- Minorità sociale: effetti sulla popolazione carceraria della sent. n. 32/2014 della Corte Cost. sul trattamento sanzionatorio in materia di sostanze stupefacenti - Tema per Stati Generali dell'Esecuzione Penale - Tavolo 4 (luglio 2015)

  • pubblicato nel 2015
  • autore: Roberta Palmisano
  • Temi per Stati Generali dell'Esecuzione Penale
  • Ufficio Studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali
  • licenza di utilizzo: CC BY-NC-ND

 

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

1.Con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti legge – degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, così rimuovendo le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime agli artt. 73, 13 e 14 del d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo Unico in materia di stupefacenti).
Le norme di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale hanno cessato di avere efficacia ai sensi dell’art. 136, primo comma, Cost. dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza ed importanti conseguenze ne sono derivate sulla presenza di detenuti nei nostri istituti penitenziari.

In proposito con nota in data 17 febbraio 2014 quest’Ufficio Studi aveva evidenziato tempestivamente il problema di successione della legge penale conseguente alla pronuncia della Corte Costituzionale per avere la predetta sentenza inciso sul trattamento sanzionatorio di fatti che già prima costituivano reati e continuano ad essere considerati tali.

La norma originaria, che ha ripreso vigore, era stata introdotta con il d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309(Testo Unico in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope), il cui art. 73, primo comma, prevedeva il comportamento di “chiunque senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli artt. 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14”, comminando la pena della reclusione da otto a venti anni e la multa da € 25.822 a € 258.228.
Si trattava delle cosiddette “droghe pesanti” che nell’art. 73 erano nettamente distinte dalle cosiddette “droghe leggere”; queste ultime infatti erano previste nel quarto comma dello stesso articolo e indicate nelle tabelle II e IV. Le stesse condotte criminose indicate nel primo comma con riguardo alle droghe pesanti, nel quarto comma erano punite per le droghe leggere con la più lieve pena della reclusione da due a sei anni e la multa da € 5.164 a € 77.468.

Con l’art. 4 bis del decreto legge 30.12.2005 n. 272 convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21.2.2006 n. 49 (non interessa qui l’altra norma dichiarata incostituzionale cioè l’art. 4 vicies ter che aveva disciplinato le tabelle di cui all’art. 14) fu innovata la disciplina dell’art. 73 nel senso che il testo del comma 1, relativo alle droghe pesanti, fu sostituito da altro testo che, prevedendo i medesimi comportamenti, diminuiva a sei anni il minimo della pena e determinava la multa da € 26.000 a € 260.000.
Quanto alle droghe leggere l’art. 4 bis inserì un nuovo comma (1 bis) così formulato: “con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene” le sostanze variamente indicate nella stessa norma fra cui le droghe leggere.
Con la nuova legge del 2005, quindi, e con una valutazione sommaria e grossolana che non teneva conto della diversa nocività e pericolosità delle droghe pesanti e di quelle leggere, fu inasprita la sanzione per queste ultime mediante l’unificazione, nei commi 1 e 1 bis, del trattamento sanzionatorio per entrambe le fattispecie, a prescindere dalla tipologia dello stupefacente.
L’art. 4 bis previde infine, nel comma 5, che “quando per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da € 3.000 a € 26.000”.


2.Con la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis del d.l. 272/2005 sono state rimosse le modifiche che da questa norma erano state apportate all’art. 73 del Testo Unico sugli stupefacenti, il cui testo originario ha ora ripreso vigore e ne è scaturito un problema di successione della legge penale nel tempo che l’art. 2 cod. pen. disciplina diversamente a seconda che per un medesimo fatto la nuova legge determini una nuova incriminazione o l’abolizione di una incriminazione precedente oppure una modificazione della disciplina.
La sentenza del 12 febbraio 2014 è nell’ambito della terza ipotesi perché ha inciso soltanto sul trattamento sanzionatorio di fatti che già prima costituivano reati e continuano ad essere considerati tali. Invero, per quanto riguarda la droga leggera, i reati di cui al comma 1 bis dell’annullato art. 4 bis del d.l. 272/2005, pur essendo autonomamente formulati e pur prevedendo un minor numero di fattispecie, si differenziano soltanto sotto il profilo sanzionatorio dai reati di cui al quarto comma dell’art. 73 d.p.r. n. 309/1990 che prevede pene più lievi. Di conseguenza ai sensi del quarto comma dell’art. 2 cod. pen. deve ora essere applicata la disciplina previgente di cui al quarto comma dell’art. 73 (reintrodotto in virtù della sentenza costituzionale) che è più favorevole al reo.

La sentenza costituzionale ha avuto immediata applicazione nei procedimenti di cognizione con ripercussioni sul numero delle presenze in carcere, sia per effetto delle condanne a pene meno gravi con le conseguenze derivanti per l’ammissione ai benefici, sia perché sono divenuti più brevi i termini di prescrizione e meno rigorosi i criteri di scelta delle misure cautelari, le quali devono essere proporzionate alla sanzione che il giudice ritiene possa essere irrogata (art. 257 comma 2 e art. 299 comma 2 cod. proc. pen.).
In ordine alle misure cautelari gli effetti della decisione costituzionale si sono prodotti anche prima della pubblicazione della sentenza per effetto dell’affievolimento delle esigenze cautelari; queste infatti devono considerarsi attenuate quando la misura applicata non è più proporzionata alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, con la conseguenza che il giudice dovrebbe sostituire o revocare la misura in tutti i casi in cui procede nei confronti di imputati detenuti in carcere.

Per quanto riguarda invece i procedimenti definiti con sentenza passata in giudicato, e con riferimento alle fattispecie relative alle droghe leggere, per le quali se allora fosse stato applicato il quarto comma dell’art. 73 sarebbe stata inflitta una pena meno grave rispetto a quella effettivamente irrogata, si è posta la questione relativa alla esecuzione o eliminazione della parte di pena irrogata per effetto dell’applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima.

In proposito l’art. 673 cod. proc. pen. opera soltanto quando una fattispecie criminosa nel suo complesso viene eliminata, il che avviene solo nel caso di vera e propria abolitio criminis o di declaratoria di illegittimità costituzionale dell’intera fattispecie incriminatrice. In tal caso è pacifico che può aver luogo la revoca da parte del giudice dell’esecuzione che ha il potere di cancellare la sentenza definitiva di condanna dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ma nel caso in esame è stato modificato soltanto l’aspetto sanzionatorio interno al giudicato.

Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata dibattuta la questione che concerne la non eseguibilità del giudicato di condanna per la parte riferibile all’applicazione della circostanza aggravante dichiarata illegittima, cioè in relazione a un aspetto meramente circostanziale e sanzionatorio interno al giudicato formale (analogamente al caso in esame).
La questione è stata affrontata e risolta in base alla disciplina generale degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, vale a dire sulla base dell’art. 30, commi 3 e 4, della legge 11.3.1953 n. 87 e dell’art. 136 della Costituzione. Sulla base di queste norme vi è stato un costante e concorde indirizzo della Corte di Cassazione nel senso che “l’ultimo comma dell’art. 30 della l. 11.3.1953 n. 87, che dispone la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norme dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatici dichiarate incostituzionali” (sez.V, 21.1.1968 n. 296, ric. Vanenti; sez. I, 19.1.2012, ric. P.M. contro Hamrouny Razak).
Due sentenze della stessa Corte di Cassazione, sempre in riferimento all’art. 30 della legge n. 87/1953, hanno in contrario ritenuto che “l’ambito applicativo della norma non è limitato alla fattispecie incriminatrice in senso stretto, ma riguarda qualunque parte della condanna pronunciata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale e impedisce perciò anche solo una parte della esecuzione della sentenza irrevocabile, quale appunto quella relativa alla porzione di pena irrogata in attuazione della norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima” (sez. I, 25.5.2012, ric. P.M. contro Harizi Kastriot; sez. I, 27.10.2011 ric. P.M. contro Hauohu Adel).


3. Tali incertezze interpretative sono state sciolte con l’intervento della Corte di Cassazione che a Sezioni Unite (sentenza 42858 del 29.5.2014 motivazione depositata il 14.10.2014) ha affermato che:

  1. L’irrevocabilità della sentenza di condanna non impedisce la rideterminazione della pena in favore del condannato, quando interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sul trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, pur se il provvedimento ‘correttivo’ da adottare non è a contenuto predeterminato;
  2. Il giudice dell’esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., può affermare la prevalenza dell’attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione;
  3. Al pubblico ministero, in ragione delle sue funzioni istituzionali, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, spetta il compito di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta anche in applicazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nel testo dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur se il trattamento sanzionatorio sia già in corso di attuazione.


Gli effetti prodotti sulla popolazione carceraria dalla pronuncia della Corte Costituzionale, sono stati costantemente monitorati dall’Amministrazione penitenziaria a cui gli istituti penitenziari hanno comunicato in quanti casi si fosse proceduto alla scarcerazione per effetto della rideterminazione della pena inflitta.

Roma, 23 luglio 2015
 

IL DIRETTORE DELL'UFFICIO
Roberta Palmisano