Circolare 14 giugno 2005 - Allegato: Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti

14 giugno 2005

La necessità di linee guida sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale dei condannati adulti di forme di giustizia riparativa è largamente avvertita, stante la complessità e la delicatezza della materia e le prassi assai diversificate poste in essere in alcune realtà territoriali per iniziativa soprattutto della Magistratura di Sorveglianza, in ordine al dettato normativo di cui al comma 7 dell’art. 47 o.p., la cosiddetta “prescrizione riparativa”.


In relazione all’esigenza di un approfondimento della materia e di definire modelli uniformi di giustizia riparativa, in linea con le Raccomandazioni delle Nazioni Unite (Principi Base sulla giustizia riparativa in ambito penale – 2000/14) e del Consiglio d’Europa (Raccomandazione (99)19), è stata - com’è noto - istituita con DCD del 26 febbraio 2002, la Commissione di studio sulla “Mediazione penale e la giustizia riparativa”, che ha iniziato a svolgere un significativo lavoro in ordine all’obiettivo assegnatole.


Lo sviluppo delle prime riflessioni teoriche sulla complessa tematica della giustizia riparativa è stato affiancato da un primo monitoraggio, esitato nel febbraio 2003, rivolto ai direttori dei Centri di servizio sociale per Adulti, che ha riguardato la rilevazione della “politica”, degli orientamenti e delle iniziative operative di ciascun servizio.


Il secondo monitoraggio, esitato nel maggio 2004 e che ha riguardato l’analisi dei dati relativi ad un universo di 4511 casi di affidati in prova al servizio sociale, ha fatto emergere degli aspetti di indubbia criticità nell’applicazione della cosiddetta “prescrizione riparativa” e più in generale nella gestione dei compiti istituzionali dell’Amministrazione penitenziaria in ordine a quanto previsto dagli artt. 27 e 118 reg. es., ed ha fatto cogliere con estrema chiarezza l’importanza di dirimere alcuni nodi problematici, sia sul piano teorico-concettuale che sul piano operativo.


In particolare i problemi riguardano diversi livelli reciprocamente connessi, elencati di seguito, e di cui soltanto alcuni potranno trovare in queste pagine chiarimenti, prospettive di soluzione e/o indicazioni operative:


Primo livello: Mancanza di sufficiente informazione sulla “giustizia riparativa e la mediazione penale”, sulle teorie e norme di riferimento. Da ciò consegue una diffusa confusione terminologica circa il significato di giustizia riparativa e di mediazione penale nonché di altre nozioni giuridiche, quali per esempio quelle di “restituzione” e “risarcimento del danno”, concetti spesso richiamati nelle ordinanze della Magistratura di Sorveglianza o che ricorrono nella documentazione tecnica dei Centri con una attribuzione di significato impropria.


Secondo livello: Urgenza di una ridefinizione di una metodologia tecnico professionale adeguata degli operatori penitenziari circa:


la competenza definita dall’art. 27 e dall’art. 118 comma 8� lettera d del reg. es. in ordine all’attività di supporto/sollecitazione che essi devono assicurare al condannato nel percorso di valutazione critica “degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata,” e delle conseguenze negative del reato e le possibili azioni di riparazione, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa;


la conseguente necessità di definire congrue modalità di lavoro sul “consenso” del detenuto, quale elemento imprescindibile per una adesione consapevole e matura dello stesso ad un percorso di reintegrazione sociale e ad un progetto riparativo;


la necessità di saper riconoscere e quindi di saper sottrarsi agli aspetti di strumentalizzazione posti in essere da parte del reo nell’aderire ad un percorso trattamentale e riparativo, quale atto “dovuto” per ottenere l’ammissione alla m.a. ovvero la dichiarazione di efficacia della stessa;


la necessità per l’operatore di saper altresì sfuggire alla ricorrente tendenza a scelte meramente burocratiche volte al formale adempimento dei propri compiti istituzionali e di saper recuperare il significato del principio dell’individualizzazione del trattamento dei soggetti condannati;


la rivalutazione dell’importanza della famiglia del condannato che non è e non può essere soltanto “fonte di informazioni” e di conoscenza sul condannato, ma è/deve diventare altresì attore – ove possibile – del progetto trattamentale/riparativo del congiunto condannato. Essa è peraltro in alcuni casi vittima (diretta o secondaria) dell’atto criminoso;


la definizione di congrui modelli di valutazione sull’avvenuta riflessione, sulla maturazione di un consenso, sul percorso trattamentale, sui “risultati” dell’azione riparatoria.


Terzo Livello: Necessità di individuare modalità più adeguate per costruire un sistema reticolare di rapporti con il territorio tesi a:


promuovere/incentivare lo sviluppo di un’adeguata politica sociale che favorisca i processi di reintegrazione sociale dei condannati;


favorire in particolare la diffusione della cultura della giustizia riparativa quale occasione per rinsaldare il “patto di cittadinanza”, aumentare il senso di benessere dei cittadini, abbassare la recidiva e più in generale la conflittualità diffusa;


pervenire ad accordi e intese con le Istituzioni (pubbliche e private) presenti sul territorio, tese alla realizzazione da parte del condannato di azioni riparatorie realisticamente praticabili.


Quarto livello: Difficoltà incontrate dai CSSA nell’acquisizione, prima dell’inizio dell’osservazione dei condannati/internati, o comunque in tempi congrui, di tutte le notizie utili per contestualizzare i propri interventi e definire un progetto trattamentale e riparatorio, con riferimento:


alla posizione giuridica, ai precedenti penali, ai carichi pendenti e più specificatamente alla sentenza integrale, la cui mancata conoscenza impedisce la piena e corretta contestualizzazione dell’attività di osservazione e trattamento;


alla eventuale costituzione di parte civile da parte di chi ha subito danno dal reato per ottenere restituzioni o risarcimento del danno medesimo ai sensi dell’art. 185 c.p., durante il processo penale, nei termini di cui all’art. 79 c.p.p., o in sede civile con giudizio autonomo.


Quinto livello: Mancanza di un rapporto di comunicazione costante e codificato con la Magistratura di Sorveglianza necessario per una condivisione circa:


il significato di “riparazione” e di “mediazione” nell’ambito dell’esecuzione penale dei condannati adulti, concetti entrambi che presumono l’espressione del consenso delle parti, reo e vittima i quali non possono essere in alcun modo indotti ad aderire ad azioni riparative con modalità che possano sottintendere un qualsivoglia condizionamento. “Né la vittima né l’autore del reato dovrebbero essere indotti con mezzi non corretti ad accettare la mediazione” afferma infatti la Raccomandazione (99) 19 del Consiglio d’Europa § IV, punto 11;


il significato ed i contenuti della “prescrizione riparativa” prevista dal 7º comma dell’art. 47 o.p., prescrizione che è legittimo imporre in ordinanza in forma generica, come disposto dalle sentenze della Cass. Pen. Sez. I nn. 407 e 410 dell'8 gennaio 2002 (c.c. 23 novembre 2001), stante che “la necessaria specificazione potrà avvenire successivamente a cura del magistrato di sorveglianza, in forza dei suoi poteri di modifica e integrazione delle prescrizioni, adottate dal tribunale, e valendosi dell’attività informativa e di supporto del servizio sociale”;


le tipologie, nel rispetto del principio della partecipazione volontaria e consensuale, di eventuali azioni riparative attuabili nei confronti della vittima, ferma restando la tutela dei diritti di quest’ultima alla privacy, ed al rispetto della volontà/mancata volontà di entrare in relazione diretta o indiretta con il reo;


le tipologie, nel rispetto del principio della partecipazione volontaria e consensuale, di azioni riparatorie praticabili per i cosiddetti “reati senza vittima” o qualora la vittima non sia disponibile;


i criteri di valutazione circa la congruenza delle ipotesi riparative in relazione al singolo condannato, al suo reato, all’eventuale vittima, così da individuare quelle “fattibili e utili…in relazione alle esigenze e disponibilità dell’offeso ed alle capacità dell’autore del reato e ad ogni altra circostanza del caso concreto” (Cass. Pen. Sez. I n. 407 dell'8 gennaio 2002);


i criteri di valutazione delle azioni riparatorie proposte e realizzate dal reo o, viceversa, della mancata attuazione della prescrizione riparativa per motivazioni oggettive o soggettive e le conseguenti eventuali ricadute sulla concessione agli affidati della liberazione anticipata e soprattutto sulla declaratoria di fine pena.
 

DEFINIZIONI CONCETTUALI


Innanzitutto si vogliono in questa sede anticipare alcune definizioni concettuali che possono concorrere alla migliore comprensione della materia, incentivando già ora un investimento pro – attivo da parte di tutti i Centri.


Occorre innanzitutto procedere alla determinazione del significato da attribuire al termine “giustizia riparativa” facendo riferimento alla fonte definitoria sovranazionale ufficiale, ovvero alla risoluzione adottata dall’Economic and Social Council (ECOSOC) nella sessione 2000 (Risoluzione 2000/14), che nel definire i Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale afferma al punto 3 che per “giustizia riparativa va inteso quel procedimento nel quale la vittima e il reo, e se appropriato, ogni altro individuo o membro della comunità lesi da un reato partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore..”.

Si tratta pertanto di un modello di giustizia che coinvolge nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, oltre al reo anche la vittima e la comunità, al fine di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione fra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo.


Attraverso il modello riparativo recupera quindi un ruolo fondamentale la vittima del reato soggetto che ha quasi sempre avuto un ruolo “marginale” rimanendo spesso sullo sfondo, soggetto “senza voce” di cui è stata per troppo tempo trascurata la dimensione emozionale, la sofferenza prodotta dall'offesa/reato.


Secondo la “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativi alle vittime della criminalità e di abusi di potere” adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1985 le vittime della criminalità sono coloro che “individualmente o collettivamente, hanno subito un pregiudizio, segnatamente una offesa alla loro integrità fisica o mentale, una sofferenza morale, una perdita materiale o un attacco grave ai loro diritti fondamentali, a causa di azioni o di omissioni che infrangono le leggi penali in vigore in uno Stato membro, ivi comprese quelle che condannano gli abusi criminali di potere. Una persona può essere considerata vittima” cita ancora la dichiarazione “sia che l’autore venga o meno identificato, arrestato, citato in giudizio o dichiarato colpevole, e qualunque siano i suoi legami di parentela con la vittima. Il termine vittima include anche, se del caso, la famiglia prossima o le persone in carico alla vittima diretta e le persone che hanno subito un pregiudizio intervenendo per venire in aiuto alle vittime in difficoltà o per impedirne la vittimizzazione”. Le disposizioni citate si applicano “a tutti, senza distinzione alcuna, ovvero di razza, colore, sesso, età, lingua, religione, nazionalità, opinione politica o altro, di credenze o pratiche culturali, di fortuna, nascita o situazione familiare, di origine etnica o sociale, di capacità fisica”.


Le risoluzioni internazionali (Nazioni Unite e Consiglio di Europa), di cui si allega un breve excursus, richiamano gli Stati membri ad assumere un impegno rinnovato nei confronti della vittima, ad emanare disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in favore di questo “soggetto debole”, a realizzare servizi specializzati che rispondano ai suoi bisogni in ogni fase del procedimento, adoperandosi affinché essa non abbia a subire pregiudizi ulteriori e inutili pressioni.


Viene altresì affermata l’importanza dello sviluppo di forme di giustizia riparativa che, se da un lato tendono a ridurre la criminalità, dall’altra, promuovendo la ricomposizione della frattura tra reo e vittima, concorrono al perseguimento di un maggiore senso di sicurezza e benessere per quest’ultima.
La Dichiarazione di Vienna (X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e il trattamento dei detenuti – Vienna 10-17 aprile 2000) nello stabilire (art. 27) la necessità di introdurre adeguati programmi di assistenza alle vittime, incoraggia espressamente all’art. 28 “lo sviluppo di politiche di giustizia riparativa, di procedure e di programmi rispettosi dei diritti dei bisogni e degli interessi delle vittime, dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti”.


È anche la Comunità quindi che viene coinvolta quale soggetto che deve sviluppare e incentivare la diffusione di modelli rinnovati di prevenzione del crimine e di informazione sulla prevenzione efficace della criminalità, di modalità di tutela alle vittime, nonché di reinserimento sociale dei delinquenti. La Comunità deve più in generale diffondere la cultura della soluzione dei conflitti, e tutte quelle iniziative che possano ridurre e dissipare i pregiudizi, provocare una presa di coscienza da parte di tutta la comunità e produrre un senso di maggiore sicurezza e benessere in tutti i cittadini (Risoluzione Assemblea generale Nazioni Unite n. 56/261/2002).


È la Comunità stessa soggetto promotore del percorso “di pace” che si fonda sull’ azione riparativa posta in essere dall’autore di reato (Marcus 1996), ad essere coinvolta nella dimensione dell’offesa ed essere pertanto anch’essa destinataria delle politiche riparative.


Le modalità applicative del paradigma riparativo, secondo l’International Scientific and Professional Advisory Council (ISPAC), ricomprendono svariate tipologie di programmi adottate nei diversi Paesi, tra cui al momento citiamo, a scopo puramente esemplificativo, soltanto:


l’invio di una lettera di scuse (apology) alla vittima da parte dell'autore del reato;
gli incontri tra vittime e autori di reati analoghi a quello subito dalle vittime (the Victim/Community Impact Panel);


gli incontri di mediazione allargata che tendono a realizzare un dialogo esteso ai gruppi parentali ovvero a tutti soggetti coinvolti dalla commissione di un reato (the Community/Family Group Conferencing);


l’espletamento di un'attività lavorativa a favore della vittima stessa (Personal Service to Victims);


la prestazione di una attività lavorativa a favore della collettività (Community Services);


la mediazione tra l’autore del reato e la sua vittima (Victim-Offender Mediation).


Di queste due ultime ipotesi si tratterà nel prosieguo, lasciando ai successivi lavori della Commissione la valutazione della praticabilità delle altre ipotesi riparative nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti.


Sembra però importante dare già ora la definizione di mediazione che è, tra quelle citate, l’ipotesi che presume un intervento diretto, personale e consensuale sia del reo che della vittima, è la specie che meglio consente alle parti di svolgere un percorso di riconoscimento reciproco e di “ricostruire” la relazione rotta dal reato. La Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa in tema di mediazione penale definisce infatti mediazione il “procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo indipendente (mediatore)”.


Al di là delle differenza delle ipotesi elencate, sembra indispensabile sottolineare il fatto che le regole internazionali (Risoluzione 2000/14 ECOSOC punto 7) prevedono sempre che “ogni procedimento riparativo deve essere posto in atto soltanto con il libero e volontario consenso delle parti”, anzi – viene specificato – “Le parti possono ritirare detto consenso in ogni momento..”.


Gli accordi riparatori in ogni caso devono essere conclusi volontariamente, continua il documento citato (vedi anche Consiglio di Europa R (99) 19 § V.4, punto 31), e le obbligazioni riparatorie devono in ogni caso rispondere a criteri di ragionevolezza e proporzione. Tali criteri hanno una funzione di garanzia per lo stesso reo. Con ragionevolezza si intende, infatti, sottolineare che la condotta riparativa “presuppone una certa relazione tra il reato e il tipo di obbligazione assunta dal suo autore”, con proporzione si indica invece che “l’onere assunto dal colpevole deve corrispondere... alla gravità del reato”.


Sempre con un intento definitorio che possa contribuire a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, va altresì ricordato che di per sé non attengono direttamente al concetto di giustizia riparativa – e da essa vanno tenute distinte - le “restituzioni” e il “risarcimento del danno” previste dall’art. 185 c.p. oltre che dagli articoli 2043 e 2059 del codice civile. Si tratta infatti in questi casi di obbligazioni che gravano sul reo e/o altri soggetti tenuti a provvedervi.

Il risarcimento del danno è rivolto al danneggiato (che può anche essere soggetto diverso dalla vittima del reato); altre obbligazioni vedono lo Stato quale beneficiario (per esempio nel caso dell’obbligo del rimborso delle spese di mantenimento per il condannato).

In particolare si richiama all’attenzione il fatto che le restituzioni riguardano l’oggetto materiale della condotta criminosa e consistono nella sua consegna (non di un suo equivalente) al legittimo titolare. Le restituzioni comportano quindi, quando possibile, la reintegrazione e il ripristino del medesimo stato di fatto esistente prima della commissione del reato (es. consegna della refurtiva al derubato).


Il risarcimento del danno prevede l’obbligo del pagamento di una somma di danaro quale ristoro della perdita patrimoniale subita (cd. danno patrimoniale). Nel caso della commissione di un illecito penale è risarcibile anche il danno non patrimoniale – cd. danno morale - relativo sinteticamente alla sofferenza patita, al turbamento e all’angoscia generati dall’illecito.


La pretesa risarcitoria può essere vantata da tutti coloro - non solo la vittima - i quali hanno concretamente subito un danno ingiusto (patrimoniale o morale) in conseguenza del reato, e può essere avanzata nel corso del procedimento penale attraverso la costituzione di parte civile o con separato giudizio autonomo in sede civile. Si ricorda poi che l’obbligo del risarcimento può gravare anche su soggetti diversi dal condannato (è il caso, per esempio, della compagnia di assicurazione).


Il risarcimento del danno, che risponde a significati prettamente civilistici, non è in nessun modo una pena, cioè una risposta dell’ordinamento giuridico dello Stato al fatto criminoso.


L’importanza della distinzione è incontrovertibile e fornisce lo spunto per una prima riflessione circa l’esigenza di condividere con la Magistratura di Sorveglianza delle scelte di chiarezza: la riparazione non può coincidere, in senso stretto, con il mero risarcimento, con la monetizzazione del danno subito dalla vittima, né può integrare una modalità sanzionatoria. Realizzabile tramite azioni positive, infatti, la riparazione ha una valenza molto più profonda e, soprattutto, uno spessore etico che la rende ben più complessa del mero risarcimento (Mazzucato).


Va ricordato d’altronde ancora una volta che sia per le Nazioni Unite che per il Consiglio d’Europa (Commentaire sur l’annexe, Raccomandazione (99)19, § V.3, punto 27) ogni attività e obbligazione effettivamente riparativa si fonda sulla libertà, consensualità, spontaneità dell’autore del fatto, e non può quindi essere oggetto di inflizione, di condanna, di prescrizione o di comando. “La mancanza di consenso – cita anzi la risoluzione 2000/14 – ECOSOC, al punto 15 – non può essere usata come giustificazione per una più severa condanna nel successivo procedimento penale”.


Queste affermazioni sono di estrema importanza e a questo punto merita una breve sottolineatura la distinzione tra la dimensione retributiva e quella riparativa della pena.


Mentre la condanna ha il suo focus sul passato, la riparazione pone l’accento sul futuro (Zehr - Wright).


Mentre nel primo caso è lo Stato (soggetto) che “impone una condanna” al delinquente (oggetto) e gli irroga una pena la cui esecuzione tende a ripristinare in qualche modo lo squilibrio provocato dal fatto reato rispetto al sistema delle norme, nel secondo è il reo (soggetto) che, se ha maturato una consapevolezza rispetto al danno provocato a terzi, al valore della relazione infranta dal reato, e delle aspettative sociali simbolicamente condivise (Ceretti, Mannozzi), fa sua una prospettiva “riparativa” che tende alla riconciliazione, al rinsaldamento di quella relazione, e di ciò che altre volte abbiamo chiamato “patto di cittadinanza”.


In altre parole se con la condanna viene riconosciuta la responsabilità del reo rispetto al fatto commesso (retrospective responsability), la prospettiva riparativa pone il reo in posizione attiva rispetto all’assunzione di un impegno, di una responsabilità verso un'altra persona/vittima e la collettività (prospective responsability) (M.S. Moore).


Il concetto di responsabilità, come capacità di assumere un impegno, acquista così nella prospettiva riparativa un aspetto progettuale che manca totalmente al riconoscimento di una responsabilità giuridica (Foddai).


L’argomento richiede evidentemente ben altri approfondimenti ma ciò che risulta chiaro è che qualsiasi azione riparativa, nell’ambito dell’esecuzione della pena di condannati adulti, non può che essere, in estrema sintesi che l’effetto di un complesso lavoro di responsabilizzazione del reo, di quel percorso che il condannato deve essere sollecitato ad intraprendere dagli operatori penitenziari.


METODOLOGIA TECNICO-PROFESSIONALE


È proprio partendo da concetti quali revisione critica e responsabilizzazione del reoinfatti che si snoda il ruolo dell’Amministrazione e dei suoi operatori, in riferimento non solo e non tanto all’art. 47 comma 7º o.p. - il cui carattere “prescrittivo” non è direttamente riconducibile al concetto di giustizia riparativa come delineato in ambito internazionale - ma soprattutto al disposto di cui agli articoli 27 comma 1º e 118 comma 8º del D.P.R. 230/2000 (vedi circolare 3593/6043 del 9 ottobre 2003 sulle “Aree educative degli Istituti”.


La lettura integrata di dette norme fornisce infatti una più ampia chiave di lettura della giustizia riparativa alla luce del finalismo costituzionale della pena e dà agli operatori una guida immediata da seguire, laddove recita “…viene espletata, con il condannato o l’internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa” e più avanti “....gli interventi del servizio sociale per adulti, nel corso del trattamento in ambiente esterno, sono diretti ad aiutare i soggetti che ne beneficiano ad adempiere responsabilmente gli impegni che derivano dalla misura cui sono sottoposti.…e sono caratterizzati da.…una sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo.”


Il tempo della pena diventa, nella prospettiva riparativa, momento per riattivare il circuito delle responsabilità individuali e sistemiche (Pitch), occasione per il condannato di essere sostenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una dimensione di responsabilità sociale e collettiva.


E se talvolta in questi anni di applicazione della legge penitenziaria, l’attenzione per il principio dell’individualizzazione dell’azione rieducativa si è progressivamente smorzata, e l’osservazione è divenuta spesso una mera presa d’atto del comportamento assunto dal condannato in maniera inevitabilmente strumentale rispetto all’ottenimento dei benefici, oggi la norma novellata del reg. di esecuzione richiama a rimettere il reo in un vasto sistema di relazioni, e a “guardare all’uomo sociale, considerandolo come “luogo e sorgente di azione” (Amerio) come principale informatore in merito alla realtà che non subisce ma costruisce…” (Patrizi).


Ridefinire una metodologia tecnico-professionale adeguata significa pertanto per gli operatori penitenziari riappropriarsi del mandato che la legge loro affida, recuperando il significato del proprio ruolo in ordine al “diritto” del condannato a ricevere le sollecitazioni e l’aiuto per maturare la disponibilità/capacità a intraprendere un percorso trattamentale e riparativo.


Il significato di “responsabilità” come prima enunciato può certamente aiutare gli operatori a ricollocare i propri interventi in un’ottica sistemica, peraltro non estranea al sapere e saper fare professionale, sfuggendo alla logica dell’adempimento e concorrendo - essi per primi - a quella riattivazione del circuito delle responsabilità individuali e sistemiche, di cui prima si diceva.


Sembra di estrema importanza sottolineare però da un lato l’esigenza di riprendere in esame il reato, quale dato di fatto da cui partire, non per “giudicare” il crimine ma per “far prendere coscienza” al reo, per fargli raccontare il suo vissuto rispetto all’azione commessa, per indurlo ad uscire dalla ricorrente fabulazione e dal processo di astrazione che spesso i condannati pongono in essere.


Ciò significa per gli operatori abbandonare gli schematismi e gli stereotipi di cui l’operare quotidiano è invaso, superare il concetto di “mera osservazione del comportamento” del condannato, riconsegnare a quest’ultimo la dignità di soggetto capace di scelte, ricollocandolo in una prospettiva progettuale.

Ciò significa fondamentalmente, alla luce delle riflessioni fin qui condotte, non assecondare la deresponsabilizzazione del condannato, cui concorre in qualche modo la condanna stessa a motivo del fatto che il sistema penale ripristina solo - come già accennato - lo squilibrio provocato dal reato rispetto al sistema delle norme (ho pagato/sto pagando il prezzo alla società e quindi sono “a posto”), e sollecitare un percorso di responsabilizzazione rispetto a chi il fatto ha subito (vittima e collettività), ponendo come obiettivo la ricostruzione della relazione rotta con azioni simbolicamente significative.


Il condannato dovrebbe porsi nella prospettiva di uscire dal sé, dalla posizione egoistica e auto-centrata, per andare “verso” l’altro, verso la vittima, la Comunità, ma anche verso la propria famiglia, vittima essa stessa dell’evento criminoso e degli effetti della carcerizzazione del congiunto.


FORMAZIONE

Posto quanto sopra si ritiene di sottolineare innanzitutto l’esigenza di un investimento formativo degli operatori, esigenza rispetto alla quale la Commissione ha ritenuto di definire un’ ipotesi di pacchetto formativo già trasmesso all’Issp per le iniziative di competenza nel giugno 2004 e preso in esame con l’Issp e la DGEPE nella riunione della Commissione del 10 settembre 2004.


Si è a conoscenza che sono già state realizzate per la verità alcune brevi esperienze formative da parte di alcuni Provveditorati, nell’ambito dei progetti Domino e Coram, solitamente rivolti a gruppi mono-professionali. Queste iniziative hanno confermato l’esigenza di ripercorrere le competenze assegnate dalla legge agli operatori penitenziari alla luce della prospettiva riparativa, fornendo preliminarmente delle conoscenze teoriche sul paradigma riparativo e facendo (ri)affiorare il saper fare degli operatori in ordine all’impulso/sostegno da dare ai condannati verso una riflessione sul reato e sui danni prodotti a terzi.


Si è infatti convinti che gli operatori abbiano un patrimonio di esperienza professionale di inestimabile valore, da cui si può e si deve partire per “ri-scoprire” cosa significhi stabilire una relazione professionale quale occasione per il reo di sviluppare una riflessione sulla propria esistenza. Gli operatori, potremmo dire in altre parole, talvolta “non sanno di sapere”, ma possono essere accompagnati, mediante una esperienza formativa, a recuperare il senso del proprio lavoro, a ricollocare il proprio operare ridefinendone gli obiettivi.


Non apparirà superfluo a questo punto il suggerimento circa l’importanza di sviluppare la formazione sul territorio di competenza di ciascuno, e che veda non solo occasioni di crescita per famiglie professionali ma divenga occasione da “condividere” con gli operatori del territorio medesimo, con il volontariato ed il terzo settore.


È indubbio che il compito della gestione dell’esecuzione della pena è dell’Amministrazione penitenziaria ma la finalità trattamentale e riparativa della pena stessa non può trovare esito se non in un sistema reticolare di rapporti dove la Comunità diventi essa stessa soggetto / attore.


LA DOCUMENTAZIONE GIURIDICA

 

Restano veri i problemi elencati nel quarto livello, con particolare riferimento alla sentenza.


In verità appare incomprensibile che l’operatore penitenziario, in particolare l’assistente sociale, possa relazionarsi al condannato senza conoscere il reato, senza riuscire ad acquisire la sentenza, fonte di inequivocabile rilievo di informazione e di verifica del “racconto del detenuto”. Si auspica che in tal senso possa essere trovata nelle sedi opportune una soluzione definitiva.


Ma la conoscenza della sentenza non è funzionale solo ad una più corretta contestualizzazione dell’indagine socio – ambientale e del percorso trattamentale.
Conoscere la sentenza significa per l’operatore conoscere le motivazioni giuridiche che hanno spinto lo stato ad applicare una misura di risposta al reato, poter “conoscere” se il reato ha provocato danni a terzi/vittime o alla Comunità, poter “apprendere” se la vittima si è costituita parte civile, se è stato disposto un risarcimento del danno o la restituzione dell’oggetto materiale della condotta criminale.


Conoscere la sentenza concorre a rendere “concreto” il reato agli occhi dell’operatore, che può farsi portavoce nella riflessione con il reo del peso antigiuridico della condotta, avere elementi per interpretare la fabulazione del condannato, il suo racconto e la dimensione emozionale legata a quell’evento, aiuta l’operatore a ricercare con il reo una ipotesi di progetto riparatorio rispetto a quel reato, a quel danno, a quella vittima, un’azione che sia equa, proporzionata, ragionevole, ma che soprattutto abbia “significato”.


Si vuole affermare con estrema forza che la riparazione potrebbe essere o diventare un’altra occasione perduta nel percorso di risocializzazione di cui al finalismo costituzionale se diviene un ulteriore automatismo, un altro dover fare, un altro momento passivizzante, un altro mero adempimento prescrittivo per il reo per concludere positivamente la misura, se non trova quindi viceversa fondamento nel percorso di responsabilizzazione del condannato, se non nasce dalla capacità progettuale (prospective responsability) acquisita dallo stesso con l’aiuto degli operatori penitenziari.


Non si vuol dire con ciò che la riparazione non sia importante, tutt’altro: significa che la scommessa riparativa per il rilievo che può assumere rispetto alla creazione di un clima di benessere per tutti i cittadini, rispetto alla prevenzione secondaria e all’abbassamento della recidiva, implica un impegno di grande spessore per gli operatori penitenziari e per la magistratura di sorveglianza, che non può risolversi nell’imporre un obbligo a “fare” al detenuto ma piuttosto deve trovare concretezza nella scelta di “essere in relazione” maturata dallo stesso.


RAPPORTI CON LA MAGISTRATURA DI SORVEGLIANZA


Se il consenso e la volontarietà sono la premessa indispensabile per un’azione riparativa “significativa”, e se la mancanza di consenso secondo i documenti internazionali già citati (Risoluzione 2000/14 - ECOSOC) non può essere usata come giustificazione per una più severa condanna nel successivo procedimento penale, con riferimento ad una pena già irrogata, potremmo forse dire che la mancanza di consenso non può essere usata come giustificazione per una imposizione “prescrittiva” specifica nell’ordinanza o nel corso dell’affidamento, o come motivo per la dichiarazione di inefficacia della misura concessa?


L’interrogativo è aperto e non può trovare una risposta unilaterale, dovendosi evidentemente pervenire ad una condivisione con la Magistratura di Sorveglianza, alla luce naturalmente delle sentenze della Cassazione sopravvenute sull’argomento, che non dìssipano però tutte le incertezze interpretative legate alla prescrizione riparativa. Alcune di esse comunque si esprimono su dei principi inequivocabili e tracciano in qualche modo il confine tra il concetto di risarcimento e quello di riparazione.


Innanzitutto nella Sentenza della Suprema Corte (Cass. Pen. Sez. I n. 407 dell'8 gennaio 2002) si coglie l’importante sottolineatura circa il fatto che “l’istituto dell’affidamento in prova implica … che il processo di rieducazione sia ancora in fieri, e, quindi, la solidarietà verso la vittima assume la veste di obbligo accessorio, che – attesa l’ampiezza della previsione legislativa – può realizzarsi durante lo svolgimento della misura con qualsiasi intervento fattibile e utile, di carattere non necessariamente patrimoniale ma eventualmente anche personale”.


L’affermazione della dimensione dinamica del percorso di rieducazione appare fondamentale alla luce delle riflessioni fin qui condotte circa il processo di responsabilizzazione del reo.


La medesima sentenza non manca a sua volta di segnalare che la prescrizione riparatoria, introdotta dal comma 7º dell’art. 47, “.. ha carattere “elastico”, che può esplicarsi mediante qualsiasi forma di sostegno morale o materiale realizzabile nella fattispecie, svuotandosi di contenuto quando – per indisponibilità della persona offesa o per altra ragione – l’attiva solidarietà risulti in concreto impedita. L’integrale adempimento delle obbligazioni civili – salva sempre l’ipotesi di materiale impossibilità – è condizione per il più ampio beneficio della liberazione condizionale (art. 176 c.p.), che presuppone il già conseguito ravvedimento del condannato;…”.


Il valore dell’affermazione circa la differenza tra la liberazione condizionale e l’istituto giuridico dell’affidamento è incontrovertibile, e richiama una ulteriore differenza quella cioè tra la misura alternativa e la sospensione condizionale stante che la formula legislativa dell’art. 165 c.p. è assai più ampia di quella di cui all’art. 47 o.p., consentendo – solo nel primo caso - la subordinazione del beneficio “alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato” (in merito vedi Cass. Pen. Sez. I n. 48147 del 17 dicembre 2003 – c.c. 26 novembre 2003).


Di contro l’altra sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. I n. 410 dell'8 gennaio 2002) ha opportunamente e ben precisato che è illegittima “l’imposizione di una prescrizione “surrogatoria”…” rispetto ad un obbligo squisitamente risarcitorio laddove la vittima non abbia avanzato pretese. L’eventuale imposizione da parte del Magistrato all’affidato di un obbligo a svolgere attività di generica utilità sociale, definisce quindi “un obbligo del tutto nuovo ed autonomo” ed... avrebbe “un contenuto restrittivo ed affittivo supplementare, non giustificato dalla condotta del soggetto e dall’andamento della prova”.


Sembra balzare all’occhio la sottolineatura della diversità tra prescrizione riparativa e il concetto di risarcimento che viene correttamente collocato nell’ambito civilistico e sembra altrettanto chiaro che se la prescrizione risulta, oggettivamente e sotto qualsiasi forma, inattuabile in concreto, nessuna modalità “sostitutiva” è prevista dalla legge.


Alla luce di quanto finora detto appare estremamente opinabile la giurisprudenza sviluppata in alcuni distretti di Corte di Appello dove la Magistratura di sorveglianza “impone” come prescrizione “riparatoria” un risarcimento economico al soggetto condannato (talvolta con il pignoramento dello stipendio di quest’ultimo), unilateralmente, “surrogando” - in alcuni casi circoscritti - anche la mancata costituzione civile della parte lesa, e facendo riferimento a criteri di “congruità” delle somme offerte alla vittima dal condannato, con le condizioni economiche di quest’ultimo ed il suo tenore di vita complessivo.


Diverso è ovviamente il caso altrettanto ricorrente della verifica richiesta da parte della Magistratura prima della concessione della misura o nel corso dell’esecuzione penale circa l’adempimento da parte del reo delle obbligazioni civilistiche, disposte con sentenza, a seguito di costituzione di parte civile della vittima, assumendo tale adempimento un significato incontrovertibile per la valutazione dinamica del profilo del condannato, della sua consapevolezza circa il disvalore del fatto compiuto e degli effetti prodotti su terzi.


La Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. I n. 23749 del 29 maggio 2003 – c.c. 28 aprile 2003) rileva al proposito che “…un risarcimento del danno effettuato dal condannato anteriormente alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, ….ben può costituire un presupposto favorevole per la concessione della misura alternativa, essendo esso indubitabilmente una manifestazione di una volontà di porre riparo – sia pure parzialmente – ai danni derivati dal reato commesso”.


La notizia, che il servizio sociale può assumere direttamente dal condannato (con appropriata documentazione) ovvero - in ultima istanza - richiedendola con lettera formale alla vittima, ove conosciuta, circa l’eventuale mancata o parziale esecuzione di un obbligo di risarcimento può (e deve) peraltro essere oggetto di riflessione e responsabilizzazione del condannato, potendosi con lo stesso determinare le modalità più congrue per dare attuazione a quanto disposto durante il processo penale a seguito della costituzione di parte civile di chi ha subito il danno, o a seguito del giudizio autonomo in sede civile proposto dalla vittima.


La stessa sentenza sancisce inoltre che, diversamente da quanto avviene nel risarcimento economico definito a seguito di ricorso a procedure legali, nel caso in cui il condannato offra/versi volontariamente, quale azione di valenza riparatoria, una somma di denaro alla parte offesa, “il solo dato relativo all’entità della somma…non può costituire elemento negativo per la valutazione della condotta del condannato..”, affermando così che l’azione riparatoria ha comunque un valore non “quantificabile”.


D’altronde, ritornando alla valutazione circa l’adempimento dell’eventuale obbligazione risarcitoria, pur essendo apprezzabile nell’ottica della risocializzazione del condannato l’assolvimento della stessa “il mancato o non integrale risarcimento del danno non è di per sé di ostacolo alla concessione e al positivo svolgimento dell’’affidamento in prova…(Cass. Pen. Sez. I n. 6955 del 14 febbraio 2000 – c.c. 7 dicembre 1999). E’ illegittimo quindi che nel concedere l’affidamento si prescriva al condannato l’incondizionato obbligo di provvedere all’integrale risarcimento del danno anticipando che, in mancanza di tale adempimento non sarebbe stato riconosciuto l’esito positivo dell’esperimento.


Già in precedenza altra sentenza aveva affermato che “deve ritenersi viziata in punto di motivazione l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che respinga la richiesta di applicazione della suddetta misura alternativa deducendo l’assenza di segni di ravvedimento unicamente dal mancato risarcimento del danno…” (Cass. Pen. Sez. I n. 5273 del 15 febbraio 1995 – c.c. 11 novembre 1994).


In altre parole se pur è importante l’assolvimento da parte del reo dell’obbligazione risarcitoria/restitutoria – come più sopra detto - ciò non è immancabilmente necessario ai fini della concessione della misura e della valutazione della prova (Canepa – Merlo).


In merito possono essere altresì citate altre sentenze quali Cass. Pen. Sez. I n. 6725 del 19 febbraio 2001 (c.c. 15 dicembre 2000), Cass. Pen. Sez. I n. 15098 dell’11 aprile 2001 (c.c. 8 marzo 2001); Cass. Pen. Sez. I n. 30785 del 6 agosto 2001 (c.c. 9 luglio 2001).


La complessità della materia e la delicatezza delle sue sfaccettature è indubbia e porta a riaffermare la necessità di una comunicazione costante con la Magistratura di Sorveglianza in ordine ai punti segnalati nel quinto livello di problematiche elencate in premessa, con incontri sia a livello centrale che a livello territoriale.


Condividere i linguaggi ed i significati, coniugare aspettative reciproche e competenze di ciascuno, individuare delle linee di azione comuni, definire i criteri di valutazione individuati da Magistratura e operatori penitenziari e le diverse chiavi di lettura di ciascuno, possono migliorare la qualità dei risultati perseguiti dall’Amministrazione penitenziaria e dalla Magistratura di Sorveglianza rispetto ai compiti loro demandati dall’ordinamento penitenziario ed alla finalità costituzionale della pena.


Si può in qualche modo affermare che, a trent’anni dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, l’esigenza di un confronto tra questi due mondi è cresciuto in modo direttamente proporzionale con l’aumentare della complessità dei compiti via via attribuiti dalla legge, delle criticità legate a particolari target di utenza, e in rapporto allo spostamento progressivo dell’esecuzione penale sul territorio. La conseguente necessità di un contatto diretto e fluido tra Magistratura ed i Centri di servizio sociale è oggi irrimandabile perché i Centri possano “comprendere” il significato di una giurisprudenza che si sviluppa in diversa maniera lungo il territorio nazionale e perché la Magistratura possa “comprendere” e valorizzare il sapere professionale del servizio sociale, all’interno di un chiaro rapporto di interdipendenza funzionale.


Si vorrebbe qui già anticipare l’ipotesi (e l’auspicio) di momenti seminariali congiunti su base nazionale e/o per distretto di Corte di appello, e parallelamente un’attività di ricerca e monitoraggio congiunta (tra Amministrazione Penitenziaria e Magistratura di Sorveglianza) sulla “giustizia riparativa”, sicuri che detta attività insieme all’esperienza diretta maturata sul campo, non possano che favorire l’individuazione delle più corrette risposte ai molti quesiti oggi rimasti aperti.


In tal senso la Commissione ha inteso muoversi inviando alla Magistratura il risultato dei due monitoraggi, e soprattutto chiedendo al Direttore dell’Ufficio studi di voler creare l’occasione di un incontro tra i componenti esperti della Commissione e i Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza, quale inizio di occasioni cadenzate di confronto con la Magistratura medesima sulla complessa tematica.


LA VITTIMA


Sembra indifferibile però affrontare a questo punto un altro aspetto di grande rilievo e complessità, quello cioè che riguarda la vittima, soggetto che con la condanna del reo viene totalmente separato da quest’ultimo e spesso dimenticato, tranne che nei casi e momenti in cui viene riportato in auge dalla cronaca per eventi legati alle fasi del giudizio, o alle notizie sull’esecuzione di pena del reo, producendo spesso una inevitabile oltre che “inutile” ulteriore vittimizzazione, o una cristallizzazione del dolore e dell’odio.


Nell’affidamento al servizio sociale, come si è visto nei casi oggetto del II monitoraggio, diviene eclatante un paradosso: nel chiedere al reo di “riparare” si imporrebbe alla vittima di essere “oggetto” di una riparazione, cioè, in altri termini, il tentativo di “ridurre” la frattura prodotta dal reato potrebbe configurarsi per la vittima come una ulteriore violenza subita (Giuffrida).


La distanza temporale (spesso oltre 10 anni), intercorrente tra la commissione del reato e l’esecuzione della pena, momento in cui il reo inizierebbe il suo percorso di rieducazione e verrebbe sostenuto a sviluppare una riflessione critica aderendo ad ipotesi riparatorie indirette o dirette, implica ovviamente un maggior rischio di destabilizzazione nella vita della vittima che potrebbe aver ritrovato un equilibrio esistenziale e “archiviato” il trauma subito.


Questo è il punto di maggiore criticità nell’attuazione dei percorsi riparativi dei condannati adulti, anche se d’altro canto non si può prescindere dall’attribuire significativa importanza al fatto che la vittima possa sperimentare percorsi di giustizia riparativa che potrebbero produrre il superamento del trauma, della sofferenza subita a causa del reato e, in alcuni casi, contribuire alla ricostruzione di relazioni ritenute significative.


Il rischio di infliggere alla vittima ulteriori violenze o comunque l’invasione del suo “privato” è oggi particolarmente alto in quelle realtà ove viene “prescritto” nell’ordinanza di ammissione all’affidamento di un soggetto condannato, che lo stesso, o il suo avvocato, o l’assistente sociale del CSSA, contattino la vittima, sia per proporre una verifica in ordine all’avvenuto assolvimento di una obbligazione risarcitoria, sia nella prospettiva riparativa o ancora con particolare riferimento alla possibilità di ricorrere ad un incontro di mediazione.


Tale situazione, confermata dalla ricerca, solleva grande preoccupazione se si considera che sia il reo che il suo avvocato hanno l’urgenza a dar seguito ad una siffatta prescrizione in funzione dell’interesse del condannato ad ottenere la misura alternativa o la declaratoria di fine pena. Non volendo ritornare alle considerazioni già ampiamente trattate, si vuole sottolineare l’inevitabile strumentalità che dette pratiche ingenerano, la loro estraneità a quel processo di responsabilizzazione del reo di cui si diceva prima, l’automatismo crescente delle modalità applicative della prescrizione riparativa, oltre l’ulteriore vittimizzazione della parte lesa dal reato.


Anche nel caso del servizio sociale non si possono in alcun modo assecondare estemporanee iniziative dei singoli Centri e/o singoli operatori, spesso dettate da una motivazione professionale a favore dell’utente, o dalla necessità di autogarantirsi rispetto ad un adempimento richiesto dalla Magistratura di sorveglianza, iniziative però che inevitabilmente vanno ad incidere nella sfera della vita di un altro soggetto: la vittima cioè del reato commesso dal “proprio” utente.


Si impone quindi preliminarmente la costruzione di un percorso normativo, deontologico e metodologico che delinei le modalità di approccio alla vittima del reato, definisca quale sia il soggetto deputato ad attivarsi per verificare la sua “libera” volontà ad accettare una riparazione del danno sofferto o ad un eventuale incontro con il reo, quale sia l’operatore che può “agire” la mediazione e quale debba essere la sua formazione.


Si esclude tassativamente, alla luce peraltro delle norme comunemente condivise in ambito internazionale, che il “facilitatore” della comunicazione tra reo e vittima possa essere l’operatore penitenziario, cui spetta abbiamo visto il compito istituzionale ed irrinunciabile di “preparare” e sostenere il reo nel percorso di responsabilizzazione e nella definizione di un progetto riparatorio “verso” la vittima.


Il soggetto “terzo indipendente (mediatore)” di cui parla la Raccomandazione R (99) 19, § V.2, punto 24 - oltre ad altre risoluzioni internazionali elencate nell’allegato elenco - deve ricevere una formazione che favorisca “…l’acquisizione di un alto livello di competenza che tenga presente le capacità di risoluzione del conflitto, i requisiti specifici per lavorare con le vittime e gli autori del reato, nonché una conoscenza di base del sistema giustizia penale”.


Il mediatore così formato svolge il proprio lavoro nell’ambito di appositi Uffici collocati nella Comunità, secondo modelli che, pur nelle attuali inevitabili diversità, rispettano un principio fondamentale che non è quello di neutralità concetto questo che attiene alle funzioni del giudice, ma della equidistanza, o ancora meglio - come dice Resta – della equiprossimità rispetto ai due soggetti in mediazione.


Senza voler approfondire in questa sede le caratteristiche del mediatore, non sembra superfluo affermare ancora una volta la evidente incompatibilità dell’esercizio del ruolo di mediatore con quello degli operatori penitenziari che, per legge, svolgono compiti “in favore” del reo, a meno che, naturalmente, essi - previo adeguato percorso formativo - non vengano posti in posizione di comando o di distacco, e non prendano in carico comunque in tal caso situazioni conosciute (o seguite) nell’ambito dello svolgimento dei compiti attinenti il proprio ruolo istituzionale.


È indubbio che un intervento normativo in materia di vittime esula dalle competenze peculiari dell’Amministrazione penitenziaria che può però sensibilizzare le sedi competenti perché vengano definiti servizi specializzati che rispondano ai bisogni della vittima in ogni fase del procedimento, adoperandosi affinché la stessa non abbia a subire pregiudizi ulteriori e inutili pressioni, ma piuttosto vengano ad essa assicurate le necessarie garanzie in materia di comunicazione e di assistenza.


I citati interventi sono peraltro in linea con le risoluzioni internazionali ed in particolare con la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI del 15 marzo 2001) adottata nell’ambito del cosiddetto “Terzo Pilastro” dell’Unione Europea sulla scorta delle determinazioni assunte nel vertice di Tampere, con cui gli Stati membri definiscono delle scadenze vincolanti entro le quali fare entrare in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie sia riguardo la tutela alla vittima che la implementazione di forme di giustizia riparativa e tra queste della mediazione penale.

 

INDICAZIONI OPERATIVE


Pur nella consapevolezza di non aver sciolto tutti i nodi problematici, né di avere completato il mandato affidato alla Commissione, che sta oggi affrontando nuovi livelli di approfondimento teorico ed operativo della materia, si ritiene di rilanciare ancora una volta l’importanza (e l’urgenza) di un percorso formativo degli operatori, definendo inoltre alcune indicazioni operative con riferimento a due ipotesi sviluppate dalla Commissione, e che di seguito si illustrano.


Attività riparative a favore della collettività
La Commissione ha esitato il testo di convenzione che i Centri di servizio sociale potranno stipulare con gli Enti Locali ovvero con Enti pubblici o privati, Associazioni ed Organismi vari.
In realtà già da alcuni anni sono state sottoscritte delle Convenzioni tra cui si ricordano quella stipulata dal Centro di Torino, quella di Trieste, ed in ultimo quella del Provveditorato della Regione Campania, atti tutti che hanno peraltro tenuto presenti le indicazioni fornite nell’agosto 2001 (nota n. 0231328-2001 del 29 agosto 2001) dall’Ufficio allora competente per le misure alternative (oggi Direzione generale per l’esecuzione penale esterna).


Le modifiche e le integrazioni apportate al testo precedentemente diffuso rendono manifesta l’impostazione seguita dalla Commissione nel suo lavoro di studio e ricerca, quella cioè di ampliare il campo di riferimento dalla prescrizione riparativa “imposta” dal comma 7� dell’art. 47 o.p., alle più ampie previsioni normative introdotte dagli artt. 27 e 118 del reg. di esecuzione.


Si viene così ad affermare l’importanza della prospettiva riparativa (al di là dell’aspetto meramente prescrittivi) per tutti i soggetti condannati, prospettiva che non nuoce ripetere non può che nascere a seguito di un processo di responsabilizzazione del reo, della sua adesione al trattamento e della sua assunzione consapevole di una capacità progettuale “verso” le eventuali vittime e/o la collettività.


La collettività, che spesso nel documento è stata richiamata con il termine Comunità, e che è anch’essa - abbiamo detto citando Marcus - soggetto promotore del percorso “di pace” che si fonda sull’ azione riparativa posta in essere dall’autore di reato e destinataria delle politiche riparative, viene dunque valorizzata e coinvolta – nelle sue diverse espressioni - allo scopo di promuovere con gli Uffici periferici dell’Amministrazione azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della Comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale, alla conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività e ed alla costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti in esecuzione di pena che hanno aderito ad un progetto riparativo.


Viene esplicitamente dichiarato nello schema della convenzione che lo svolgimento di attività a beneficio della collettività può costituire:
una forma di riparazione che il condannato pone in essere verso la collettività, quale parte offesa del fatto criminoso;
un’azione riparatoria concordata tra vittima e reo quale risultato di un incontro di mediazione cui gli stessi abbiano consensualmente aderito;
un’attività di indubbia valenza per il reo, in quanto effetto e momento di un processo dinamico di reintegrazione sociale, che assume significato quale atto teso a rinsaldare il patto di cittadinanza.


È stato altresì approfondito, preliminarmente alla nuova stesura dello schema, il significato che un’attività a beneficio della collettività può assumere per i soggetti in esecuzione penale, alla luce delle due sentenze della Cassazione (Cass. Pen. Sez. I nn. 407 e 410 dell'8 gennaio 2002) a suo tempo trasmesse ai CSSA (nota n. 0320462-2003 del 4 agosto 2003) ove viene affermato che lo svolgimento di tale tipologia di attività non può essere “imposta” quale prescrizione “surrogatoria”…” rispetto ad un obbligo squisitamente risarcitorio laddove la vittima non abbia avanzato pretese. Si sostiene – come già è apparso chiaro nel commento al II monitoraggio e da quanto finora argomentato – che se lo svolgimento di un’attività di rilievo sociale non può essere imposta, di contro la sua realizzazione per iniziativa “volontaria” del reo assume un valore inequivocabile per il processo di reinserimento sociale quale manifestazione simbolicamente ed eticamente significativa di quella che abbiamo chiamato “riattivazione del circuito di responsabilità individuali e sistemiche”.


Ipotesi di sperimentazione di percorsi di mediazione penale
La Commissione ha ampiamente discusso l’ipotesi di sperimentare l’invio di alcuni soggetti in affidamento presso Uffici di mediazione penale, comprendendo ed assumendo come propria l’importanza di un percorso di riconoscimento reciproco tra reo e vittima e di una possibile “ricostruzione” della relazione rotta dal reato.


Come prima osservato tenendo nella massima considerazione il rispetto per la vittima non si può d’altronde non promuovere e/o favorire quelle iniziative che possano dare ad essa, se consenziente, una occasione di sperimentare un incontro di mediazione. Dall’esperienza degli Uffici di mediazione penale per i minori esistenti in Italia possiamo infatti trarre la testimonianza che spesso la vittima “ha bisogno” di vedere il reo, di “capire” le motivazioni del reato, di esprimere soprattutto la propria sofferenza. Questi sono i passaggi che essa affronta in un incontro di mediazione e che possono produrre un sentimento di “pacificazione” con sé e eventualmente anche con l’altro.


In verità l’avvio di detta sperimentazione è subordinata alla definizione di alcuni ulteriori passaggi che si ritiene doveroso rappresentare.


Per prima cosa non si può che richiamare la necessità che prima di proporre ad una vittima di aderire ad un incontro di mediazione, occorre che venga vagliata dagli operatori penitenziari l’assenza di una qualsiasi strumentalità da parte del reo, la validità del percorso di responsabilizzazione compiuto dallo stesso, acquisendo preliminarmente e formalmente la sua adesione all’esperienza di mediazione ove la vittima a sua volta liberamente acconsenta.


Altro aspetto preso in esame è la tipologia del reo o reato, – da prendere in considerazione nella sperimentazione – pervenendo all’esclusione di soggetti seguiti da altri servizi territoriali o con evidenti problematiche legate al disagio psichico, nonché soggetti in stato di tossicodipendenza ovvero ospitati in Comunità, come meglio descritto nello schema di convenzione che si allega.


Fondamentale è la sottolineatura circa il fatto che almeno in termini di priorità il criterio di selezione per l’eventuale invio ad un incontro di mediazione è strettamente connessa al valore, alla significatività della relazione preesistente tra reo e vittima e quindi all’importanza che potrebbe essere attribuita da entrambi alla ricostruzione della relazione medesima.


La distanza tra la commissione del reato e l’incontro di mediazione, è certamente un aspetto di problematicità che si riterrebbe di risolvere definendo un lasso di tempo massimo intercorrente di non più di 5 anni.


Posto quanto sopra la Commissione si è attivata per individuare quali potessero essere gli Uffici di mediazione cui inviare, previa opportuna convenzione, i casi selezionati.


Il primo passo è stato ovviamente il censimento degli Uffici già esistenti sul territorio nazionale, con particolare riguardo a quelli operanti nell’ambito penale.


Nel luglio 2004 si realizzava un incontro con i rappresentanti di 6 Uffici già operanti (Milano, Torino, Bari, Cagliari, Sassari e Provincia Autonoma di Trento e Bolzano), che avevano preso contatto a diverso titolo con la Commissione, oltre che con un dirigente del Comune di Modena ove sta per essere istituito un Ufficio di Mediazione penale per adulti, giusta delibera Regionale n. 2537 del 16 dicembre 2002, con la consulenza del coordinatore di questa Commissione.


Il panorama che si delineava dopo queste iniziative lasciava registrare che le esperienze italiane convenute, pur aderendo di massima ad un modello di mediazione di tipo “umanistico” presentano differenze rilevanti sotto il profilo formale e quello sostanziale.


Fatta eccezione per la Provincia Autonoma di Trento e Bolzano che ha istituito con delibera regionale un Centro per la mediazione penale articolato in due sezioni (Trento e Bolzano), al fine di supportare l’attività dei giudici di pace, gli altri Uffici sono stati istituiti, in riferimento alla mediazione penale nell’ambito minorile, con protocolli di intesa tra soggetti identificati diversamente in ciascuna realtà.


Altri profili di diversificazione riguardano tra l’altro – in assenza di modelli codificati a livello nazionale - la formazione (durata e contenuti) degli operatori, il numero dei mediatori che gestiscono l’incontro (in genere non meno di tre), la durata dell’incontro medesimo che mentre viene solitamente concluso in unico incontro anche se estremamente dilatato nell’arco della giornata, in alcuni Uffici vede invece il reiterarsi degli incontri in diverse giornate.


Dagli Uffici invitati e da altri successivamente entrati in contatto con la Commissione si è avuta una disponibilità, anzi l’espressione di un vivo interesse ad essere interlocutori dell’Amministrazione penitenziaria.
Vanno risolti innanzitutto dei problemi formali, poiché con ciascun Ufficio che si andrà ad individuare per la sperimentazione:


andrà acquisito il consenso di tutti i firmatari della convenzione esistente all’estensione dell’oggetto della convenzione a soggetti condannati adulti e al relativo atto aggiuntivo di convenzione con il Provveditorato ricadente nel medesimo territorio;


andrà convenuta la gratuità della prestazione di attività di mediazione da parte degli operatori di detti Uffici in ordine ai casi che si andranno sperimentalmente ad inviare, ovvero andrà trovata una forma di finanziamento che allo stato non può ricadere su alcun capitolo di bilancio di questo Dipartimento;
dovranno preliminarmente essere realizzati momenti di formazione degli operatori di detti Uffici riguardo all’ordinamento penitenziario e relativo reg. di esecuzione ed alle peculiarità del target;
dovranno essere sottoscritte le apposite convenzioni nella piena e chiara condivisione di obiettivi, prassi e impegni reciproci.
Pur avendo sufficientemente chiariti i punti finora citati, la Commissione ha ritenuto di subordinare qualsiasi ulteriore iniziativa alla richiesta di chiarimenti al Garante per la Protezione dei dati personali ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, sulla trattazione dei dati personali della vittima. L’Ufficio del Garante ha richiesto degli incontri con il coordinatore ed i componenti esterni della Commissione e darà a breve riscontro al quesito.
Ogni iniziativa pertanto è differita all’acquisizione di detto parere.
 

Per completezza di informazione si ritiene altresì di segnalare che sono state sviluppate – a cura del coordinatore della Commissione e nell’ambito delle consulenze alla stessa autorizzate - ipotesi di un modello formativo dei mediatori penali che tenga conto del contesto dell’esecuzione penale dei condannati adulti, e di un modello innovativo di Ufficio di giustizia riparativa, di cui si darà diffusamente notizia non appena definite.
 

Roma, 3 marzo 2005

 

IL DIRIGENTE GENERALE
Maria Pia Giuffrida
 

Le linee di indirizzo contenute nel documento scaturiscono dai lavori della Commissione di studio sulla “Mediazione penale e giustizia riparativa” istituita dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con Decreto del 26 febbraio 2002, con l’obiettivo di definire linee guida che assicurino nell’ambito dell’esecuzione penale di soggetti adulti l’adozione di modelli uniformi di giustizia riparativa in linea con le Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa.
Detta Commissione, coordinata dalla dott.ssa Maria Pia Giuffrida, Dirigente Generale, è composta da consulenti esterni esperti e da personale dell’Amministrazione.
La segreteria della Commissione è stata affidata alla dott.ssa Sabrina Carracoi della DGDT, che ha altresì curato i rapporti con l’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali.