizione di garanzia tre differenti tipologie di garanti che, rispettivamente, rivestano una posizione di protezione, una posizione di controllo ovvero siano obbligati ad impedire il compimento di fatti di reato ad opera di terzi. Per la tematica che nel presente lavoro interessa, è opportuno soffermare la nostra attenzione sulla sola posizione di protezione poiché è questa la posizione che potrebbe richiamarsi come esistente laddove si volesse arrivare ad affermare la sussistenza di una responsabilità penale dell’operatore penitenziario che non avesse impedito il compimento di atti autolesionistici ovvero la realizzazione di un fatto suicidario ad opera della popolazione detenuta.


Il punto di partenza non può non essere quello del richiamare gli elementi costitutivi della posizione di protezione per verificarne l’adattabilità alla questione concreta; infatti, per poter legittimamente affermare l’esistenza di una posizione di protezione rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. è necessario, in primo luogo, che la veste di garante dell’integrità di un bene nasca da un rapporto di protezione che rinvenga nella legge il proprio fondamento [12] ed, in secondo luogo, che il titolare del bene si trovi in uno stato di incapacità che non gli consenta di contrastare le situazioni di pericolo che possano pregiudicare il bene. Nella manualistica in materia di diritto penale, la stragrande maggioranza degli Autori [13], non ha alcuna difficoltà a riportare tra le ipotesi esemplificative delle posizioni di protezione, quella dei dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria rispetto alla tutela della vita e dell’incolumità personale dei detenuti ed internati negli Istituti di pena [14], sebbene poi nello specifico ben pochi si sono soffermati a verificare la praticabilità della suddetta affermazione, anche alla luce dei presupposti necessari per poter in concreto addivenire alla affermazione di una responsabilità omissiva del dipendente stesso.

Con ciò non si pretende di rimproverare la superficialità con la quale talvolta la materia viene affrontata, ma con assoluta modestia, si può provare a verificare se l’ affermazione teorica della esistenza della posizione di protezione, possa in concreto determinare forme di responsabilità per omissione. La disamina deve quindi muovere dalla ricerca del fondamento normativo della tutela della vita e dell’incolumità dei detenuti, per poi verificare se ed in che termini può ritenersi che il detenuto versi in una condizione di incapacità, per cui si rende necessario che vi sia un garante deputato alla protezione di quel bene che il detenuto stesso non è in grado di proteggere. Il punto dal quale partire ai fini della disamina da effettuare, non può non essere ricercato preliminarmente nelle norme costituzionali: il Costituente, infatti, dopo aver sancito nell’art. 2 il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, nell’art. 32 C. definisce il diritto alla salute quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo, altresì, la predisposizione di cure gratuite per coloro i quali, a causa della propria indigenza, non siano in grado di provvedervi autonomamente. In attuazione del disposto costituzionale, l’ordinamento penitenziario garantisce la tutela del diritto alla salute attraverso gli artt. 1 e 11 della l. 354/75.

L’art. 1 O.P., infatti, stabilisce che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona potendosi, quindi, ritenere, che il rispetto della dignità personale postuli un obbligo in capo all’Amministrazione di provvedere alla salvaguardia della salute dei detenuti e degli internati, alla cura di eventuali possibili malattie, nonché, quindi, alla tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei ristretti. L’ art. 11 O.P., invece, si occupa dell’organizzazione del servizio sanitario negli istituti dettando le disposizioni volte ad assicurare l’attuazione degli interventi terapeutici resi necessari dall’attualità della condizione del detenuto o internato [15], dando piena concretizzazione al principio della parità di diritti tra detenuti e cittadini liberi in relazione alla erogazione di prestazioni sanitarie [16].

Numerose risultano, poi, essere le Circolari emanate dal Dipartimento, rispettivamente in tema di assistenza sanitaria della popolazione detenuta, e di tutela della vita e della salute delle persone detenute [17]. In tutte le suddette disposizioni, si rimarca il dovere di garantire la salute quale bene primario di ogni cittadino, dovere che si manifesta in modo tanto più vincolante per l’Amministrazione Penitenziaria, quanto più si consideri che i soggetti ai quali occorre garantire la tutela del diritto ( ristretti) sono affidati alla custodia dell’Amministrazione stessa.

Senza alcuna pretesa di esaustività sull’argomento, che per la sua importanza ed ampiezza meriterebbe una trattazione in un separato scritto, le numerose disposizioni Dipartimentali in materia di tutela della vita del detenuto, con particolare riferimento alle esigenze di prevenzione di gesti autolesionistici e suicidari, hanno come tratto comune quello di richiamare costantemente l’attenzione del personale tutto, nell’ambito delle rispettive competenze, affinché si possa con prontezza, efficacia e scrupolo, prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo, rimuoverne per quanto possibile le cause ed impedirne l’esecuzione.

Ogni singolo operatore, quindi, giocherà un ruolo importante nell’assicurare la tutela del diritto inviolabile del detenuto. A  riprova di quanto precisato, può ad esempio soffermarsi l’attenzione sulla evoluzione che nel tempo ha avuto lo stesso Servizio nuovi giunti [18] , nato come servizio atto a garantire un tempestivo intervento, al momento dell’ingresso in istituto, di soggetti così detti primari ovvero provenienti da altri istituti, allo scopo di accertare qualsiasi eventuale situazione personale di fragilità fisica o psichica, e qualsivoglia sintomo, inclinazione o tendenza all’autoaggressività, intervento fondato prevalentemente sull’assistenza fornita ai soggetti in questione ad opera degli esperti ex art. 80 l. 354/75.

Con le successive direttive emanate, il Dipartimento ha avuto modo di chiarire che l’assistenza da prestare non deve limitarsi al solo momento dell’ingresso, individuando con scrupolo, sulla base delle risultanze della visita medica e del colloquio con gli esperti ex art. 80, l’allocazione del detenuto all’interno delle sezioni detentive; ma la medesima attenzione ed assistenza deve perdurare per l’intero periodo detentivo, non potendosi affermare a priori che il rischio di atti di autoaggressione si manifesti nel solo momento iniziale della detenzione. Esigenza primaria, che emerge dalla lettura delle Circolari in materia, è quella del coinvolgimento degli operatori tutti, a partire dal personale medico, passando per quello appartenente all’area educativa o degli assistenti volontari, fino a coinvolgere pienamente il personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria operante all’interno dell’istituto.

Infatti, fondamentale risulta essere il ruolo, per finalità preventive ed impeditive di gesti anticonservativi, di chi si trova ad essere in contatto con la popolazione detenuta nell’intero arco della giornata. Il richiamo è alla massima attenzione del Poliziotto Penitenziario nell’eseguire, ad esempio, quei provvedimenti che dispongano la grande sorveglianza ovvero la sorveglianza a vista , a segnalare tutte quelle anomalie comportamentali dalle quali può inferirsi l’esistenza di un possibile rischio suicidario o autolesivo, ad esercitare, quindi, il proprio compito istituzionale di vigilanza ed osservazione nel miglior modo possibile, con ciò potendo contribuire fattivamente all’assicurazione della tutela della vita e dell’ incolumità del detenuto.

Da ultimo, la riprova dell’importanza del ruolo della Polizia Penitenziaria nell’ambito dei suddetti processi preventivi, si è avuta con la istituzione delle Unità di ascolto di Polizia Penitenziaria [19], infatti: stanti le carenze relative alle figure professionali istituzionalmente deputate all’assistenza psicologica del detenuto, e constatato che la funzione di supporto psicologico e umano è spesso delegata al personale di Polizia Penitenziaria, la cui assidua e costante presenza all’interno delle sezioni nell’arco delle 24 ore rappresenta una risorsa utilmente spendibile, idonea ad assicurare ogni intervento di sostegno diretto ed immediato, nella Circolare si prevede l’istituzione di un Servizio di ascolto, composto da personale di Polizia Penitenziaria, del-l’area educativa ed integrato da appartenenti al volontariato.

Il servizio, si legge, avrà il precipuo compito di soccorrere il detenuto in situazioni di imminente criticità in cui non sia possibile l’intervento immediato dei professionisti esperti, attraverso l’attivazione di dinamiche comunicative finalizzate al sostegno del soggetto in difficoltà[20]. Tutto quanto sino ad ora illustrato ci aiuta a comprendere che il dovere di assicurare la tutela del diritto alla salute, alla vita e all’integrità fisica del detenuto è riconducibile, in generale, all’Amministrazione penitenziaria ed, in particolare, all’area sanitaria; entrambe, però, devono necessariamente avvalersi anche dell’opera degli altri operatori del sistema penitenziario, ed anche, quindi della Polizia Penitenziaria.

Quest’ultima, quindi, potrebbe, per quanto sinora evidenziato, assumere la veste di garante dell’integrità del bene giuridico vita ed incolumità fisica e psichica del detenuto o dell’internato, potendosi ritenere sussistente quel rapporto di protezione che lega il garante al bene giuridico meritevole di tutela. Ma, come in precedenza rimarcato, non è questo il solo valido presupposto necessario affinché possa affermarsi l’esistenza di un obbligo giuridico rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. : è, altresì, necessario che il titolare del bene si trovi in uno stato di incapacità tale che non gli consenta di contrastare le situazioni di pericolo che possano pregiudicare il bene.

L’esistenza di una situazione di “dipendenza” del soggetto garantito rispetto al garante appare un elemento necessario perché sussista una posizione di garanzia-protezione; tale requisito riveste un’importanza centrale per decidere se ed a quali condizioni sussista per il garante un obbligo di impedimento dell’evento ai sensi dell’art. 40 cpv. . Ora, se comunemente si ritiene che il detenuto versi in una condizione di cd. minorata difesa [21], in quanto egli è custodito, osservato, sottoposto a regole comportamentali imposte coattivamente, limitato nel possesso dei beni, controllato nei contatti con le altre persone, ci si chiede se tale circostanza possa essere assimilata a quella di una incapacità atta a determinare, appunto, quella condizione di dipendenza rispetto alla protezione che il garante sarebbe tenuto a fornire.

Sebbene la tentazione di accostare la condizione del detenuto di minorata difesa ad una generica incapacità di provvedere ad una adeguata tutela del bene passibile di pregiudizio appare forte, non può non evidenziarsi che le incapacità alle quali si suole fare riferimento per fondare il dovere di protezione sono di ben altro tipo. Infatti, la tipica posizione di protezione è quella del genitore rispetto al minore ( incapace naturale), per cui appare alquanto forzato ritenere che la minorata difesa possa assimilarsi ad una incapacità naturale. Ma c’è un dato normativo che, a mio modestissimo avviso, appare determinante per concludere nel senso che, salve ovviamente le ipotesi in cui una incapacità acclarata ricorra [22], il detenuto non possa essere assimilato ad un soggetto incapace per il sol fatto della sua condizione di restrizione: il dato è rinvenibile nell’art. 4 della legge 354/75, ai sensi del quale “i detenuti esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge”; se a questo dato si aggiunge la considerazione che, l’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto la possibilità di azionare strumenti di difesa dei propri diritti sia apudiudicem [23], che attraverso la presentazione di istanze o reclami ex art. 35 l. 354/75 [24], ancora più evidente può apparire la insostenibilità di una presunta condizione di incapacità del detenuto.

A supporto ulteriore di quanto detto, possono esaminarsi le fattispecie dello sciopero della fame e, successivamente, dedurne le conclusioni che possono formularsi rispetto al fenomeno del gesto estremo del suicidio Come in precedenza affermato, dalle disposizioni richiamate degli artt. 1 e 11 della l. 354/75, si ricava un obbligo di tutela dei beni personali della vita e del-l’incolumità personale dei detenuti ed internati; il siffatto obbligo incontra però un limite nell’ipotesi in cui il detenuto si determini al rifiuto di nutrirsi, praticando uno sciopero della fame e condannandosi, così, ad una lenta morte. Vengono, dunque, in rilievo diversi profili, tra i quali: l’ eccezionalità nel nostro ordinamento di interventi terapeutici obbligatori [25], la tutela della vita umana, la parità di condizioni, quanto al rispetto dei beni fondamentali, tra detenuti ed altri soggetti; la necessità di salvaguardare l’ordine e la sicurezza negli istituti di pena, ed il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria personalità e della propria individualità.

Il dovere di soccorso, come si avrà modo di specificare anche in seguito, incontra un limite ove esso si imbatta nella decisione libera e consapevole dell’individuo capace di autodeterminarsi, e ciò, in quanto, l’intervento del garante si trasformerebbe nell’impiego di strumenti coattivi volti a vincere la resistenza del soggetto da proteggere. L’eventuale riferimento al disposto dell’art. 41 co. 3° O.P., che legittima l’impiego dei mezzi di coercizione fisica al fine di garantire l’incolumità del soggetto stesso, integrato con quanto previsto dall’art 82 Reg. Es.[26], non appare idoneo a legittimare un intervento coattivo, in contrasto con la volontà del detenuto, poiché le norme, si ritiene, abbiano come area di operatività solo quella dei soggetti, che per le più diverse ragioni, non siano compotes sui. D’altro canto, sembra ben strano che con riguardo a questioni che toccano beni fondamentali, quali la vita e l’incolumità personale oltre che la dignità umana, sia possibile attribuire rilievo allo status di detenuto, per farne il punto di riferimento di una disciplina differenziata, impedendo cioè all’individuo detenuto il compimento di atti che sono consentiti a chiunque altro.

In mancanza di una disciplina specifica nell’ordinamento penitenziario, si è ritenuto possibile dare una soluzione ai problemi posti dal rifiuto dell’alimentazione da parte del detenuto, attraverso il ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori, previsti nell’art. 33 della legge 833 del 1978. E’ bene chiarire che, onde evitare di porsi in evidente contrasto con il dettato delle norme Costituzionali degli artt. 2, 32 co.2° e 13 [27], il ricorso a tale strumento sarà consentito solo in presenza di un manifesto consenso del detenuto stesso, ovvero nelle ipotesi in cui non sussista più la capacità di autodeterminazione del soggetto da proteggere, anche se essa sia venuta meno per effetto dello sciopero della fame volontariamente intrapreso e protratto. Questo risulta essere l’orientamento affermatosi anche nell’ambito dell’Amministrazione Penitenziaria, che attraverso l’emanazione di diverse Circolari [28], ha, infatti provveduto ad individuare quali siano le linee guida da seguire in presenza di siffatti eventi; una volta che si sia ricevuta la dichiarazione dello sciopero della fame da parte del detenuto, attiva una serie di interventi: il detenuto viene così sottoposto a costante osservazione e controllo medico, per meglio monitorare le sue condizioni psico-fisiche. Viene visitato due volte al giorno, con particolare attenzione al peso, in modo che sia possibile verificare se si tratti di un vero e proprio sciopero della fame, o se invece si sia in presenza di una pretestuosa simulazione. Il soggetto, poi, non viene isolato dalla restante popolazione detenuta, e diviene destinatario di un’adeguata assistenza di tipo psicologico; con il protrarsi dell’astinenza, potrà essere trasferito al reparto di infermeria o nei centri diagnostici e terapeutici (CDT) dell’Amministrazione Penitenziaria.

Con l’aggravarsi delle condizioni di salute, può rendersi necessario un trattamento terapeutico che necessita, per quanto in precedenza detto, del consenso del detenuto stesso.

La assenza del consenso rappresenterà un limite invalicabile dell’intervento coattivo, che risulterà legittimo solo ove sia venuta meno la capacità di autodeterminazione del soggetto stesso [29]. La disamina effettuata, quindi, in tema di sciopero della fame della persona detenuta, ci ha aiutato a chiarire che laddove vi sia la libera determinazione del soggetto, non residua spazio per poter postulare l’esistenza di una posizione di protezione che dovrebbe scontrarsi con la volontà del soggetto titolare del bene giuridico da proteggere. Appare adesso opportuno verificare se, in concreto, il ragionamento effettuato, possa adattarsi anche ad eventi mortali derivati da atti suicidari. Richiamando quanto evidenziato in tema di elementi costitutivi della posizione di garanzia, e ribadendo che un particolare legame tra bene giuridico da tutelare ed il garante può essere rinvenuto negli artt. 1 e 11 dell’ordinamento penitenziario, quello che, comunque, anche in tal caso appare latitare è la ricorrenza del secondo presupposto necessario ai fini della legittima costituzione di una posizione di garanzia, ossia: la condizione di incapacità del titolare del bene a presidio del quale la posizione è costituita.

Se, da un lato, si è già evidenziato che la cd. condizione di minorata difesa del detenuto non appare riconducibile ad una vera e propria condizione di incapacità, dall’altro, la medesima soluzione appare prospettabile laddove si intenda sostenere che, in concreto, all’interno degli istituti penitenziari la decisione di addivenire alla commissione di un gesto così estremo, non sia mai frutto di una libera scelta di autodeterminazione, ma piuttosto derivi dalle particolari condizioni di disagio e restrizione in cui si trova il soggetto stesso. Volendosi, comunque, prescindere da valutazioni psicologiche o criminologiche del fenomeno, non può non precisarsi che dal punto di vista del diritto penale, a meno che una incapacità non sia verificata ed attestata, non può farsi derivare sic et simpliciter dalla generica condizione di disagio in cui versa il detenuto, una situazione di incapacità assimilabile a quella necessaria perché possa costituirsi legittimamente una posizione di garanzia-protezione.

Anche in tal caso, quindi, la capacità di autodeterminazione del soggetto può rappresentare un limite all’applicazione della clausola di equivalenza ex art. 40 cpv. c.p. . Se, quindi, il suicidio si fonda su una decisione libera e consapevole di un soggetto capace di percepire il significato del proprio gesto e pienamente padrone delle proprie azioni, dovrà negarsi l’esistenza di una posizione di garanzia-protezione; si può aggiungere che la statuizione di un obbligo di intervento volto a contrastare le condotte di un soggetto capace di agire, che non rechino a terzi alcun nocumento, sembra porsi in contrasto con quel right of privacy, con il rispetto, cioè, di una sfera personale di riserbo e di autonomia che risulta dai principi fondamentali della Costituzione [30].

In proposito, può essere utile ricordare che, nell’ambito della dottrina tedesca [31] largamente prevalente, si nega l’esistenza di un obbligo di impedimento del suicidio quando esso si fondi su di una libera e responsabile decisione del suicida. Ad una tale conclusione gli autori tedeschi pervengono sulla base del principio di accessorietà della partecipazione, che impone di considerare non punibili né l’istigazione, né l’agevolazione del suicidio, poiché il fatto principale del suicidio non costituisce reato. Argomentando dalla non punibilità della compartecipazione al suicidio di un individuo pienamente responsabile, infatti, si ritiene di escludere la punibilità del mancato impedimento da parte del garante, e ciò sulla base di due possibili spiegazioni: la prima, fa leva sul fatto che è il solo suicida ad avere la signoria sull’accadimento, per cui il garante non avrebbe né la possibilità né, tantomeno, l’obbligo di impedire l’evento; la seconda, invece, reputa necessaria l’esclusione della punibilità dell’omesso impedimento del suicidio perché, in caso contrario, sarebbe possibile punire ogni forma di agevolazione o di istigazione, in relazione all’omesso impedimento dell’evento lesivo che a tali forme di comportamento necessariamente si collega. Ovviamente, una tale impostazione non è estensibile all’ordinamento italiano, nel quale l’art. 580 c.p.[32] sanziona l’istigazione e l’aiuto al suicidio.

In particolare, nell’ambito del nostro ordinamento, pur considerandosi il suicidio penalmente lecito e, comunque, irrilevante e tollerato, ciò non di meno si incrimina la partecipazione dolosa del terzo al suicidio stesso. Si tratta, quindi di previsione incriminatrice essenziale per assicurare la punibilità della partecipazione, attesa l’inapplicabilità della disposizione generale di cui all’art. 110 c.p. : si è, quindi, in presenza di una fattispecie monosoggettiva attraverso la cui previsione sono incriminate condotte da ritenere tipiche, non perché accessorie al fatto del suicida, ma perché causalmente idonee ad offendere il bene protetto.

Per il fine che qui a noi interessa, la parte della norma che può assumere rilievo è quella che sanziona la agevolazione del suicidio, poiché, stabilendosi che l’agevolazione stessa può avvenire in qualsiasi modo, non è da escludere che la condotta possa essere anche di tipo omissivo. In concreto, per poter ritenere rilevante penalmente la condotta omissiva del personale di Polizia Penitenziaria, è necessario che, ad esempio, non si adottino, volutamente, le precauzioni imposte e necessarie al fine di evitare atti auto lesivi, lasciando nella disponibilità del detenuto, oggetti dei quali sia stata disposto il prelievo (ad es., una cintura, dei sacchetti di plastica). In tal caso, però, siamo al di fuori della sfera di operatività della clausola di equivalenza, in quanto, il legislatore ha già nella norma incriminatrice sanzionato la condotta dolosa di chi agevola, nella forma omissiva, la realizzazione dell’evento morte, prescindendosi, quindi, dalla valutazione della preesistenza, ab origine, di una qualsivoglia forma di posizione di garanzia. Alla stessa conclusione, ad esempio, può addivenirsi laddove si faccia riferimento all’ipotesi in cui, l’appartenente al Corpo, rinvenga in una camera detentiva , il corpo di un detenuto che sia o sembri inanimato; ricorrerà, ove il suddetto ometta di prestare l’assistenza occorrente o di attivare gli adempimenti necessari [33] , una fattispecie omissiva riconducibile all’art 593 co. 2° c.p.[34].

La fattispecie dell’omissione di soccorso, non postula la preesistenza in capo all’omittente di una posizione di garanzia; piuttosto, si precisa, essa nasce nel momento stesso in cui il soggetto agente rinviene il corpo, per cui ben si comprende che essa ha una portata ben diversa rispetto a quella che abbiamo definito quale posizione di protezione. Sulla base della breve disamina effettuata, dunque, è possibile concludere nel senso della inesistenza di un obbligo giuridico di impedimento che rinvenga la propria fonte nel disposto dell’art. 40 co.2° c.p., e ciò in considerazione della circostanza che non può ritenersi sussistente una posizione di garanzia-protezione che imponga un intervento impeditivo, pena la responsabilità penale per omissione.


NOTE

nota 1 Fiandaca,Il reato commissivo mediante omissione, Milano 1979;Romano,Commentario sistematico del codice penale, Milano 1995; Stella, in Crespi-Stella-Zuccalà,Commentario breve al codice penale, sub art. 40.

nota 2 In dottrina: Spasari,L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano 1957, Grispigni,Diritto penale italiano;Grispigni, L’omissione nel diritto penale; Antolisei, L’obbligo di impedire l’evento, in Scritti di diritto penale, Milano 1955; Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte Generale, Milano 1980; Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Padova 1982. In giurisprudenza: Cass., Sez. IV, 24 novembre 1961, Cass., Sez. III, 24 febbraio 1967; più di recente Cass., Sez. IV, 12 luglio 1994, Cass. Sez. Un., 25 novembre 1998, Cass., Sez. IV, 4 luglio 2007.

nota 3 Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975.

nota 4 Affermazione riconducibile a Feuerbach, testualmente riportata nello scritto di Sgubbi citato.

nota 5 Fiandaca, in Il reato commissivo mediante omissione, in Raccolta di studi di diritto penale, Milano 1979, riporta la suddetta metafora così come postulata da Kohler, in Studienausdemstrafrechts, 1886.

nota 6 Secondo l’impostazione articolata da Sgubbi, in Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova 1975, la responsabilità penale omissiva sarebbe chiamata a surrogare la mancata tutela di quegli interessi la cui crescita è stimolata dalla Costituzione, ma che, allo stato del diritto positivo vigente, risultano protetti in modo insufficiente.

nota 7 Ai sensi dell’art. 25 co. 2° Cost.: “ Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

nota 8 Il principio rinviene la sua fonte non in una norma di rango Costituzionale, ma nell’art. 1 c.p., alla luce del quale può specificarsi che comunemente si ritiene che il principio di tassatività sia rivolto al giudice onde evitare che questi indulga in interpretazioni estensive delle norme penali, con ciò vanificando la stessa operatività del principio di legalità ex art. 25 C. .

nota 9 Ai sensi dell’art. 2 della Costituzione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili del-l’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”.

nota 10 Principio enunciato dall’art. 13 C., a norma del quale “ La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di … né qualsiasi altra restrizione della libertà personale … “.

nota 11 Ex art. 27 della C.: “La responsabilità penale è personale”.

nota 12 Ovvero, che il fondamento sia rinvenibile in un corrispondente atto di assunzione consensuale. E’ chiaro che, per la tematica in esame, questo fondamento non può assumere rilievo, posto che l’assunzione della posizione di garante della incolumità e della vita del detenuto va ricercata nella legge e non già in un ipotetico atto negoziale di assunzione.

nota 13 Fiandaca, Manuale di diritto penale, Parte Generale; Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte Generale; Mantovani, Diritto Penale, Parte Generale; Nappi, Manuale di diritto penale, Parte Generale; Giovagnoli, Studi di diritto penale, Parte Generale; Caringella-Della Valle- De Palma, Manuale di diritto penale, Parte Generale.

nota 14 Sebbene, poi, alcuni, come vedremo in seguito, fanno in passo indietro laddove si sia in presenza di determinati comportamenti, quale quello, ad esempio, del rifiuto volontario di nutrirsi, rinvenendo un limite invalicabile all’intervento nella libertà di autodeterminazione del detenuto stesso.

nota 15 L’art. 11 O.P. stabilisce che: “Ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone, inoltre, dell’opera di almenouno specialista in psichiatria. Ove siano necessari cure ed accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sani-tari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. (…). All’atto dell’ingresso in istituto i soggetti sono sottoposti a visita medica generale allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche. L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza in istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati. Il sanitario deve visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta; (…) I detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di loro fiducia (…).

nota 16 Tale principio è stato affermato con il D. Lgs. 22 giugno 1999, n.230, in materia di riordino della medicina penitenziaria.

nota 17 Il riferimento è alle circolari che in modo pressocchè continuativo si sono susseguite nel tempo, a partire dalle più datate del 12 sett. 1985, n. 3132/5582 e del 2 gen. 2986 n. 3154/5604, passando per l’istituzione del Servizio nuovi giunti con la Circ. 30 dic. 1987, n. 3233/5683, fino ad arrivare alla istituzione delle Unità di ascolto della Polizia Penitenziaria, con la Circ. del 25/01/10, n. 32296.

nota 18 Servizio istituito con la circolare del 30 dicembre 1987, n.3233/5683, successivamente integrata dalla Circ. 16 maggio 1988, n. 3245/5695; ancora Circ. 12 maggio 2000 n. 3524/5974; Circ. 6 luglio 2009, n. 3620/6070; ed, in fine, Circ. 25 gennaio 2010, n. 32296.

nota 19 Ai sensi della Circ. 25 gennaio 2010 n. 32296

. nota 20 L’attivazione del servizio, ovviamente dovrà essere preceduto da un adeguato percorso formativo per il personale di Polizia Penitenziaria che all’uopo si provvederà ad individuare.

nota 21 Questa definizione si rinviene anche nell’ambito della Circ. del 21 marzo 2007, n. 92858, in tema di uso legittimo delle armi, laddove si specifica che, l’uso suddetto va scriminato esclusivamente ai sensi del dettato normativo dell’art. 53 c.p., poiché - si afferma - che il detenuto, soggetto che appunto si trova in uno stato di minorata difesa, pone normalmente in essere azioni prevenibili e prevedibili secondo regole e prassi consolidate, con ciò volendosi significare che, il rispetto dei parametri dell’art. 53 c.p. deve essere assolutamente rigoroso, al fine di evitare eccessi che potrebbero importare gravi conseguenze per il personale coinvolto.

nota 22 Si pensi, ad esempio ai soggetti minorati psichici, ovvero a quelli ristretti nell’ambito degli ospedali psichiatrici giudiziari.

nota 23 Si pensi al disposto dell’art 14 ter, in materia di reclamo avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare, ovvero all’art 30 bis in materia di reclami relativi ai permessi; così come ex art. 69 co. 5° che richiama la procedura dell’art. 14 ter per la decisione dei reclami in materie, quali, l’attribuzione della qualifica lavorativa, la remunerazione ecc. .

nota 24 Il diritto di reclamo così si connota ex art. 35: “ I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa: al direttore dell’istituto, agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena … , al magistrato di sorveglianza …”.

nota 25 Il secondo comma dell’art. 32 C., infatti sancisce che: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitariose non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

nota 26 Che stabilisce: “La coercizione fisica, consentita per le finalità indicate nel 3° co. dell’art. 41 della legge, si effettua sotto il controllo del sanitario, con l’uso dei mezzi impiegati per le medesime finalità presso le istituzioni ospedaliere pubbliche”.

nota 27 Riferiti alla inviolabilità dei diritti fondamentali dell’individuo, tra i quali rientra anche la libertà personale, nonché alla impossibilità di imporre trattamenti sanitari obbligatori se non nelle ipotesi tassativamente indicate dalla legge.

nota 28 Circ. 19 marzo 1996 n. 566285, in tema di procedure per l’invio delle comunicazioni concernenti la tutela della salute e della vita dei detenuti; Circ. 21 aprile 1998, n. 148.339/4-1, in tema di sciopero della fame; Circ. 12 maggio 2000.

nota 29 Diversi sono gli Autori che condividono questa soluzione: Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano 1983; Fiandaca, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro It., Parte II 1983; Pulitanò, Sullo sciopero di imputati in custodia preventiva, in Questioni Giuridiche 1982; Allegranti Giusti, Lo sciopero della fame del detenuto.Aspetti medicolegali e deontologici, Padova 1983.

nota 30 Diritto ricavabile dal combinato disposto degli artt 2, 13 e 32 c.2° della Cost.

nota 31 Dottrina richiamata da Grasso, in Il reato omissivo improprio, Milano 1983.

nota 32 L’art. 580 prevede che: “ Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’art. precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità di intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”. I numeri 1 e 2 dell’articolo 579 richiamato si riferiscono alla persona minore degli anni diciotto, e alla persona inferma di mente, oche si trovi in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità, o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti.

nota 33 Ci riferiamo, ad esempio, alla richiesta di intervento degli operatori sanitari dell’istituto ovvero dell’assistenza medica del 118, nonché alla richiesta di supporto ad opera degli altri operatori.

nota 34 Potendosi altresì aggiungere che, nello specifico caso in esame, il Poliziotto Penitenziario appare legittimato, ex art. 41 O.P. all’utilizzo di mezzi di coercizione, al fine di garantire l’incolumità dello stesso soggetto.