Schema di D.Lgs. - Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione - Relazione

Esame definitivo - Consiglio dei ministri 19 gennaio 2018

Schema di decreto legislativo recante “Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83, 84, lettere f), g), h), i), l), m),  della legge 23 giugno 2017, n. 103”

Articolato


Lo schema di decreto legislativo è finalizzato all’attuazione della delega contenuta nell’articolo 1, commi 82, 83 e 84 lettere f), g), h), i), l), e m) della legge 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario” per la riforma della disciplina processuale penale in materia di giudizi di impugnazione.

L’intervento si avvale dei lavori della Commissione istituita con decreto del Ministro della giustizia 9 dicembre 2015 e presieduta dal dott. Domenico Carcano e si inserisce nel più ampio programma sotteso alla riforma, volto alla semplificazione e velocizzazione dei processi, in modo da garantire l’attuazione del principio della ragionevole durata del processo.

Lo schema mira dunque alla deflazione del carico giudiziario, mediante la semplificazione dei procedimenti di appello e di cassazione.

In tale ottica, i principi di delega orientano alla modifica del procedimento davanti al giudice di pace (lettera f), all’individuazione degli uffici del pubblico ministero legittimati a proporre appello (lettera g), alla riduzione dei casi di appello (lettere h, i, l) e alla limitazione dell’appello incidentale al solo imputato (lettera m).

L’articolo 1 dello schema introduce il comma 4 bis all’articolo 568 del codice di procedura penale, stabilendo che il pubblico ministero propone impugnazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato solo con ricorso per cassazione, a completamento delle disposizioni che ne circoscrivono la legittimazione all’appello ai casi in cui esprime il ruolo di parte antagonista rispetto all’imputato.

La legge delega ha chiaramente prescritto la riduzione dell’area della legittimazione all’appello sia per il pubblico ministero che per l’imputato, in modo da calibrare equamente il sacrificio in termini di accesso all’impugnazione.

In questa prospettiva ha valorizzato il ruolo di parte del pubblico ministero nel senso di accentuare, almeno sul piano dell’accesso all’impugnazione di merito che non trova copertura costituzionale, il suo essere antagonista processuale dell’imputato.
 
Può dunque proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, perché queste smentiscono la pretesa punitiva portata avanti con l’esercizio dell’azione, ma non può aggredire le sentenze di condanna, appunto perché queste, quale che sia la pena irrogata, riconoscono la fondatezza dell’azione.

Le sentenze di condanna sono invece appellabili dal pubblico ministero soltanto in alcune ipotesi – modifica del titolo del reato, esclusione della circostanza aggravante ad effetto speciale, sostituzione della pena ordinaria –, quando le determinazioni del giudice incidono in maniera significativa sulla prospettazione accusatoria, anche e soprattutto in punto di quantificazione della pena.

Risulta così chiaro il disegno riformatore. L’esigenza di riduzione dell’area dell’appellabilità è stata soddisfatta attraverso la valorizzazione del ruolo di parti, che accomuna pubblico ministero ed imputato, seppure il primo sia parte sui generis, perché parte pubblica appartenente all’ordine giudiziario.

La disposizione contenuta nel nuovo comma 4 bis dell’articolo 568 c.p.p. serve allora a spiegare che l’accentuazione del ruolo di parte determina conseguenze non soltanto sulla fisionomia della legittimazione all’appello ma anche sull’interesse all’impugnazione che è requisito di ammissibilità della domanda.

In buona sostanza, sarebbe tradita la delega se si potesse ipotizzare che, data la legittimazione del pubblico ministero all’appello delle sentenze di proscioglimento senza alcun limite, gli sia consentito di proporre appello con la richiesta di mutamento, in senso più favorevole all’imputato, della formula di proscioglimento. Sarebbe altresì contrario alla delega concludere che, siccome può appellare contro le sentenze di condanna modificatrici del titolo del reato, il pubblico ministero potrebbe coltivare un appello volto a ripristinare una qualificazione del fatto in termini di favore per l’imputato.

La legittimazione all’appello opera, se così può dirsi, su un piano statico, ma deve combinarsi, per cogliere pienamente il senso della riforma, con l’altro necessario elemento, l’interesse all’impugnazione, che agisce necessariamente all’interno dell’area della legittimazione evitando squilibri di senso.

Sarebbe infatti del tutto irragionevole ipotizzare che il pubblico ministero possa appellare le sentenze di proscioglimento per ottenere la formula più favorevole all’imputato o le sentenze di condanna modificatrici del titolo, al fine di ottenere una sentenza che riqualifichi con fattispecie meno grave il fatto contestato e quindi in favore dell’imputato, e che invece non possa appellare una sentenza di condanna che, senza modificare il titolo di reato, sia comunque ingiusta, radicalmente ingiusta.

Il ruolo di parte pubblica del pubblico ministero non è però compresso.

La legittimazione al ricorso per cassazione non è oggetto di modifiche, non è stata ridotta; ed è allora il ricorso per cassazione lo strumento, peraltro oggetto di espressa garanzia costituzionale, utilizzabile dal pubblico ministero anche in funzione diversa da quella propria di parte processuale esclusivamente antagonista, avversaria dell’imputato.

Il comma 2 dell’articolo 1, invece, modifica l’articolo 570, comma 1, del codice di procedura penale, in tema di impugnazione del pubblico ministero, al fine di precisare che è fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 593 bis.
L’intervento è coerente con le disposizioni contenute nel nuovo articolo 593 bis del codice di procedura penale in materia di appello del pubblico ministero, e risulta necessario per contenere le limitazioni al potere di impugnazione dell’accusa nei precisi termini indicati nella legge di delegazione, che espressamente li circoscrive al solo appello.   

L’articolo 2 dello schema riscrive i commi 1 e 2 dell’articolo 593 del codice di procedura penale (Casi di appello).

Secondo la nuova formulazione, al primo comma sono specificati i casi nei quali è ammesso l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna: se hanno modificato il titolo di reato o escluso la sussistenza di una circostanza ad effetto speciale o stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato; e quelli nei quali può appellare l’imputato, che si segnalano per l’assenza di limite alcuno, appunto perché si tratta di condanne, e quindi di pronunce strutturalmente sfavorevoli per l’imputato.

Le modifiche al secondo comma, invece, tengono conto delle pronunce della Corte costituzionale (C. Cost. n. 26 del 2007; C. Cost. n. 85 del 2008) che ne hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale sotto vari aspetti, e riformulano la disposizione con la previsione che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento e che, invece, l’imputato possa proporre appello contro tali pronunce emesse all’esito del dibattimento, salvo che si tratti di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso.

In ordine alla riduzione dei casi di appello, l’intento del legislatore delegante è di circoscrivere il potere d’impugnazione nei limiti in cui le pretese delle parti, legate all’esercizio dell’azione penale per il pubblico ministero e al diritto di difesa per l’imputato, risultino soddisfatte.

E’ opportuno precisare che si ritiene che i principi di delega di cui alle lettere h) ed i) dell’articolo 1, comma 84, della legge 23 giugno 2017, n. 103 non debbano trovare applicazione con riferimento ai procedimenti davanti al giudice di pace, per la chiara formulazione dei criteri e principi stessi, la cui operatività risulta circoscritta al processo penale ordinario.

In tal senso depone il fatto che la legittimazione all’appello dell’imputato contro le sentenze del giudice di pace presenta limiti e presupposti diversi rispetto alla disciplina dell’appello avverso alle sentenze del tribunale.
Anche il richiamo, presente nella lettera h), ad istituti che non si attagliano al processo davanti al giudice di pace, come il riferimento alla sentenza di condanna che abbia escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale (la cui contestazione spesso sposta la competenza al tribunale ex articolo 4, comma 3, decreto legislativo n. 274/200) o alla sentenza che abbia stabilito una pena diversa da quella ordinaria del reato (non configurabile per i reati di competenza del giudice di pace), inducono ad escludere l’estensione della novella ai procedimenti penali davanti al giudice di pace.   

Il terzo comma, infine, estende l’inappellabilità, già stabilita per le sentenze di condanna alla sola ammenda, anche alle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa.

La previsione si rende opportuna non solo per finalità deflative ma anche per restituire coerenza complessiva al sistema.

Al riguardo si osserva come l’attuale comma 3 dell’art. 593 del codice di rito, sancendo l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda, possa risultare incoerente per la parte in cui sembra implicitamente ammettere l’appello di quelle di proscioglimento.

Con la prevista interpolazione si pone l’imputato in una posizione di parità rispetto a quella del pubblico ministero.

L’intervento si giustifica ed appare del tutto ragionevole, del resto, anche in considerazione della limitata gravità delle fattispecie contravvenzionali punite con sanzione non detentiva e dello scarso allarme sociale che deriva dalle stesse.

Il comma 2 dell’articolo 2 aggiunge, poi, all’articolo 428 del codice di procedura penale il nuovo comma 3 quater, con cui si stabilisce l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.

L’intervento, del tutto analogo a quello effettuato in relazione all’articolo 593, comma 3, completa l’attuazione dei principi di delega riguardanti l’inappellabilità delle sentenze di carattere assolutorio (articolo 1, comma 84, lettera l), legge n. 103 del 2017), con specifico riferimento alla sentenza di non luogo a procedere, le cui impugnazioni sono disciplinate in generale dall’articolo 428 del codice di procedura penale.            

Con riferimento all’appello del pubblico ministero, l’articolo 3 dello schema inserisce nel codice di procedura penale l’articolo 593 bis, in applicazione del criterio direttivo enunciato all’articolo 1, comma 84, lettera g), secondo cui il procuratore generale presso la corte di appello può appellare soltanto nei casi di avocazione e di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado.

Tale nuovo articolo indica le sentenze (del giudice delle indagini preliminari, della corte d’assise e del tribunale) che possono essere appellate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale (comma 1), e specifica che il procuratore generale presso la corte d’appello può appellare solo in caso di avocazione e di acquiescenza del procuratore della Repubblica (comma 2).

Il comma 3 dell’articolo 3 modifica l’articolo 428, comma 1, lettera a) del codice di procedura penale, prevedendo che anche contro le sentenze di non luogo a procedere il procuratore generale può proporre appello nei limiti indicati dal nuovo articolo 392 bis, comma 2, del codice di procedura penale, cioè nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento.

In tal modo si è inteso razionalizzare l’esercizio del potere di impugnazione della pubblica accusa, limitando l’appello del procuratore generale, secondo quanto espressamente previsto dalla legge delega.

Attualmente, infatti, il codice di rito prevede che siano legittimati a proporre appello sia il pubblico ministero che ha presentato le conclusioni (articolo 570, comma 3, c.p.p.), sia il procuratore della Repubblica presso il tribunale (articoli 570, comma 1, e 428, comma 1, lettera a), c.p.p.), sia il procuratore generale presso la corte d’appello (articoli 570, comma 1, e 428, comma 1, lettera a), c.p.p.), quest’ultimo a prescindere dall’eventuale impugnazione o acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento.

Con la riforma si legittima il procuratore generale ad appellare esclusivamente in caso di inerzia del pubblico ministero di primo grado. Inerzia verificatasi già nella fase delle indagini preliminari, con conseguente avocazione da parte del procuratore generale, o successivamente, quando il pubblico ministero ometta di impugnare nei termini, così manifestando acquiescenza.

Relativamente a quest’ultima ipotesi di inattività, al fine di far fronte alle esigenze pratiche collegate alla necessità di assicurare al procuratore generale un congruo termine per valutare se impugnare e, in caso positivo, per redigere l’atto di appello, si è optato per l’introduzione di un nuovo articolo nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – 166 bis –  diretto a promuovere intese ed altre forme di coordinamento fra procure generali e procure della Repubblica dei relativi distretti (articolo 8). Si è così evitato di modificare l’attuale disciplina, con appesantimento della procedura oggi in vigore.
La soluzione assicura una gestione più dinamica dei rapporti fra gli uffici interessati, riconoscendo margini di discrezionalità e flessibilità nelle scelte organizzative, mediante l’uso di moduli protocollari, per altro già previsti in altri ambiti ordinamentali e largamente diffusi nella prassi.

L’articolo 4 dello schema sostituisce la disciplina contenuta nell’articolo 595 del codice di procedura penale in materia di appello incidentale, prevedendo al primo comma che “l’imputato che non ha proposto impugnazione può proporre appello incidentale entro quindici giorni da quello in cui ha ricevuto la notificazione prevista dall’art. 584”, e al terzo comma che “entro quindici giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti, l’imputato può presentare al giudice, mediante deposito in cancelleria, memorie o richieste scritte”.

Il comma 84, lettera m), dell’articolo 1 della legge delega attribuisce all’imputato la titolarità dell’appello incidentale, escludendo un analogo diritto per il pubblico ministero.

L’obiettivo consiste nell’individuazione di parametri oggettivi, orientati ad un canone di stretta legalità, in presenza dei quali il pubblico ministero è legittimato all’appello, evitando che impugni solo in conseguenza dell’appello principale dell’imputato.

Con la disposizione di cui al riformulato comma 3 dell’articolo 595 del codice procedura penale si è inteso tenere in considerazione la posizione dell’imputato che non abbia legittimazione all’appello, o comunque non abbia interesse, e che però intenda rappresentare al giudice dell’impugnazione l’esistenza in atti di dati probatori favorevoli ma che, magari, non sono stati presi in esame dal giudice di prime cure, giunto alla pronuncia favorevole valorizzando altro materiale di prova.

Come è stato ben chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, il limite al sindacato della Corte di cassazione, costituito dalla testualità del vizio motivazionale determinato dalla mancata valutazione di una prova decisiva per la difesa dell’imputato, non genera effetti irrazionali ed inaccettabili se la Corte può fare riferimento – come tertium compartionis per lo scrutinio di fedeltà al processo della motivazione della sentenza di appello che abbia ribaltato in condanna una sentenza di proscioglimento – non solo alla sentenza di primo grado, ma anche alle memorie e agli atti con i quali la difesa, nel contestare l’appello dell’imputato, abbia prospettato al giudice di appello l’esistenza di altre prove, favorevoli e decisive, pretermesse dal giudice di primo grado (C.C. Sez. U., 30 ottobre 2003, n. 45276).

La disposizione sino ad oggi utilizzata dall’imputato non appellante è certo quella dell’articolo 121 c.p.p., che consente alle parti “in ogni stato e grado del procedimento” di presentare al giudice memorie o richieste scritte, senza imporre alcuna cadenza temporale.

La nuova disposizione del comma 3 dell’articolo 595 c.p.p. non si pone però in deroga a quella generale dell’articolo 121, ed impone un termine di proposizione – entro quindici giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti – senza prevedere alcuna sanzione di inammissibilità o di decadenza.
Peraltro, non preclude all’imputato, trascorso il termine appena indicato, di proporre memorie o richieste proprio in forza della previsione generale dell’articolo 121 c.p.p.
Ciò nonostante, essa non è inutile o superflua, perché richiama l’imputato alla necessità di un ordine espositivo, anche temporale, che consenta al giudice di appello di conoscere per tempo le repliche all’atto di impugnazione, in modo da poter meglio e più rapidamente decidere.

L’intera riforma contenuta nella legge n. 103 del 2017, anche quando detta disposizioni immediatamente precettive in materia di impugnazioni, rivela l’obiettivo di una razionalizzazione delle attività delle parti e del giudice, confidando che, anche per questa via, possa soddisfarsi l’esigenza di una migliore efficacia ed efficienza dei controlli impugnatori.

In questa direzione si coglie la ratio sia della disposizione che ha modificato l’articolo 546 c.p.p., dettando un ordine logico nella motivazione in fatto delle sentenze, sia di quelle che, incidendo sull’articolo 581 c.p.p. hanno elevato in capo alle parti gli oneri di specificità degli atti di impugnazione.

La riforma responsabilizza tutti gli attori processuali, richiamandoli a maggiore ordine e precisione, come soluzione alternativa ad altra, non praticata, di una drastica riduzione dei controlli.

Non è allora estranea alle direttive di delega la disposizione che, in uno con il riconoscimento del diritto all’appello incidentale solo in capo all’imputato, richiami quest’ultimo, quando non sia appellante, alla esigenza di una proposizione per tempo di memorie o richieste di replica all’appello avversario, fermo restando che tale facoltà può comunque esercitarla anche in prossimità della decisione.

La nuova disciplina in tema di appello incidentale ha poi comportato la necessità di abrogare l’articolo 166 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che dispone la comunicazione al procuratore generale dell’appello dell’imputato agli effetti dell’articolo 595 del codice di procedura penale, quando non sia stata proposta impugnazione da parte del procuratore generale.

L’eliminazione della possibilità di appello incidentale del pubblico ministero ha reso obsoleta tale disciplina, che deve, quindi, essere soppressa (articolo 6).

Gli articoli 5 e 9 dello schema sono finalizzati a dare attuazione alla riforma della disciplina delle impugnazioni con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto reati di competenza del giudice di pace.

Riguardo al principio enunciato dall’articolo 1, comma 84, lett. f), che prevede la ricorribilità per cassazione soltanto per violazione di legge delle sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti per i reati di competenza del giudice di pace, si interviene sia sulla disciplina relativa al procedimento davanti al giudice di pace, di cui al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, sia sul codice di procedura penale.  

L’articolo 5 aggiunge il comma 2-bis all’articolo 606 del codice di procedura penale, con cui si prevede che contro le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace il ricorso per cassazione è limitato ai motivi di violazione di legge.  
Tale previsione è necessaria per assicurare il completo recepimento dei principi di delega, in particolare nei casi in cui i reati, pur rientrando nella competenza del giudice di pace, siano attribuiti, per ragioni di connessione ex articolo 6 del decreto legislativo n. 274/2000, alla cognizione del Tribunale.

Al riguardo si osserva, infatti, che il legislatore delegante, nel limitare la ricorribilità per cassazione delle sentenze emesse in grado d’appello ai soli motivi di legittimità, fa riferimento ai procedimenti per reati di competenza del giudice di pace, e non alle sentenze emesse da quest’ultimo giudice.  

In accoglimento delle osservazioni della II Commissione del Senato si è escluso, invece, il riferimento alle sentenze inappellabili, atteso il tenore del criterio di delega in applicazione del quale si è intervenuti, che richiama esclusivamente le sentenze pronunciate in grado di appello.  

L’articolo 7 dello schema introduce, nelle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, l’articolo 165 bis, con cui al comma 1 si stabilisce l’obbligo per il giudice a quo di trasmettere al giudice dell’impugnazione, unitamente al provvedimento impugnato, all’impugnazione e agli atti del procedimento a cui fa riferimento l’articolo 590 del codice di procedura penale, una serie di dati utili per una più agevole e sollecita organizzazione e definizione del giudizio.

In particolare, si tratta dei seguenti dati: nominativi dei difensori, con indicazione della data di nomina; dichiarazioni o elezioni o determinazioni di domicilio, con indicazione delle relative date; termini di prescrizione riferiti a ciascun reato, con indicazione degli atti interruttivi e delle specifiche cause di sospensione del relativo corso, ovvero eventuali dichiarazioni di rinuncia alla prescrizione; termini di scadenza delle misure cautelari in atto, con indicazione della data di inizio e di eventuali periodi di sospensione o proroga.

Il comma 2 prevede invece che, in caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato sia trasmessa alla Corte copia degli atti del processo indicati dal ricorrente nei motivi di gravame ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lett. e), del codice di procedura penale, ovvero attestazione della loro mancanza agli atti del procedimento.   

La norma completa il quadro degli interventi volti a migliorare le procedure in materia di impugnazioni nel senso di una razionalizzazione e di un maggior ordine anche nelle attività meramente preparatorie.
Si è già detto quale sia la direttrice di fondo della riforma, che dà coerenza sistematica sia alle norme immediatamente precettive che ai criteri di delega per l’articolazione della disciplina di completamento.
In quest’ambito si colloca agevolmente la disposizione in esame, che ha lo scopo di assicurare una migliore sinergia tra gli uffici giudicanti, con l’obiettivo di garantire maggiore efficienza e di pervenire ad una più tempestiva conclusione dei giudizi di controllo, in ossequio al principio della ragionevole durata del processo.

Invero, risulta conforme alle esigenze di speditezza e di riduzione dei tempi di definizione del processo, sottese alla riforma, l’attribuzione al giudice a quo del compito di indicare i nominativi dei difensori e le dichiarazioni o elezioni di domicilio.

Egli, infatti, essendo già a conoscenza degli atti e dei dati processuali, può svolgere tale incombente con rapidità sicuramente maggiore rispetto a quella con cui, attualmente, il giudice dell’impugnazione acquisisce i dati necessari per la fissazione dell’udienza, per le notifiche alle parti e ai loro difensori e per gli ulteriori adempimenti preliminari al processo.

Quanto ai termini di prescrizione e di scadenza di eventuali misure cautelari in corso di esecuzione, la preventiva indicazione da parte del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato risponde all’esigenza di porre il giudice dell’impugnazione nella immediata conoscenza dell’urgenza del procedimento, sì da consentirgli la fissazione dell’udienza con la necessaria tempestività.

Allo stesso modo la previsione contenuta nel comma 2 del nuovo articolo 166 bis delle disposizioni di attuazione, riguardante l’allegazione della documentazione necessaria ai fini della decisione, realizza le finalità di razionalizzazione avute di mira dal legislatore delegante.

L’articolo 9 dello schema completa gli interventi volti a regolamentare le impugnazioni relativamente ai procedimenti per reati di competenza del giudice di pace.

Al riguardo si osserva preliminarmente che non si è ritenuto di interpolare la disciplina riguardante i procedimenti innanzi al giudice di pace con riferimento al criterio di cui alla lettera g), sui poteri di impugnazione del procuratore generale, ritenendosi che le modifiche di carattere generale al codice di rito debbano trovare applicazione anche in ordine a tali procedimenti, senza ulteriori interventi ad hoc.

Va in proposito rilevato che, sebbene per i reati di competenza del giudice di pace le funzioni di giudice di secondo grado siano attribuite al tribunale in composizione monocratica, è opinione incontrastata che anche il procuratore generale sia legittimato ad appellare le sentenze del giudice di pace.

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione (Sez. un., n. 22531 del 2005) hanno, infatti, espressamente riconosciuto la legittimazione a proporre appello contro le sentenze del giudice di pace, nei casi previsti dall’art. 36, comma primo, decreto legislativo n. 274/2000, non solo al procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace, ma anche al procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello del relativo distretto.

La Corte ha altresì chiarito che il procedimento attribuito alla competenza del giudice di pace non è speciale, trattandosi di un ordinario processo di cognizione, volto all’accertamento dei fatti e della punibilità dell’accusato, nonché alla determinazione dell’eventuale trattamento sanzionatorio, ed essendo improntato a finalità del tutto simili a quelle perseguite con i procedimenti che si svolgono dinanzi ai giudici competenti per reati di maggiore impatto sociale.

«E proprio in considerazione di questa sua natura il legislatore ha ritenuto allo stesso applicabili "le norme contenute nel codice di procedura penale", fatta eccezione per alcune procedure particolari, non compatibili, tassativamente elencate nell'art. 2 del decreto legislativo n. 274/2000, tra le quali non è compresa quella relativa al riconoscimento e all'esercizio del diritto d'impugnazione. In questa specifica materia deve farsi esclusivo riferimento alle norme dettate dal titolo primo del libro nono del codice di rito e, tra queste in primo luogo, all’art. 570, che disciplina le "impugnazioni del Pubblico Ministero" con l'uso di una formula onnicomprensiva, riferibile sia al Procuratore della Repubblica che al Procuratore Generale ed attribuendo al secondo il potere di proporre impugnazione contro i provvedimenti emessi dai giudici del distretto, anche quando il Pubblico Ministero del circondario abbia già compiuto in merito la sua valutazione positiva o negativa.» - Sez. un., n. 22531 del 2005 –.

Sul presupposto, dunque, che l’intera normativa codicistica sulle impugnazioni, salve espresse eccezioni, trova applicazione anche nel procedimento davanti al giudice di pace, si è ritenuto che ciò valga con riguardo alla nuova disciplina sulla legittimazione all’appello del procuratore generale, senza necessità, sotto questo profilo, di specifici interventi sul decreto legislativo n. 274/2000.

L’articolo 9 dello schema introduce un nuovo articolo, 39-bis, nel decreto legislativo n. 274/2000, disponendo che contro le sentenze pronunciate in grado d’appello il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per i motivi di cui all’articolo 606, comma 1, lettere a), b) e c), del codice di procedura penale.

Coerentemente con il chiaro tenore letterale dell’articolo 1, comma 84, lettera f), legge n. 103/2017, le limitazioni al ricorso per cassazione contro le sentenze pronunciate nell’ambito dei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace riguardano esclusivamente le sentenze emesse in appello e non anche quelle inappellabili.

La ragione del ristretto ambito operativo di tale principio di delega risiede nella necessità di impedire che le decisioni dei magistrati onorari possano essere sottratte a qualsiasi vaglio in punto di motivazione, come si verificherebbe laddove si escludesse la ricorribilità per cassazione delle sentenze inappellabili del giudice di pace per motivi diversi da quelli di cui all’articolo 606, comma 1, lettere a), b) e c) del codice di procedura penale.     
   
Infine l’articolo 10 contiene la clausola di invarianza finanziaria, con cui si dispone che dall’attuazione del decreto non debbono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Con riferimento ai pareri espressi dalle Commissioni parlamentari si rappresenta quanto segue.

Osservazioni formulate dalla II Commissione permanente del Senato:

  1. a. Non è stata accolta l’osservazione sull’articolo 2, comma 1, relativa alla modifica dell’articolo 593 del codice di procedura penale, con particolare riguardo all’invito ad inserire in apposito comma aggiuntivo la clausola di salvezza di quanto previsto dall’articolo 443 del codice di procedura penale in materia di limiti all’appello delle sentenze emesse all’esito del giudizio abbreviato.
    La proposta di un autonomo nuovo comma (3-bis), in luogo della formula d’esordio nel comma 1, non apporta una significativa innovazione rispetto a quanto già oggi la disposizione codicistica e lo schema di decreto che la ripropone intendono chiarire. Sia l’attuale disposizione che lo schema di decreto sono pienamente compatibili con le pronunce della Corte costituzionale a cui le osservazioni della commissione del Senato fanno riferimento.
  2. Non è stato accolto l’invito per modificare l’articolo 443 del codice di procedura penale.
    Riguardo alla proposta di riformulazione del comma 1, si osserva che le declaratorie di illegittimità costituzionale dell’articolo 443 (nello specifico la n. 320 del 2007 e la n. 274 del 2009 in relazione alla parte dell’articolo in cui si esclude l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero, e di assoluzione per non imputabilità derivante da vizio totale di mente da parte dell’imputato) hanno efficacia diretta ed immediata di tipo innovativo. Per tale ragione, la riformulazione della disposizione finirebbe per riproporre, in un modo che non sembra corretto, norme che da anni non operano nell’ordinamento proprio per effetto delle sentenze della Corte costituzionale.
    Non necessaria sembra, poi, la previsione di una clausola che richiami, all’interno della disciplina del giudizio abbreviato, gli articoli 579 e 680 del codice di procedura penale che, contenendo disposizioni generali sulle impugnazioni non espressamente derogate dalla disciplina del rito speciale, hanno sicura applicazione anche nella materia dei controlli sulle sentenze emesse all’esito di giudizio abbreviato.
    Relativamente al commma 2 si è ritenuto di non riprodurre il contenuto dell’articolo 593, comma 3, del codice di procedura penale, in tema di inappellabilità delle sentenze, atteso che l’articolo 593 è norma di carattere generale e come tale trova diretta applicazione in ordine a tutte le sentenze, a prescindere dal tipo di giudizio nel cui ambito sono emesse.
    A conferma di quanto appena indicato si rileva che, mentre la disciplina sull’inappellabilità delle sentenze di cui all’articolo 593, comma 3, del codice di procedura penale (anche nella nuova formulazione) ha carattere oggettivo, essendo costruita in riferimento alla tipologia del provvedimento (sentenze di condanna o di assoluzione), i limiti all’appello contenuti nell’articolo 443 del codice di procedura penale, invece, hanno natura soggettiva, in quanto stabiliti con riguardo alla parte (imputato o pubblico ministero), sulla cui legittimazione all’impugnazione si incide.
    In tal senso è orientata la giurisprudenza (C. Cass., sentenza n. 21176 del 2006), secondo cui l’inappellabilità per il pubblico ministero della sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato, prevista dal comma terzo dell’art. 443 del codice di procedura penale “costituisce una eccezione alla regola generale della appellabilità, fissata dall’art. 593 cod. proc. pen. e fatta rivivere nella seconda parte del comma citato, in relazione alla ipotesi della sentenza di condanna che abbia modificato il titolo del reato. In tale caso, pertanto, il potere di impugnazione del pubblico ministero può avere ad oggetto qualsiasi statuizione adottata e non è limitato alla avvenuta modifica della qualificazione giuridica del reato”.
    Tuttavia, in accoglimento delle osservazioni della Commissione, al fine di superare ogni possibile incertezza circa la portata applicativa dell’articolo 593, comma 3, del codice di procedura penale, nello stesso si è aggiunto l’inciso “in ogni caso” così da esplicitare che la disposizione è estesa a tutte le sentenze, anche quelle emesse all’esito del procedimento speciale.
  3. Non è stato accolto l’invito per la sostituzione dell’articolo 580 del codice di procedura penale, anzitutto per assenza di un criterio direttivo nella legge delega che ne orienti la riscrittura.
    La disposizione dell’articolo 580 ha il duplice fine, da un lato, di assicurare esigenze di economia e concentrazione processuale e, dall’altro, di evitare che si pervenga a giudicati contrastanti.
    La novella introdotta dalla legge n. 46 del 2006, su cui si appunta l’osservazione del Senato, limita la conversione del ricorso al caso di connessione ex articolo 12 del codice di procedura penale: in tal modo si è inteso razionalizzare l’istituto della conversione, rendendolo coerente con le finalità ad esso sottese. Si è, pertanto, passati da un sistema che richiedeva una connessione meramente formale della sentenza ad altro incentrato su una connessione per così dire sostanziale, che esclude da tale meccanismo le ipotesi di “collegamento probatorio” di cui all’articolo 371 del codice di procedura penale, ferma restando l’operatività in caso di sentenze concernenti un unico capo di imputazione (per tutte C. Cass. sentenza n. 2446/2008).
    Alla luce delle considerazioni che precedono, la modifica prospettata non appare ragionevole, né tantomeno in linea con i criteri direttivi della legge di delega, la finalità dei quali è di razionalizzare i procedimenti di impugnazione, anche mediante la semplificazione degli stessi, allo scopo di recuperare efficienza ed assicurare la ragionevole durata del processo.
  4. E’ stato accolto l’invito per la modifica dell’articolo 5 dello schema di decreto, in materia di ricorso per cassazione delle sentenze pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, nel senso di non escludere la ricorribilità per cassazione più ampia, comprensiva dei vizi di motivazione, contro le sentenze inappellabili pronunciate dal Tribunale. 
  5. Non è stato accolto l’invito per l’abrogazione del comma 1 dell’articolo 36 del decreto legislativo n. 274/2000, atteso che la modifica proposta, riguardando l’impugnazione del pubblico ministero delle sentenze del giudice di pace, esula dai principi di delega di cui alla legge n. 103/2017, la quale prevede interventi in materia di procedimenti per reati di competenza del giudice di pace solo con riferimento al ricorso per cassazione.
    La legge di delega, infatti, differenziando nettamente gli interventi volti a modificare la disciplina delle impugnazioni in generale da quelli destinati alle impugnazioni nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace, non consente di estendere i principi dettati per i primi anche ai secondi.
    Per completezza è opportuno evidenziare che la Corte costituzionale (per tutte C. Cost. sent. n. 298 del 2008) ha ripetutamente dichiarato che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, della l. 46/2006, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace.
    Ha così precisato che l’alterazione del trattamento paritario fra le parti, evidenziata in precedenti sentenze della stessa Corte in ordine alla soppressione del potere di appello dell’accusa contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario e abbreviato, “non sono riscontrabili nella specie, dal momento che la limitazione al potere di appello del pubblico ministero non è generalizzata, ma concerne i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale; inoltre, detta limitazione si innesta su un modulo processuale improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario”.