DDL - Delega al governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile - Relazione

Esame definitivo - Consiglio dei ministri 10 febbraio 2015

 Disegno di legge concernente: "Delega al governo recante disposizioni per l'efficienza del processo civile"

Articolato

Il presente disegno di legge è stato elaborato e redatto ad opera della Commissione presieduta dal dott. Giuseppe Berruti, presidente di sezione della Corte di cassazione, costituita con D.M. del Ministro della giustizia del 27 maggio 2014 con il mandato di predisporre “proposte di interventi in materia di processo civile.

Per tale ragione, la presente relazione illustrativa riprende i contenuti del “Documento di sintesi sulle fattispecie oggetto di criticità e sulle prioritarie proposte di intervento in materia di processo civile” depositato dalla predetta Commissione di studio.


L’intervento normativo delegante ha due obiettivi.

Il primo è quello di un processo comprensibile.
Il processo civile italiano è un insieme di tecnicalità progressive, l’una creata dall'altra, che rendono faticoso il suo risultato naturale, ossia la sentenza.

Negli ultimi quarant’anni, a far tempo dalla legge introduttiva del nuovo rito del lavoro, gli interventi del legislatore sono stati numerosissimi ed hanno inciso sul tessuto connettivo originario del codice di procedura civile, compromettendone l’organicità e la sistematicità. 
Con il trascorrere del tempo, inoltre, il codice – progettato e promulgato in una particolare contingenza storica – ha sofferto sempre più pesantemente il progressivo aumento del contenzioso.

Se si guarda indietro per cercare di comprendere, senza preconcetti o pregiudizi, le cause dell’attuale inefficienza (cosa difficile, ma necessaria per capire dove e come intervenire), si noterà che, in disparte i casi di nuove forme di tutela c.d. differenziata per specifiche controversie (in primis quelle del lavoro), tutti gli interventi hanno avuto un minimo comune denominatore: adeguare il vecchio codice ad un nuovo imprevisto carico.
Anche l’apparato organizzativo a sostegno del codice è divenuto inadeguato a fronteggiare il numero delle pendenze.

Ciò posto, l’inefficienza del processo italiano è peraltro essa stessa occasione di lavoro per più categorie. Ma una economia dell’inefficienza è ciò che il Paese, sempre più immerso nella vicenda globale e dunque esposto a pagare in termini economici, culturali e politici le proprie arretratezze, non può più permettersi. Il processo civile deve essere strumento di attuazione delle regole sostanziali certamente attraverso il controllo dei suoi gradi, ma soprattutto a mezzo dell’intrinseca qualità “economica” delle sue tecniche, capace di compromettere in modo moderno il diritto di litigare con l’interesse generale.
In questa visione la comprensibilità del processo da parte di chiunque è costretto ad utilizzarlo, è condizione essenziale della sua eticità. Le parti debbono sapere chi, almeno in astratto e con una sensata prognosi, vincerà o perderà. Debbono sapere che il processo tende ad identificare chi vince con chi ha ragione. Esso dunque deve consentire, abbandonando il mito dell’imprevedibilità della decisione come dimostrazione della imparzialità del giudizio, una soluzione comprensibile anche per la sua ordinaria prevedibilità.

Secondo obiettivo è la sua speditezza. La decisione deve pervenire ad un esito pratico corrispondente alla realtà che ha fatto nascere la lite. Deve perciò risolvere una lite in atto, con una decisione attuale e non con l'epitaffio di una lite che non c'è più. La prevedibilità deve riguardare, oltre che l’esito, anche la durata del processo: è necessario che le parti sappiano che, chiusa l’istruttoria, la decisione sarà presa in tempi prevedibili.
Pertanto occorre rimettere al centro del sistema la professionalità più assoluta e più controllabile dei protagonisti.
Quando la causa va a sentenza e comincia a studiarla davvero, si trova di fronte a consulenze tecniche espletate benché inutili, a termini inutilmente concessi, a vuoti assoluti di istruttoria. Interviene a questo punto, fatalmente, la tecnica della giurisprudenza difensiva e, pertanto, la ricerca della soluzione puramente tecnico-processuale molto spesso distante dal quadro reale che ha creato la necessità del ricorso alla giurisdizione dello Stato.
L'impugnativa, chiunque vinca, è a questo punto un esito obbligato e costante fino al ricorso per cassazione.

I lavori della commissione Vaccarella costituiscono un’ampia base di conoscenza dei problemi essenziali delle forme di tutela previste dal codice e con l’indicazione di possibili, tecniche soluzioni dei medesimi. Quei lavori devono essere dunque tenuti nella debita considerazione. E non solo per economia di energie.

LA STRUTTURA DEL GIUDIZIO DI COGNIZIONE


Il processo di cognizione introdotto dalla riforma del 1990 ed entrato in vigore nel 1995 a meno di venti anni dalla sua introduzione ha già mostrato numerosi limiti.
Il rito, come è risultato da molte, troppe interpolazioni, è chiaramente farraginoso perché, dopo l’introduzione della causa, prevede una trattazione solo formalmente orale della stessa, una lunga appendice temporale dedicata alla trattazione scritta, quindi un’ulteriore  dilatazione temporale per consentire al giudice di verificare le istanze e necessità istruttorie, infine, dopo l’espletamento eventuale dell’istruttoria, una lunga  pausa  prima che la causa possa passare nella fase finale della decisione.
A ciò si aggiunga che l’esercizio dei poteri delle parti – in specie quanto alle memorie successive agli atti introduttivi – non è efficacemente organizzato e, spesso, è inutile. 

In ogni caso, l’oralità del processo è del tutto contraddetta.
Si pensi, per una traccia di lavoro, ovvero per capire ciò che deve essere abbandonato, all’art.163-bis del codice di procedura civile.
I termini a comparire sono nella disponibilità dell’attore che può decidere di citare in qualsiasi data, nel rispetto del minimo di novanta giorni. Poiché il giudizio pende dall’iscrizione a ruolo (da effettuarsi nei dieci giorni successivi alla notifica dell’atto di citazione), la scelta della data della citazione grava già la durata del processo di un tempo indeterminato che tuttavia incide sulla durata complessiva del procedimento senza che il giudice possa, unilateralmente, sulla stessa intervenire.
L’articolo 163 del codice di procedura civile descrive efficacemente il contenuto della citazione in cui la parte dovrebbe esaurire il suo compito assertivo, il suo onere di allegazione e offrire i mezzi di prova di cui intende avvalersi. Parimenti proccede l’articolo 167 quanto al convenuto relativamente alla comparsa di costituzione.
In realtà, tuttavia, al di fuori delle ipotesi di nullità della citazione e della decadenza per le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, la parte non incorre in decadenze se non ha offerto tutti gli elementi in suo possesso per la trattazione della causa. Perciò l'udienza di prima comparizione delle parti, prevista dall’articolo 183 del codice di procedura civile, risulta sostanzialmente essere una formalità anziché essere, come potrebbe, lo spartiacque definitivo tra prospettazione e ricerca della soluzione.
A quell’udienza, infatti, il giudice “se richiesto” - e quindi obbligatoriamente secondo l’interpretazione fornita alla norma - deve concedere alle parti  tre successivi termini per il deposito di memorie (in un complesso unitario di cui non dispone): termine di trenta giorni per precisare o modificare le domande, di successivi trenta giorni per replicare e articolare mezzi di prova e produrre documenti  (non prove nuove e documenti nuovi, ma anche quelli di cui era già in possesso) e di venti giorni per prova contraria.

Basta osservare che le integrazioni o le modifiche ben potrebbero essere fatte oralmente all’udienza di comparizione ovvero impedite oltre l’atto scritto introduttivo salvo che non siano connesse inscindibilmente al legittimo contenuto della comparsa di risposta, mentre  le offerte di prova dovrebbero essere già contenute nell’atto di citazione e nella comparsa di costituzione, salve le ulteriori richieste istruttorie rese necessarie dai successivi assestamenti dell’apparato assertivo delle parti.
Si osservi ancora che nessun obbligo ha la parte di articolare mezzi di prova in una delle prime due memorie ben potendo inserirle a verbale, in uno degli atti introduttivi e indifferentemente in una delle due prime memorie.
Nella prassi, come è ben noto, nelle memorie spesso si riproducono (anche letteralmente) argomenti e richieste già contenute negli scritti precedenti o nei verbali, oppure si sovrappongono nuove richieste rendendo un percorso ad ostacolo l’individuazione delle allegazioni e delle richieste rilevanti.
In tal modo la portata dell’art. 163 del codice di procedura civile è quella di un manifesto di rugiadose buone intenzioni, più che l’atto con il quale si esercita il potere dispositivo precisandone l’essenziale rapporto tra diritto di ricorrere al giudice ed interesse generale. 
Il ruolo di direzione del processo da parte del giudice è, quindi, sensibilmente compresso e il giudice è scarsamente incentivato a studiare il processo prima della scadenza dei termini dell’art. 183 del codice di procedura civile.

Quindi, istruito il processo con l’ammissione e l’assunzione delle prove e giunti all’udienza di precisazione delle conclusioni, ancora il giudice, se richiesto, deve concedere il termine di giorni sessanta per le comparse conclusionali e di venti per le memorie di replica (altri tre mesi sottratti alla sua disponibilità).
Nessun giudice è in grado di prevedere cosà succederà nel suo lavoro negli ottanta giorni intercorrenti tra quello in cui ha trattenuto la causa per la decisione e quello in cui il fascicolo processuale tornerà nella sua disponibilità.
Il giudice dovrebbe tenere conto, per esempio, delle cause contumaciali in cui concede termini solo per le comparse conclusionali, dei termini per le ordinanze cautelari, di quelli per i procedimenti che vanno in riserva con il rito sommario, di quelli ancora per le ordinanze istruttorie, eccetera. E si consideri che potrebbero arrivare sul suo tavolo un numero imprecisato di provvedimenti cautelari o di emergenze varie che non era in grado di pianificare quando ha assunto la causa in decisione.
Invece, il giudice deve avere invece chiaro il flusso del suo lavoro per poterlo organizzare anziché subirlo.
L’udienza di precisazione delle conclusioni dovrebbe essere il termine ultimo per l’attività difensiva dell’avvocato, magari prevedendo lo scambio delle memorie conclusionali precedentemente a tale udienza, in modo che a quella data il processo si chiuda definitivamente  e il giudice possa decidere  immediatamente (per esempio con una sentenza contestuale essendosi già svolta tutta l’attività difensiva) o nei processi più complessi assegnandosi un termine per il deposito della sentenza e della motivazione.
Si consideri che ai tempi morti del processo si deve aggiungere la sospensione dei termini processuali feriali. Anche nella migliore delle ipotesi di udienze fissate nell’immediatezza della scadenza dei termini da concedere (cosa che nella realtà non può avvenire) almeno un anno del tutto inutile.

Occorre pertanto intervenire fissando un principio di delega volto a razionalizzare i termini processuali e a semplificare i riti processuali mediante la omogeneizzazione dei termini degli atti introduttivi.

I profili critici evidenziati si colgono manifestamente analizzando i procedimenti in materia di famiglia (separazione dei coniugi e divorzio).
Il processo si introduce con ricorso ai sensi dell’art. 708 del codice di procedura civile.
Dopo l’udienza presidenziale ai sensi dell’art. 709 del codice di procedura civile, con l’ordinanza con la quale si assumono i provvedimenti relativi ai figli e al mantenimento il presidente assegna termine al ricorrente per la memoria integrativa che deve avere il contenuto dell’atto di citazione e al convenuto termine per la comparsa di costituzione. Si innesta quindi in un processo che potrebbe avere già tutti gli elementi per consentire all’istruttore di provvedere immediatamente sugli eventuali mezzi di prova (che ben potrebbero e dovrebbero essere offerti nel ricorso e nella memoria di risposta), un processo a cognizione piena ai sensi degli artt. 163 e seguenti del codice di procedura civile, con le storture sopra evidenziate. In questo processo si sovrappongono quindi due riti diversi dei quali non è chiara l’utilità e la finalità, e che frustrano le esigenze di celerità e certezza sottesi agli interessi indisponibili in gioco.

Per i figli nati fuori dal matrimonio è previsto, invece, il rito camerale, nonostante la declamata parificazione dei figli nati all’interno e fuori dal matrimonio voluta dalla legge n 219 del 2012 e dal decreto legislativo n.154 del 2013.
Inoltre, si consideri che l’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 30 marzo 1942, n. 318 (di seguito: "disposizioni per l'attuazione del codice civile"), è tra quelle che oggi portano al maggior numero di conflitti di competenza davanti alla Corte di cassazione. La stessa nuova formulazione della legge 219 del 2012, con le difficoltà interpretative che propone, segna la difficoltà di individuare in essa soluzioni omogenee. La frammentazione delle competenze giudiziarie, quando il giudice deve toccare inevitabilmente gli affetti, è un limite vissuto drammaticamente.

Si pone pertanto la necessità di introdurre una sezione specializzata della famiglia (tribunale della famiglia e delle persone) che migliori l’attuale cognizione del giudice ordinario attribuendogli gli strumenti ausiliari di cui oggi dispone il giudice dei minorenni e assicurandone la specializzazione.

Dunque occorre partire dalle inefficienze del processo civile per cambiarne la struttura: questo dev'essere il modo di ragionare. Il lavoro sul processo di cognizione di primo grado, mantenendo la distinzione tra processo a citazione e processo a ricorso, va diretto verso la concentrazione effettiva, si potrebbe dire implacabile, nei primi atti di parte, con l’udienza di trattazione nella quale effettivamente si tratta la causa. Anche con indicazione da parte del giudice di uno sbocco di conciliazione basato su un primo palese giudizio sulle prospettazioni delle parti. Dinanzi ad una domanda che appare in modo chiaro infondata, il giudice deve potere dire che, fermo restando il successivo vaglio delle ultime difese, essa appunto, al momento, rende possibile una prognosi infausta, o viceversa.


INTERVENTI SULLE IMPUGNAZIONI

Appello


Si propone il potenziamento del carattere impugnatorio dell’appello anche attraverso l’assestamento normativo e la stabilizzazione dei recenti orientamenti giurisprudenziali.
Il giudizio è chiuso nella citazione, o nel ricorso, in primo grado. Nulla di ciò che è stato estraneo a tale atto o alla sentenza può essere portato davanti al giudice di appello.
Questa misura può apparire certamente costosa in termini di giustizia sostanziale, ma essa rende il difensore consapevole della delicatezza della sua funzione.
In un ordinamento nel quale la difesa tecnica è considerata capace di realizzare il diritto costituzionale di difesa, essa deve, appunto, essere realmente tale. Tecnica, cioè professionalmente adeguata e come tale controllabile dal processo e dagli ordinamenti deontologici.
Il giudice di appello potrebbe motivare nel modo sommario di sempre ovvero anche richiamando la motivazione adottata dal primo grado quando essa risulta aver superato le doglianze.

Ricorso per cassazione

Interventi sul rito davanti alla Corte di Cassazione, nel segno di un uso più diffuso del rito camerale e nella prospettiva possibile di una riforma costituzionale che veda inseriti in un organo giudiziario supremo giudici oggi appartenenti ad altre magistrature, ovvero che veda attribuire ad una Corte riformata controversie oggi regolate sulla base della doppia giurisdizione.
In tale prospettiva si potrebbe individuare un modello pressoché unico di processo civile supremo, con le particolarità essenziali rese necessarie, nel nostro caso di un giudizio su fatti che digradano diritti e non su atti che riguardano interessi legittimi.

Analoga previsione potrebbe introdursi per una sezione specializzata in materia di impresa (tribunale delle imprese) per le controversie di mercato (concorrenza) e quelle societarie.

Pare opportuno ripetere che l'efficienza e la comprensibilità del processo sono obiettivi raggiungibili anche nella misura nella quale si riuscirà ad individuare un modello di processo il più possibile strutturalmente unitario rispetto a tutte le controversie civili, ovvero non penali.

Individuare intorno al nucleo costituito dalla funzione di accertare la verità legale, regole il più possibile comuni alla cultura delle diverse giurisdizioni, e con grande attenzione al dialogo tra le grandi corti europee, sembra un obiettivo oggi suggerito dalla storia.


LE SINGOLE AREE DI INTERVENTO

Le sezioni specializzate in materia di impresa

Il Decreto Legge n. 1 de  2012, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 27 del 2012, ha introdotto nel nostro sistema giudiziario le Sezioni Specializzate in materia di Impresa, comunemente dette tribunali delle imprese.

Le vecchie sezioni specializzate erano in numero di dodici in tutto il territorio nazionale; le “nuove” sezioni specializzate in materia di impresa, invece, sono in numero di ventuno e disegnano una competenza per territorio concentrata, tendenzialmente, su base regionale.
Dal punto di vista della geografia giudiziaria, la soluzione adottata dal legislatore sembra aver realizzato un giusto compromesso tra l’esigenza di concentrare in pochi uffici giudiziari le controversie “con elevato grado di tecnicismo ed elevata rilevanza economica” (così la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 168 del 2003) e che, quindi, richiedono conoscenze particolari, non soltanto di natura giuridica, l’esigenza di una più rapida ed efficace definizione di tale tipo di procedimenti e, infine, l’esigenza di avere una sufficientemente diffusa presenza del giudice naturale sul territorio, per rendere più facilmente accessibile il servizio della giustizia.

Tale soluzione va mantenuta, perché non disattende nella sostanza quanto voluto dall’Unione Europea, che aveva richiesto agli Stati membri di designare un numero possibilmente ridotto di tribunali competenti per la trattazione di materie quali la tutela del marchio comunitario, dei disegni e dei modelli comunitari (articolo 91 del regolamento n. 40/94/CE), proprio per le ragioni che abbiamo prima ricordato: specializzazione dei giudici, qualità e rapidità delle loro decisioni, che possono avere rilevanti conseguenze economiche sulle imprese coinvolte nel contenzioso.
Occorre rimanere nell’ottica della tante volte auspicata razionalizzazione del sistema giudiziario italiano, nella quale si è mosso il Legislatore con i decreti Legislativi n. 155 del 2012 e n. 156 del 2012, volti alla riduzione del numero dei Tribunali e delle Procure della Repubblica,  sopprimendo alcuni uffici giudiziari che avevano carichi di lavoro modesti, che non giustificavano il loro mantenimento in vita e quindi le esigenze di rispetto dei parametri di spending review imposte dall’inserimento nella Costituzione italiana dell’obbligo di pareggio di bilancio (articolo 81 della Costituzione).

Altra scelta fortemente innovativa operata dal Legislatore con l’istituzione del tribunale delle imprese riguarda la competenza per materia attribuita alle nuove sezioni specializzate in materia di Impresa, che si fonda essenzialmente su pochi gruppi di materie: la proprietà industriale ed intellettuale, la concorrenza, la materia societaria e gli appalti pubblici di rilevanza comunitaria.

Sono, infatti, devolute alla competenza delle sezioni specializzate in materia di Impresa:

  1. le controversie in materia di proprietà industriale (marchi e brevetti d’invenzione) e di concorrenza sleale cosiddetta "interferente";
  2. le controversie in materia di diritto d’autore (creazione e sfruttamento delle opere dell’ingegno, ad esempio, film, opere teatrali, opere letterarie, musica, canzoni, fotografie artistiche);
  3. le controversie relative alla violazione della normativa nazionale per la violazione della concorrenza (articolo 33, comma 2, della legge 10 ottobre 1990 n. 287), che sanziona le intese, l’abuso di posizione dominante e le operazioni di concentrazione tra imprese, quando determinano un’alterazione del funzionamento del mercato che nuoce all’economia ed agli interessi dei consumatori (costretti, ad esempio, ad acquistare beni o servizi a prezzi superiori);
  4. le controversie relative alla violazione della normativa antitrust dell’Unione europea (articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea; si tratta delle violazioni che interessano l’intero territorio della Comunità Europea e non il territorio del singolo Stato membro);
  5. le controversie relative a contratti pubblici di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria dei quali sia parte una società di capitali, laddove sussista la giurisdizione del giudice ordinario (si tratta di appalti di lavori, fornitura di beni e servizi di rilevante valore economico).

La materia societaria, per tale intendendosi non solo le “cause” ma anche i “procedimenti” e quindi tutta l’area dei procedimenti di volontaria giurisdizione non indicati nell’originaria formulazione del decreto-legge, relativa alle società per azioni,  alle società in accomandita per azioni, ma anche alle società a responsabilità limitata, alle società cooperative ed alle società europee (art. 3 decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168 come modificato dalla legge 24 marzo 2012, n. 27).

Restano, invece, escluse dalla competenza delle sezioni specializzate (a meno che non vi sia "attrazione" ai sensi dell'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n. 168 del 2003, come modificato dalla Legge n. 27 del 2012) le controversie relative alle società di persone, salvo il caso che queste “esercitino o siano sottoposte a direzione e coordinamento” di - o da parte di -  società di capitali e cooperative. 
La scelta dell’attribuzione di competenze non per blocchi di materie omogenei e tendenzialmente completi è stata criticata da molti commentatori perché per alcuni aspetti appare incoerente, e perché ritenuta foriera di molteplici questioni relative all’esatta individuazione del giudice competente, questioni che certamente non favoriscono la celerità dell’intervento giudiziario.

Vanno individuati i possibili interventi modificativi ed integrativi, per eliminare o quanto meno, ridurre le criticità riscontrabili e riscontrate nella concreta applicazione delle nuove disposizioni normative, integrando, ove necessario, il testo normativo vigente,  dando maggiore organicità alla competenza per materia  delle Sezioni specializzate, anche per meglio definire il ruolo del tribunale delle imprese  nel sistema della giustizia civile italiana.
In sostanza, si tratta di consolidare i positivi risultati raggiunti, dapprima, con il decreto legislativo n. 168 del 2003, che ha istituito, presso i tribunali e le corti d’appello, le sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale – la cui competenza, ai sensi dell’articolo 134 del decreto legislativo n. 30 del 2005, era limitata alle controversie in materia di proprietà industriale (marchi e brevetti) e di diritto d’autore, nonché in materia di concorrenza sleale, nei casi di atti di concorrenza sleale interferenti con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale – e poi con il decreto-lLegge n. 1 del 2012, convertito con legge n. 27 del 2012, che ha introdotto nel nostro sistema le sezioni specializzate in materia di impresa.

E’ da escludere qualsiasi ampliamento delle competenze che possa comportare il rischio di despecializzazione dei giudici delle Sezioni Specializzate, rischio al quale hanno fatto riferimento quanti già hanno espresso critiche all’ampliamento di competenza operato dal Legislatore rispetto alle vecchie sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale.
Va escluso, altresì, qualsiasi intervento che possa far apparire la competenza del Tribunale delle Imprese come una “giurisdizione” costruita su base puramente soggettiva, in quanto tale, discriminatoria rispetto alle istanze di giustizia provenienti dai comuni cittadini.
Del tutto impraticabile appare, quindi, una generalizzata devoluzione ai Tribunali delle Imprese di tutte le cause in cui, una delle parti, sia una società.

Quello che deve contare, nel disegno della competenza delle Sezioni specializzate, è la natura del rapporto dedotto in giudizio e quindi l’elevato tasso tecnico delle relative controversie, e la potenziale rilevanza delle questioni per l’economia del Paese, caratteristiche senz’altro riscontrabili nei rapporti che attengono alla proprietà industriale, nei rapporti che attengono alla proprietà intellettuale, in quelli che attengono alla concorrenza, anche per i riflessi che possono produrre le distorsioni del mercato sugli interessi dei consumatori (costretti, per fare un esempio,  ad acquistare beni o servizi a prezzi superiori), nei rapporti che attengono alle regole interne di funzionamento delle società, che sono le protagoniste delle dinamiche del mercato, stante il ruolo ormai marginale dell’impresa individuale, con esclusione della troppo ampia messe dei rapporti tra società e terzi, esclusione ampiamente condivisibile per le ragioni innanzi esposte.

Invece si possono e si devono affrontare singole questioni, per così dire tecniche, poste dal testo normativo vigente.
Rientrano nella competenza per materia delle sezioni specializzate in materia di impresa, le fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela della proprietà industriale e, con qualche sforzo interpretativo, si possono far rientrare anche quelle interferenti con la proprietà intellettuale, materia che, per inciso, trova ancora la sua fondamentale disciplina nella legge n. 633 del 1941. 

Si propone di devolvere alle  neocostituite sezioni specializzate, tutte le controversie in materia di concorrenza sleale (“pura” e “non pura”) e dunque anche quelle che non interferiscono, neppure indirettamente, con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale (si confronti l'articolo. 134, comma 1, del citrato codice della proprietà industriale) e quelle concernenti la pubblicità ingannevole e comparativa di cui all'articolo 8 del decreto legislativo n. 145 del 2007, nelle quali è preminente il profilo della  tutela delle imprese.
Il legislatore delegato coglierà l’occasione per risolvere i dubbi interpretativi sorti in ordine alla portata della devoluzione alle sezioni specializzate delle cause connesse, essendosi largamente discusso sul significato da dare all’espressione “materie che presentano ragioni di connessione, anche impropria, con quelle di competenza delle sezioni  specializzate”, contenuta nell’articolo 134, comma 1, del citato codice della proprietà industriale, e sul paventato  rischio che la forza attrattiva della competenza per materia incrementi il carico di contenzioso, con ricadute negative sulle finalità acceleratorie della riforma (preoccupazione che appare francamente eccessiva).

Vengono rimesse alla competenza delle sezioni specializzate le azioni di classe ex articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, per le violazioni delle norme nazionali ed europee per la tutela della concorrenza, a favore dei consumatori e utenti, per il pregiudizio derivante da pratiche scorrette o comportamenti anticoncorrenziali, che restano devolute al tribunale ordinario del capoluogo della regione, salvo alcuni accorpamenti, in cui ha sede l’impresa (comma 4).
Tale competenza, in sede di conversione del decreto-legge. n. 1del 2012, è stata espunta dalle materie da attribuire alle neocostituite sezioni specializzate.

Non appare del resto corretta la contrapposizione tra interessi delle imprese ed interessi dei consumatori, rispetto a vicende che possono riguardare pratiche commerciali scorrette o condotte anticompetitive, confusorie o ingannevoli nell’uso dei marchi, atteso che le relative tutele ben possono trovare collocazione in interventi legislativi finalizzati a promuovere le condizioni di virtuoso sviluppo delle attività delle imprese ed il corretto funzionamento del mercato: “La legge antitrust non è la legge degli imprenditori ma è le legge dei soggetti del mercato”.
In ordine alla competenza delle Sezioni Specializzate in materia di Impresa, nella materia societaria, il richiamo ai soli  “patti parasociali, anche diversi da quelli di cui all’art. 2341-bis del codice civile”, e non anche agli “accordi di collaborazione nella produzione e nello scambio di beni o servizi e relativi a società interamente possedute dai partecipanti dell’accordo”, di cui all’art. 2341-bis, ultimo comma, del codice civile, deve essere oggetto di rimeditazione,  in ragione dei profili anticoncorrenziali che possono inerire a tale tipo di pattuizioni.

Va disposta la riunificazione, davanti al medesimo  giudice, delle controversie in materia di società di persone, poiché vi sono state ricomprese – alla fine – anche quelle relative alle società a responsabilità limitata, inizialmente escluse, sul rilievo che le società per azioni italiane sono in numero piuttosto limitato e che la scelta tra l’uno e l’altro modello tipologico non è dovuta soltanto alle dimensioni, più o meno grandi, dell’attività economica da espletare.
Un capitolo a sé merita la previsione della competenza per le controversie in materia di appalti pubblici di rilevanza comunitaria, allorché stipulati da una delle società rientranti nelle tipologie previste dal medesimo art. 3 del decreto legislativo n. 168 del 2003, modificato dall’articolo 2 della legge n. 27 del 2012, e fermo restando il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario: si tratta di materia che evidentemente esula da quella concernente i rapporti endosocietari ed è assai lontana da quella industrialistica, il che ha  determinato le aspre critiche di quanti paventano un rischio di despecializzazione dei giudici delle neocostituite sezioni specializzate.

La scelta operata dal legislatore cadeva in un periodo nel quale era stato introdotto un divieto di arbitrato, che poi è venuto meno (articolo 3, commi 19 e 20 della legge n. 224 del 2007),  mentre oggi l’articolo 241 del codice dei contratti pubblici apre alla possibilità di una risoluzione alternativa delle controversie (cosiddetta "alternative dispute resolution" - ADR) in materia di appalti pubblici, disposizione in linea con le più recenti iniziative politiche dell’Unione europea (si vedano le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, il Libro Verde della Commissione delle Comunità europee relativo  ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale del 19 aprile 2002, la direttiva 2008/52/CE sulla mediazione in materia civile e commerciale).

Ultima annotazione, di natura processuale, circa il rito applicabile alle controversie trattate dalle aezioni apecializzate in materia di impresa, considerato che le vecchie sezioni prevedevano espressamente la riserva di collegialità per tutte le cause.
La riserva di collegialità è un’importante  caratteristica del tribunale delle imprese, perché con il decreto degislativo n. 51 del 1998, modificando il codice di procedura civile, il legislatore ha stabilito che i tribunali, che costituiscono i giudici di primo grado, decidono, salvo che in alcune materie particolarmente delicate (art. 50-bis del codice di procedura civile), in composizione monocratica, sicché si può dire che il sistema giudiziario italiano oggi si basa sulla figura del giudice unico (prima della riforma del 1998, il pretore era già un'apprezzata figura di giudice unico).

Ciò detto, il processo destinato a risolvere i conflitti in tema di proprietà industriale, cioè la violazione dei diritti di privativa (contraffazione e usurpazione) ovvero la contestazione della validità dei titoli dai quali i diritti discendono (nullità e decadenza), è oggi il giudizio civile a rito ordinario, e non più il cosiddetto rito societario (decreto legislativo n. 5 del 2003), che l’articolo 134 del codice della proprietà industriale (decreto legislativo n. 30 del 2005), nella sua precedente versione, aveva esteso alle controversie trattata dalle sezioni specializzate, in quanto la corte costituzionale, con la sentenza n. 170 del 2007, ha giudicato costituzionalmente illegittima tale estensione delle regole del processo societario, rilevando che l’articolo 134, il quale appunto quelle regole richiamava, fosse andato oltre i limiti della delega concessa al Governo.
Di conseguenza, il rito ordinario regola tutte le controversie di diritto industriale, e della proprietà intellettuale, così come tutte le altre controversie devolute alla competenza delle sezioni specializzate in materia di Impresa, ivi compresa la fase cautelare, quest’ultima, attraverso il procedimento cautelare uniforme, che ha dato indiscutibili risultati in termini di rapidità ed efficacia (articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile).
Ne discende, che la soluzione delle criticità che riguardano l’ordinario giudizio di cognizione non potrà che avere un effetto benefico anche sul processo che si svolge dinanzi alle sezioni specializzate in materia di Impresa.


LA SEZIONE SPECIALIZZATA PER LA FAMIGLIA

 

Il dibattito circa la rilevanza giuridica della famiglia e l’assenza nel codice civile, anche solo di una definizione di famiglia, è stato suggestionato per anni dalla convinzione che il legislatore avesse volutamente rinunciato a definire alcuni istituti consapevole della natura pregiuridica degli stessi, in quanto sorti prima che il diritto li isolasse da altri concetti affini, e della conseguente impossibilità di dominarli, ma al più di regolamentarne solo certi aspetti.
Suggestiva a tal riguardo è la immagine di Jemolo della famiglia “come un’isola che il mare del diritto può solo lambire”.

Tuttavia, la realtà ha dimostrato che il legislatore ha inciso profondamente sulla famiglia modificandone la struttura e la funzione rispetto all’originario modello codicistico. Basti solo pensare all’introduzione del divorzio che ha definitivamente chiuso ogni possibilità di concepire la famiglia in chiave istituzionale, quale organismo cioè portatore di interessi di natura superindividuale. Da quel momento importanti normative di settore sono state introdotte per governare lo svilupparsi di esperienze familiari alternative al matrimonio, da ultimo con la riforma della filiazione, iniziata con la legge n. 219 del 2012 e completata con il decreto legislativo n.154 del 2013.

La legge n. 219 del 2012 ha indubbiamente rappresentato una vera rivoluzione nei procedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio.
In relazione a questi ultimi, dal punto di vista processuale, il sistema originario del 1942 era organizzato secondo un fondamentale riparto delle competenze: i provvedimenti in materia di affidamento erano riservati al tribunale per i minorenni, in virtù del richiamo all’articolo 317-bis del codice civile contenuto nell’articolo 38, comma 1, disposizioni per l'attuazione del codice civile, mentre il contenzioso di natura economica rimaneva di competenza del tribunale ordinario, non essendo stata la norma di riferimento - l’articolo 148 del codice civile - richiamata dall’articolo 38, comma 1, delle disposizioni  per l'attuazione del codice civile.
Tale sistema dualistico, sebbene sin dalle sue prime applicazioni sia stato oggetto di aspre critiche per la evidente frammentazione delle tutele, è stato confermato dalla Corte costituzionale come scelta di politica del diritto non contrastante con i principi e le garanzie costituzionali (Corte cost.ituzionale 30 luglio 1980, n. 135).

L’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso aveva fatto sperare nel superamento della divisione delle competenze con un procedimento finalmente unitario anche per i figli nati da coppie non sposate. L’interpretazione della norma ha, però, dato adito a notevoli contrasti circa  l’individuazione dell’organo giudiziario da considerarsi competente, ritenendo, una parte degli interpreti, che le nuove norme avessero operato il trasferimento di tutti i procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio; altra parte  aveva invece ritenuto immutata la competenza del tribunale minorile sull’affidamento, estendendovi anche le decisioni in ordine ai profili economici.

Il contrasto tra le due tesi ha dato origine in sede applicativa a un regolamento necessario di competenza, deciso dalla Cassazione con la nota ordinanza 3 aprile 2007, n. 8362, successivamente più volte ribadita. La concentrazione delle tutele per i figli nati fuori dal matrimonio in capo al giudice minorile, sebbene abbia riportato ad unità la prassi dei diversi tribunali, ha lasciato aperto il varco a critiche che, nella duplicità di competenze, continuano a vedere un’iniqua disparità di trattamento tra figli nati all’interno ovvero fuori del matrimonio.
La Corte di Cassazione torna sul tema tanto discusso, a seguito di regolamento di competenza, con ordinanza n. 20354 del 5 ottobre 2011 contestando l’errato presupposto di considerare la competenza all’adozione di provvedimenti opportuni in caso di situazioni pregiudizievoli per i minori esclusivamente attribuita al Tribunale specializzato, quindi precludendosi tale possibilità al giudice ordinario. Con la pronuncia citata la Corte ha statuito l’incompetenza funzionale del tribunale per i minorenni ad adottare provvedimenti circa l’interesse del minore ed il suo affidamento quando sia pendente un procedimento di separazione o di altro tipo, previsto dalla legge 1° dicembre 1970, n. 898.

Negli anni, dunque, in riferimento alle controversie riguardanti minori in pendenza di separazione o divorzio, la Corte è partita  da una necessità di assicurare la materia minorile esclusivamente al giudice specializzato, considerando inscindibile la questione dell’ esercizio della responsabilità da quella dell’affidamento ed è passata a considerare la competenza attribuita al tribunale per i minorenni nei soli casi in cui, come causa della revisione delle condizioni di affidamento, si chieda un intervento limitativo o ablativo della responsabilità ex articoli 330 e 333 del codice civile.
La legge n.  219 del 2012 ha compiuto un ulteriore passaggio significativo sulla questione, formalizzando il concetto esaminato e prevedendo un riordino della ripartizione delle competenze.
L’attribuzione delle competenze continua a fondarsi sull’articolo 38 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, il quale individua una serie di provvedimenti riservati al giudice minorile, mentre la competenza del tribunale ordinario è individuata de residuo.
Sotto il profilo processuale sono, infatti, già emersi numerosi problemi interpretativi sulla legge in materia di filiazione.

In ossequio alla ratio della legge che ha voluto l’unificazione dello status di figlio a prescindere che lo stesso sia nato o meno all’interno del matrimonio, la competenza per i procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio è passata al tribunale ordinario, in quanto nell’art. 38 disp. att. c.c. è stato espunto – tra i procedimenti riservati alla competenza del giudice minorile – ogni riferimento agli articoli 316 e 317-bis del codice civile  (quest’ultima norma  aveva originariamente ad oggetto  l’esercizio della responsabilità dei genitori). Il decreto legislativo n. 154 del 2013, ha totalmente mutato l’oggetto dell’articolo 317-bis del codice civile, che oggi regolamenta i “Rapporti con gli ascendenti”, ed ha attribuito la competenza al Tribunale dei Minorenni. La  norma come riformulata è stata già tacciata di illegittimità costituzionale  dal Tribunale  del Minorenni   di Bologna con  ordinanza 2 - 5 maggio 2014 proprio con riferimento al profilo della competenza).

Nulla dice la a norma sulla competenza per territorio, lasciando all’interprete due possibilità: l’applicazione del foro generale di residenza del genitore convenuto (ai sensi dell’articolo 18 del codice di procedura civile), ovvero l’applicazione del foro di residenza effettiva e abituale del minore (secondo le indicazioni provenienti dall’art. 8 Reg.to CE 2201/2003).
La legge prevede inoltre che il tribunale ordinario abbia altresì il potere di emanare i provvedimenti di cui all’articolo 333 del codice cuivile (cioè provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale in caso di condotte pregiudizievoli per il minore) quando sia in corso “giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile”. Per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316, del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.

Sebbene la ratio della norma sia evidente – realizzare, nelle ipotesi in cui sia in corso un giudizio comunque volto a statuire sull’affidamento del figlio, la concentrazione delle tutele attribuendo al giudice competente il potere di emanare ogni provvedimento nell’interesse del minore – non altrettanto felice è la formulazione della disciplina processuale.
La norma facendo riferimento a tutta la durata del processo non permette di individuare con certezza se tale dizione coincida con la sola pendenza del processo in primo grado o si estenda anche al giudizio concluso ma ancora in termini per impugnare, alla litispendenza attenuata, al giudizio pendente in appello, al procedimento di modifica o di revisione in corso.

La norma richiede inoltre la identità soggettiva: ( "le stesse parti"). L’attrazione della competenza dei provvedimenti de potestate si verifica, infatti, unicamente quando i procedimenti siano pendenti tra le stesse parti.
Ciò sembrerebbe escludere le ipotesi in cui la richiesta di provvedimenti de potestate sia fatta valere dai soggetti legittimati a tal fine dall’art. 336 c.c. Si pensi all’ipotesi del procedimento instaurato avanti al giudice minorile dal pubblico ministero, organo dotato di legittimazione ad agire ai sensi dell’articolo 336 del codice civile o dai nonni del minore.

Ma l’aspetto che maggiormente solleva dubbi interpretativi è la avvenuta attrazione della competenza al giudice ordinario anche dei provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale (ex art. 330 del codice di procedura civile) o se questi siano comunque riservati alla competenza del tribunale dei minori e ciò nonostante la dizione letterale della norma.
I principi che hanno ispirato la vis attrattiva al giudice ordinario delle competenze in materie di figli nati fuori dal matrimonio -  economia processuale, concentrazione e effettività della tutela - impone che l’insieme delle statuizioni che l’autorità giudiziaria è chiamata ad assumere relativamente a uno stesso minore sia coerente ed uniforme. Impone altresì che gli strumenti processuali siano idonei a fornire tale tutela delle medesime forme e garanzie.
La norma introdotta dal nuovo articolo 38 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile si è, tuttavia, limitata a un generale richiamo agli  articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile,  lasciando all’interprete di costruire in concreto il rito da applicare, ed in particolare di come gestire l’istruttoria,  sulla base di  una incongruenza di fondo: l’esistenza di un modello processuale diverso rispetto alle analoghe situazioni relative a figli di genitori coniugati la  cui tutela giudiziale è affidata a un rito (quello della separazione e del divorzio) certamente dotato di maggiori garanzie formali e sulla giustificabilità di tale trattamento differenziato.

Rimane inoltre come un ulteriore nodo irrisolto, l’individuazione di un giudice competente anche per l’esecuzione forzata.
L’evoluzione e le criticità descritte evidenziano la progressiva erosione delle competenze del tribunale dei minorenni, attribuite al giudice ordinario, e il potenziamento delle competenze del Tribunale ordinario anche con riferimento alla tutela dei minori. Occorre,  dunque, istituire nuovi organi dotati di specifica preparazione e competenza, che possano applicare, nei procedimenti in materia di famiglie e minori attribuiti alla competenza del tribunale ordinario, un rito effettivamente adeguato e dotato delle necessarie garanzie dei diritti da tutelare, secondo criteri di semplificazione e di flessibilità. Data la complessità della materia, occorre, ai fini di un’adeguata tutela dei minorenni, conciliare le esigenze di efficacia e di celerità con la necessità di un’adeguata specializzazione garantita da un apporto  multidisciplinare. Pare dunque opportuno individuare  gli affari per i quali il tribunale decide in composizione monocratica,  quelle per cui decide in composizione collegiale e quelle rispetto alle quali decide in composizione collegiale, che si avvale dell’apporto di tecnici specializzati.
Va immaginata una sezione specializzata per la famiglia, i minori e la persona con competenza chiara e netta su tutti gli affari relativi alla famiglia, anche non fondata sul matrimonio, e su tutti i procedimenti attualmente non rientranti nella competenza del tribunale per i minorenni in materia civile, a norma dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, come modificato dall’articolo 3 della legge n. 219 del 2012. 

Pare tuttavia, opportuno, alla luce delle prime applicazioni della nuova formulazione dell’articolo 38 delle siposizioni per l'attuazione del codice civile, porre rimedio alla scarsa chiarezza della norma, relativa all’attribuzione della competenza per i procedimenti in materia di decadenza dalla potestà (articolo 330 del codice civile), quando sia in corso un procedimento di separazione o divorzio, ovvero ai sensi dell’articolo 316 del codice civile.  Va a tal fine eliminato l’inciso relativo “ai provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo del medesimo articolo”.  Espungere  l’inciso contenuto nel primo comma della norma citata (“anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo”), elimina il dubbio circa il trasferimento di competenza al tribunale ordinario dei provvedimenti ex art. 330 del codice civile in pendenza dei suddetti procedimenti tra le parti, lasciando ferma in quei casi la competenza del tribunale per i minorenni. Pare opportuno in tale fattispecie preferire il tribunale per i minorenni, essendo il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale (un tempo "potestà") particolarmente invasivo, dal momento che incide non già sul mero esercizio, ma sulla titolarità della stessa, secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale precedente alla citata modica, foriera delle segnalate incertezze.

Quanto all’attribuzione dei procedimenti relativi ai minori stranieri non accompagnati e a quelli richiedenti protezione internazionale alla competenza del tribunale per i minorenni, esistono prassi diversificate sul territorio nazionale, atteso che in talune realtà del settore si occupa il giudice tutelare, mentre in altre se ne occupa con maggiore celerità il tribunale per i minorenni, su impulso della procura minorile, attraverso l’apertura dei procedimenti di adottabilità, nei quali si perviene con immediatezza alla nomina del tutore. Pare opportuno attribuire tale competenza ai tribunali per i minorenni, su impulso della relativa procura, essendo questo maggiormente attrezzato ad offrire una tutela più rapida ed efficace a questa tipologia di minori. Occorrerà, peraltro, disciplinare il rito secondo modalità semplificate e senza dove ricorrere alla procedura di adottabilità.
Pare opportuno far confluire nelle sezioni specializzate anche le professionalità dei tecnici specializzati, che si sono formate nell’esperienza del tribunale per i minorenni  - una risorsa da non disperdere ma da valorizzare -  nell’ambito di una struttura processuale dai contorni certi e gestita da giudici togati.

Occorre infine, a garanzia della specializzazione delle stesse, assicurare alla sezione l’ausilio dei servizi sociali e di tecnici specializzati nelle materie di competenza.
Va previsto che le attribuzioni conferite dalla legge al pubblico ministero nelle materie di competenza delle sezioni specializzate siano esercitate da magistrati ai quali è attribuita, almeno in misura prevalente, la trattazione di affari rientranti nella competenza della sezione specializzata per la famiglia e per la persona.

Per la medesima ragione, va altresì prevista l’attribuzione, almeno in misura prevalente, a una sezione di corte di appello delle impugnazioni avverso le decisioni di competenza delle sezioni specializzate per la famiglia e la persona e di competenza del tribunale per i minorenni.
I suindicati interventi sul quadro delle competenze in materia di famiglia e persone, anche di età minore, ormai consolidatosi anche a seguito delle recenti modifiche introdotte   dalla legge n. 219 del 2012 e dal decreto legislativo n. 154 del 2013, e con i correttivi che vengono apportati, consentono di pervenire a un’adeguata specializzazione nella trattazione dei procedimenti relativi alla famiglia e alle persone, anche di età minore. 

L’esigenza di modificare l’originaria versione dello schema di delega sul punto relativo alle sezioni specializzate della famiglia, scaturisce dal fatto che esso avrebbe  determinato un pesante svuotamento delle competenze dei tribunali per i minorenni, atteso che essi sarebbero stati destinati alla sola trattazione dei procedimenti penali a carico di imputati minorenni e dei procedimenti di adozione, al netto delle dichiarazioni di adottabilità, di cui si prevedeva il trasferimento alle sezioni specializzate. 
La necessità  di specializzazione del giudice che si occupa del minore che delinque, sulla base di un procedimento che persegua i fini della sua rieducazione e del suo reinserimento sociale, è stata ripetutamente affermata dalle convenzioni internazionali, in particolare dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte con legge 25 ottobre 1977, n. 881) e dall’articolo 4 delle Regole di Pechino. A livello comunitario, tale principio è stato affermato dal testo fondamentale costituito dalle “Linee guida del comitato dei ministri del consiglio di Europa su una giustizia a misura di minore” del 17 novembre 2010.

Invero, l’ipotizzata  separazione delle competenze civili e penali in materia minorile, assegnandosi le prime all’istituenda sezione del tribunale ordinario, non tiene conto della loro inscindibilità. Vi è, infatti, una stretta connessione fra il disagio adolescenziale e un esercizio della responsabilità genitoriale inadeguata, ed è importante che i magistrati che intervengono su uno dei due fronti conoscano e operino anche sull’altro. La necessità che esse siano trattate in modo unitario emerge  anche dalla disciplina del processo penale minorile, come emerge dalla possibilità attribuita al giudice penale di emettere provvedimenti civili a protezione del minore (articolo 32, comma 4, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448).

Lasciare ai tribunali per i minorenni le sole competenze penali determinerebbe poi un’inefficiente utilizzazione delle risorse materiali e umane, in quanto costringerebbe al mantenimento di un numero elevato di magistrati (stante il regime delle incompatibilità dei processi penali), con la relativa dotazione delle cancellerie, per far fronte a modesti carichi. A dimostrazione di ciò, si citano i dati statistici  dei procedimenti penali davanti ai tribunali per i minorenni che, in tutti i distretti, nel triennio decorrente dal 2009 al 2012, sono lievemente aumentati da 4.528 a 4.920,  mentre le sopravvenienze nello stesso periodo sono aumentate nel triennio da  4.471  a  4.737 e i definiti sono pure lievemente aumentati da 4.176 a 4.254. Emerge che i dati numerici relativi ai carichi nel settore penale minorile appaiono assai meno rilevanti che negli uffici ordinari e che essi vengono smaltiti in tempi assai più rapidi, senza creazione di significativo arretrato. Tuttavia, il rigoroso regime delle incompatibilità dei giudici nel settore penale impone  il mantenimento, anche nei tribunali minorili più piccoli, di almeno cinque magistrati.

 Dunque, il pressoché totale trasferimento delle competenze civili alle sezioni specializzate previsto nell’originaria bozza, determinerebbe una evidente sperequazione di carichi, cui conseguirebbe una sottoutilizzazione dei giudici minorili e, parallelamente, una congestione delle sezioni specializzate, con un conseguente allungamento dei tempi di definizione di procedure urgenti. Tale situazione, peraltro, già si sta registrando, a seguito dell’aumento delle competenze civili dei tribunali ordinari, a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 219 del 2012 e del decreto legislativo n. 153 del 2013.

Un ulteriore profilo di criticità della prima versione dello schema di delega era dato dalla separazione delle competenze tra procedimento di adottabilità e procedimento di adozione. Essi appaiono invece assolutamente inscindibili. Infatti, sulla base dell'articolo 10 della legge n. 184 del 1983, già in pendenza del procedimento di adottabilità e in considerazione della lunga durata del medesimo, che non può andare a danno del diritto dei minori ad una famiglia, pressoché tutti i tribunali per i minorenni utilizzano lo strumento dell’«affidamento a rischio giuridico», anticipando alla fase dell'adottabilità il delicato procedimento di individuazione per comparazione della coppia più idonea all'affidamento del minore e alla sua eventuale e successiva adozione. L'attribuzione della competenza relativa ai procedimenti di adottabilità al tribunale ordinario avrebbe gravato ulteriormente le sezioni specializzate degli adempimenti relativi all'individuazione delle coppie affidatarie, rispetto ai quali i tribunali per i minorenni hanno una consolidata esperienza e specializzazione, tenuto conto dell'imprescindibile apporto dei giudici onorari nelle lunghe istruttorie relative alla valutazione delle coppie che hanno proposto istanza di adozione.

Dunque, la competenza dei tribunali per i minorenni sarebbe risultata ulteriormente svuotata, dovendosi essi limitare per lo più a recepire valutazioni già fatte da altro organismo giudiziario in ordine all'affidamento del minore nonché a occuparsi delle limitate competenze attribuite ad essi dal nostro ordinamento in materia di adozioni internazionali e di adozioni in casi particolari.

La previsione delle sezioni specializzate della famiglia impone altresì l'introduzione nella delega originaria di una previsione relativa alle sezioni di corte d'appello competenti in ordine ai gravami avverso i provvedimenti di primo grado in materia.
Pare, in conclusione, opportuno, in relazione alla necessità di valorizzare le risorse già esistenti nei tribunali ordinari e nei tribunali per i minorenni e di razionalizzare l'inevitabile riparto di competenze, continuare ad attribuire alle sezioni specializzate tutte le competenze già attribuite dalla citata riforma del 2012-2013 in materia di famiglia, anche di fatto, e lasciare invece al tribunale per i minorenni, oltre alle competenze penali, tutte le competenze civili che attengano al pregiudizio per il minore (fatta eccezione per i casi in cui il novellato articolo 38 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile attribuisce la competenza per i procedimenti ex articolo 333 del codice civile al tribunale ordinario), in considerazione della particolare specializzazione e della consolidata competenza maturate dai tribunali per i minorenni in questa materia.

Viene poi attribuita al tribunale per i minorenni, per le ragioni già illustrate, un'ulteriore competenza in materia di minori stranieri non accompagnati. Restano, infine, salve le ulteriori competenze attribuite ai tribunali per i minorenni dalle leggi speciali, come quelle relative alla sottrazione internazionale dei minori e ai ricorsi degli ascendenti ex articolo 317-bis del codice civile.

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO


L'udienza di prima comparizione e trattazione

Il progetto elaborato dalla commissione Vaccarella ha il pregio di razionalizzare la fase di introduzione e trattazione della causa nel rito ordinario semplicemente prevedendo l'anticipazione del contraddittorio processuale rispetto alla prima udienza di comparizione e trattazione ex articolo 183 del codice di procedura civile, attualmente rimandato a una fase successiva al suo svolgimento.

Con qualche opportuno adattamento, questa soluzione potrebbe essere ripresa: la trattazione resterebbe bensì distinta tra un momento orale (in ossequio all'articolo 180 del codice di procedura civile, che impone l'oralità nel processo civile) e un momento scritto, ma quest'ultimo, anziché seguire il primo, lo anticiperebbe.

È un dato di comune esperienza, come si è accennato innanzi, che il primo anno dalla notifica della citazione è sostanzialmente perso nell'inattività: a parte la costituzione del convenuto, con le note decadenze di cui all'articolo 167 del codice di procedura civile, oltre ai novanta giorni (oltre all'eventuale sospensione feriale) occorre considerare che, in modo scontato, nulla accade nella prima udienza di comparizione, ove non vi siano le attività ex articolo 182 del codice di procedura civile, per cui, dinanzi alla certa richiesta di concessione del noto triplo termine ex articolo 183, sesto comma, del codice di procedura civile (per almeno ulteriori ottanta giorni), occorrono quasi due terzi del primo anno di pendenza della causa (e spessissimo un anno intero e oltre) perché il giudice istruttore, nell'udienza ex articolo 184 del codice di procedura civile, possa decidere, ai sensi dell'articolo 187 del medesimo codice, circa la rilevanza e l'ammissibilità delle prove richieste dalle parti e quindi aprire la fase istruttoria o far entrare immediatamente la causa in decisione.

Non si può, peraltro, non ricordare la prassi – se non contra, certamente praeter legem – in uso presso molti tribunali, addirittura di far decorrere il triplo termine a ritroso rispetto all'udienza ex articolo 184 del codice di procedura civile, per effettuare il predetto giudizio di rilevanza o ammissibilità delle prove: in questi casi, tra la notifica della citazione e l'udienza ex articolo 184 del codice di procedura civile possono passare anche due o tre anni; ovvero la prassi di rinviare anche di un anno l'udienza ex articolo 184 e far decorrere da una data fittizia nel tempo – quindi non dall'udienza di trattazione – il triplice termine.

Si tratta di tempo inutilmente e irrimediabilmente perso: un lusso che un processo civile moderno ed efficiente non può permettersi.

Ebbene, riprendendo la soluzione già impostata dalla commissione Vaccarella, si potrebbe riempire questo abnorme spazio vuoto, questa vera e propria perdita di preziosissimo tempo processuale. La razionalizzazione avverrebbe semplicemente prevedendo, ad instar del rito del lavoro, che lo scambio delle memorie, oggi previste come appendice scritta dopo l'udienza di trattazione, avvenga prima della stessa.

Contemporaneamente al maturare delle preclusioni assertive e istruttorie dovrà intervenire la preclusione per la contestazione ex articolo 115, secondo comma, del codice di procedura civile.

La soluzione presenta i seguenti vantaggi:

dal lato delle parti e dei difensori:

 

  1. non stravolge le prassi in uso da lustri, perché lo scambio delle memorie prima dell'udienza avviene nel rito del lavoro, in quello delle locazioni, in quello cautelare, nei riti camerali, nella decisione mista ex articolo 281-quinquies del codice di procedura civile e in altri casi;
  2. consente ai difensori di continuare l'attività di trattazione quando la causa è presente alla memoria, perché studiata di recente per avviarla o per resistere alla domanda avversaria, e non a distanza di un anno o peggio, a seconda di quando è fissata l'udienza ex articolo 184;
  3. soprattutto, nel volgere di nemmeno mezzo anno, consente (e – si badi – impone) al giudice istruttore di arrivare all'udienza di trattazione con tutte le allegazioni assertive e istruttorie espletate dalle parti e, quindi, di esercitare causa cognita tutti i poteri previsti dagli articoli 38, 153, secondo comma, 182 e, soprattutto 187 del codice di procedura civile; non solo, anche se raramente, addirittura quelli di cui all'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, quindi invitando le parti alla precisazione delle conclusioni e alla discussione immediata orale della causa, con contestuale pronuncia della sentenza a verbale;
  4. nel caso di processi a struttura bifasica, ad esempio l'opposizione all'ingiunzione, consente alle parti di argomentare sulle istanze ex articoli 648 e 649 del codice di procedura civile con ampiezza di argomenti, senza aggiungere – come accade nella prassi – anche una o due memorie difensive per discutere della provvisoria esecutività del decreto opposto e poi cadere nel vortice delle memorie ex articolo 183, sesto comma, del medesimo codice;

dal lato del giudice:

  1. consente di trovare assestato definitivamente per la prima udienza – salva rimessione in termini, ovviamente, o sanatoria di vizi processuali o di presupposti processuali carenti – il materiale assertivo e istruttorio dell'intera causa;
  2. permette, quindi, di poter esercitare, tra gli altri, i poteri previsti dagli articoli 182 e 164 del codice di procedura civile, 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, 221 e seguenti, 273 e 274 del codice di procedura civile, riducendo al minimo, quindi, il rischio che la causa proceda verso una sentenza di contenuto meramente processuale;
  3. permette di esercitare il potere-dovere di cui all'articolo 101, secondo comma, del codice di procedura civile;
  4. consente di tentare la conciliazione fra le parti o di formulare la proposta conciliativa ex articolo 185-bis del codice di procedura civile (così, peraltro, bloccando inesorabilmente il triennio rilevante ai fini risarcitori in base alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (cosiddetta «legge Pinto»), con evidente risparmio per le casse dello Stato) e di interrogare liberamente le parti, sempre conoscendo esattamente i termini della causa;
  5. permette di esercitare nella stessa prima udienza la valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove costituende richieste dalle parti e finanche, nei casi più semplici, di avviare la causa alla decisione immediata;
  6. consente di eliminare, quasi con un tratto di penna, l'udienza ex articolo 184 del codice di procedura civile, che, tra l'altro, spesso non vede la pronuncia sulle prove da parte del giudice ma una riserva di provvedimento, con ulteriore dilatazione dei tempi.

L'accelerazione, nel pieno rispetto di tutti i princìpi del processo (parità dei mezzi tra le parti, diritto alla prova, rapidità, concentrazione, immediatezza, oralità) è evidente e sostanzialmente certa, a meno di errori procedurali.

Ciò posto, va peraltro anche evidenziato che il nuovo articolo 183 proposto dalla commissione Vaccarella ripete, dopo lo scambio degli atti introduttivi, lo schema della prima memoria per entrambe le parti e quindi una seconda memoria in replica.
Il contenuto è quello ben noto derivante dall'applicazione del nodo di dipendenza degli atti processuali: tutto ciò che, in linea assertiva (domande, eccezioni, contestazioni e mere allegazioni di fatti principali) e istruttoria (prove precostituite o costituende) è diretta conseguenza di quanto contrapposto nell'atto precedente dall'avversario.

Ora, come è a tutti ben noto, in realtà il sistema della prima memoria ex articolo 183, sesto comma, numero 1), del codice di procedura civile è irrazionale: è ben difficile che il convenuto, il quale, onerato delle note decadenze, si sia costituito nei termini, allegando quanto necessario in punto assertivo come istruttorio, abbia altro di principale (nel senso di esercizio di poteri primari quali domande, eccezioni o allegazioni di fatti principali) da dire nella prima memoria; quindi la prima memoria è per definizione di pertinenza esclusiva dell'attore, che deve replicare alla costituzione del convenuto.

Si propone allora di apportare una variante basata su una prassi largamente e proficuamente utilizzata nell'esperienza processuale, quella delle memorie con termini diversificati per le parti a seconda di chi sia il primo a dover rispondere al precedente atto della parte avversaria.

La prima memoria sarebbe, dunque, di sola pertinenza dell'attore, a cui poi farebbe seguito la replica del convenuto.

L'udienza di precisazione delle conclusioni

La necessità di far precedere il momento orale da quello scritto (e non viceversa) si pone, come accennato, oltre che nella fase del processo che precede l'istruzione probatoria, anche nella fase successiva, e cioè nella fase in cui vengono precisate le conclusioni e la causa viene rimessa in decisione.

Nell'attuale regime, all'udienza di precisazione delle conclusioni, il giudice, se richiesto, deve concedere il termine di sessanta giorni per le comparse conclusionali e il successivo termine di venti giorni per le memorie di replica.
Si determina quindi un'ulteriore perdita di prezioso tempo processuale, che non nuoce soltanto alla singola causa, ma determina riflessi negativi sull'organizzazione del lavoro complessivo del giudice, il quale non ha alcuna disponibilità del fascicolo tra la remissione in decisione e la scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.

Si propone quindi di invertire, anche con riguardo a questa fase del processo, la sequenza procedimentale attualmente in vigore, prevedendo lo scambio delle memorie conclusionali prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni.

In quest'udienza, dunque, si avrebbe l'ultimo contatto tra gli avvocati e il giudice, e quest'ultimo sarebbe in condizione di decidere immediatamente, eventualmente anche in via contestuale per le cause più semplici.

Valorizzazione dell'istituto della proposta di conciliazione del giudice (articolo 185-bis del codice di procedura civile) anche in funzione della definizione dell'arretrato e del contenimento delle richieste di indennizzo per irragionevole durata del processo

Il nuovo strumento della proposta conciliativa previsto dall'articolo 185-bis del codice di procedura civile (inserito dall'articolo 76 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98) potrebbe costituire un mezzo per accelerare la definizione delle cause pendenti, come dimostra la circostanza che l'istituto ricorre in vari ordinamenti stranieri e come dimostra altresì la sua prima esperienza applicativa in diversi tribunali italiani, nei quali la percentuale di accettazione delle proposte conciliative formulate dal giudice è sinora significativa.

Del resto, uno dei princìpi sulla cui importanza la dottrina processualistica ha da sempre richiamato l'attenzione è il principio di collaborazione fra le parti e il giudice. Di questo principio non si è fatta mai seria applicazione per un'elementare ragione: lo spettro della ricusazione del giudice da parte dei patroni ove egli abbia, anche se solo in via prognostica, «anticipato l'esito della decisione».

Questa idea è evidentemente errata, sol che si considerino altre primarie ipotesi in cui il giudice probabilisticamente anticipa la decisione: quelle cautelari, le inibitorie processuali, gli stessi filtri impugnatori eccetera.
Rispetto alle giuste integrazioni dello strumento, in specie l'impossibilità di ricusazione del giudice, andrebbe tuttavia prevista l'equiparazione dell'accettazione della proposta giudiziale alla sentenza, ai fini della valutazione della produttività del giudice.
Peraltro, l'importanza dello strumento dovrebbe travalicare anche il singolo giudizio e quindi consentire la riduzione in parte qua dell'arretrato, se, come è stato sostenuto, la proposta conciliativa rileva ai fini dell'impedimento della decorrenza del termine triennale della legge n. 89 del 2001 (legge Pinto).

Come recentemente rilevato, infatti, «il giudice potrebbe formulare comunque una proposta conciliativa, specie nei processi la cui durata ha superato il termine ragionevole di tre anni, poiché tale iniziativa, se anche dovesse fallire, comunque conseguirebbe il risultato di escludere la possibilità per le parti che l'avessero rifiutata di richiedere l'indennizzo per irragionevole durata del processo», in ragione della nuova formulazione dell'articolo 2, comma 2-quinquies, lettera f), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (legge Pinto), secondo cui la richiesta di indennizzo va respinta in ogni caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato un'ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento.

Collegando questi dati si potrebbe, allora, prevedere l'obbligatoria proposta conciliativa ex articolo 185-bis del codice di procedura civile in tutti i processi pendenti per i quali vi sia rischio di eccedere i termini di ragionevole durata del processo.

Un perfezionamento – ma solo per le cause nuove – potrebbe essere quello di affidare al giudice che formuli la proposta una valutazione prognostica dell'esito della lite allo stato degli atti, cioè prima della valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove: prognosi presuntiva ovviamente aperta «alla prova contraria» ossia all'impregiudicata e illimitata possibilità per il giudice di cambiare idea e decisione ad istruttoria conclusa: il che, del resto, se si ha la pazienza di guardare in un'ottica unitaria il fenomeno del processo cautelare e della causa di merito, non dovrebbe sorprendere o sconvolgere più di tanto, proprio perché da sempre esiste questa decisione, oggi addirittura provvisoriamente stabile nei casi di tutele cautelari anticipatorie ex articolo 669-octies, sesto comma, del codice di procedura civile.

Evidenti sarebbero anche i benefìci potenzialmente conseguibili in ambito europeo sulla durata dei nostri processi.


LE IMPUGNAZIONI

L'appello

Individuazione delle criticità

La ragione principale dell'arretrato delle cause civili d'appello non è costituita dalla procedura, ma in parte dall'irrazionalità della geografia giudiziaria, in parte (e soprattutto) dall'inefficiente organizzazione degli uffici e del lavoro dei magistrati:

in tutte le corti d'appello il carico di ciascun collegio è superiore a 500 unità (fonte: Banca d'Italia, 2008). Oltre questa soglia si ritiene comunemente che il flusso di lavoro non sia gestibile;

i magistrati sono distribuiti in modo non omogeneo: in alcune corti d'appello il carico di lavoro è notevolmente inferiore a quello che si registra in altre corti d'appello. Si pone pertanto un problema di geografia giudiziaria;

alcune corti d'appello, le quali hanno un carico di lavoro superiore, presentano tuttavia un tasso maggiore di produttività. Si pone pertanto un problema di organizzazione degli uffici e del lavoro dei singoli magistrati.

Obiettivo della riforma con riguardo al giudizio di appello.

Individuate le criticità, è evidente che la riforma deve tendere al potenziamento di una linea evolutiva già presente nell'attuale ordinamento, quella volta a realizzare un giudizio di appello strutturato in forma impugnatoria.

Tale giudizio di appello non dovrebbe far ripartire da capo il processo, ma essere finalizzato a correggere gli errori eventualmente commessi dal giudice di primo grado e a concludere il processo (evitandone quanto più possibile la rimessione al giudice di primo grado).

Il giudizio di appello servirebbe dunque da cerniera tra l'accertamento dei fatti (demandato al giudice di primo grado) e il controllo di legittimità (demandato in ultima istanza alla Corte di cassazione), consentendo di acquisire le prove illegittimamente non ammesse dal giudice di primo grado, di superare il suo illegittimo diniego di competenza ovvero la nullità dell'atto introduttivo, di rinnovare gli atti processuali nulli.

I princìpi ispiratori

La riforma del giudizio di appello – anche tenuto conto dell'esigenza di assestamento dei più recenti interventi normativi nonché dell'opportunità di rendere stabili gli orientamenti recentemente prevalsi nella giurisprudenza di legittimità – deve ispirarsi ai princìpi di seguito illustrati:

rafforzamento del carattere di impugnazione a critica vincolata fondata sui seguenti motivi: a) violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale; b) errore manifesto di valutazione dei fatti;

definitiva conferma, anche attraverso opportune precisazioni testuali dei precetti già contenuti nella nuova formulazione dell'articolo 342 del codice di procedura civile, del principio per cui, a pena di inammissibilità del gravame, l'appellante deve indicare nell'atto introduttivo i capi della sentenza che impugna e illustrare le modificazioni che richiede di apportarvi in conseguenza della violazione della legge ovvero dell'errore manifesto che egli imputa al giudice di primo grado;

rafforzamento del divieto di nova, prevedendo non solo che non è consentito all'appellante di proporre nuove domande, nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova (in conformità a quanto già disposto dall'attuale formulazione dell'articolo 345 del codice di procedura civile), ma che gli è precluso anche solo di introdurre nuove ragioni o deduzioni in diritto per dimostrare la fondatezza giuridica delle domande e delle eccezioni precedentemente proposte, che non siano già state sottoposte al giudice di primo grado;

riaffermazione dei princìpi del giusto processo e di leale collaborazione tra le parti, nella fase del processo qui in esame, anche mediante il superamento della previsione di inammissibilità dell'impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento;

introduzione di criteri di maggior rigore – anche avvalendosi dei risultati dell'elaborazione giurisprudenziale in tema di rilevanza del giudicato interno, anche di carattere implicito – nella disciplina dell'eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito;

ulteriore restrizione del novero delle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, salvi i diritti di difesa e al contraddittorio;

ampliamento dell'utilizzo del provvedimento dell'ordinanza (soggetta a ricorso per cassazione) in funzione decisoria (ad esempio per la declaratoria dell'inammissibilità ovvero dell'improcedibilità, nonché per il rigetto dell'appello all'esito dell'udienza di discussione).

Il giudizio per cassazione

Revisione della disciplina del giudizio camerale

Il giudizio di cassazione è stato oggetto di troppi interventi in pochi anni, tutti diretti ad introdurre qualche meccanismo che eliminasse l'arretrato.

Il risultato della farragine legislativa di cui siamo vittime è stato – dopo l'eliminazione del cosiddetto filtro a quesiti, che tante resistenze ha incontrato nel mondo dell'avvocatura, e con l'ultimo intervento di cui al decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013 – l'introduzione di una normativa assolutamente paradossale relativa al rito camerale.

Come è noto, oggi il relatore a cui è stata assegnata una causa all'interno delle sezioni, se gli appare possibile definire il giudizio ai sensi dell'articolo 375 del codice di procedura civile, ovvero secondo il percorso camerale che dovrebbe essere di maggiore celerità e semplicità, deposita una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la pronuncia alla quale egli tende. Dopo ciò, come sappiamo, avvenuta la notificazione del giorno dell'adunanza e della relazione, gli avvocati delle parti hanno facoltà di presentare memorie e di chiedere di essere sentiti.

A questo punto abbiamo la situazione di un avvocato che conosce già l'intenzione del relatore e con essa quella, sicuramente probabile, del collegio. Egli in realtà ha di fronte un vero e proprio progetto di definizione della causa con tutte le possibili rationes.

Del tutto evidente a questo punto è che il difensore che si vede prospettare una sconfitta si trovi di fronte ad una possibilità difensiva assai più grande di quella che addirittura gli compete nel momento in cui la causa invece viene attribuita al teoricamente più garantito rito dell'udienza pubblica.

Ulteriore risultato è la doppia fatica del relatore: relazione, adunanza, discussione con i colleghi, redazione di una sentenza nella quale tiene conto delle critiche alla relazione, ovvero di un'ordinanza di rimessione alla pubblica udienza. Tutto ciò rende questo rito del tutto irragionevole. Esso contraddice la sua funzione, cosicché accade, probabilmente solo in relazione alla quantità di fatica dei relatori delle singole sezioni, che ancora troppe siano le cause che, sebbene di agevole definizione e nelle quali sostanzialmente il ricorrente si duole solo di aver perduto la causa e ripete argomentazioni già esaminate dal giudice di merito, giungono all'udienza pubblica.

Sembra dunque utile lavorare sull'attuale struttura dell'articolo 380-bis del codice di procedura civile ritornando allo schema classico dell'udienza in camera di consiglio e tenendo conto della felice esperienza svolta in questa direzione dalla Corte di cassazione penale.

Tutti infatti sappiamo bene che la miglior situazione della Cassazione penale non è soltanto dovuta all'ottima organizzazione che la contraddistingue, ma anche alla struttura delle norme di cui agli articoli 610 e 611 del codice di procedura penale. In sostanza, il primo presidente della Corte di cassazione, attraverso gli uffici spoglio esistenti presso le sezioni, destina, se ritiene, i procedimenti alla camera di consiglio. Le parti, avvertite della data di trattazione, fino a quindici giorni prima possono interloquire per iscritto.

Questo meccanismo, oggi vigente per quanto riguarda la Cassazione penale e dunque anche in quel caso riguardando la sorte di delicatissimi diritti della persona, rispetta pienamente la logica della camera di consiglio e la funzione della corte di legittimità, nella quale non si vedono ragioni di distinguere strutturalmente il giudizio camerale secondo che si tratti di giudizio civile o di giudizio penale.

Sembra dunque che quella felice esperienza possa essere riprodotta, con gli adattamenti del caso, nel giudizio civile. I ricorsi, assegnati ai relatori, vengono rimessi alla camera di consiglio, su decisione del presidente titolare della sezione, quando ne appare agevole la soluzione. I difensori e il procuratore generale, avvertiti, nell'udienza possono depositare memorie, atti e ogni altro elemento che ritengano utile. In più i difensori possono, fino ad un termine breve di cinque giorni liberi prima dell'udienza, depositare ulteriori atti anche per replicare al procuratore generale.

La camera di consiglio decide con ordinanza il ricorso ovvero la rimessione dell'esame del medesimo alla pubblica udienza.

In questo modo sembra che, facendo salva l'occasione professionale del difensore attraverso la replica al procuratore generale ed eliminando l'inutile richiesta di discutere oralmente, si possa pervenire ad un risultato processuale assolutamente compatibile con i princìpi costituzionali.

Interventi normativi per risolvere discrasie funzionali e strutturali.

A parte la necessità di rivedere il procedimento camerale, il giudizio di Cassazione soffre, oggi, di profonde discrasie di carattere tanto strutturale quanto funzionale.

Le discrasie funzionali sembrano dipendere soprattutto:

dal numero (oggi intollerabilmente pletorico) dei consiglieri addetti alla Corte di cassazione;

dai relativi criteri di selezione (che dovrebbero risultare radicalmente diversi da quello, semi-automatico, dell'anzianità salvo demerito), che consenta la formazione di una corte (e non di una disordinata moltitudine di giudici) di legittimità, che consenta la formazione di un vero «diritto vivente» a direzione relativamente costante e accettabilmente prevedibile;

dalla necessità di una nuova e più pregnante responsabilizzazione dei quadri dirigenziali intermedi (presidenti titolari e presidenti di collegi), cui affidare, con riunioni periodiche, la funzione di controllo nomofilattico intrasezionale, individuando ex ante, attraverso l'indicazione di blocchi di materie, quelle destinate all'approfondimento in riunioni periodiche, tenendo conto della giurisprudenza (consolidata o prevalente) delle sezioni;

dalla concorrente e conseguente necessità di una radicale revisione dei criteri di conferimento dei relativi incarichi da parte dell'organo di autogoverno, che conduca (finalmente) ad un'autentica e non spartitoria selezione di uomini, compiuta sulla base di accertate e indiscusse professionalità;

dalla creazione dell'ufficio del giudice di Cassazione, che si avvale della collaborazione di neo-laureati, selezionati sulla base del voto di laurea e del tipo di tesi discussa in quella sede, previa indicazione dai presidi dei dipartimenti di giurisprudenza, cui affidare compiti di studio e di ricerca.

Le discrasie strutturali, oltre a quella già segnalata relativa al procedimento camerale, attengono ai seguenti problemi:

il problema del vizio di motivazione: se si accoglie la prospettiva per cui il giudizio di Cassazione non può essere soltanto un presidio dello ius constitutionis, ma occorre garantire anche lo ius litigatoris, occorre rivedere il tema del sindacato sulla motivazione, consentendolo – anche alla luce della recente pronuncia delle sezioni unite dell'aprile scorso – quanto meno nel caso di «grave e insanabile contraddittorietà» o di «grave e insanabile insufficienza»;

i motivi di ricorso: potrebbe essere opportuno indicare espressamente nell'articolo 360 del codice di procedura civile che – nelle ipotesi non frequentissime e tuttavia talora ricorrenti in cui un vizio della sentenza rilevi davvero sotto prospettive diverse – quel vizio può eccezionalmente essere illustrato richiamando contemporaneamente più motivi di ricorso, senza che ciò comporti il rischio della declaratoria d'inammissibilità, da riservarsi invece alla sola «mescolanza e sovrapposizione di motivi d'impugnazione eterogenei». Previsioni come questa servono ad impedire che impostazioni troppo rigorose o formalistiche, che talora la Corte di cassazione ha adottato, inducano i difensori a complicare e moltiplicare oltre misura, a scapito della chiarezza, la redazione degli atti introduttivi;

autosufficienza del ricorso e lunghezza degli atti: al fine di eliminare ogni base normativa per orientamenti giurisprudenziali particolarmente restrittivi, è opportuno precisare, nell'articolo 366, primo comma, numero 6), che, ai fini del rispetto del requisito dell'autosufficienza, la «specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda» significa soltanto che nel ricorso dovrà essere indicato il luogo della produzione del documento, e non già che il contenuto del documento debba essere trascritto nell'atto (è quanto la Corte di cassazione ha chiarito nel gennaio scorso, ma si tratta di indicazioni che è preferibile vengano normate). Del resto, c’è anche l'ulteriore prescrizione per cui, ex articolo 369, secondo comma, numero 4, i documenti su cui il ricorso si fonda debbono essere prodotti di nuovo, in allegato al ricorso;

giudicato e articolo 372 del codice di procedura civile: potrebbe essere opportuno prevedere, con novella all'articolo 372 del codice di procedura civile, la possibilità di documentare – perché non sia vanificata la rilevabilità ex officio – il sopravvenuto giudicato (ipotesi particolarmente ricorrente nei giudizi tributari, dove l'esigenza di impugnare più atti tra loro connessi non di rado consente che su questioni pregiudiziali si formi il giudicato che, tuttavia, non può esser fatto valere nei giudizi, già pendenti in Cassazione, aventi ad oggetto atti dipendenti);

riformulazione dell'articolo 360-bis del codice di procedura civile: in ragione della difficoltà, illustrata da tutti i commentatori, di comprendere il significato del numero 2) dell'articolo 360-bis del codice di procedura civile («quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo»), sarebbe opportuno che la norma fosse riscritta, tenendo conto delle interpretazioni che sono state suggerite, in modo da far emergere un precetto univoco che esprima con maggiore chiarezza l'interpretazione prevalente;

modifica dell'articolo 392 del codice di procedura civile: vista la difficoltà, dopo anni dall'inizio del processo, di individuare dove risieda la parte alla quale notificare «personalmente», nel termine di decadenza di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza, la citazione per la riassunzione davanti al giudice di rinvio, è opportuno modificare l'articolo 392 del codice di procedura civile nel senso di consentire che l'atto sia notificato all'avvocato costituito davanti alla Corte.

Ulteriori proposte di interventi

L'attuale carico di arretrato della Corte è enorme. Più del numero dei ricorsi giacenti va considerata la durata dell'attesa dell'udienza nella quale verranno trattati. Si va da quattro a sei anni, un tempo intollerabile.

Sembra utile prevedere dunque, a completamento delle precedenti proposte, altri due interventi.

Il primo è diretto a imporre che la formazione dei ruoli venga effettuata non tanto e non solo in considerazione dell'anzianità della cause, ma della loro rilevanza economica, sociale e comunque nomofilattica, per evitare che nell'attesa si consolidino correnti giurisprudenziali inutilmente costose.

Il secondo è volto a prescrivere alla Corte di adottare modelli di motivazione, anche assertivi, che comunque abbandonino la tentazione di sistemazione scientifica, a tutti i costi, degli istituti adoperati o anche solo sfiorati. La sentenza della Suprema Corte dev'essere atto di autorità motivato anche solo con riferimento ai propri indirizzi e, comunque, secondo un'assoluta esigenza di sintesi.

Infine, anche tenendo conto dei recenti interventi legislativi in materia (decreto-legge n.69 del 2013), occorrerebbe prevedere o comunque consentire una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all'Ufficio del massimario e del ruolo, mediante la loro applicazione, per un numero limitato di udienze mensili, come consiglieri.

Il processo di esecuzione

La proposta normativa di delega è completata da interventi sul processo esecutivo, ispirati ai medesimi princìpi di semplificazione anche del rito degli incidenti di cognizione e di efficacia del titolo esecutivo.

In particolare vengono dettati princìpi per la semplificazione del rito dei procedimenti cognitivi funzionalmente correlati al processo esecutivo, attraverso l'assoggettamento delle opposizioni esecutive al rito sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile; nonché per l'ampliamento e la generalizzazione dell'ambito di applicazione dell'istituto delle misure coercitive indirette di cui all'articolo 614-bis del codice di procedura civile, mediante la previsione della possibilità, per la parte vittoriosa, di chiedere al giudice la fissazione della somma dovuta dalla parte soccombente, a causa della mancata o ritardata esecuzione dell'ordine giudiziale, in presenza di qualunque provvedimento di condanna, a prescindere dalla natura
fungibile o infungibile dell'obbligazione a cui esso si riferisce.

I procedimenti speciali

Completa la delega l'introduzione di princìpi in materia di arbitrato, nel senso del potenziamento dell'istituto dell'arbitrato, mediante l'eventuale estensione del meccanismo della translatio iudicii ai rapporti tra processo e arbitrato e attraverso la razionalizzazione della disciplina dell'impugnativa del lodo arbitrale.

Viene quindi proposta, in chiave di ulteriore semplificazione, la riduzione dei riti speciali, mediante omogeneizzazione di termini e atti introduttivi e uniformità dei modelli di scambio degli scritti difensivi.

Inoltre il principio di delega sulla giurisdizione mira all'introduzione di un meccanismo che acceleri la definizione delle questioni di giurisdizione impedendo quando oggi accade non di rado, e cioè che la questione di giurisdizione venga decisa con una declinatoria a distanza di anni dall'introduzione della causa. A tutt'oggi, le sezioni unite della Corte di cassazione ritengono che la parte che sceglie il giudice di primo grado possa, in caso di esito della lite ad essa sfavorevole, contestare la giurisdizione del giudice prescelto mediante appello, a cui indefettibilmente segue il ricorso per cassazione: il tutto con spreco di tempi processuali da due a quattro anni nella migliore delle ipotesi.

Ancora in chiave di semplificazione e comprensibilità del processo, viene introdotto il principio di delega sulla sinteticità, che è reso inevitabile dal processo civile telematico: la gestione informatica degli atti impone una riconsiderazione della loro lunghezza, del contenuto e della tecnica di redazione.

Proprio in relazione all'attuazione in corso del processo civile telematico, si introduce uno specifico principio di delega volto a consentire l'adeguamento delle norme del rito civile alla nuova dimensione telematica del processo.


Link utili