DDL - Modifiche al RD 267/1942 recante disciplina del fallimento - Relazione

Disegno di legge recante: "Modifiche urgenti al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante disciplina del fallimento"

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La vigente legge fallimentare, emanata quasi cinquant'anni fa, è stata oggetto di ripetuti interventi della Corte Costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha dichiarato costituzionalmente illegittime numerose disposizioni in essa contenute. Le sentenze della Consulta talvolta hanno creato lacune, che sono state colmate dalla giurisprudenza in via interpretativa, non senza oscillazioni e contrasti; talaltra, hanno modificato il contenuto precettivo di diversi articoli.
In altri casi, la Corte Costituzionale, pur senza pronunciare l'illegittimità delle disposizioni normative, ha fornito soluzioni interpretative (spesso suggerite dal c. d. diritto vivente) che hanno evidenziato la necessità di interventi del legislatore per renderle più conformi ai dettami costituzionali ed altresì più adeguate alle mutate esigenze operative del settore, nell'ambito del quale continua ad applicarsi una legge che, sorta nel lontano 1942, risente sempre più della difficoltà, da parte degli interpreti, di renderla compatibile con il sistema costituzionale e, al tempo stesso, con il ben diverso contesto economico-sociale.
Non sono poi mancate le segnalazioni di carenze e insufficienze del vigente sistema concorsuale, da parte della dottrina e della giurisprudenza che in questi anni hanno sottoposto i più svariati aspetti del sistema medesimo ad approfondite e costruttive riflessioni.
Anche questo dibattito ha fatto emergere i limiti di una disciplina complessiva ormai inefficiente e fuori dal tempo, a causa delle profonde trasformazioni del Paese nell'ultimo cinquantennio, e di singole sue disposizioni, ormai obsolete, anacronistiche e di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale.
L'enorme numero delle procedure fallimentari e la scarsa funzionalità di alcune previsioni normative, in assenza di un pronto intervento legislativo di riforma hanno, poi, imposto prassi applicative praeter legem, non di rado difformi da tribunale a tribunale.
In questo quadro di riferimento, è forte il disagio degli operatori e degli utenti, i quali si trovano di fronte ad una normativa che, da un lato, "vive" nell'esperienza pratica degli uffici giudiziari secondo modalità diverse da quelle prefigurate nel testo legislativo del 1942 e, dall'altro, non soddisfa, il più delle volte, le attese, né in termini di efficienza, né in termini di garanzie.
Una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali appare, dunque, indilazionabile.
Tuttavia, nell'attesa che ad essa si pervenga, appare urgente un intervento legislativo anticipatorio, teso ad adeguare la normativa vigente, senza sconvolgerne l'impianto, in modo da consentire che le procedure pendenti e quelle sopravvenienti possano, da subito, svolgersi secondo regole più chiare e certe e concludersi, per quanto possibile, in tempi più brevi.
L'urgenza di tale intervento è vieppiù rafforzata dall'entrata in vigore del nuovo articolo 111 della Costituzione, che impone l'adeguamento, nel più breve tempo possibile, di tutti i procedimenti giurisdizionali e, quindi, anche delle procedure concorsuali, ai principi da esso introdotti.
Si é, quindi, delineata la necessità di emettere un provvedimento normativo che valga a colmare le descritte esigenze, in attesa dell'auspicato varo della riforma dell'intero sistema concorsuale.

Con l'articolo 1 si propone l'abrogazione del secondo comma dell'art. 1; l'intervento scaturisce dal necessario adeguamento alle pronunce della Corte costituzionale che hanno toccato tale norma, nonché dell'esigenza di evitare le sperequazioni scaturenti dalla disposizione per la quale le società commerciali non possono essere in nessun caso considerate piccoli imprenditori. Il riferimento all'imposta di ricchezza mobile, quale parametro per la identificazione dei "piccoli imprenditori", è venuto meno a seguito dell'abolizione di tale imposta, disposta dall'art. 82 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597.
La Corte costituzionale, con sentenza 22 dicembre 1989, n. 570, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di detto secondo comma, come modificato dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1357, nella parte in cui prevede il tetto di lire novecentomila, quale limite del capitale investito nell'azienda, non oltre il quale gli imprenditori esercenti un'attività commerciale "sono considerati piccoli imprenditori".
A fronte di un diritto vivente attestato sull'esclusione dal novero dei piccoli imprenditori delle società commerciali anche di modeste dimensioni, senza preoccupazione di un loro disparitario trattamento rispetto alle società artigiane (la questione di legittimità costituzionale è stata ritenuta infondata dalle sentenze della Corte costituzionale 266/1994 e 490/1994), soltanto il legislatore può porre riparo ad un'evidente situazione di irragionevole diverso trattamento di realtà economiche sostanzialmente identiche, raccogliendo il segnale eloquente contenuto nella pronuncia della Corte costituzionale 54/1991, che ha dichiarato l'inammissibilità della questione.
In attesa di una globale riforma delle procedure concorsuali pare, perciò, opportuno limitare l'intervento modificativo alla semplice abrogazione del comma in questione, lasciando alla giurisprudenza il compito di individuare i parametri di qualificazione dei "piccoli imprenditori", anche quanto alle società commerciali.

Con l'art. 2. si prevede l'abrogazione dell'art. 4 della legge fallimentare.
L'abrogazione del primo comma è conseguenza della abolizione della professione dell'agente di cambio. Per gli agenti di cambio ancora operanti, in base alla disciplina dell'art. 201 del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, occorre dettare una disposizione transitoria, per la quale a loro continua ad applicarsi l'art. 4, comma primo, sino all'esaurimento del ruolo.
L'abrogazione del comma secondo, che prevede il cd. "fallimento fiscale", è conseguenza della abrogazione dell'art. 97, comma terzo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in virtù dell'art. 16 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471. Detto art. 97, comma terzo, che disciplinava il fallimento del contribuente per debito di imposta, era già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 9 marzo 1992, n. 89.

Con l'art. 3 si prevede l'introduzione, dopo l'articolo 9 della legge fallimentare, di un articolo 9 bis intitolato: "Fallimento dichiarato da tribunale incompetente. In base alla normativa vigente, la sentenza di fallimento pronunciata da un tribunale incompetente è nulla: tale nullità può essere dichiarata sia all'esito del giudizio di opposizione ex art. 18 l. fall. sia a seguito di regolamento di competenza dinanzi alla Corte di cassazione.
La dichiarazione di nullità comporta che vengano poste nel nulla tutte le attività processuali compiute nell'ambito della procedura fallimentare aperta dalla sentenza dichiarata nulla.
Vengono altresì, meno le iniziative giudiziali prese dal curatore di detta procedura.
Le conseguenze di tale disciplina sono particolarmente gravi, in quanto: a) se non è già stata emessa sentenza di fallimento dal tribunale dichiarato competente, questo tribunale deve iniziare ex novo il procedimento per dichiarazione di fallimento; b) nel frattempo, potrebbero essere decorsi i termini di cui agli artt. 10, Il e 147 1. fall., il cui decorso non è interrotto dalla sentenza nulla (proprio perché nulla); c) i termini a ritroso stabiliti dagli artt. 64 e seguenti 1. fall. per la inefficacia o la revoca di atti pregiudizievoli ai creditori (compiuti nell'anno o nel biennio anteriore alla dichiarazione di fallimento) si computano a far data non dalla sentenza di fallimento dichiarata nulla, ma solo da quella, eventualmente successiva, emessa dal tribunale riconosciuto competente, sicché potrebbero essere già decorsi al momento in cui questo tribunale provvede; d) le attività processuali compiute nell'ambito della procedura dinanzi al tribunale incompetente non hanno valore e sono inutilizzabili nella procedura aperta dal tribunale competente, nella quale occorre, dunque, rifare tutto ex novo (così, per es., i creditori debbono presentare nuovamente le loro domande di ammissione al passivo e si deve procedere ad una nuova verifica del passivo); e) le azioni promosse dal curatore del fallimento "nullo" (per revocatorie, recupero di crediti, ecc.) non possono proseguire.
Per ovviare a tali gravi inconvenienti si propone di introdurre sotto un nuovo art. 9-bis le disposizioni sopra formulate.
La competenza nel vigente ordinamento processuale non è considerata come un presupposto processuale, la cui mancanza sia causa di nullità del processo. Tale principio è sancito già nell'art. 50 del vigente codice di rito. La recente "novella" del 1990 ha ulteriormente ridotto la rilevanza della competenza, anche inderogabile, nel processo civile (art. 38 c.p.c.).
A tale stregua la disciplina della competenza alla dichiarazione di fallimento può essere opportunamente modificata.
Fermo restando il carattere inderogabile di detta competenza, non pare giustificabile che tale carattere debba inesorabilmente comportare la assoluta nullità della sentenza pronunciata dal tribunale incompetente e di tutti gli atti dipendenti.
Si ritiene, perciò, che la sentenza di fallimento, emessa da tribunale incompetente, non deve essere dichiarata nulla, ma al contrario deve essere riconosciuta comunque valida e, dunque, idonea a fondare una procedura altrettanto valida.
A tal fine si prevede che il tribunale, che si dichiara (all'esito del giudizio di opposizione ex art. 18 l. fall.) o è dichiarato (dalla Corte di appello o dalla Corte di cassazione) incompetente, deve subito trasmettere gli atti al tribunale dichiarato competente, perché la procedura di fallimento possa proseguire dinanzi a quest'ultima tribunale. E' così escluso: a) che alla dichiarazione. di incompetenza debba conseguire la dichiarazione di nullità della sentenza di fallimento; b) che si debba iniziare un nuovo procedimento per dichiarazione di fallimento; c) che la procedura svoltasi dinanzi al tribunale incompetente sia travolta e posta nel nulla. Si prevede, invece, espressamente che tutti gli atti compiuti, fino alla data della dichiarazione di incompetenza, "restano salvi". Ciò corrisponde all'esigenza di conservazione degli atti prodotti e contemporaneamente cerca di scoraggiare l'utilizzo strumentale della questione di competenza al solo fine di travolgere gli atti della procedura. E' peraltro evidente che il giudice dichiarato competente disporrà di tutti i poteri di valutazione sugli atti che la legge gli attribuisce nella fase in cui avviene la translatio iudicii.
Per la "prosecuzione" della procedura (non dunque per la sua "rinnovazione "), il tribunale, cui sono trasmessi gli atti, se non ha già a sua volta emesso in precedenza sentenza di fallimento, provvede, di ufficio, a dare le disposizioni del caso, con decreto in camera di consiglio; esso, in particolare, provvede alla nomina del giudice delegato e del curatore.
Qualora l'incompetenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento sia dedotta nel giudizio di opposizione ex art. 18 1. fall. insieme con questioni attinenti al merito (in particolare, sussistenza o meno dei presupposti sostanziali del fallimento), sembra opportuno che su tali questioni pronunci il tribunale dichiarato competente, salvaguardando così il carattere inderogabile della sua competenza. Si prevede, perciò, che, ove si accerti l'incompetenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento e dinanzi al quale è stata proposta (come si doveva necessariamente fare) l'opposizione, il giudice che decide (lo stesso tribunale, la Corte di appello o la Corte di cassazione) deve limitarsi a dichiarare l'incompetenza di quel tribunale e a designare il tribunale ritenuto competente, senza dichiarare la nullità della sentenza di fallimento, né pronunciare sulle questioni di merito; per la decisione di tali questioni, la causa deve essere riassunta dinanzi al tribunale dichiarato competente, in applicazione dell'art. 50 c.p.c., sicché il giudizio di opposizione, una volta riassunto, a cura di parte, continuerà davanti a tale tribunale.
Le altre disposizioni proposte mirano a regolare ulteriori evenienze processuali, in conseguenza della prosecuzione della procedura dinanzi al tribunale dichiarato competente.
La disposizione che attribuisce al tribunale dichiarato competente la competenza a conoscere tutte le azioni che derivano dal fallimento, eccettuate le azioni reali immobiliari, vale a raccordare la nuova disciplina a quella dell'art. 24 1. fall.
La disposizione che prevede la interruzione automatica, da dichiararsi di ufficio, dei giudizi in corso, in cui è parte il curatore del fallimento aperto dal tribunale incompetente, e la possibilità che tali giudizi siano proseguiti o riassunti vuole evitare che essi cadano nel nulla e consentire, invece, che possano essere recuperati con il subingresso del nuovo curatore, facendo applicazione degli artt. 302 e 303 c.p.c. Per l'ipotesi che taluni di questi giudizi pendano dinanzi a un tribunale non competente secondo la regola di raccordo con l'art. 24 1. fall., si prevede che l'incompetenza, una volta proseguito o riassunto il giudizio, sia rilevata, anche d'ufficio, anche oltre la prima udienza di trattazione, in deroga l'art 38, comma 1, c.p.c., non essendo possibile rispettare detto limite nella vicenda processuale in esame; pare opportuno, tuttavia, stabilire che la rilevabilità della incompetenza sia limitata al primo grado del processo.

Con l'art. 4 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti della sentenza della Corte Costituzionale del 21 luglio 2000, n. 319, con cui l'art. 10 della legge è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che le società non possano più essere dichiarate fallite decorso un anno dalla cancellazione di esse dal registro delle imprese. L'aggiunta proposta non fa che adeguare il testo normativo alla pronuncia. Si precisa che il termine annuale riguarda solo le società iscritte, giacché, ovviamente, solo queste possono essere cancellate. Quanto alle società non iscritte (società di persone di fatto o semplicemente irregolari), appare preferibile non dettare una specifica disposizione, sicché esse continuano ad essere soggette a fallimento senza alcun limite temporale; ipotizzare per esse un termine decorrente dalla cessazione di fatto dell'attività (come è previsto per l'imprenditore individuale) finirebbe per avvantaggiare tali società rispetto alle società iscritte: per queste ultime, infatti, il termine comincia a decorrere solo dalla cancellazione, che è adempimento conclusivo della liquidazione e che, dunque, è successivo alla cessazione dell'attività imprenditoriale. D'altro canto, la mancata iscrizione nel registro delle imprese è una scelta dei soci, per cui il non poter usufruire del termine annuale è conseguenza che dipende dalla loro volontà. La legge, infine, non può non sanzionare la violazione delle norme che impongono l'iscrizione nel registro.

Con l'art. 5 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti della sentenza della Corte costituzionale 16 luglio 1970, n. 141, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 15 "nella parte in cui non prevede l'obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura di tale procedimento ". Esso deve perciò essere riscritto per disciplinare le forme essenziali del procedimento camerale per dichiarazione di fallimento, secondo i principi costituzionali degli articoli 24 e 111 Cost. Va, in particolare, evidenziato che l'esigenza di una nuova disciplina discende, altresì, dal principio, affermato nel nuovo art. 111 Cost., per cui "ogni processo deve essere regolato dalla legge".
La norma, nella formulazione proposta, è ricalcata sulla corrispondente norma del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, sull'amministrazione straordinaria (art. 7: "1. Prima di provvedere, il tribunale convoca l'imprenditore, il ricorrente e il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, il quale può designare un delegato per la comparizione o far pervenire un parere scritto. L'audizione può essere delegata dal tribunale ad tino dei componenti del collegio. 2. Tra la data della comunicazione dell'avviso di convocazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni liberi. Il termine può essere abbreviato dal tribunale, con decreto motivato, se ricorrono particolari ragioni di urgenza "), anche allo scopo di assicurare una uniformità di disciplina. Il concetto di attività "istruttoria" va inteso in senso compatibile con la necessaria sommarietà della fase. Il sistema, peraltro, rispecchia, razionalizzandola, la prassi corrente presso quasi tutti i tribunali italiani.

Con l'art. 6 si propone la modifica del n. 4 del secondo comma dell'art. 16 che mira ad introdurre un termine congruo, ma effettivo, entro il quale i creditori e i terzi interessati sono tenuti a presentare le loro domande in cancelleria, in modo da consentire al giudice delegato ed al curatore di esaminarle preventivamente, evitando che la presentazione di domande all'ultimo minuto, perfino nel corso dell'adunanza per l'esame dello stato passivo (com'è oggi permesso dall'art. 96), possa costringere ad uno o più rinvii dell'adunanza medesima, allungando i tempi della procedura.
La proposta modifica del n. 5 vuole eliminare la previsione di un termine, per l'adunanza di cui innanzi, troppo breve e di fatto non osservato nella prassi.
Il quarto comma (che prevede l'emanazione dell'ordine di cattura del fallito da parte del tribunale con la stessa sentenza di fallimento o con decreto successivo) deve ritenersi già venuto meno in virtù dell'art. 214 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, ai sensi del quale sono abrogate le disposizioni di leggi o decreti che prevedono l'arresto o la cattura da parte di organi giudiziari che non esercitano funzioni penali. L'espressa abrogazione, perciò, non è altro che un mero adeguamento del testo normativo.

Con l'art. 7 si propone la modifica del primo comma dell'art. 17 che mira a consentire al debitore la conoscenza integrale della sentenza di fallimento, affinché egli possa esercitare adeguatamente e tempestivamente il suo diritto di difesa (art. 24 Cost.), mediante l'opposizione disciplinata dall'art. 18. La notificazione, infatti, a differenza della comunicazione (che, a norma dell'art. 136 c.p.c., è "una forma abbreviata" di partecipazione, con cui si dà notizia di un provvedimento), avviene, a nonna dell'art. 137, comma 2, c.p.c., "mediante consegna al destinatario di una copia conforme dell'atto da notificarsi". Soltanto la notificazione, dunque, permette al fallito di conoscere la motivazione della sentenza. Essa, come espressamente prevede l'art. 137, comma 1, c.p.c., può essere eseguita anche su richiesta del cancelliere.
La proposta modifica del secondo comma dello stesso art. 17 non è altro che un inevitabile adeguamento della norma alla prassi corrente, che vede la sentenza di fallimento affissa all'albo del tribunale, anziché alla porta esterna: l'attuale disposizione, oltreché anacronistica, è praticamente inattuabile.
L'abrogazione del terzo comma ( "l'estratto della sentenza è inoltre pubblicato nel foglio degli annunzi legali della provincia a cura del cancelliere ") è conseguente all'abolizione del foglio degli annunzi legali.

Con l'art. 8 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti della sentenza della Corte costituzionale del 27 novembre 1980, n.151, con cui l'art. 18 comma 1 l.f. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per fare opposizione decorra per il debitore dalla affissone della sentenza di fallimento. La Corte costituzionale non ha, però, precisato da quale diversa evento il termine debba decorrere. La giurisprudenza prevalente ritiene che esso decorra dalla comunicazione fatta dalla cancelleria per estratto a norma dell'art. 17, comma 1; non mancano, però, pronunce nel senso della decorrenza dalla notificazione fatta da una delle parti e/o dal curatore. Per eliminare dubbi e incertezze, il vuoto creato dalla sentenza di incostituzionalità va colmato con una precisa indicazione normativa. Ciò anche in ossequio al principio costituzionale della regolamentazione per legge di "ogni processo". Va tenuta, d'altro canto, presente l'esigenza di un coordinamento con la nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria, contenuta nel decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270.
Si propone, perciò, di modificare il primo comma dell'art. 18 nel senso di stabilire che il termine per proporre opposizione sia di trenta (e non più di quindici) giorni, uniformandolo a quello previsto dall'art. 9 d. lgs. 270/1999 (nonché dall'attuale art. 195, quarto comma, 1. fall.) e che esso decorra per il debitore dalla notificazione fatta su richiesta del cancelliere (non della controparte o del curatore), mentre per gli altri interessati dall'affissione.
Si propone, altresì, che sia espressamente stabilito che, in ogni caso, ossia indipendentemente dalla notificazione, dalla comunicazione e dalla affissione, l'opposizione non può più proporsi, una volta che sia decorso un anno dalla pubblicazione, vale a dire dal deposito in cancelleria, della sentenza.
Si vuole, con ciò, rendere applicabile anche alla sentenza di fallimento il disposto dell'art. 327, comma 1, c.p.c., eliminando dubbie perplessità sorti in dottrina e giurisprudenza al riguardo.
L'aggiunta risponde ad evidenti esigenze di certezza e stabilità.
L'abrogazione del comma terzo dell'art. 19 (secondo cui "il termine per appellare è di quindici giorni dalla notificazione della sentenza") è una conseguenza dell'allungamento a trenta giorni del termine per proporre l'opposizione a norma dell'art. 18: portato quel termine a trenta giorni, non avrebbe senso mantenere per l'appello un termine più breve di quello ordinario, che, a norma dell'art. 325 c.p.c., è pure di trenta giorni. Abrogato il comma in esame, l'appello rimane disciplinato dalle norme del codice di rito.

Con l'art. 9 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti delle varie pronunce di incostituzionalità della norma, emesse nel corso degli anni dalla Corte costituzionale. La Corte di cassazione lo ha "costituzionalizzato" per via interpretativa, per cui esso oggi ha, nel "diritto vivente", un contenuto precettivo di gran lunga difforme dalla sua formulazione letterale. Si impone, dunque, una ristruttura ex novo della norma, che tenga conto delle indicazioni già date dalla Corte costituzionale, della giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione e dei principi affermati dal nuovo art. 111 Cost., in particolare quanto al rispetto del contraddittorio, alla terzietà del giudice ed alla necessità di una disciplina legislativa del procedimento.
Nel testo che si propone di adottare:
a) si parla di "provvedimenti" e non più di "decreti ", poiché è comune convinzione che il reclamo sia esperibile anche contro i provvedimenti dati in forma di ordinanza, in particolare quelli in tema di liquidazione dell'attivo (stanti il richiamo delle disposizioni del codice di procedura civile sulle vendite, contenuto nell'art. 105 e l'esplicito riferimento all'ordinanza contenuto nell'art. 108, comma 2), per i quali il rimedio ex art. 26 surroga l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.;
b) si richiama espressamente l'art. 739 c.p.c., recependo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, per inquadrare il rimedio in un ben preciso paradigma normativo;
c) si prevede il termine di dieci giorni (mutuato dall'art. 739 c.p.c.) per tutti i provvedimenti del giudice delegato, e non soltanto per quelli a contenuto decisorio (come, invece, è attualmente, nella versione "costituzionalizzata" data dalla giurisprudenza), per evidenti ragioni di uniformità di disciplina di un mezzo di impugnazione, che è unico per tutti i provvedimenti, in modo da evitare incertezze e dubbi sulla qualificazione del provvedimento da impugnare;
d) si prevede che detto termine decorra dalla notificazione o dalla comunicazione, quando il reclamo sia proposto dal curatore, dal fallito o da un determinato soggetto destinatario del provvedimento (colui che ha chiesto o nei cui confronti è stato chiesto il provvedimento), mutuando l'analoga previsione dell'art. 739, comma 2, c.p.c., per l'esigenza che, in tali casi, il termine decorra dalla notizia "ufficiale" del provvedimento, in qualunque forma sia data, ma in maniera da non lasciar dubbi sul dies a quo;
e) si prevede che la comunicazione integrale del provvedimento fatta dal curatore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento equivalga a notificazione in modo da far decorrere comunque il termine in presenza di un formale atto di partecipazione che dà adeguate garanzie di certezza, ancorché non sia posta in essere la forma solenne della notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario (recependo anche l'indicazione delle sentenze di illegittimità costituzionale degli articoli 98 e 100, che individuano il dies a quo del termine per la opposizione allo stato passivo e la impugnazione dei crediti ammessi nella data di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento spedita dal curatore);
f) si prevede che il termine decorra dal deposito in cancelleria o dall'affissione (quest'ultima per i provvedimenti che devono essere assi, come quelli con cui si dispongono le vendite all'incanto o senza incanto) per ogni altro interessato (creditore o terzo), al quale non si debba fare comunicazione o notificazione, non essendo destinatario del provvedimento, allo scopo di evitare che il provvedimento rimanga a lungo esposto all'impugnativa da parte di un soggetto nei confronti del quale il termine di dieci giorni non potrebbe mai iniziare a decorrere, se non imponendo alla cancelleria o al curatore il gravosissimo onere di comunicare o notificare ogni provvedimento a qualunque interessato;
g) si prevede che in ogni caso, ossia indipendentemente dalla comunicazione, notificazione o affissione, il reclamo non è più proponibile, una volta che sia decorso un anno dal deposito del provvedimento in cancelleria, rendendo applicabile anche al reclamo la disposizione dell'art. 327, comma 1, c.p.c., per evidenti esigenze di certezza e stabilità;
h) si prevede che il tribunale, prima di pronunciare, deve sentire il reclamante, il curatore e gli eventuali controinteressati, per assicurare il rispetto del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del contraddittorio (art. 111 Cost.);
i) si stabilisce (come analogamente dispone l'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c., per il reclamo contro i provvedimenti cautelari) che del collegio non può far parte il giudice delegato, suo essendo il provvedimento impugnato, in ossequio al principio del "giudice terzo e imparziale" (art. 111 Cost.);
j) si mantiene, infine, la regola (enunciata nell'attuale comma 3 dell'art. 26), per cui il reclamo non ha effetto sospensivo, allo scopo di evitare reclami meramente strumentali.

Con l'art. 10 si propone la modifica dei primi due commi dell'art. 34, onde rendere più agile e snella la gestione delle disponibilità liquide del fallimento. L'uso del termine "banca" in luogo dell'originario "istituto di credito" deriva dalla definizione contenuta nell'art. 1 del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385 ("Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia"), secondo cui "l'espressione «banca» indica l'impresa autorizzata all'esercizio dell'attività bancaria".

L'art. 11 risponde ad un'evidente esigenza di snellimento nella gestione della procedura e di alleggerimento del carico di lavoro del tribunale in composizione collegiale, inutilmente oberato del vaglio di questioni spesso di minima incidenza economica e di marginale rilievo per la procedura, impone l'aggiornamento del limite di decisione del giudice delegato, nell'integrazione dei poteri del curatore per gli atti previsti dalla disposizione, dall'ormai risibile soglia di lire 200.000, fissata dall'art. 1 della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 (che aveva elevato l'originario limite di lire 10.000), a quella di almeno euro 15.000, con la previsione, per un suo costante aggiornamento, di un meccanismo di periodico adeguamento in base a decreto del Ministro della giustizia.

L'art. 12 propone la modifica del n. 3 dell'art. 46 della legge, onde coordinare la disposizione con il vigente regime patrimoniale della famiglia, quale risulta dalla riforma di cui alla legge 19 maggio 1975, n. 1 Sl. Infatti, il "patrimonio familiare", cui ancora si riferisce l'attuale disposizione della legge fallimentare, è stato soppresso e sostituito dal "fondo patrimoniale ". L'esclusione dal fallimento dei beni del fondo e dei frutti di essi ed il richiamo all'art. 170 del codice civile, che disciplina l'esecuzione forzata sugli stessi beni e frutti, valgono a rendere uniforme il regime dell'esecuzione fallimentare e quello dell'esecuzione individuale.
L'abrogazione del n. 4 è conseguenza della soppressione dell'istituto della dote (art. 166-bis c.c.).

Con l'art. 13 si propone la modifica dell'art. 48 l.f., che intende adeguare la norma alla garanzia costituzionale della libertà e della segretezza della corrispondenza (art. IS Cost.). La limitazione attualmente prevista non appare più giustificabile per le persone fisiche, mentre può ancora risultare funzionale agli scopi della procedura quanto alle società o agli enti dichiarati falliti.

Con l'art. 14 si propone la modifica dell'art. 49, onde adeguare la norma alla garanzia costituzionale della libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Viene, quindi, eliminato il divieto per il fallito di allontanarsi dalla sua residenza senza il permesso del giudice delegato. Appare, tuttavia, necessario, ai fini della procedura, che il fallito, quanto meno, sia tenuto a comunicare al curatore l'eventuale cambiamento della sua residenza.

Con l'art. 15 si presente la proposta modifica dei commi secondo e terzo dell'art. 50 della legge, onde eliminare il carattere sanzionatorio-afflittivo della dichiarazione di fallimento, ormai non più rispondente alla attuale sensibilità sociale. Il dissesto non è più visto come una "colpa" dell'imprenditore, da cui debba scaturire una valutazione di inaffidabilità' sociale (decoctus ergo fraudator), essendo, invece, soltanto una vicenda dell'impresa. In questa prospettiva le incapacità personali conseguenti al fallimento non possono essere altro che un riflesso degli effetti di carattere patrimoniale e debbono, perciò, essere limitate alla durata della procedura, non avendo più ragion d'essere una volta che questa sia cessata. A tale stregua, si prevede che l'iscrizione nel registro dei falliti sia cancellata di ufficio in seguito alla chiusura del fallimento e che le incapacità personali stabilite dalla legge a carico del fallito vengano automaticamente meno non appena cessata la procedura fallimentare. I due concetti (chiusura del fallimento e cessazione della procedura fallimentare) debbono sostanzialmente considerarsi equivalenti e fanno riferimento ai casi di emanazione dei provvedimenti di cui agli articoli 118 e 136 della legge fallimentare.

Con l'art. 16 si avanza la proposta di recepire la recente pronuncia di illegittimità costituzionale del terzo comma dell'art. 54, "nella parte in cui non richiama, ai fini dell'estensione del diritto di prelazione agli interessi maturati sui crediti privilegiati, l'art. 2749 c.c. " (sentenza 28 maggio 2001, n. 162).

Con l'art. 17, abrogando l'art. 70 della legge, si recepisce la giurisprudenza della Corte suprema' (Cass.-sez. un. 5291/1997), la quale ritiene non più vigente nel nostro ordinamento, a seguito della riforma del diritto di famiglia, l'istituto della cd. "presunzione muciana".

Con l'art. 18 si propone la modifica dell'art. 84, che vuole escludere sia il giudice delegato che il giudice di pace da un'attività obiettivamente dispendiosa e nella prassi spesso desueta, qual è l'apposizione dei sigilli, per rimettere interamente al curatore, in quanto pubblico ufficiale. Il ricorso diretto alla forza pubblica ha lo scopo assicurare la piena effettività delle ricognizioni dell'attivo, così da evitare comportamenti ostruzionistici impedimenti di mero fatto. L'abrogazione dell'art. 85 e le proposte modifiche dell'art. 86 sono conseguenti alla modifica dell'art. 84.

Con l'art. 19 si avanzano proposte di modifica che mirano a snellire e semplificare l'attività di inventariazione, rimettendola al solo curatore ed eliminando l'intervento del cancelliere, del tutto superfluo e spesso causa di ritardi.

Con l'art. 20 si propone la modifica dell'attuale art. 90, comma primo, che consente al tribunale di disporre la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa del fallito solo "quando dall'interruzione improvvisa può derivare un danno grave e irreparabile ". Tale previsione appare troppo restrittiva, in quanto può essere opportuno, nell'interesse dei creditori, continuare l'esercizio dell'impresa per conservare la funzionalità del complesso produttivo, e quindi il maggior valore dell'organizzazione aziendale, anche qualora non ricorrano gli estremi del "danno grave e irreparabile". Si propone, perciò, una modifica della disposizione nel senso di rimettere al tribunale la valutazione della convenienza dell'esercizio provvisorio subito dopo la dichiarazione di fallimento.

Con l'art. 21 si propone la modifica dell'art. 92, coerente con la nuova formulazione delle disposizioni degli artt. 16, n. e 96.

Con l'art. 22 si propone la modifica del criterio di elezione del domicilio; invero l'elezione di domicilio nel comune ove ha sede il tribunale (imposta dall'attuale art. 93, comma 2) , anziché in uno dei comuni del circondario, è un anacronismo, che penalizza fortemente i creditori senza alcuna giustificazione. L'abrogazione del terzo comma ( "I documenti non presentati con la domanda devono essere depositati prima dell'adunanza di verifica") è coerente con la disposizione dell'art. 96, la quale consente la produzione di documenti anche nel corso dell'adunanza.

Con l'art. 23 si propone l'abrogazione del quarto comma dell'art. 95, onde adeguare la norma alla prassi corrente, nella quale raramente lo stato passivo è deposito in cancelleria prima dell'adunanza.

Anche il testo dell'art. 24, di modifica del primo comma dell'art. 96, è un mero adeguamento della norma alla prassi corrente. Viene, altresì, esclusa la facoltà di presentare nel corso della stessa adunanza nuove domande di ammissione al passivo, per le finalità illustrate riguardo all'art. 16.

Con l'art. 25 si propone la modifica dell'attuale art. 97 della legge. Il nuovo primo comma vuole semplificare le previsioni contenute negli attuali commi primo e secondo. Pare opportuno che la decorrenza dell'esecutività sia collegata alla data del deposito in cancelleria e non ad una data anteriore, per rispettare la regola generale per la quale i provvedimenti giudiziali acquistano efficacia dalla data di pubblicazione. Il nuovo secondo comma riproduce la disposizione della seconda parte dell'attuale comma secondo, aggiungendo ai creditori il fallito, cui certo non si può negare il diritto di prendere visione dello stato passivo.
Il nuovo terzo comma recepisce la pronuncia della Corte costituzionale 22 aprile 1986, n. 102, la quale ha statuito che il curatore è tenuto a dare notizia, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, dell'avveduto deposito dello stato passivo a tutti i creditori che hanno presentato domanda di ammissione al passivo.

Con l'art. 26 si propone la modifica dell'attuale art. 98 della legge. La modificazione del primo comma, in cui si prevede la decorrenza del termine dalla ricezione della raccomandata, anziché dal deposito dello stato passivo in cancelleria, come invece prevede il testo attuale, è imposta dalla sentenza di illegittimità costituzionale 22 aprile 1986, n. 102. Pare opportuno, però, richiamare espressamente anche il termine massimo di un anno dal deposito in cancelleria, previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c.
Nel secondo comma si precisa che il termine per la notificazione del ricorso e del decreto al curatore è perentorio, onde eliminare ogni dubbio al riguardo; d'altro canto, la qualificazione del termine come perentorio è contenuta negli attuali comma secondo dell'art. 100 e comma secondo dell'art. 101 e non si vede la ragione di una differente formulazione.
L'introduzione nello stesso secondo comma di un termine per la comunicazione al creditore opponente da parte della cancelleria del decreto di fissazione dell'udienza, con la precisazione che da tale comunicazione decorre il termine per la notificazione al curatore, è resa necessaria dalla sentenza di illegittimità costituzionale 30 aprile 1986, n. 120. Il termine di quaranta giorni (anziché di quindici, come previsto da tale pronuncia) scaturisce dall'esigenza di coordinamento con le disposizioni del comma seguente.
Le modifiche del terzo comma mirano ad omologare la fase introduttiva del giudizio di opposizione alla fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, com'è oggi disciplinata a seguito della riforma del codice di rito, rispettando, tuttavia, le peculiarità della prima.
Si prevede un termine perentorio per la costituzione del curatore, anteriore all'udienza, allo scopo di rendere operanti le decadenze di cui all'art. 167 c.p.c., nel nuovo testo risultante dalla "novella" del 1990. Le esigenze di celerità e speditezza della procedura fallimentare, dal cui tronco originano i giudizi di opposizione allo stato passivo, consigliano di ridurre alla metà il termine stabilito da detto articolo, il quale, del resto già prevede un minor termine di dieci giorni in caso di abbreviazione dei termini a norma dell'art. 163-bis c.p.c. L'udienza di cui all'art. 180 c.p.c. è sicuramente da identificarsi in tali giudizi nell'udienza fissata dal giudice delegato a norma del comma 2 dell'art. 98 in esame. Stabilito per il curatore convenuto un termine di dieci giorni prima di detta udienza, il termine per la costituzione dell'opponente non può che essere anteriore; sembra possa essere congruamente fissato in almeno venti giorni prima della medesima udienza, tenendo conto anche dei termini di cui al comma precedente (termine per la notifica da parte dell'opponente e termine per la comunicazione del decreto di fissazione dell'udienza da parte della cancelleria). Termini più lunghi imporrebbero un troppo ampio intervallo di tempo tra la data del decreto di fissazione dell'udienza e la data dell'udienza stessa. Sembra, poi, opportuno, mantenere la sanzione della decadenza per la mancata costituzione dell'opponente nel termine stabilito, allo scopo di conseguire al più presto l'intangibilità del provvedimento del giudice delegato; ed è, altresì, opportuno che: a) sia precisato che la costituzione dell'opponente consiste nell'iscrizione della causa a ruolo, richiamando implicitamente, per quanto applicabile, l'art. 165 c.p.c.; b) sia precisato che il contenuto della sanzione consiste nell'estinzione del processo, da dichiararsi di ufficio; onde evitare che la sanzione possa essere vanificata dal regime attuale dell'art. 307, comma 4, c.p.c.
Il quarto comma riproduce l'attuale, prevedendo, senza variazioni, la possibilità dell'intervento in causa degli altri creditori.

Con l'art. 27 si propone una riformulazione dell'art. 99, per adeguarne la disciplina al nuovo rito del processo civile ed alle esigenze manifestate dalla prassi.
Nel primo comma si prevede che il giudice delegato provvede all'istruzione delle varie cause di opposizione a norma degli articoli 175 e seguenti c.p.c., richiamando così tutte le disposizioni del codice che disciplinano l'istruzione della causa. Non si fa più riferimento (come invece nel testo attuale) all'udienza per la discussione davanti al collegio, essendo tale udienza stata abolita dalla riforma del 1990. Si prevede, altresì, che il giudice disponga la riunione delle cause di opposizione solo quando ne ravvisi l'opportunità. Ciò risponde alla prassi corrente, nella quale di rado si procede alla trattazione di tutte le opposizioni in un unico processo, preferendosi la trattazione separata di ognuna, che è sicuramente più semplice e spedita. Può risultare, tuttavia, in concreto opportuna una trattazione congiunta di più opposizioni, ma tale valutazione non può che essere rimessa al giudice.
Il secondo comma riproduce l'attuale, coordinandolo col primo, che prevede solo come eventuale la riunione delle cause. Il riferimento alla rimessione al collegio, contenuto nel testo attuale, è del tutto superfluo, dovendo trovare applicazione le corrispondenti disposizioni del codice di rito; se ne propone, perciò, l'eliminazione.
Nel comma terzo è eliminata la disposizione della prima parte del testo attuale, non essendo congruente con la mera eventualità della riunione delle cause. La disposizione della seconda parte è, invece, integralmente riprodotta, non sussistendo ragioni per eliminarla o variarla.
Nel quarto comma si propone di conservare saltato la disposizione per la quale la sentenza è provvisoriamente esecutiva. La previsione dell'affissione della sentenza alla porta esterna del tribunale, oltre ad essere un inattuato e inattuabile anacronismo, è del tutto inutile, poiché a tale adempimento formale non è più collegabile la decorrenza del termine per l'appello, in forza della sentenza della Corte costituzionale 27 novembre 1980, n. 152. Viene conseguentemente a cadere anche la previsione dell'immediato avviso dell'avveduta pubblicazione ad opera del cancelliere; eliminata tale disposizione, rimane applicabile la comune disciplina della comunicazione della sentenza dettata dal codice di rito, alla quale non occorre fare alcun richiamo.
Il quinto comma lascia inalterati i termini attualmente previsti per l'appello (quindici giorni, anziché trenta, come previsto in generale dall'art. 325, comma 1, c.p.c.) e per il ricorso per cassazione ("ridotto alla metà", rispetto alla previsione dell'art. 325, comma 2, c.p.c., quindi a trenta giorni), giustificati da esigenze di celerità della procedura; stabilisce, invece, innovando al testo attuale, che tali termini decorrono dalla notificazione della sentenza, ripristinando così la regola generale dell'art. 326, comma 1, c.p.c. e adeguando la norma alla citata sentenza della Corte costituzionale 27 novembre 1980, n. 152, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale comma quinto, nella parte in cui fa decorrere i termini per l'appello e per il ricorso per cassazione dall'affissione della sentenza.
L'art. 160 d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, ha già abrogato il comma sesto ( "non è ammesso l'appello per le controversie non eccedenti la competenza del pretore "), in conseguenza della soppressione dell'ufficio del pretore.

Con l'art. 28 si propone una nuova formulazione dell'art. 100, anch'esso oggetto di pronunce di illegittimità costituzionale; queste, i nuovi principi dell'art. 111 Cost. e la riforma del processo civile di cui alla novella del 1990 ne impongono una pressoché totale rivisitazione.
Si prevede, innanzitutto, che l'impugnazione de qua possa essere proposta non solo dai creditori, ma anche dal curatore, cui, invece, la legittimazione è oggi negata. L'innovazione scaturisce dai principi costituzionali del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e della "parità delle armi" (art. 111 Cost.): il curatore, che è parte nei giudizi di accertamento dei crediti, deve avere strumenti processuali eguali a quelli di ogni singolo creditore, per poter tutelare l'interesse della massa e l'interesse del fallito, al quale ultimo si nega ogni legittimazione a contrastare le pretese creditorie. Quanto ai provvedimenti di ammissione al passivo dati in sede di adunanza ex art. 96, il termine per proporre l'impugnazione, che rimane quello di quindici giorni attualmente previsto, decorre per il curatore dal deposito dello stato passivo in cancelleria, dovendo egli essere presente all'adunanza, all'esito della quale viene pronunciato il decreto di esecutività dello stato passivo. Per l'ipotesi che il giudice delegato, chiusa l'adunanza, si riservi la definitiva formazione dello stato passivo, si prevede che il termine per il curatore decorra dalla comunicazione della cancelleria dell'avvenuto deposito, occorrendo una formale notizia dello scioglimento della riserva.
Per i creditori si prevede, invece, che il termine decorra dalla data di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con cui il curatore deve comunicare l'avvenuto deposito dello stato passivo in cancelleria, così conformando il testo del primo comma alla sentenza di illegittimità costituzionale 22 aprile 1986, n. 102. Pare, tuttavia, opportuno anche qui richiamare espressamente il termine massimo di un anno dal deposito in cancelleria, previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c.
Quanto ai crediti ammessi con decreto a norma dell'art. 101, comma terzo, la sentenza di illegittimità costituzionale 14 dicembre 1990, n. 538, impone un'ulteriore variazione del primo comma dell'articolo in esame. Tale sentenza, infatti, ha espressamente riconosciuto l'esperibilità del rimedio di cui all'art. 100 contro i provvedimenti di ammissione al passivo dati con decreto su domande tardive, a norma dell'art. 101, comma terzo, e ha statuito circa la decorrenza del termine per i creditori. Alla stregua di detta sentenza, si prevede, nei riguardi del curatore, che per i menzionati crediti il termine decorre dalla pronuncia del provvedimento di ammissione, se dato in udienza, essendo il curatore tenuto ad esservi presente; ovvero dalla comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria, se esso è dato fuori udienza, a scioglimento della riserva, di cui il giudice delegato si sia avvalso, come è sua facoltà. Nei riguardi dei creditori ammessi, si prevede, invece, recependo la statuizione della Corte costituzionale, che il termine decorre dalla data di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con la quale il curatore deve dare notizia a ciascuno di loro del provvedimento di ammissione in via tardiva.
La modifica del secondo comma corrisponde all'analoga modifica del secondo comma dell'art. 98 e scaturisce anch'essa dalla sentenza di illegittimità costituzionale 30 aprile 1986, n. 120, nonché dall'esigenza di coordinamento con le disposizioni del comma seguente.
Le modifiche del terzo comma mantengono il parallelismo con le disposizioni del terzo comma dell'art. 98 e mirano anch'esse ad omologare la fase introduttiva del giudizio di impugnazione alla fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, com'è oggi disciplinata a seguito della riforma del codice di rito, rispettando, tuttavia, le peculiarità della prima.
L'introduzione nel quarto comma del richiamo agli articoli 180 e seguenti c.p.c. serve a raccordare la disciplina della successiva fase dell'istruzione a quella dettata dal codice di rito per il processo ordinario di cognizione, cui non v'è motivo di derogare.
Il nuovo quinto comma non fa che riprodurre la regola stabilita dall'art. 282, comma 1, c.p.c., chiarendo così che anche la sentenza di primo grado, pronunciata all'esito del giudizio di impugnazione ex art. 100, è provvisoriamente esecutiva, sicché ad essa occorre dare immediata attuazione nei riparti (escludendo il credito dalla distribuzione, se di accoglimento; includendo il credito nella distribuzione, ma accantonando la quota assegnata, in attesa del passaggio in giudicato, se di rigetto).
Il nuovo comma sesto, in parallelo con le modifiche che si propone di apportare all'art. 99, mira a semplificare la disciplina dell'appello e del ricorso per cassazione, adeguandola nel contempo alle statuizioni delle sentenze di illegittimità costituzionale 27 novembre 1980, n. 152, e 3 aprile 1982, n. 69 (che hanno colpito le disposizioni degli attuali commi quinto e sesto dell'art. 99, applicabili al giudizio ex art. 100 in virtù dell'implicito richiamo contenuto nell'attuale comma quarto dell'articolo in esame). Si propone di non riprodurre l'attuale previsione di obbligatoria riunione dei giudizi di impugnazione ex art. 100 a quelli di opposizione ex art. 98, giacché tale riunione, nella prassi corrente quasi mai attuata, può essere causa di appesantimento processuale, che non giova alla rapidità di decisione.

Con l'art. 29 si propone la riformulazione dell'art. 101, resa necessaria dall'esigenza di coordinamento con gli articoli precedenti e con la nuova disciplina del processo ordinario di cognizione.
Il primo comma e la prima parte del secondo comma sono invariati rispetto al testo attualmente vigente. Nella seconda parte del comma secondo sono introdotte due disposizioni del tutto analoghe alle corrispondenti disposizioni del comma secondo dell'art. 98 e del comma secondo dell'art. 100, intese a recepire le statuizioni della sentenza di illegittimità costituzionale 30 aprile 1986, n. 120: tale sentenza ha colpito gli articoli 98 e 100, non anche l'art. 101, ma sussiste anche riguardo a questo la medesima esigenza, di fornire al creditore tempestiva conoscenza, in via ufficiale, del decreto di fissazione dell'udienza, onde consentirgli di eseguire tempestivamente la notificazione del ricorso.
Il terzo comma riproduce, per coerente uniformità di disciplina, le medesime disposizioni del comma terzo, prima parte, degli articoli 98 e 100. Non si prevede, tuttavia, che il curatore debba costituirsi prima dell'udienza fissata dal giudice delegato, poiché questa udienza (a differenza di quella fissata dal giudice delegato a norma degli articoli 98, comma 2, e 100, comma 2) non può identificarsi con l'udienza di prima comparizione di cui all'art. 180 c.p.c.: infatti, nell'udienza, di cui ci si sta occupando, può pervenirsi all'immediata conclusione del procedimento con un provvedimento sommario, informa di decreto, del giudice delegato, senza farsi luogo alla formale istruzione della causa, il cui inizio è segnato proprio dall'udienza ex art. 180 c.p.c. Del resto, una formale costituzione in giudizio del curatore sarebbe inutile, ove si pervenga alla pronuncia del decreto; al contrario, l'esigenza della formale costituzione potrebbe nascere proprio dalla mancata ammissione al passivo con decreto all'esito dell'udienza.
Il nuovo quarto comma riproduce nella prima parte l'attuale terzo comma, prevedendo appunto la possibilità di ammissione del credito con decreto, concorrendo la duplice condizione che il curatore non lo contesti e che il giudice delegato lo ritenga fondato. Per l'ipotesi che non si emetta il decreto, la seconda parte dello stesso comma prevede, come già l'attuale seconda parte del comma terzo, che il giudice delegato proceda all'istruzione della causa, fissando l'udienza di cui all'art. 180 c.p.c., e si stabilisce che il curatore deve costituirsi almeno dieci giorni prima di detta udienza: si raccorda, così, la disciplina del procedimento in esame al nuovo rito del processo civile e la si coordina con quella dei procedimenti ex artt. 98 e 100.
Il comma quinto (che prevede la possibilità dell'intervento degli altri creditori) è la mera riproduzione cela' attuale, che non sembra necessario ritoccare. Il nuovo comma sesto richiama espressamente, per evidenti ragioni di uniformità di disciplina, le disposizioni dei commi quarto e quinto dell'art. 99, così da non lasciare dubbi sulla loro applicabilità nel giudizio in esame.
Il nuovo comma settimo riproduce per intero l'attuale comma sesto, che pare opportuno lasciare inalterato.

Con l'art. 30 si avanzano proposte di modifica dell'art. 102, che mirano anch'esse a coordinare la disciplina del procedimento al nuovo rito civile e ad uniformarla a quella degli altri giudizi di accertamento del passivo.

Con l'art. 31 si propone l'introduzione di un nuovo comma nel testo dell'art. 106, idoneo a colmare una lacuna di disciplina quanto alla cancellazione di trascrizioni e iscrizioni gravanti su autoveicoli venduti in sede fallimentare.

L'art. 32 propone una modifica che si ritiene possa avere notevole efficacia, sia sotto il profilo della riduzione dei tempi della procedura fallimentare, sia sotto quello del miglioramento dei risultati satisfattori di essa, è quella che concerne la possibilità di procedere alla vendita degli immobili fallimentari ad offerte private, oggi preclusa dal vigente art. 108. L'innovazione trova i suoi precedenti nelle disposizioni della legge 3 aprile 1979, n. 95 (art. 6-bis, comma 1) e del d. lgs. 270/1999 (art. 62), sull'amministrazione straordinaria. Si propone, perciò, una riformulazione dell'art. 108.
Nel primo comma si prevede che la vendita degli immobili possa farsi, come nel regime attuale, con incanto o senza incanto secondo le disposizioni degli articoli 567 e seguenti del c.p.c., cui si fa espresso rinvio. Si ritiene non più giustificata la preferenza accordata dalla legge vigente alla vendita con incanto, giacché recenti esperienze giudiziarie hanno dimostrato che il meccanismo della vendita senza incanto può essere, e spesso è, più garantisco e più proficuo di quello dell'asta pubblica, almeno per come essa è attualmente regolata. Sembra, dunque, opportuno mettere l'una e l'altra forma di vendita sullo stesso piano, lasciando alla valutazione discrezionale del giudice delegato la scelta di quella che in concreto appaia la più conveniente.
Nello stesso primo comma si riproduce la prima parte dell'attuale comma secondo, precisando che le vendite sono disposte con ordinanza del giudice delegato, su istanza del curatore, sentito il comitato dei creditori. Non si prevede più che esse abbiano luogo dinanzi al giudice delegato, sì da eliminare ogni dubbio circa la delegabilità al notaio, introdotta da una recente modifica del codice di rito, che pare opportuno rendere estensibile alle vendite fallimentari.
Nel nuovo testo non si fa più cenno nemmeno alla facoltà del giudice delegato di sospendere la vendita (prevista dall'attuale, comma terzo), giacché tale facoltà è stata estesa ad ogni vendita forzata immobiliare, all'incanto o senza incanto, introducendo un'apposita disposizione nell'art. 586 c.p.c.
Il nuovo comma secondo consente che il giudice delegato autorizzi la vendita ad offerte private, ove la ritenga più vantaggiosa. Si stabiliscono per tale vendita le medesime formalità già richieste per la vendita senza incanto dall'attuale art. 108 (proposta del curatore, parere del comitato dei creditori, assenso dei creditori ammessi al passivo con diritto di prelazione sugli immobili); in aggiunta, si prescrive che il giudice disponga idonee misure di pubblicità, mutuando la disposizione dell'art. 62, comma 2, d. lgs. 270/1999. La seconda parte dello stesso comma secondo prevede, poi, che la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni gravanti sull'immobile venduto sia disposta dal giudice delegato con apposito decreto, così come analogamente prevede l'art. 64 d. lgs. citato: tale provvedimento è reso necessario dal vigente regime di pubblicità immobiliare ed occorre una specifica previsione normativa, poiché non può procedersi alla cancellazione di una formalità se non in base ad una sentenza passata in giudicato o ad "altro provvedimento definitivo emesso dalle autorità competenti" (art. 2884 c.c.). A garanzia dei creditori in generale e degli ipotecari in particolare, si prescrive che la cancellazione non possa ordinarsi prima che sia stato pagato interamente il prezzo di vendita.
Il nuovo comma terzo riproduce la disposizione dell'attuale comma quarto, semplificandola e coordinandola con quelle dei commi precedenti.

Con l'art. 33 si propone l'introduzione di un nuovo articolo 108 bis che regoli la vendita fallimentare di "navi, galleggianti ed aeromobili iscritti nei registri indicati dal codice della navigazione" (così definiti nell'art. 2683 c.c.) in maniera del tutto analoga alla vendita degli immobili, raccordando la disciplina fallimentare a quella del codice della navigazione, nel quale l'espropriazione singolare di quei beni è compiutamente regolata con disposizioni derogatorie di quelle contenute nel libro terzo del codice di rito. Si vengono, così, a superare incertezze interpretative e difformi prassi applicative, dovute alla mancanza nell'attuale legge fallimentare di specifiche disposizioni al riguardo.

Con l'art. 34 viene proposta la modifica dell'art. 117, che vale ad adeguare la norma alla vigente disciplina dei depositi bancari. Viene, altresì, sostanzialmente recepita, con gli adattamenti del caso, la disposizione contenuta nell'art. 8 della legge 17 luglio 1975, n. 400 (recante "Norme intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione coatta amministrativa degli enti cooperativi"), quanto alla devoluzione delle somme depositate e non riscosse nel quinquennio, onde evitare che di tali somme finiscano per beneficiare le banche depositarie.

Con l'art. 35 si propone la modifica del numero 1 dell'art 118, consistente nella semplice sostituzione dell'espressione "nel termine stabilito" all'attuale "nei termini stabiliti", è conseguente a quella dell'art. 16, n. 4, ed a quella dell'art. 96, essendo da tali norme (nel nuovo testo che si propone di adottare) previsto un unico termine per le domande di ammissione.

Con l'art. 36 si propone l'introduzione di un ulteriore comma all'art. 119. La disposizione aggiunta mira a consentire ai creditori la tempestiva conoscenza dell'avvenuta chiusura del fallimento, evitando a loro i tempi e i costi di richieste di informazioni.

Con l'art. 37 viene proposta la modifica del numero 2 del secondo comma dell'art. 121, che mira a rendere congruente la disposizione dell'art. 121, che disciplina il contenuto della sentenza di riapertura del fallimento, con quelle dell'art. 16, n. 4 e 5, come sopra modificate.

Con l'art. 38 è proposta la modifica dell'art. 129, che mira a coordinare la disciplina del giudizio di omologazione del concordato col nuovo rito del processo ordinario di cognizione. I commi primo e terzo dell'art. 131 sono già stati dichiarati costituzionalmente illegittimi con la sentenza 12 dicembre 1974, n. 255, "nella parte in cui fanno decorrere dall'affissione i termini, rispettivamente, per ricorrere in cassazione contro la sentenza di appello che decide in merito alla omologazione o reiezione del concordato preventivo, per proporre appello contro la sentenza che omologa o respinge il concordato successivo, nonché per ricorrere in cassazione contro quest'ultima sentenza". Le proposte modifiche del quarto comma dell'art. 130 e dell'art. 131 mirano ad adeguare la disciplina alle statuizioni della Corte costituzionale, coordinandola con quella dettata dall'art. 19, anche al fine di consentire la rapida formazione del giudicato sulla sentenza che omologa o respinge il concordato.
La proposta modifica del quinto comma è un mero adeguamento terminologico alla normativa del vigente testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia.

Con l'art. 39 è prevista l'abrogazione degli articoli da 142 a 145, che disciplinano l'istituto della riabilitazione civile. La abrogazione è conseguenza della modifica dell'art. 50: cessando le incapacità personali del fallito, automaticamente, alla chiusura della procedura fallimentare, la riabilitazione (che, a norma dell'attuale comma 1 dell'art. 142, "fa cessare le incapacità personali che colpiscono il fallito per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento ") non ha più ragion d'essere.

Con l'art. 40 si propone l'abrogazione del terzo comma dell'art. 146. La ragione dell'abrogazione della disposizione, che consente al giudice delegato, nell'autorizzare il curatore a proporre l'azione di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori della società fallita, di disporre le opportune misure cautelari, risiede nel più pieno rispetto del principio di terzietà del giudice, espressamente sancito dal nuovo art. 111 Cost.
Tale abrogazione non erode, d'altro canto, alcuna tutela per la procedura, ben potendo il giudice delegato tempestivamente autorizzare, insieme con l'esercizio dell'azione di merito, il ricorso alla misura cautelare davanti al giudice ordinariamente competente. In tal modo si intende dare attuazione al principio di necessaria tutela cautelare enunciato dal regolamento 1346/2000/CE del 29 maggio 2000 relativo alle procedure di insolvenza.

Con l'art. 41 si propone la riformulazione dell'art. 147, resa necessaria dai numerosi interventi della Corte costituzionale, che hanno inciso sulla disciplina in essa contenuta, nonché da esigenze di coordinamento con le disposizioni degli artt. 15 e 22.
Nel primo comma appare necessario chiarire che la disciplina dell'estensione del fallimento della società con soci a responsabilità illimitata è applicabile soltanto ai soci illimitatamente responsabili delle società regolate nei capi III e IV del titolo V del libro quinto del codice civile, ossia delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, ovvero dei soci di società irregolari comunque ricondotte ad uno dei tipi ivi indicati; non anche, quindi, ai soci di società di capitali, che pur siano illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, così recependo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, contraddetto, in tempi recenti, da sporadiche divergenti pronunce di giudici di merito (che hanno ritenuto assoggettabile a fallimento anche il socio unico di società di capitali), con grave compromissione della certezza del diritto.
Nel secondo comma si recepisce il disposto della sentenza della Corte costituzionale 21 luglio 2000, n. 319, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, nella parte in cui prevede che il fallimento della società produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo che sia decorso un anno dal momento in cui costoro abbiano perso per qualsiasi causa la responsabilità illimitata. A garanzia dei terzi pare opportuno stabilire che il dies a quo del termine annuale coincida con la data dell'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto che 'produce la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile, data dalla quale l'atto diviene opponibile ai terzi (artt. 2193 e 2300 c.c.). La formulazione proposta rispecchia quella dell'art. 23, comma 2, del d. lgs. 270/1999, riguardo all'estensione ai soci illimitatamente responsabili degli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza di una società , assoggettabile ad amministrazione straordinaria ( "Nei confronti del socio receduto o escluso e del socio defunto l'estensione ha luogo se la dichiarazione dello stato di insolvenza è pronunciata entro l'anno successivo, rispettivamente, alla data in cui il recesso o l'esclusione sono divenuti opponibili ai terzi e a quella della morte, sempre che l'insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti contratti anteriormente a tale data").
Nel terzo comma si recepisce il disposto della sentenza della Corte costituzionale 27 giugno 1972, n. 110, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, "nella parte in cui non prevede che il tribunale debba ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, perché detti soci possano esercitare il diritto di difesa". Il richiamo dell'art. 15 (nel nuovo testo che si propone di adottare) vale a uniformare la disciplina del procedimento. La formulazione proposta è analoga a quella dell'art. 23, comma 3, del d. lgs. 270/1999 ("Il tribunale, prima di provvedere, sente i soci illimitatamente responsabili nelle forme previste dall'art. 7, commi 1 e 2 ").
Nel quarto comma si recepiscono le statuizioni delle sentenze della Corte costituzionale 16 luglio 1970, n. 142, e 28 maggio 1975, n. 127, le quali hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, rispettivamente, a) "nella parte in cui nega al creditore interessato la legittimazione a proporre istanza di dichiarazione di fallimento di altri soci illimitatamente responsabili nelle forme dell'art. 6"; b) "nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a chiedere la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili". Il richiamo dell'art. 15 vale anche in tal caso a rendere uniforme la disciplina del procedimento. La formulazione proposta è, ancora una volta, analoga a quella della corrispondente disposizione del d. lgs. 270/1999, art. 24, comma 2 ("Il tribunale provvede su ricorso dei soggetti indicati nell'art. 3, comma 1, di un altro socio, del commissario giudiziale, ovvero d'ufficio ").
Nel quinto comma si riproduce testualmente la disposizione dell'attuale comma terzo ("Contro la sentenza del tribunale è ammessa l'opposizione a norma dell'art. 18"), che non vi è ragione di modificare.
Nel sesto comma si recepisce la statuizione della sentenza della Corte costituzionale 28 maggio 1975, n. 127, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, "nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che ha respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento di socio illimitatamente responsabile". A tale stregua, la legittimazione a proporre il reclamo viene estesa a tutti i soggetti legittimati a proporre la domanda di fallimento "in estensione". IL richiamo dell'art. 22 (che disciplina il reclamo contro il decreto del tribunale di reiezione dell'istanza di fallimento) mira, anch'esso, ad uniformare la disciplina del procedimento.
La disposizione contenuta nell'attuale ultimo comma ("Le disposizioni di questo articolo non si applicano alle società cooperative") non ha più ragion d'essere, una volta chiarito che l'estensibilità del fallimento sociale riguarda soltanto i soci di società di persone (quelle, appunto, "appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi III e IV del titolo V del libro quinto del codice civile ").

Con l'art. 42 viene proposta l'abrogazione degli articoli da 155 a 159, che disciplinano il procedimento sommario, istituto da lungo tempo caduto in desuetudine.

Con l'art. 43 viene proposta la sostituzione dell'art. 162, imposta dalla sentenza della Corte costituzionale 27 giugno 1972, n. 110, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 162, "nella parte in cui non prevede che il tribunale, prima di pronunciarsi sulla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, debba ordinare la comparizione in camera di consiglio del debitore per l'esercizio del diritto di difesa".

Con l'art. 44 si propone una modifica del secondo comma dell'art 163, suggerita dall'esigenza di garantire al debitore il diritto di difesa.

Con l'art. 45 si propone la sostituzione del primo comma dell'art. 166, conseguente all'abolizione del foglio degli annunzi legali.

Con l'art. 46 si propongono modifiche agli articoli 173 e 179, suggerite dall'esigenza di garantire al debitore il diritto di difesa.

Con l'art. 47 si propone la sostituzione dell'art. 180, tendente a coordinare la disciplina del giudizio di omologazione del concordato preventivo col nuovo rito del processo ordinario di cognizione, uniformandola a quella del giudizio di omologazione del concordato fallimentare.

Con l'art. 48 viene proposta l'eliminazione del requisito della meritevolezza del debitore (prescritto dall'attuale art. 181, comma 1, n. 4) in linea con la più moderna concezione del concordato preventivo che risponde ad una valutazione obiettiva della idoneità di esso come strumento per la eliminazione del dissesto. La decisione del tribunale sulla praticabilità della soluzione concordataria deve basarsi sulla considerazione dell'interesse dei creditori ad un migliore soddisfacimento, interesse che è comunque prevalente rispetto all'interesse del debitore ad evitare il fallimento.
La Corte costituzionale, con sentenza 12 dicembre 1974, n. 255, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 183, "nella parte in cui, per le parti costituite, fa decorrere il termine per proporre appello contro la sentenza che omologa o respinge il concordato preventivo dall'affissione, anziché dalla data di ricezione della comunicazione della stessa". Con la medesima sentenza ha, altresì, dichiarato l'illegittimità costituzionale dei commi primo e terzo dell'art. 131 "nella parte in cui fanno decorrere dall'affissione i termini, rispettivamente, per ricorrere in cassazione contro la sentenza di appello che decide in merito alla omologazione o reiezione del concordato preventivo, per proporre appello contro la sentenza che omologa o respinge il concordato successivo, nonché per ricorrere in cassazione contro quest'ultima sentenza".
Le proposte modifiche del quarto comma dell'art. 181 e dell'art. 183 mirano ad adeguare la disciplina alle statuizioni della Corte costituzionale, coordinandola con quella dettata dall'art. 19 e uniformandola a quella del giudizio di omologazione del concordato fallimentare, anche al fine di consentire la rapida formazione del giudicato sulla sentenza che omologa o respinge il concordato.

Con l'art. 49, che sostituisce il primo comma, primo periodo, dell'art. 188, è prevista l'eliminazione del requisito della meritevolezza del debitore, che risponde ad un'esigenza analoga a quella evidenziata per il concordato preventivo, dovendosi considerare prevalente l'interesse alla conservazione dell'impresa, rispetto all'interesse del debitore ad evitare il fallimento. Detto requisito del resto è già stato sostanzialmente soppresso dalla giurisprudenza per le società di capitali.

Con l'art. 50 viene proposta la modifica dell'art. 190, costituente adeguamento al disposto della sentenza della Corte costituzionale 26 luglio 1988, n. 881, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma, "nella parte in cui fa decorrere il termine di decadenza di dieci giorni per il reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di cessazione degli effetti dell'amministrazione controllata, dalla data del decreto, anziché dalla sua rituale comunicazione all'interessato". Per il debitore si recepisce testualmente l'indicazione di detta pronuncia di incostituzionalità; per ogni altro interessato pare opportuno prevedere la decorrenza del termine dall'iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese, essendo questa idoneo mezzo di pubblicità.

Con l'art. 51 si propone la modifica dell'art 195 il cui attuale testo, con sentenza 27 giugno 1972, n. 110, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la comparizione del debitore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nel corso dell'istruttoria diretta ad accertare lo stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento".
La proposta modifica di detto comma mira ad adeguare la disposizione anche alla statuizione della Corte costituzionale, coordinandola con il nuovo art. 15.
L'art. 195, quarto comma, con sentenza 4 luglio 2001, n. 211, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che il termine per proporre l'opposizione contro la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza decorra per il debitore dall'affissione della sentenza medesima.
La modifica di tale comma, che si propone di adottare, mira anch'essa ad adeguare la norma alla pronuncia della Corte costituzionale, nonché ad uniformare la disciplina a quella dell'opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento, non essendovi ragione di una differenziazione di trattamento.
L'abrogazione del comma quinto risponde alla medesima esigenza di uniformità di regime e va in parallelo con l'abrogazione del comma terzo dell'attuale art. 19.

Con l'art. 52 si propone l'inserimento di un ulteriore periodo al primo comma dell'art 200, che consiste nel recepimento delle disposizioni già contenute nell'art. 3, comma 1, della legge 17 luglio 1975, n. 400, recante "Norme intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione coatta amministrativa degli enti cooperativi".
Il comma 1 di detto art. 3, infatti, dispone: "Dalla data del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa di uno degli enti di cui all'art. 1 della presente legge, sui beni compresi nella liquidazione, non può essere iniziata o proseguita alcuna azione esecutiva individuale anche se prevista ed ammessa da leggi speciali in deroga del disposto dell'art. Sl del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, né possono acquistarsi diritti di prelazione sopra i beni mobili dell'ente né iscriversi ipoteche per causa o titolo anteriori alla data del provvedimento di liquidazione".
Pare opportuno estendere tali disposizioni, semplificandone il testo, a tutte le ipotesi di liquidazione coatta amministrativa rientranti nella disciplina della legge fallimentare, non essendovi ragione per una limitazione di esse alla sola liquidazione coatta degli enti cooperativi.

Con l'art. 53 viene proposta la modifica del secondo comma dell'art. 206, coerente con quella dell'art. 35. Essa rende superflua la disposizione dell'art. 4 della citata legge n. 400/1975 ("A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge, il limite di lire 50 mila previsto dal secondo comma dell'art. 206 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, è elevato, anche per le procedure di liquidazione già iniziate, a lire 2 milioni").

Con l'art. 54 vengono proposte modifiche degli artt. 207, 208 e 209 che mirano a rendere più semplice e snella la formazione dello stato passivo e ad imporre a tale attività tempi certi di durata, a garanzia dei diritti degli interessati. La nuova disciplina è, altresì, in linea con le modifiche al procedimento di verificazione dei crediti nel fallimento e con le pronunce della Corte costituzionale. Nell'art. 209 in particolare, si recepiscono: a) la sentenza 22 maggio 1987, n. 181, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale primo comma, "nella parte in cui non prevede che l'imprenditore individuale o gli amministratori della società o della persona giuridica soggetta ad amministrazione straordinaria siano sentiti dal commissario con riferimento alla formazione dell'elenco indicato nello stesso art. 209"; b) la sentenza 2 dicembre 1980, n. 155, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale secondo comma, "nella parte in cui non prevede che il termine per le opposizioni dei creditori in tutto o in parte esclusi decorra dalla data del deposito, nella cancelleria del tribunale del luogo dove l'impresa in liquidazione coatta amministrativa ha la sede principale, dell'elenco dei crediti ammessi o respinti, formato dal commissario liquidatore, anziché dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento, con le quali il commissario liquidatore dà notizia dell'avvenuto deposito ai creditori le cui pretese non sono state in tutto o in parte ammesse "; c) la sentenza 29 aprile 1993, n. 201, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale secondo comma, "nella parte in cui prevede che il termine per proporre le opposizioni e le impugnazioni decorre dal deposito in cancelleria dell'elenco dei crediti ammessi, anziché dalla data di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con la quale il commissario liquidatore dà notizia dell'avvenuto deposito".

Con l'art. 55 si introduce un ulteriore comma dell'art. 210. L'aggiunta consiste nel reperimento della disposizione contenuta nell'art. 5 della legge 17 febbraio 1975, n. 400, e si coordina con le nuove disposizioni degli artt. 106, 108 e 108-bis, nonché con quella dell'art. 64 del d. lgs. 270/1999. L'art.5 della citata legge 400/1975 dispone: "Nelle vendite dei beni compresi nelle procedure di liquidazione disciplinate dalla presente legge, avvenuto il versamento del prezzo da parte dell'acquirente e la stipula dell'atto di vendita, l'autorità di vigilanza - su richiesta del commissario Iiquidatore vistata dal comitato di sorveglianza - ordina con decreto che si cancellino le trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie, nonché le trascrizioni dei sequestri e delle domande giudiziali, esonerando i conservatori dei pubblici registri da ogni responsabilità".
L'art. 64 del d. lgs. 270/1999, a sua volta, dispone: "La cancellazione delle iscrizioni relative a diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi sui beni trasferiti è ordinata dal Ministro dell'industria con decreto nei quindici giorni successivi al trasferimento".

Con l'art. 56 si introduce una disposizione che ha (al pari di quella dell'art. 119) la finalità di consentire ai creditori di venire tempestivamente a conoscenza della chiusura della procedura, evitando a loro i tempi e i costi di richieste di informazioni.

Con l'art. 57 viene proposta la modifica del secondo comma dell'art. 214, onde incrementare la garanzia del diritto di difesa.
La proposta di modifica del quarto comma è coerente con quella dell'art 131.

Con l'art. 58 viene abrogato l'art 241 in conseguenza dell'abolizione dell'istituto della riabilitazione.

Con l'art. 59 si propone l'abrogazione degli articoli 256, 262 e 264, contenenti disposizioni transitorie ormai non più attuali.

Con l'art. 60 si introduce una norma transitoria, destinata ad operare per i soli agenti di cambio ancora in carica ai sensi dell'art. 201 del d. lgs. 24.2.1998 n. 58.

Con l'art 61 si propone l'abrogazione degli articoli 3, comma 1, 4 e 5 della legge 17 luglio 1975, n.400, come conseguenza del recepimento delle menzionate disposizioni della legge speciale negli articoli 200, 206 e 210 della legge fallimentare.

L'intervento, limitato alla modificazione delle norme regolatrici della materia, non comporta interventi su strutture o personale giudiziario e, conseguentemente, non importa oneri finanziari a carico dello Stato.