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Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 30 giugno 2016 - Ricorso n. 51362/09 - Taddeucci e McCall c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale degli affari giuridici e legali, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico, e rivista con la dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA TADDEUCCI E McCALL c. ITALIA

(Ricorso n. 51362/09)

SENTENZA

STRASBURGO

30 giugno 2016


Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Taddeucci e McCall c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:

  • Mirjana Lazarova Trajkovska, presidente,
  • Ledi Bianku,
  • Guido Raimondi,
  • Kristina Pardalos,
  • Linos-Alexandre Sicilianos,
  • Robert Spano,
  • Pauliine Koskelo, giudici,
  • e da Abel Campos, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 31 maggio 2016,
Rende la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 51362/09) proposto contro la Repubblica italiana con il quale un cittadino italiano e un cittadino neozelandese, sigg. Roberto Taddeucci e Douglas McCall («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 15 settembre 2009 in virtù dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. Dinanzi alla Corte, i ricorrenti sono stati rappresentati dall’avvocato R.W. Wintemute, del foro di Londra. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e del suo co-agente P. Accardo.

3. Nel loro ricorso, i ricorrenti sostenevano che il rifiuto di concedere al secondo ricorrente un permesso di soggiorno per ragioni familiari costituiva una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale.

4. Il 10 gennaio 2012 il ricorso è stato comunicato al Governo.

5. I ricorrenti ed il governo convenuto hanno depositato delle osservazioni scritte. Inoltre, sono stati ricevuti commenti da parte di quattro organizzazioni non governative (International Commission of Jurists (ICJ), International Lesbian, Gay, Bisexual Trans and Intersex Association (ILGA) Europe, Network of European LGBT Families (NELFA) e European Commission on Sexual Orientation Law (ECSOL)), che il presidente aveva autorizzato ad intervenire nella procedura scritta svoltasi dinanzi alla camera (articoli 36 § 2 della Convenzione e 44 § 3 del regolamento della Corte («il regolamento»)).

6. Il 19 giugno 2014 i ricorrenti hanno chiesto alla Corte di tenere un’udienza sulla ricevibilità e sul merito della causa. La Corte ha ritenuto che nella fattispecie tale udienza non fosse necessaria (articoli 54 § 5 e 59 § 3 del regolamento della Corte)

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

7. Il sig. Taddeucci («il primo ricorrente») è nato nel 1965, il sig. McCall («il secondo ricorrente») è nato nel 1958, entrambi risiedono ad Amsterdam.

A. La domanda di permesso di soggiorno per motivi familiari del secondo ricorrente

8. I ricorrenti formano una coppia omosessuale dal 1999. Hanno risieduto in Nuova Zelanda, con lo status di coppia non sposata, fino al mese di dicembre 2003, data in cui hanno deciso di trasferirsi in Italia a causa della precarie condizioni di salute del primo ricorrente.
9. Durante il primo periodo di residenza in Italia, il secondo ricorrente fruì di una carta di soggiorno temporaneo per studente. Successivamente chiese il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari in virtù del decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 (paragrafi 26-28 infra).
10. Il 18 ottobre 2004 il questore di Livorno respinse la sua richiesta in quanto i criteri previsti dalla legge non erano soddisfatti.

B. Il procedimento civile di primo grado

11. Il 27 gennaio 2005 i ricorrenti presentarono un ricorso sulla base del decreto legislativo n. 286 del 1998 chiedendo fosse rilasciato al secondo ricorrente un permesso di soggiorno per motivi familiari.
12. Con sentenza del 4 luglio 2005, il tribunale civile di Firenze accolse il ricorso dei ricorrenti.
13. Il tribunale osservò che i richiedenti erano riconosciuti in Nuova Zelanda come coppia, in quanto il primo ricorrente aveva ottenuto in tale paese un permesso di soggiorno per motivi familiari in qualità di partner non coniugato. Secondo il tribunale, lo status di coppia non sposata dei ricorrenti non era contrario all’ordine pubblico italiano, visto che le coppie de facto beneficiano di un riconoscimento sociale e giuridico nel sistema italiano. Secondo il tribunale, l’articolo 30 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (paragrafo 27 infra) doveva essere letto in modo conforme ai principi sanciti dalla Costituzione, fatto che induceva a considerare il convivente dello stesso sesso come «familiare» del cittadino italiano e quindi come titolare del diritto di ottenere un permesso di soggiorno.
14. Per il tribunale, il diritto rivendicato dal secondo ricorrente discendeva anche degli articoli 3 e 10 della direttiva n. 2004/38/CE del 29 maggio 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (paragrafo 29 infra), che riconoscevano al partner di un cittadino dell’Unione europea (UE) il diritto di ottenere un permesso di soggiorno una volta provata l’esistenza di una relazione stabile.

C. L’appello proposto dal Ministro dell’Interno

15. Il Ministro dell’Interno interpose appello avverso la sentenza del tribunale di Firenze.
16. Con sentenza del 12 maggio 2006, la corte d’appello di Firenze accolse tale appello affermando che le autorità neozelandesi avevano riconosciuto ai ricorrenti lo status di «partner conviventi non coniugati» e non quello di «familiari».
17. Da un lato, secondo la corte d’appello, una lettura del decreto legislativo n. 286 del 1998, come suggerita dal tribunale, che induce a considerare il «convivente» come un «familiare», non era compatibile con il sistema giuridico italiano, il quale, a suo avviso, dava a questi due concetti giuridici portata e significato diversi. Dall’altro lato, la Corte d’appello rammentò che la Corte costituzionale aveva affermato ripetutamente che un rapporto fondato sulla mera coabitazione, privo di stabilità e di certezza giuridica, non poteva in alcun caso essere assimilato alla famiglia legittima fondata sul matrimonio.
18. La Corte d’appello ritenne che la legge neozelandese non fosse coerente con l’ordine pubblico italiano prima di tutto perché considerava come «conviventi» delle persone dello stesso sesso e, per di più, poteva essere interpretata nel senso di conferire a tali persone la qualità di «familiari» ai fini del rilascio alle stesse del permesso di soggiorno. Infine, aggiunse che né il diritto europeo, in particolare la direttiva n. 2004/38/CE (paragrafo 29 infra), né le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo obbligavano gli Stati a riconoscere le relazioni tra persone dello stesso sesso.

D. Il ricorso per cassazione dei ricorrenti

19. I ricorrenti proposero ricorso per cassazione.
20. Con sentenza del 30 settembre 2008, depositata il 17 marzo 2009, la Corte di cassazione respinse il ricorso dei ricorrenti.
21. La Corte di cassazione espose innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 29 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (paragrafo 28 infra), la nozione di «familiare» comprendeva soltanto il coniuge, i figli minori, i figli maggiorenni non autosufficienti per ragioni di salute e i genitori a carico che non disponevano di adeguato sostegno nel loro paese di origine. Dichiarò inoltre che poiché la Corte costituzionale aveva escluso la possibilità di estendere alla convivenza la protezione riconosciuta alla famiglia legittima, la Costituzione non imponeva una interpretazione estensiva dell’articolo 29 sopra citato.
22. La Corte di Cassazione ritenne inoltre che una siffatta interpretazione non derivava neppure dagli articoli 8 e 12 della Convenzione. Infatti, a suo avviso, tali disposizioni lasciavano agli Stati un ampio margine di apprezzamento nella scelta delle modalità di esercizio dei diritti che esse garantivano, in particolare in materia di gestione dell’immigrazione. La Corte di cassazione aggiunse peraltro che nella fattispecie non vi era alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale dei ricorrenti. Al riguardo osservò che l’esclusione dei partner non coniugati dal diritto di ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari riguardava sia i partner dello stesso sesso che le coppie di sesso opposto.
23. Infine, dichiarò che la direttiva europea n. 2004/38/CE (paragrafo 29 infra), relativa alla libera circolazione dei cittadini dell’UE nel territorio di Stati membri diversi dal loro Stato di origine, non si applicava al caso di specie, in quanto quest’ultimo riguardava il ricongiungimento familiare con un cittadino italiano residente nel proprio paese.

E. Il matrimonio dei ricorrenti

24. Dopo aver preso conoscenza del testo della sentenza della Corte di cassazione, i ricorrenti lasciarono l’Italia nel luglio 2009 e si stabilirono nei Paesi Bassi, dove, il 25 agosto 2009, il secondo ricorrente ottenne un permesso di soggiorno di cinque anni in quanto partner de facto che aveva una relazione stabile con un cittadino dell’UE.
25. L’8 maggio 2010 i ricorrenti si sposarono ad Amsterdam. I ricorrenti hanno precisato di aver scelto di sposarsi per ragioni personali e non per ottenere un permesso di soggiorno, in quanto le autorità olandesi ne avevano già rilasciato uno al secondo ricorrente. Hanno aggiunto che il matrimonio contratto nei Paesi Bassi non consentiva loro di vivere insieme in Italia. Il 22 agosto 2014, il secondo ricorrente ottenne un secondo permesso di soggiorno nei Paesi Bassi, valido per un periodo di cinque anni, ossia fino al 22 agosto 2019.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

26. Il decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 è il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e [delle] norme sulla condizione dello straniero.
27. Secondo l’articolo 30 c) di tale decreto, il permesso di soggiorno per motivi familiari è concesso al familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea residenti in Italia, ovvero con straniero regolarmente soggiornante in Italia.
28. L’articolo 29 del decreto riguarda il ricongiungimento familiare. Secondo il primo comma, uno straniero può chiedere il ricongiungimento familiare per i seguenti motivi: «a) coniuge non legalmente separato; b) figli minori a carico (...); c) genitori a carico; d) parenti entro il terzo grado, a carico, inabili al lavoro secondo la legislazione italiana».

III. IL DIRITTO E I DOCUMENTI EUROPEI PERTINENTI

A. La direttiva n. 2004/38/CE

29. La direttiva n. 2004/38/CE del 29 maggio 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, contiene le seguenti disposizioni:
Articolo 2
Definizioni

«Ai fini della presente direttiva s’intende per:
1) «cittadino dell’Unione: qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro;
2) «familiare»:
a) il coniuge;
b) il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante;
c) i discendenti diretti di età inferiore a ventuno anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b);
d) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b);
3) «Stato membro ospitante»: lo Stato membro nel quale il cittadino dell'Unione si reca al fine di esercitare il diritto di libera circolazione o di soggiorno.»
Articolo 3
Aventi diritto

«1. La presente direttiva si applica a qualsiasi cittadino dell'Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari ai sensi dell'articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo.
2. Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone:
a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, punto 2, se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente;
b) il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata.»
Articolo 10
Rilascio della carta di soggiorno

«1. Il diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro è comprovato dal rilascio di un documento denominato «carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione», che deve avvenire non oltre i sei mesi successivi alla presentazione della domanda. Una ricevuta della domanda di una carta di soggiorno è rilasciata immediatamente.
2. Ai fini del rilascio della carta di soggiorno, gli Stati membri possono prescrivere la presentazione dei seguenti documenti:
(...)
f) nei casi di cui all'articolo 3, paragrafo 2, lettera c), la prova di una relazione stabile con il cittadino dell'Unione.»
30. Il decreto legislativo n. 30 del 6 febbraio 2007 e la legge n. 97 del 6 agosto 2013 hanno recepito nel diritto italiano le disposizioni della direttiva n. 2004/38/CE.

B. La risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009

31. Il 2 aprile 2009 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE. Tale risoluzione stabiliva, tra l’altro, che le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea («la CGUE») in materia di libera circolazione, e in particolare in quelle relative alle cause Metock, Jipa e Huber, avevano confermato il principio secondo cui «il cittadino di un paese terzo, coniuge di un cittadino dell’ [UE], che accompagni o raggiunga detto cittadino dell’Unione gode delle disposizioni della direttiva, a prescindere dal luogo e dalla data del loro matrimonio e senza l’obbligo del previo soggiorno legale».
32. Peraltro, considerando problematica «l’interpretazione restrittiva da parte degli Stati membri dei concetti di «familiare» (articolo 2), di «ogni altro familiare» e di «partner» (articolo 3), in special modo per quanto riguarda le coppie dello stesso sesso e il loro diritto alla libera circolazione ai sensi della direttiva 2004/38/CE», il Parlamento invitava gli Stati membri:
«a dare piena attuazione ai diritti sanciti dall'articolo 2 e dall'articolo 3 della direttiva 2004/38/CE, e a riconoscere tali diritti non soltanto ai coniugi di sesso diverso, ma anche ai partner legati da un'unione registrata, ai membri del nucleo familiare e ai partner – comprese le coppie dello stesso sesso riconosciute da uno Stato membro – a prescindere dalla loro cittadinanza e fatto salvo il loro mancato riconoscimento nel diritto civile di un altro Stato membro, in accordo con i principi di reciproco riconoscimento, uguaglianza, non discriminazione, dignità e rispetto della vita privata e familiare; (...) invita gli Stati membri a tenere presente che la direttiva impone l'obbligo di riconoscere la libera circolazione di tutti i cittadini dell'Unione (comprese le coppie dello stesso sesso), senza imporre il riconoscimento dei matrimoni fra persone dello stesso sesso.»

C. La Raccomandazione 1470 (2000) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE)

33. La Raccomandazione 1470 (2000) relativa alla situazione di gay e lesbiche e dei loro partner in materia di asilo e di immigrazione negli Stati membri del Consiglio d’Europa recita nelle parti pertinenti al caso di specie:
«1. L’assemblea rammenta e ribadisce i principi della sua Raccomandazione 924 (1981) relativa alla discriminazione nei confronti degli omosessuali, della sua Raccomandazione 1236 (1994) relativa al diritto di asilo e della sua raccomandazione 1327 (1997) relativa alla tutela e al rafforzamento dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Europa.
2. L’Assemblea è preoccupata per il fatto che le politiche dell’immigrazione della maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa sono discriminatorie nei confronti degli omosessuali. La maggior parte di questi Stati, ad esempio, non riconosce la persecuzione per motivi di orientamento sessuale come un motivo valido per la concessione dell’asilo e non prevede alcun tipo di diritto di soggiorno per i membri di cittadinanza straniera di coppie omosessuali con doppia cittadinanza.
3. Allo stesso modo, le norme in materia di ricongiungimento familiare e di prestazioni sociali non si applicano generalmente alle coppie omosessuali.
(...)
6. Inoltre, l’Assemblea è consapevole che il rifiuto della maggior parte degli Stati membri di riconoscere un diritto di soggiorno ai membri di cittadinanza straniera di coppie omosessuali con doppia cittadinanza è all’origine di situazioni molto dolorose per numerose coppie omosessuali, che possono essere separate per questo fatto e costrette a vivere in due paesi diversi. Ritiene che le norme applicabili alle coppie in materia di immigrazione non debbano operare distinzioni tra relazioni omosessuali ed eterosessuali. Pertanto, un documento attestante l’esistenza di una relazione consolidata, diverso dal certificato di matrimonio, dovrebbe poter essere ammesso tra i documenti richiesti per ottenere il beneficio del diritto di soggiorno nel caso delle coppie omosessuali.
7. Di conseguenza, l’Assemblea invita il Comitato dei Ministri:
7.1. ad incaricare i suoi comitati competenti:
(...)
c. a definire le linee guida relative al trattamento degli omosessuali rifugiati o membri di una coppia con doppia cittadinanza;
(...)
7.2. a sollecitare gli Stati membri:
(...)
d. a rivedere la loro politica in materia di diritti sociali e di protezione dei migranti in modo che le coppie e le famiglie omosessuali siano trattate secondo le stesse norme applicabili alle coppie e alle famiglie eterosessuali;
e. ad adottare le misure richieste in modo che le coppie omosessuali con doppia cittadinanza beneficino degli stessi diritti in materia di residenza delle coppie con doppia cittadinanza eterosessuali;
(...)
h. a vigilare affinché i funzionari dei servizi per l’immigrazione in contatto con i richiedenti asilo e le coppie omosessuali con doppia cittadinanza siano formati in modo da prendere in considerazione la situazione specifica degli omosessuali e dei loro partner.»

D. La Raccomandazione 1686 (2004) dell’APCE

34. Nella sua raccomandazione 1686 (2004) relativa alla mobilità umana e al diritto al ricongiungimento familiare, l’APCE ha raccomandato al Comitato dei Ministri, tra l’altro
«(...);
iii. di inviare nel frattempo una raccomandazione agli Stati membri esortandoli:
a. ad applicare, ove possibile e appropriato, un’interpretazione ampia della nozione di «famiglia» e in particolare ad includere in tale definizione i membri della famiglia naturale, i conviventi, compresi i partner dello stesso sesso, i figli naturali, i figli affidati ad entrambi i genitori, i figli maggiorenni a carico e i genitori a carico;
(...)»

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE IN COMBINATO DISPOSTO CON L’ARTICOLO 8

35. I ricorrenti sostengono che il rifiuto di rilasciare al secondo ricorrente un permesso di soggiorno per motivi familiari costituisce una discriminazione fondata sul loro orientamento sessuale.
In proposito invocano l’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 della stessa.
Tali disposizioni recitano:
Articolo 14
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»
Articolo 8
«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
36. Il Governo contesta la tesi dei ricorrenti.

A. Sulla ricevibilità

1. Eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso

a) Eccezione del Governo

37. Il Governo eccepisce anzitutto la tardività del ricorso. Precisa che la decisione interna definitiva è la sentenza della Corte di cassazione del 30 settembre 2008, che sarebbe stata depositata il 17 marzo 2009 (paragrafo 20 supra). Ora, a suo parere, i ricorrenti hanno esposto per la prima volta l’oggetto del loro ricorso in una lettera del 15 settembre 2009, che tuttavia sarebbe pervenuta alla cancelleria della Corte solo il 21 settembre 2009, ossia dopo la scadenza del termine di sei mesi previsto dall’articolo 35 § 1 della Convenzione. Inoltre il Governo aggiunge che il formulario di ricorso debitamente compilato, datato 26 novembre 2009, è stato presentato all’accettazione della Corte solo il 30 novembre 2009. Pertanto, a suo parere, i ricorrenti non hanno rispettato il termine di otto settimane che sarebbe stato loro impartito per presentare tale formulario.

b) Replica dei ricorrenti

38. I ricorrenti chiedono alla Corte di respingere l’eccezione del Governo. Dichiarano che la loro prima comunicazione alla Corte è stata inviata per fax il 15 settembre 2009 e che il formulario di ricorso è stato trasmesso per fax alla cancelleria della Corte il 26 novembre 2009.

c) Valutazione della Corte

39. La Corte osserva che la lettera del 15 settembre 2009 è stata preceduta da un fax, pervenuto in cancelleria lo stesso giorno. La prima comunicazione dei ricorrenti che espone, sia pure sommariamente, l’oggetto del loro ricorso è quindi pervenuta in cancelleria prima della scadenza del termine di sei mesi di cui all’articolo 35 § 1 della Convenzione. La Corte rileva inoltre che, con una lettera del 1º ottobre 2009, la cancelleria aveva invitato i ricorrenti a presentare il loro formulario di ricorso prima del 26 novembre 2009, informandoli che il mancato rispetto della data limite rischiava di comportare che poteva essere considerata come data di proposizione del ricorso la data di ricezione del formulario, e non quella della prima comunicazione. I ricorrenti hanno fatto precedere il formulario di ricorso da un fax, pervenuto alla cancelleria il 26 novembre 2009. Essi hanno pertanto rispettato il termine che era stato loro impartito nella lettera del 1º ottobre 2009. È irrilevante che un’altra copia del formulario sia stata presentata all’accettazione della Corte solo il 30 novembre 2009.
40. In tali circostanze, l’eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso non può essere accolta.

2. Altri motivi di irricevibilità

41. Constatando che tale motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e che non presenta nessun altro motivo di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Applicabilità dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8

a) Argomenti delle parti

i. Il Governo

42. Il Governo ritiene che l’articolo 14 non trovi applicazione nel caso di specie. A suo parere, nelle cause S. c. Regno Unito (n. 11716/85, decisione della Commissione del 14 maggio 1986, Décisions et rapports (DR) 47, pag. 274) e Röösli c. Germania (n. 28318/95, decisione della Commissione del 15 maggio 1996), la Commissione aveva indicato che la difesa della famiglia era uno scopo legittimo idoneo a giustificare una disparità di trattamento e che delle relazioni omosessuali stabili tra due uomini non rientravano nel diritto al rispetto della vita familiare tutelato dall’articolo 8 della Convenzione. La Commissione avrebbe anche considerato che l’espulsione di uno straniero legato, nello Stato ospitante, da una relazione con una persona dello stesso sesso non costituiva un’ingerenza nel diritto garantito da tale disposizione (X e Y c. Regno Unito, n. 9369/81, decisione della Commissione del 3 maggio 1983, DR 32, pag. 223, W.J. e D.P. c. Regno Unito, n. 12513/86, decisione della Commissione del 13 luglio 1987, e C. e L. M. c. Regno Unito, n. 14753/89, decisione della Commissione del 9 ottobre 1989).
43. Il Governo poi afferma che, pur riconoscendo il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati per quanto riguarda la protezione della famiglia tradizionale, la Corte ha iniziato, nel 2010, a considerare sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione delle forme di convivenza affettiva tra persone dello stesso sesso (si veda, in particolare, Kozak c. Polonia, n. 13102/02, 2 marzo 2010). Nella causa Schalk e Kopf c. Austria (n. 30141/04, CEDU 2010-IV), la Corte avrebbe riconosciuto che le coppie dello stesso sesso possono invocare il diritto al rispetto della loro vita familiare, ma che la Convenzione non garantiva loro il diritto al matrimonio. La Corte avrebbe anche ritenuto che, quando gli Stati decidono di offrire alle coppie omosessuali un modo di riconoscimento giuridico diverso dal matrimonio, essi godono di un certo margine di apprezzamento per decidere la natura esatta dello status conferito (si veda, in particolare, Gas e Dubois c. Francia, n. 25951/07, § 66, CEDU 2012).
44. Il Governo rileva che, nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari e ritiene che la discriminazione di cui essi affermano di essere stati oggetto dovrebbe essere esaminata alla luce della legislazione italiana a suo parere pertinente, ovvero gli articoli 29 e 30 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (paragrafi 28 e 27 supra). Il Governo ritiene che, ai sensi di tali articoli, la condizione di partner de facto non conferisce a quest’ultimo la qualità di «familiare». Inoltre precisa che il decreto legislativo n. 30 del 6 febbraio 2007 ha dato attuazione alla direttiva europea n. 2004/38/CE (paragrafi 29-30 supra), secondo cui il «familiare» è, tra l’altro, «il partner con cui il cittadino dell’[UE] ha contratto un’unione registrata, sulla base della legislazione di uno Stato membro, se, conformemente alla legislazione dello Stato membro ospitante, le unioni registrate sono equivalenti al matrimonio, e nel rispetto delle condizioni previste dalla legislazione pertinente dello Stato membro ospitante». Ora, secondo il Governo, il partenariato dei ricorrenti che è stato contratto in Nuova Zelanda, al di fuori dell’UE, non poteva essere riconosciuto ai sensi di tale disposizione.
45. Il Governo afferma inoltre che, ai sensi dell’articolo 3 § 1 della direttiva sopra citata, che era stata recepita nel diritto italiano con la legge n. 97 del 6 agosto 2013 (paragrafo 30 supra), lo Stato ospitante deve favorire il soggiorno delle seguenti persone e cita quanto segue: «a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, (...) se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente», e «b) il partner con cui il cittadino dell’UE abbia una relazione stabile debitamente attestata». Il Governo ritiene che tali disposizioni non attribuissero il diritto di ottenere il permesso di soggiorno richiesto: a suo parere, da un lato, la persona ammalata era il primo ricorrente, cittadino italiano; dall’altro, spettava agli Stati che, come l’Italia, non garantiscono alle coppie omosessuali un metodo di riconoscimento giuridico, decidere se le condizioni di rilascio del permesso di soggiorno erano soddisfatte. Il Governo conclude sul punto che le decisioni adottate dalle autorità italiane nel caso di specie erano conformi al diritto dell’UE. In ogni caso, il secondo ricorrente non avrebbe presentato alcuna domanda ai sensi della legge n. 97 del 2013 e non si sarebbe iscritto nel registro della popolazione residente in Cecina (Livorno) come persona convivente con il primo ricorrente.
46. Il Governo vuole anche indicare che, ai sensi dell’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio» (corsivo aggiunto). A suo avviso, da tale disposizione deriva che la competenza in materia per regolamentare tali diritti è attribuita agli Stati membri.
47. Alla luce di quanto precede, il Governo ritiene che gli articoli 8 e 14 della Convenzione non siano applicabili nel caso di specie, o per mancanza delle condizioni legali richieste per riconoscere al secondo ricorrente lo status di «familiare», o in ragione dell’ampiezza, in materia sociale, del potere discrezionale dello Stato. Quest’ultimo in particolare rimarrebbe libero di decidere se le coppie omosessuali devono o no godere degli stessi diritti riconosciuti alla famiglia tradizionale.

ii. I ricorrenti

48. I ricorrenti contestano la tesi del Governo. Essi ritengono che, nella sentenza Schalk e Kopf (sopra citata, § 94), la Corte abbia chiaramente operato un cambiamento di giurisprudenza rispetto alla Commissione affermando che la relazione che esiste in una coppia omosessuale convivente de facto e in modo stabile rientra nella nozione di «vita familiare». Ora, a loro avviso, il rifiuto di rilasciare un permesso di soggiorno al secondo ricorrente li ha privati di qualsiasi possibilità di vivere in Italia in quanto coppia e ha comportato l’obbligo legale, per il secondo ricorrente, di lasciare il paese. A loro avviso, ne consegue che i fatti di specie rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione, rendendo così applicabile anche l’articolo 14.
49. I ricorrenti spiegano inoltre che, nel 2003, quando hanno lasciato la Nuova Zelanda, le leggi di tale paese ancora non permettevano di ottenere un certificato attestante la registrazione della loro coabitazione di cui avrebbero potuto, a detta loro, chiedere la trascrizione in Italia. Essi avrebbero pertanto richiesto il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari in quanto conviventi legati in una relazione stabile. Tuttavia, a loro avviso, l’articolo 29, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998 (paragrafo 28 supra) precisava che solo il coniuge e non il convivente, era un «familiare»; quanto al decreto legislativo n. 30 del 2007, che ha trasposto nel diritto italiano la direttiva n. 2004/38/EC (paragrafi 29-30 supra), i ricorrenti ritengono che esso possa applicarsi unicamente ai casi, non pertinenti alla presente fattispecie, di cittadini dell’UE residenti in Italia o di cittadini italiani che sarebbero rientrati nel proprio paese di origine dopo aver soggiornato in un altro Stato dell’UE. Essi sostengono che l’inapplicabilità della direttiva in questione alla situazione «interna» del primo ricorrente, cittadino italiano che ha risieduto in Italia dal 2003 al 2009 senza prima aver vissuto in un altro Stato dell’UE, è stata confermata dalla CGUE e dalla comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sulle linee guida per migliorare il recepimento e l’applicazione della direttiva n. 2004/38/CE (COM/2009/0313 def.).
50. Per i ricorrenti, se è vero che, ai sensi del diritto dell’UE, l’Italia rimane libera di disciplinare le «situazioni interne» come la loro, ciò non toglie che queste stesse situazioni dovrebbero essere trattate in modo conforme agli articoli 8 e 14 della Convenzione. L’emergere di un consenso europeo sui diritti in materia di immigrazione dei partner omosessuali risulterebbe peraltro dall’articolo 3 § 2 b) della direttiva 2004/38/CE (paragrafo 29 supra), ai sensi del quale «lo Stato membro ospitante agevola, conformemente alla sua legislazione nazionale, l’ingresso e il soggiorno [del] partner con cui il cittadino dell’[UE] abbia una relazione stabile debitamente attestata». I ricorrenti aggiungono che nella sua comunicazione COM/2009/0313, la Commissione europea ha chiarito che tale certificato poteva essere fornito con «ogni mezzo appropriato».
51. Secondo loro, la legge n. 97 del 2013 (paragrafo 30 supra), ha effettivamente recepito nel diritto italiano l’articolo 3 della direttiva n. 2004/38/CE. Tuttavia, tale articolo non attribuirebbe chiaramente al secondo ricorrente un diritto di ottenere il rilascio del permesso di soggiorno controverso. In ogni caso, anche supponendo che a partire dal settembre 2013 avrebbe potuto essere rilasciato un permesso di questo tipo, ciò non toglie, secondo loro, che al secondo ricorrente è stata negata la possibilità di risiedere in Italia a partire dal 2004 e che è stato vittima delle conseguenze di tale rifiuto per molti anni.
52. I ricorrenti sostengono altresì che un permesso di soggiorno per motivi familiari è stato rilasciato dal tribunale di Reggio Emilia a un cittadino uruguaiano che aveva sposato un cittadino italiano in Spagna. Aggiungono che, dopo tale decisione, altri trenta permessi di soggiorno analoghi sono stati rilasciati ad altri cittadini extracomunitari che formavano coppie omosessuali con cittadini italiani sulla base di matrimoni o unioni civili conclusi in paesi dell’UE diversi dall’Italia.

b) Valutazione della Corte

53. La Corte rammenta che l’articolo 14 della Convenzione completa le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e non ha esistenza propria, poiché vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» che tali clausole garantiscono. Certo, può entrare in gioco anche se non vi è stata inosservanza delle loro esigenze e, in questa misura, possiede una portata autonoma, ma non può essere applicato se i fatti di causa non ricadono sotto almeno una di dette clausole (E.B. c. Francia [GC], n. 43546/02, § 47, 22 gennaio 2008, Vallianatos e altri contro Grecia [GC], nn. 29381/09 e 32684/09, § 72, CEDU 2013, e Hämäläinen c. Finlandia [GC], n. 37359/09, § 107, CEDU 2014).
54. Nella fattispecie, i ricorrenti affermano che il rigetto della domanda del secondo ricorrente volta ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari ha ostacolato la loro intenzione di continuare a vivere insieme in Italia. La Corte deve pertanto stabilire se tali fatti rientrino nel campo di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione.
55. A tale proposito, la Corte rammenta che, secondo un consolidato principio di diritto internazionale, gli Stati possono, senza pregiudizio degli obblighi per essi derivanti dai trattati, controllare l’ingresso e il soggiorno dei non cittadini nel loro territorio. La Convenzione non garantisce il diritto per lo straniero di entrare o di risiedere in un determinato paese (si veda, ad esempio, Nunez c. Norvegia, n. 55597/09, § 66, 28 giugno 2011). Il corollario del diritto per gli Stati di controllare l’immigrazione è che gli stranieri - e quindi, nel caso di specie, il secondo ricorrente - hanno l’obbligo di sottoporsi ai controlli e alle procedure di immigrazione e di lasciare il territorio dello Stato contraente interessato nel momento in cui ricevono l’ordine, se l’ingresso o il soggiorno in tale territorio sono loro validamente rifiutati (Jeunesse c. Paesi Bassi [GC], n. 12738/10, § 100, 3 ottobre 2014).
56. L’articolo 8 della Convenzione non può essere interpretato come se comportasse per uno Stato contraente l’obbligo generale di rispettare la scelta, effettuata da una famiglia, del suo domicilio comune e di accettare il trasferimento di coniugi non nazionali nel paese o autorizzare il ricongiungimento familiare sul suo territorio (Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985, § 68, serie A n. 94, Bouhadef c. Svizzera (dec.), n. 14022/02, 12 novembre 2002, Kumar e Seewoochurn c. Francia (dec.), nn. 1892/06 e 1908/06, 17 giugno 2008, e Baltaji c. Bulgaria, n. 12919/04, § 30, 12 luglio 2011). Tuttavia, le decisioni adottate dagli Stati in materia di immigrazione possono, in alcuni casi, costituire un’ingerenza nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato dall’articolo 8 della Convenzione in particolare quando gli interessati hanno, nello Stato ospitante, dei legami personali o familiari sufficientemente forti che rischiano di essere gravemente compromessi in caso di applicazione della misura in questione (si vedano, ad esempio, Moustaquim c. Belgio, 18 febbraio 1991, § 36, serie A n. 193, Dalia c. Francia, 19 febbraio 1998, § 52, Recueil des arrêts et décisions 1998-I, e Hamidovic c. Italia, n. 31956/05, § 37, 4 dicembre 2012).
57. Nella fattispecie, la Corte osserva che i ricorrenti, che formano una coppia omosessuale dal 1999, si sono trasferiti in Italia nel dicembre 2003 (paragrafo 8 supra). Il secondo ricorrente ha potuto inizialmente risiedervi grazie a una carta di soggiorno temporaneo per studente (paragrafo 9 supra). Quando, il 18 ottobre 2004, il questore di Livorno ha rifiutato di rilasciargli il permesso di soggiorno per motivi familiari (paragrafo 10 supra), i ricorrenti coabitavano in Italia già da circa dieci mesi.
58. La Corte rammenta che, nella sentenza Schalk e Kopf (sopra citata, § 94), ha dichiarato che era artificioso continuare a considerare che, al contrario di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non potesse conoscere una «vita familiare» ai sensi dell’articolo 8. La Corte ha pertanto ritenuto che il rapporto che avevano i sigg. Schalk e Kopf, una coppia omosessuale convivente de facto in modo stabile, rientrava nella nozione di «vita familiare» allo stesso titolo di quello di una coppia eterosessuale che si trovava nella stessa situazione (si veda anche X e altri c. Austria [GC], n. 19010/07, § 95, CEDU 2013). La Corte non vede alcuna ragione per giungere a conclusioni diverse per quanto riguarda i ricorrenti nella presente causa.
59. Inoltre, la Corte rileva che il Governo non contesta che il rifiuto di rilasciare al secondo ricorrente un permesso di soggiorno, rifiuto che è stato confermato dalla Corte di cassazione, abbia comportato per l’interessato l’obbligo legale di lasciare l’Italia (paragrafo 48 supra). Tale circostanza ha pertanto impedito agli interessati di continuare a vivere insieme in questo paese costituendo così un’ingerenza in uno degli elementi essenziali della loro «vita familiare» quale quella che avevano voluto organizzare e quindi nel loro diritto al rispetto di quest’ultima come garantito dall’articolo 8 della Convenzione.
60. Per quanto riguarda l’argomento del Governo secondo cui gli articoli 8 e 14 della Convenzione non possono essere applicati a causa dell’assenza, sia nell’ordinamento italiano che nel diritto dell’UE, delle condizioni legali richieste per riconoscere al secondo ricorrente lo status di «familiare» (paragrafi da 44 a 47 supra), la Corte osserva che l’eventuale esistenza di un fondamento giuridico che giustifichi il rifiuto di rilasciare il permesso di soggiorno non necessariamente implica che non vi sia stata ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare degli interessati. Tale fondamento giuridico non consente neppure allo Stato convenuto di declinare qualsiasi responsabilità rispetto alla Convenzione (si veda, ad esempio, e mutatis mutandis, Thlimmenos c. Grecia [GC], n. 34369/97, § 48, CEDU 2000-IV).
61. Quanto alla durata dell’ingerenza controversa, la Corte rileva che essa ha avuto inizio il 18 ottobre 2004, data del primo rigetto della richiesta di permesso di soggiorno (paragrafo 10 supra), ed è cessata al più tardi nel luglio 2009, quando, a seguito del deposito in cancelleria, avvenuto il 17 marzo 2009, della sentenza definitiva della Corte di cassazione che respingeva il ricorso dei ricorrenti, questi ultimi hanno deciso di lasciare l’Italia e di stabilirsi nei Paesi Bassi (paragrafo 24 supra). Tale ingerenza è quindi durata quattro anni e nove mesi circa.
62. Poiché la Corte ha così delimitato il periodo da prendere in considerazione nella fattispecie, qualsiasi speculazione volta a valutare se circostanze verificatesi dopo luglio 2009 avrebbero aperto al secondo ricorrente la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno controverso è quindi inutile. La Corte non ritiene pertanto necessario affrontare la questione di stabilire se, in virtù del matrimonio contratto ad Amsterdam l’8 maggio 2010 (paragrafo 25 supra), il secondo ricorrente avrebbe potuto beneficiare della giurisprudenza italiana, citata al paragrafo 52 supra, volta a riconoscere il diritto al permesso di soggiorno per motivi familiari a cittadini extracomunitari che formano coppie omosessuali con cittadini italiani sulla base di matrimoni conclusi in paesi dell’UE diversi dall’Italia, o ancora se il medesimo diritto possa sorgere dal recepimento nel diritto italiano, con la legge n. 97 del 6 agosto 2013, dell’articolo 3 § 1 della direttiva europea n. 2004/38/CE che stabilisce che lo Stato ospitante deve favorire il soggiorno, tra l’altro, del «partner con cui il cittadino dell’[UE] abbia una relazione stabile debitamente attestata» (paragrafi 29-30, 45 e 51 supra).
63. Ne consegue che i fatti della controversia, essendosi verificati tra il 18 ottobre 2004 e il mese di luglio 2009, ricadono sotto le previsioni dell’articolo 8 della Convenzione e che è applicabile l’articolo 14, congiuntamente a tale disposizione.

2. In merito all’osservanza dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8

a) Argomenti delle parti

i. Il Governo

64. Il Governo ritiene che i ricorrenti non siano stati oggetto, in Italia, di una discriminazione vietata dalla Convenzione. Innanzitutto cita la sentenza n. 138 del 15 aprile 2010, con la quale la Corte costituzionale ha affermato che l’unione omosessuale, ossia la convivenza tra due persone dello stesso sesso, deve essere considerata come una «formazione sociale» ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Pertanto, secondo il Governo, al fine di proteggere delle situazioni specifiche, le coppie omosessuali hanno il diritto di chiedere un «trattamento paritario», vale a dire paragonabile a quello della coppia sposata (la sentenza n. 138 del 2010 è riportata nella sentenza Oliari e altri c. Italia, nn. 18766/11 e 36030/11, §§ da 15 a 18, 21 luglio 2015). I diritti civili delle coppie omosessuali e delle coppie eterosessuali non sposate sarebbero peraltro oggetto di dibattito in diversi Stati europei e in seno al Parlamento italiano, alla luce, tra l’altro, della giurisprudenza della Corte e dei documenti provenienti dal Consiglio d’Europa.
65. Tuttavia, secondo il Governo, il fatto che alcuni altri Stati abbiano adottato leggi in materia di unioni civili non obbliga l’Italia a fare altrettanto, in quanto il Parlamento nazionale può sempre godere del suo margine di apprezzamento. Il Governo precisa che la Corte costituzionale lo ha riconosciuto nella sentenza n. 138 del 2010, pronunciata dopo la presentazione da parte del secondo ricorrente della domanda di permesso di soggiorno per motivi familiari.
66. Il Governo indica inoltre che, nella sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012, la Corte di cassazione ha affermato che le coppie omosessuali potevano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali e, se del caso, eccepire l’incostituzionalità delle leggi pertinenti. Aggiunge che, nel caso dei ricorrenti, la Corte di cassazione non si è fondata sull’orientamento sessuale degli interessati per emettere la sua decisione, ma ha preso in considerazione solo la legge italiana in materia di immigrazione come modificata dalle disposizioni europee pertinenti.
67. Infine, il Governo tiene a confermare il suo impegno a favore della protezione delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) e contro l’omofobia, che avrebbe portato alla creazione dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali). e aggiunge che tale organo è stato accolto favorevolmente dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) - si veda il rapporto sull’Italia pubblicato il 21 aprile 2012 (CRI(2012)2) - e dal Commissario per i diritti dell’uomo (si veda il rapporto del 18 settembre 2012, CommDH(2012)26, relativo alla visita del Commissario in Italia dal 3 al 6 luglio 2012).

ii. I ricorrenti

68. I ricorrenti sostengono di essere stati vittime di una discriminazione fondata sul loro orientamento sessuale. Facendo riferimento alla sentenza Schalk e Kopf (sopra citata, § 103), nella quale la Corte avrebbe ritenuto non necessario esaminare la questione di stabilire se l’assenza di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali in Austria prima del 1º gennaio 2010 avesse implicato violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8, fanno presente che, comunque, nella loro opinione dissenziente comune, i giudici Rozakis, Spielmann e Jebens avevano risposto in senso affermativo. Secondo i ricorrenti, questo parere si applica a fortiori a uno dei diritti derivanti da un matrimonio, cioè la possibilità per il partner cittadino di uno Stato non membro dell’UE, di ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari.
69. I ricorrenti sostengono poi che le sentenze n. 138 del 2010 della Corte costituzionale (paragrafo 64 supra) e n. 4184 del 2012 della Corte di Cassazione (paragrafo 66 supra) hanno stabilito, in favore delle coppie omosessuali stabili, un diritto a un trattamento analogo a quello delle coppie sposate. Essi deplorano che, nonostante tali progressi giurisprudenziali, il legislatore italiano non sia intervenuto per disciplinare tale diritto nel quadro di «situazioni interne» come la loro.
70. Analogamente ad alcuni terzi intervenienti (paragrafi 74-80 infra), i ricorrenti spiegano che riservare, in paesi in cui il matrimonio non è aperto alle coppie omosessuali, alcuni diritti alle sole coppie eterosessuali sposate costituisce in linea di principio una discriminazione indiretta in base all’orientamento sessuale. Tale conclusione, a loro avviso, è stata confermata nel rapporto intitolato «Omofobia e discriminazione basata sull’orientamento sessuale negli Stati membri dell’UE, Parte I – Analisi giuridica», pubblicato nel giugno 2008 dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE (FRA); secondo questa Agenzia, le disposizioni internazionali in materia di diritti umani raccomandano che le coppie dello stesso sesso possano accedere a una forma di unione registrata con gli stessi vantaggi del matrimonio, o che la loro relazione de facto stabile dia loro accesso a tali benefici.
71. I ricorrenti invocano altresì la sentenza emessa il 14 dicembre 2009 dal Judicial Committee of the Privy Council del Regno Unito nella causa Rodriguez v. Minister of Housing ([2009] UKPC 52 – Privy Council Appeal n. 0028 del 2009) che qualifica come discriminatoria una politica che escluderebbe le coppie dello stesso sesso aventi una relazione stabile di lunga durata dall’accesso ai contratti di locazione comuni (joint tenancies). Indicano inoltre che, nella sua opinione del 15 luglio 2010 nella causa Römer C. Freie und Hansestadt Hamburg (causa C-147/08), l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che il fatto di non ammettere alcuna forma di unione legalmente riconosciuta aperta alle persone dello stesso sesso potrebbe essere considerato costitutivo di una discriminazione legata all’orientamento sessuale. Essi sostengono nelle società democratiche emerge un consenso che vuole, a loro avviso, che un Governo non possa riservare un certo diritto o beneficio alle coppie sposate e negarne l’accesso alle coppie omosessuali con il pretesto che le persone in questione non sono sposate.
72. I ricorrenti dichiarano inoltre che 24 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno adottato leggi che consentono alle coppie dello stesso sesso di registrare la loro relazione (uno studio su questo punto, che sarebbe stato attualizzato al 30 giugno 2015, figura nella sentenza Oliari e altri, sopra citata, §§ da 53 a 55), e che la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno, per un partner omosessuale non cittadino dell’UE, esiste almeno in 31 Stati. Ritengono che il consenso europeo su questo punto sia quindi oggi superiore a quello che era stato constatato all’epoca dell’adozione delle sentenze Schalk e Kopf e Gas e Dubois (sopra citate).
73. I ricorrenti precisano infine che lo scopo del loro ricorso non è quello di ottenere il diritto al matrimonio né l’accesso a una forma di unione registrata. Spiegano che chiedono semplicemente alla Corte di sviluppare la giurisprudenza Karner c. Austria (n. 40016/98, Recueil des arrêts et décisions, 2003-IX) e di affermare che escludere le coppie dello stesso sesso dal diritto al permesso di soggiorno per motivi familiari è discriminatorio. Essi ritengono che, per quanto riguarda altri diritti riconosciuti alle coppie sposate, la Corte potrà decidere caso per caso, distinguendo, ad esempio tra il diritto ad ottenere il permesso di soggiorno dal diritto all’adozione. Così, a loro avviso, concludere per una violazione dell’articolo 14 della Convenzione nel caso di specie non sarebbe incompatibile con le conclusioni cui la Corte è pervenuta nella sua sentenza Gas e Dubois (sopra citata).

iii. I terzi intervenienti

α) International Commission of Jurists (ICJ), International Lesbian, Gay, Bisexual Trans and Intersex Association (ILGA) Europe et Network of European LGBT Families (NELFA)

74. L’ICJ, l’ILGA-Europe e il NELFA hanno presentato informazioni volte a dimostrare che numerose giurisdizioni nel mondo considerano il partner di una coppia dello stesso sesso impegnato in una relazione stabile e duratura come un «familiare », e ciò indipendentemente dal fatto che la coppia abbia o meno la possibilità di contrarre matrimonio o di ottenere un’altra forma di riconoscimento legale.
75. I terzi intervenienti affermano di avere dapprima esaminato la legislazione e la prassi di vari Stati non europei (Sudafrica, Australia, Brasile, Canada, Colombia, Israele e Nuova Zelanda) che consentono ai partner dello stesso sesso di emigrare e di risiedere nei loro rispettivi paesi d’origine, prima di adottare il concetto di «famiglie funzionali» (functional families). Tale concetto, invece di concentrarsi sull’identità e sul genere delle persone impegnate in una relazione, mirerebbe ad accertare se tale relazione abbia o meno alcune caratteristiche essenziali (collaborazione economica, partecipazione alle responsabilità domestiche, esistenza di legami affettivi). Secondo loro, grazie a questo concetto, i giudici di alcuni paesi (Sudafrica, Australia, Canada, Colombia, Stati Uniti, Israele e Regno Unito) hanno riconosciuto le coppie omosessuali non sposate come «famiglie» o «coniugi de facto» per dare loro accesso a determinati benefici (di natura economica o altro).
76. Infine, l’ICJ, l’ILGA-Europe e il NELFA hanno indicato che la disparità di trattamento tra le coppie omosessuali che non hanno accesso al matrimonio e le coppie sposate è stata considerata dai giudici sudafricani, canadesi e statunitensi come una forma di discriminazione indiretta (ossia una discriminazione derivante dalle ripercussioni negative che leggi di carattere apparentemente neutro possono avere per un gruppo specifico che merita protezione). Essi precisano che, in particolare quando le coppie dello stesso sesso non possono sposarsi, la loro situazione non deve essere paragonata a quella delle coppie eterosessuali non sposate ma a quella delle coppie eterosessuali sposate. Ciò emergerebbe anche dalla prassi del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che ha sottolineato che le coppie eterosessuali possono liberamente decidere di sposarsi.
77. Alla luce di quanto precede, l’I.C.J., ILGA-Europe e il NELFA ritengono che, a livello mondiale, esista una «tendenza significativa» («significant trend») a favore del riconoscimento ai partner dello stesso sesso della qualità di «familiari», del loro diritto di vivere assieme e degli altri diritti e benefici di cui godono le coppie eterosessuali.

β) European Commission on Sexual Orientation Law (ECSOL)

78. L’ECSOL indica anzitutto che un’analisi del diritto dell’UE dimostra l’importanza che si ritrova nell’accordare priorità alle relazioni e al ricongiungimento familiari in quanto la libertà di movimento deve essere esercitata in condizioni obiettive di libertà e dignità. Così, secondo l’ESCOL, gli Stati membri devono almeno facilitare l’ingresso e il soggiorno nel paese ospitante del partner dello stesso sesso, cercando di individuare le conseguenze che un eventuale rifiuto di rilasciare un permesso di soggiorno potrebbe avere in concreto sulla vita privata e familiare delle persone coinvolte.
79. L’ECSOL ha poi presentato uno studio di diritto comparato quanto alla possibilità, per i partner dello stesso sesso, di ottenere un permesso di soggiorno nei paesi ospitanti. Tale studio riguardava la normativa di 32 Stati membri del Consiglio d’Europa (Germania, Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Spagna, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Regno Unito, Romania, Russia, Serbia, Svezia e Svizzera). Ne risulta:

  • che almeno 24 Stati non operano alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nel rilasciare i permessi di soggiorno e prevedono dei meccanismi a tal fine (pur lasciando, in alcuni casi, un margine di apprezzamento alle autorità nazionali competenti);
  • che 22 Stati riconoscono, almeno in una certa misura, il diritto al permesso di soggiorno ai partner dello stesso sesso non coniugati e che non hanno concluso un partenariato civile registrato;
  • che alcuni giudici hanno ritenuto che, quando una unione formale, in particolare un matrimonio, non può essere registrata nel paese d’origine, una relazione stabile debitamente provata può portare al rilascio del permesso di soggiorno da parte delle autorità;
  • che una discriminazione indiretta può derivare dall’assenza di trattamento differenziato di situazioni diverse (ad esempio, il rifiuto di riconoscere l’esistenza di ostacoli legali al matrimonio per i partner dello stesso sesso);
  • che i tribunali di alcuni Stati hanno riconosciuto che, in materia di immigrazione del partner de facto dello stesso sesso, la Convenzione aveva svolto un ruolo nella protezione della vita privata e familiare delle persone interessate;
  • che in materia di immigrazione emerge un consenso europeo, che vuole che l’unione tra persone dello stesso sesso sia considerata una «vita familiare».

80. Secondo l’ECSOL, un rifiuto generalizzato e aprioristico di riconoscere a una coppia omosessuale con doppia cittadinanza il diritto di risiedere nel paese ospitante viola l’articolo 8 della Convenzione preso singolarmente o in combinato disposto con l’articolo 14. Inoltre, per l’ECSOL, le coppie dello stesso sesso subiscono una discriminazione fondata sul loro orientamento sessuale, in quanto in alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa, non si possono sposare.

b) Valutazione della Corte

i. Sul punto di stabilire se vi sia stata disparità di trattamento tra persone che si trovano in situazioni simili o parità di trattamento di persone che si trovano in situazioni sensibilmente diverse

81. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, si può porre una questione rispetto all’articolo 14 soltanto qualora esista una disparità di trattamento di persone poste in situazioni assimilabili (Hämäläinen, sopra citata, § 108), o quando gli Stati non applicano un trattamento diverso a persone le cui situazioni sono sensibilmente diverse (Thlimmenos, sopra citata, § 44 in fine). A quest’ultimo proposito, la Corte rammenta che l’articolo 14 non vieta a uno Stato membro di trattare i gruppi in modo differenziato per correggere delle «disuguaglianze di fatto» tra loro; difatti, in alcune circostanze, l’assenza di trattamento differenziato per correggere una disparità può di per sé comportare violazione della disposizione in causa (Causa «relativa ad alcuni aspetti del regime linguistico dell’insegnamento in Belgio» c. Belgio (merito), 23 luglio 1968, § 10, serie A n. 6, Stec e altri c. Regno Unito [GC], nn. 65731/01 e 65900/01, § 51, CEDU 2006-VI, e Muňoz Diaz c. Spagna, n. 49151/07, § 48, CEDU 2009). Inoltre, la Corte ha già riconosciuto che una politica o una misura generale che hanno effetti negativi sproporzionati su un gruppo di persone possono essere considerate discriminatorie anche se non riguardano direttamente questo gruppo e se non vi è un’intenzione discriminatoria. Una situazione simile costituisce una «discriminazione indiretta». Ciò vale, tuttavia, solo se questa politica o questa misura mancano di giustificazione «oggettiva e ragionevole» (si vedano, tra l’altro, Baio c. Danimarca [GC], n. 38590/10, § 91, 26 maggio 2016; S.A.S. C. Francia [GC], n. 43835/11, § 161, CEDU 2014 (estratti); D.H. e altri contro Repubblica Ceca [GC], n. 57325/00, § 184, CEDU 2007-IV; e Hugh Jordan c. Regno Unito, n. 24746/94, § 154, 4 maggio 2001).
82. Nel caso di specie, secondo la Corte, non risultava che i ricorrenti, una coppia omosessuale non sposata, fossero stati trattati diversamente da una coppia eterosessuale non sposata. Poiché la qualità di «familiare» è riconosciuta dal diritto nazionale soltanto al «coniuge», e non al convivente (paragrafi 27-28 supra), è ragionevole ritenere che, al pari del secondo ricorrente, anche ad un partner eterosessuale non cittadino dell’UE non sarebbe stato rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari in Italia. Infatti, come sottolineato dalla Corte di cassazione (paragrafo 22 supra), l’esclusione dei partner non coniugati dal diritto di ottenere il permesso in questione riguardava sia le coppie dello stesso sesso che quelle di sesso opposto. I ricorrenti peraltro non lo contestano.
83. Ciò detto, la situazione dei ricorrenti non può tuttavia essere considerata analoga a quella di una coppia eterosessuale non sposata. A differenza di quest’ultima, gli interessati non hanno in Italia la possibilità di sposarsi. Essi non possono pertanto essere qualificati come «coniugi» secondo il diritto nazionale. Pertanto, un’interpretazione restrittiva della nozione di «familiare» costituisce un ostacolo insormontabile al rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari soltanto per le coppie omosessuali. Queste ultime non potevano neanche ottenere una modalità di riconoscimento giuridico diversa dal matrimonio, dato che all’epoca dei fatti, il sistema giuridico italiano non prevedeva, per le coppie omosessuali o eterosessuali impegnate in una relazione stabile, la possibilità di avere accesso ad una unione civile o ad una unione registrata che attestasse la loro condizione e garantisse loro alcuni diritti essenziali. Peraltro, la Corte rammenta di aver indicato nella sua sentenza Oliari e altri (sopra citata, § 170) che, nonostante gli sviluppi della giurisprudenza nazionale in materia (esposti dalle parti nella presente causa - paragrafi 64, 66 e 69 supra), la situazione delle coppie dello stesso sesso in Italia rimane incerta in alcuni ambiti. In ogni caso, la Corte osserva che il Governo non ha sostenuto che gli sviluppi in questione avrebbero portato al riconoscimento, in materia di immigrazione, di uno status analogo a quello di «coniuge» ai membri di una relazione omosessuale stabile e duratura.
84. La Corte osserva inoltre che i ricorrenti avevano ottenuto lo status di coppia non sposata in Nuova Zelanda (paragrafo 8 supra) e che, una volta trasferitisi in uno Stato che riconosce il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso (i Paesi Bassi), hanno deciso di sposarsi (paragrafo 25 supra). Pertanto, la loro situazione non può neppure essere paragonata a quella di una coppia eterosessuale che, per motivi personali, non desidera avventurarsi in un matrimonio o in un’unione civile.
85. L’insieme delle considerazioni che precedono inducono la Corte a concludere che i ricorrenti, una coppia omosessuale, sono stati trattati, per quanto riguarda il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari, allo stesso modo delle persone che si trovano in una situazione sensibilmente differente dalla loro – ossia partner eterosessuali che hanno deciso di non regolarizzare la loro situazione
86. Rimane da stabilire se il fatto di non aver applicato un trattamento differenziato nel caso di specie potesse essere giustificato sotto il profilo dell’articolo 14 della Convenzione.

ii. Sul punto di verificare l’esistenza di una giustificazione aggettiva e ragionevole

α) Principi generali

87. La Corte rammenta che una disparità di trattamento di situazioni simili o un trattamento analogo di situazioni diverse sono discriminatori se non si basano su una giustificazione oggettiva e ragionevole, ossia se non perseguono uno scopo legittimo o se non vi è un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e la finalità perseguita (si veda, mutatis mutandis, Hämäläinen, sopra citata, § 108). Inoltre, il divieto di discriminazione sancito dall’articolo 14 della Convenzione ha senso solo se, in ogni singolo caso, la situazione personale del ricorrente rispetto ai criteri elencati in tale disposizione è presa in considerazione in quanto tale. Un approccio contrario priverebbe l’articolo 14 della sua sostanza (Andrejeva c. Lettonia [GC], n. 55707/00, § 91, CEDU 2009).
88. Gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento per determinare se e in quale misura le disparità di trattamento sono giustificate (si vedano, mutatis mutandis, Burden c. Regno Unito [GC], n. 13378/05, § 60, CEDU 2008, e Schalk e Kopf, sopra citata, § 96). L’ampiezza di tale margine può variare secondo le circostanze, l’ambito e il contesto; la presenza o l’assenza di un denominatore comune ai sistemi giuridici degli Stati contraenti può costituire un fattore pertinente a questo proposito (Petrovic c. Austria, 27 marzo 1998, § 38, Recueil 1998 II, e Hämäläinen, sopra citata, § 109).
89. La Corte rammenta ancora che l’orientamento sessuale rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 14. Essa ha ripetutamente dichiarato che, come le disparità basate sul sesso, quelle fondate sull’orientamento sessuale devono essere giustificate da ragioni imperiose o, altra formula talvolta utilizzata, da «motivi particolarmente solidi e convincenti» (X e altri c. Austria, sopra citata, § 99; si vedano, ad esempio, Smith e Grady c. Regno Unito, nn. 33985/96 e 33986/96, § 90, CEDU 1999 VI, Lustig Prean e Beckett c. Regno Unito, nn. 31417/96 e 32377/96, § 82, 27 settembre 1999, L. e V. c. Austria, nn. 39392/98 e 39829/98, § 45, CEDU 2003 I, E.B. c. Francia, sopra citata, § 91, Karner, sopra citata § 37, e Vallianatos e altri, sopra citata, § 77), in particolare quando si tratta di diritti che rientrano nella sfera dell’articolo 8. Le disparità motivate unicamente da considerazioni che attengono all’orientamento sessuale sono inaccettabili rispetto alla Convenzione (Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo, n. 33290/96, § 36, CEDU 1999 IX, E.B. c. Francia, sopra citata, §§ 93 e 96, et X e altri c. Austria, sopra citata, § 99).
90. Infine, per quanto riguarda l’onere della prova sotto il profilo dell’articolo 14 della Convenzione, la Corte considera che qualora un ricorrente abbia dimostrato l’esistenza di un trattamento analogo di situazioni notevolmente diverse, spetta al Governo dimostrare che tale approccio era giustificato (si veda, mutatis mutandis, D.H. e altri, sopra citata, § 177).

β) Applicazione di questi principi al caso di specie

91. La Corte deve quindi dapprima stabilire se, nel quadro della procedura volta all’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi familiari, il fatto di non aver trattato i ricorrenti in modo diverso delle coppie eterosessuali che non avevano regolarizzato la loro situazione perseguisse uno scopo legittimo. In caso affermativo, deve verificare se esistesse un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (si veda, mutatis mutandis, Thlimmenos, sopra citata, § 46).
92. La Corte osserva che, per giustificare il trattamento analogo delle coppie omosessuali ed eterosessuali non sposate in materia di rilascio del permesso di soggiorno per ragioni familiari, il Governo invoca, in sostanza, il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati per tutelare la famiglia tradizionale e per decidere se le coppie omosessuali devono avere accesso a unioni civili o unioni registrate, nonché per determinare l’esatta natura dello status conferito (paragrafi 43, 45, 46, 47 e 65 supra).
93. Sebbene la protezione della famiglia tradizionale possa, in determinate circostanze, costituire uno scopo legittimo rispetto all’articolo 14, la Corte ritiene che, nel settore interessato, ossia il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari a un partner straniero omosessuale, non possa costituire un motivo «particolarmente solido e convincente» tale da giustificare, nelle circostanze del caso di specie, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (si veda, mutatis mutandis, Vallianatos e altri, sopra citata, § 92).
94. La Corte sottolinea che, nel caso di specie, non deve esaminare in abstracto se lo Stato italiano fosse tenuto a prevedere, per le coppie dello stesso sesso, una forma di riconoscimento legale nel momento in cui al secondo ricorrente è stato negato il permesso di soggiorno dal questore di Livorno (18 ottobre 2004) oppure quando tale decisione è stata confermata nell’ambito del procedimento giudiziario successivo, chiuso con la sentenza della Corte di cassazione, depositata il 17 marzo 2009 (si veda, mutatis mutandis, Vallianatos e altri, sopra citata, § 78). Avuto riguardo al modo in cui è stato formulato il motivo di ricorso dei ricorrenti, la Corte si limiterà a valutare se, nel contesto specifico del rifiuto di rilasciare un permesso di soggiorno al secondo ricorrente, le decisioni delle autorità italiane erano basate su una giustificazione oggettiva e ragionevole, tenendo conto del fatto che l’applicazione delle disposizioni del decreto legislativo n. 286 del 1998 ha impedito ai ricorrenti di proseguire la loro vita familiare comune e la loro relazione stabile e seria in Italia. È vero che la legge italiana non trattava in modo diverso le coppie eterosessuali non sposate dalle coppie omosessuali (paragrafo 82 supra), ma limitava la nozione di «familiari» ai coniugi eterosessuali. Tuttavia, il fatto di applicare la stessa norma restrittiva derivante dal decreto legislativo n. 286 del 1998 alle coppie eterosessuali non regolarizzate e alle coppie omosessuali, al solo scopo di tutelare la famiglia tradizionale (paragrafo 93 supra) ha sottoposto i ricorrenti a un trattamento discriminatorio. Infatti, senza alcuna giustificazione obiettiva e ragionevole, lo Stato italiano ha omesso di trattarli in modo diverso dalle coppie eterosessuali e di tener conto della capacità di queste ultime di ottenere un riconoscimento legale della loro unione, e quindi di soddisfare le esigenze del diritto interno ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, una possibilità di cui i ricorrenti non godevano (Thlimmenos, sopra citata, § 44).
95. La Corte osserva inoltre che è proprio la mancanza della possibilità, per le coppie omosessuali, di avere accesso a una forma di riconoscimento legale ad aver posto i ricorrenti in una situazione diversa da quella di una coppia eterosessuale non sposata (paragrafo 83 supra). Anche supponendo che all’epoca controversa la Convenzione non obbligasse il Governo a prevedere, per le persone dello stesso sesso aventi una relazione stabile e seria, la possibilità di concludere un’unione civile o un’unione registrata che attestasse il loro status e garantisse loro taluni diritti essenziali, ciò non può incidere in alcun modo sulla constatazione che, a differenza di una coppia eterosessuale, il secondo ricorrente non disponeva, in Italia, di alcun mezzo legale per vedersi riconoscere lo status di «familiare» del primo ricorrente» e per poter quindi beneficiare di un permesso di soggiorno per motivi familiari.
96. La Corte rileva che il Governo non ha indicato altri scopi legittimi tali da giustificare la discriminazione denunciata dai ricorrenti. Pertanto, essa ritiene che, nell’ambito del procedimento che i ricorrenti hanno avviato ai fini dell’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi familiari, il fatto di non aver trattato gli interessati in modo diverso dalle coppie eterosessuali non sposate, che erano le uniche ad avere accesso a una forma di regolarizzazione della loro unione, non aveva alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole. Secondo la Corte, l’interpretazione restrittiva applicata al secondo ricorrente della nozione di «familiare» non ha tenuto debitamente conto della situazione personale dei ricorrenti e in particolare dell’impossibilità per loro di ottenere in Italia un modo per riconoscere giuridicamente la loro unione (si veda, in particolare, la giurisprudenza citata al paragrafo 87 supra).
97. La Corte osserva inoltre che il Governo non ha contestato né l’affermazione dell’I.C.J., dell’ILGA-Europe e del NELFA secondo cui vi sarebbe, a livello mondiale, una «tendenza significativa» a trattare le coppie dello stesso sesso come dei «familiari» e a riconoscere loro il diritto di vivere insieme (paragrafo 77 supra) né l’esame di diritto comparato che ha indotto l’ECSOL a concludere per l’emergere di un consenso europeo secondo il quale, in materia di immigrazione, le unioni tra persone dello stesso sesso tendono ad essere considerate come una «vita familiare» (paragrafo 79 supra). A tale riguardo, la Corte sottolinea che emerge dai «documenti europei pertinenti» (paragrafi da 31 a 34 supra) che sia il Parlamento europeo che l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa hanno ritenuto problematica un’interpretazione restrittiva, da parte degli Stati membri, della nozione di «familiare» nell’ambito dell’immigrazione.

γ) Conclusione

98. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che all’epoca controversa, decidendo di trattare, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, le coppie omosessuali alla stregua delle coppie eterosessuali che non avevano regolarizzato la loro situazione, lo Stato ha violato il diritto dei ricorrenti di non subire alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nel godimento dei loro diritti rispetto all’articolo 8 della Convenzione.
99. Ne consegue che vi è stata violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8.
II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8
100. In una lettera del 26 agosto 2015, i ricorrenti chiedono alla Corte di concludere anche per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione considerato separatamente in ragione dell’assenza, in Italia, di disposizioni legali specifiche a favore del riconoscimento e della protezione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Invocano i principi enunciati nella sentenza Oliari e altri (sopra citata).
101. La Corte osserva che questa doglianza non è stata sollevata nel formulario di ricorso e non è stata portata a conoscenza del Governo. Peraltro, rileva che la questione dell’assenza, in Italia, di una forma di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali è stata sollevata dai ricorrenti soltanto in una comunicazione non richiesta successiva allo scambio di osservazioni tra le parti, mentre, nella loro memoria dinanzi alla camera, gli interessati avevano esplicitamente affermato che lo scopo del loro ricorso non era quello di ottenere l’accesso a una forma di unione registrata (paragrafo 73 supra). Inoltre, la Corte osserva che, quando hanno sollevato questo nuovo motivo di ricorso (il 26 agosto 2015), i ricorrenti non risiedevano più in Italia da circa sei anni e che, essendosi sposati l’8 maggio 2010 ad Amsterdam, avevano ottenuto, nel loro paese di residenza, un riconoscimento giuridico della loro unione da oltre cinque anni e tre mesi (paragrafi 24-25 supra). In tali circostanze, la Corte ritiene che al più tardi a partire dalla data del loro matrimonio nei Paesi Bassi, i ricorrenti hanno cessato di essere lesi dalla situazione che denunciano, cioè dalla mancanza, in Italia, di una forma di riconoscimento legale di unioni tra persone dello stesso sesso.
102. Ne consegue che questo motivo di ricorso è tardivo e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

103. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

104. I ricorrenti reclamano 20.000 euro (EUR) per danno morale. Essi affermano che, dall’ottobre 2004, le autorità italiane hanno negato l’esistenza della discriminazione di cui si dicono vittime. Ritengono di essere stati costretti a «esiliarsi» nei Paesi Bassi nel luglio 2009, lontano dalla famiglia del primo ricorrente. In una lettera del 26 agosto 2015 (paragrafi 100-101 supra), i ricorrenti hanno indicato che chiedevano inoltre la somma di 5.000 EUR ciascuno per il danno morale derivante dalla dedotta violazione dell’articolo 8 della Convenzione considerato separatamente.
105. Il Governo si rimette al giudizio della Corte.
106. Tenuto conto della prassi in materia, la Corte ritiene che occorra assegnare ai ricorrenti congiuntamente 20.000 EUR a titolo del danno morale derivante dalla violazione accertata dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8.

B. Spese

107. I ricorrenti chiedono inoltre 10.924,58 EUR per le spese sostenute dinanzi ai giudici interni e 8.000 EUR per quelle sostenute dinanzi alla Corte. A tale riguardo hanno prodotto cinque note di spese dell’avvocato che li ha rappresentati a livello nazionale (per importi di 2.413,78 EUR, 1.836 EUR, 1.836 EUR, 2.360 EUR e 2.478,80 EUR), e una lettera del loro rappresentante dinanzi alla Corte indicante che, in caso di esito favorevole della procedura europea, essi erano tenuti a versargli la somma di 8.000 EUR.
108. Il Governo si rimette al riguardo al giudizio della Corte.
109. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti di cui dispone e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la somma complessiva richiesta dai ricorrenti per tutte le spese, ossia 18.924,58 EUR, e la accorda agli interessati.

C. Interessi moratori

110. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

  1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo all’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 della stessa, e irricevibile per il resto;
  2. Dichiara con sei voti contro uno, che vi è stata violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8;
  3. Dichiara, con sei voti contro uno,
    1. che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 44 § 2 della Convenzione, le somme seguenti
      1. 20.000 EUR (ventimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale,
      2. 18.924,58 EUR (diciottomilanovecentoventiquattro euro e cinquantotto centesimi), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dai ricorrenti, per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 30 giugno 2016, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Abel Campos Mirjana Lazarova Trajkovska
Cancelliere Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione delle opinioni separate seguenti:

  • opinione concordante del giudice Spano, cui aderisce il giudice Bianku;
  • opinione parzialmente dissenziente del giudice Sicilianos.

M.L.T.
A.C.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE SPANO, CUI ADERISCE IL GIUDICE BIANKU

  1. Non intendo esprimere un punto di vista sulla giurisprudenza consolidata della Corte che riconosce agli Stati membri la libertà di decidere se legalizzare le unioni tra persone dello stesso sesso. Stando così le cose, questa è la posizione della Corte, cui sono tenuto ad aderire sulla base del principio stare decisis. Tuttavia, così come affermato nella sentenza Schalk e Kopf c. Austria (n. 30141/04, § 105, CEDU 2010), la situazione potrebbe cambiare.
  2. Con la presente opinione separata desidero sottolineare il fatto che, sebbene gli Stati non abbiano l’obbligo di concedere alle coppie dello stesso sesso l’accesso all’istituto del matrimonio, ciò non significa che queste persone non possano adire la Corte per far valere il loro diritto al rispetto della loro vita famigliare in particolari contesti. Al contrario, se gli Stati decidono di negare alle coppie dello stesso sesso la possibilità di contrarre matrimonio, una tale decisione potrebbe produrre delle conseguenze nel momento in cui questa Corte è chiamata ad esaminare un ricorso in materia di discriminazione ingiustificata in un contesto specifico che rientra nell’ambito del diritto al rispetto della vita famigliare di cui all’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione.
  3. Poiché l’Italia ha deciso di concedere ai cittadini stranieri la possibilità di richiedere un permesso di soggiorno se sono «famigliari» di cittadini italiani, l’applicazione di tale sistema di diritto interno non può essere discriminatoria (si veda E.B. c. Francia [GC], n. 43546/02, § 49, 22 gennaio 2008). Ne consegue che, allo stato attuale, l’impossibilità in Italia, per le coppie dello stesso sesso, di contrarre matrimonio o di ottenere un altro riconoscimento giuridico della loro unione non può, a prescindere da qualsiasi ragionevole interpretazione dell’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione, avere reso la loro unione meno degna di essere considerata un nucleo famigliare nel particolare contesto della procedura di immigrazione. La sentenza richiede che l’Italia tenga debitamente conto dell’esistenza di una relazione seria e stabile tra persone dello stesso sesso in questo specifico contesto. La Corte respinge fermamente l’argomento secondo il quale gli Stati possono legittimamente invocare il concetto di “famiglia tradizionale” per rigettare una richiesta di permesso di soggiorno presentata da un cittadino straniero che ha una relazione con un cittadino italiano dello stesso sesso.
  4. Per concludere, il principio fondamentale della dignità umana, che è una delle pietre miliari dell’articolo 8 della Convenzione, garantisce a tutte le persone il diritto di scegliere le persone con cui formare una famiglia, indipendentemente dalla loro identità o orientamento sessuale.
    Concordo con la sentenza.

OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE SICILIANOS

1. Con mio grande disappunto, non posso seguire la maggioranza quando conclude per la violazione dell’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione. Infatti, ritengo che la presente causa non costituisca un caso di discriminazione vietata dalla Convenzione (I). A mio avviso, potrebbe trattarsi, nel caso specifico, di una violazione del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione considerato separatamente (II).

I. La presente causa non implica alcuna discriminazione

A. Ricevibilità

2. Occorre precisare, anzitutto, che la sentenza ha correttamente stabilito che «i fatti della controversia, essendosi verificati tra il 18 ottobre 2004 e il mese di luglio 2009, ricadono sotto l’articolo 8 della Convenzione e che l’articolo 14, combinato con tale disposizione, è applicabile» (paragrafo 63). In altre parole, sottoscrivo volentieri la conclusione relativa all’applicabilità dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8.

B. Merito

1. I due aspetti del principio di non discriminazione

3. Sul merito di tale questione, la sentenza richiama i due aspetti del principio di non discriminazione quali risultano dalla giurisprudenza della Corte. È noto, infatti, che può porsi una questione rispetto all’articolo 14 in presenza: a) di un trattamento diverso di persone poste in situazioni simili; oppure b) di un trattamento identico di persone che si trovano in situazioni diverse (paragrafo 81 della sentenza ed i riferimenti ivi citati). Quando applica tali principi al caso di specie, la sentenza si pone sul piano del secondo aspetto del principio di non discriminazione, messo in evidenza per la prima volta nella sentenza Thlimmenos c. Grecia ([GC], n. 34369/97, § 44, CEDU 2000-IV) e ribadito più volte da allora.

2. Secondo la maggioranza, la situazione delle coppie omosessuali non sposate non sarebbe assimilabile a quella delle coppie eterosessuali non sposate

4. Infatti, al paragrafo 82, la sentenza afferma che «non risulta che i ricorrenti, una coppia omosessuale non sposata, abbiano ricevuto un trattamento diverso da una coppia eterosessuale non sposata. (...) l’esclusione dei partner non coniugati dal diritto di ottenere il permesso [di soggiorno] riguardava sia le coppie dello stesso sesso che quelle di sesso opposto». Tuttavia, la sentenza aggiunge che la situazione dei ricorrenti era diversa da quella di una coppia eterosessuale non sposata in quanto tale coppia aveva la possibilità di sposarsi – e di «regolarizzare» così la sua relazione – mentre non era così per una coppia omosessuale. La maggioranza ricorda anche che, durante il periodo controverso (ossia tra il 2004 e il 2009), né le coppie eterosessuali né le coppie omosessuali avevano la possibilità di avere accesso ad un’unione civile o a un’unione registrata (paragrafo 83 della sentenza). Inoltre, i ricorrenti, una volta trasferitisi nei Paesi Bassi – Stato che consente il matrimonio omosessuale – hanno deciso di sposarsi. Il matrimonio è stato effettivamente celebrato l’8 maggio 2010. In queste condizioni, la maggioranza ritiene che la situazione dei ricorrenti «non possa neppure essere assimilata a quella di una coppia eterosessuale che, per motivi personali, non desidera avventurarsi in un matrimonio o un’unione civile» (paragrafo 84 della sentenza).

3. La posizione della maggioranza equivale ad accettare che la situazione delle coppie omosessuali non sposate sia assimilabile a quella delle coppie eterosessuali sposate

5. Prima di cercare di rispondere a questa questione, è importante osservare la tesi dei ricorrenti secondo cui «nelle società democratiche emerge un consenso che vuole (…) che un Governo non possa riservare un certo diritto o beneficio alle coppie sposate e negarne l’accesso alle coppie omosessuali con il pretesto che le persone in questione non sono sposate» (paragrafo 71 della sentenza). In altre parole, per i ricorrenti, la situazione delle coppie omosessuali non sposate dovrebbe essere paragonata a quella delle coppie sposate (eterosessuali o omosessuali). Qualsiasi disparità di trattamento tra queste due categorie – coppie omosessuali non sposate e coppie sposate – sarebbe discriminatoria.
6. Anche se è formulato in modo diverso, l’approccio della maggioranza è sostanzialmente identico a quello dei ricorrenti. Infatti, affermare che la situazione delle coppie omosessuali non sposate non è assimilabile a quella delle coppie eterosessuali non sposate in quanto queste ultime possono sposarsi equivale in realtà ad accettare a contrario che, ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione, la situazione delle coppie omosessuali non sposate sia assimilata a quella delle coppie sposate. Questa posizione sembra confermata dal paragrafo 91 della sentenza, in cui si afferma che: «La Corte deve quindi (…) stabilire se, nel quadro della procedura volta all’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi familiari, il fatto di non aver trattato i ricorrenti in modo diverso dalle coppie eterosessuali che non avevano regolarizzato la loro situazione perseguisse uno scopo legittimo». Dato che, in Italia, il solo mezzo per le coppie eterosessuali di «regolarizzare la loro situazione» è il matrimonio, il passaggio sopra citato induce a (ri)affermare che, nell’ambito del procedimento in questione, le coppie omosessuali non sposate, come i ricorrenti, dovevano essere assimilate non alle coppie eterosessuali non sposate ma alle coppie eterosessuali sposate.
7. A mio avviso, la questione che si pone è se tale approccio sia compatibile con la giurisprudenza adottata dalla Corte fino ad ora o se si discosti dalla linea giurisprudenziale seguita sia dalle camere che dalla Grande Camera.

4. Tale approccio è coerente con la giurisprudenza della Corte?

a) La situazione delle coppie sposate non è assimilabile a quella delle coppie non sposate

8. Per cercare di rispondere a tale questione, si ricorderanno anzitutto i termini utilizzati dalla Grande Camera nella causa X e altri c. Austria ([GC], n. 19010/07, §§ 105-110, CEDU 2013):
«α) Confronto tra la situazione dei ricorrenti e quella di una coppia sposata nella quale uno dei partner desideri adottare il figlio dell’altro
105. Il primo quesito che si pone alla Corte è se la situazione dei ricorrenti – la prima e la terza ricorrente, che formano una coppia omosessuale, e il figlio di quest’ultima – fosse paragonabile a quella di una coppia eterosessuale sposata nella quale uno dei partner desiderasse adottare il figlio dell’altro.
106. La Corte ha recentemente risposto negativamente a tale quesito nella causa Gas e Dubois, per motivi che ritiene utile richiamare e riaffermare. Conviene anzitutto tenere presente che l’articolo 12 della Convenzione non impone agli Stati contraenti l’obbligo di aprire il matrimonio alle coppie omosessuali (Schalk e Kopf, sopra citata, §§ 54-64), che il diritto al matrimonio omosessuale non può essere dedotto nemmeno dall’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 (ibidem, § 101) e che gli Stati, quando decidono di offrire alle coppie omosessuali un'altra modalità di riconoscimento giuridico, godono di un certo margine di apprezzamento per decidere sulla natura esatta dello status conferito (ibidem, § 108, Gas e Dubois, sopra citata, § 66). Peraltro, la Corte ha dichiarato più volte che il matrimonio conferisce uno status particolare a coloro che vi si impegnano, che l’esercizio del diritto di contrarre matrimonio è tutelato dall’articolo 12 della Convenzione e che tale diritto comporta delle conseguenze a livello sociale, personale e giuridico (si vedano, tra altre, Gas e Dubois, sopra citata, § 68, e Burden, sopra citata, § 63).
107. Invece, il diritto austriaco in materia di adozione prevede un regime specifico per le coppie sposate. In effetti, ai sensi dell’articolo 179 § 2 del codice civile, l’adozione congiunta è riservata a queste ultime ed è, in linea di principio, l’unica forma di adozione alla quale hanno accesso. In deroga a tale principio, la stessa disposizione autorizza uno dei coniugi ad adottare il figlio dell’altro coniuge (adozione coparentale).
108. Basandosi sulla sentenza Gas e Dubois, il Governo sostiene che la situazione della prima e della terza ricorrente non è assimilabile a quella di una coppia sposata. Da parte loro, le ricorrenti sottolineano che non intendono rivendicare un diritto che sarebbe riservato alle coppie sposate. La Corte non vede motivi per discostarsi dalla sua giurisprudenza su questo punto.
109. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che la situazione della prima e della terza ricorrente rispetto all’adozione coparentale non è assimilabile a quella di una coppia sposata.
110. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 nei confronti degli interessati se la loro situazione viene comparata a quella di una coppia sposata nella quale uno dei coniugi desideri adottare il figlio dell’altro».
9. Sembra quindi che la Grande Camera distingua chiaramente – e unanimemente (punto 2 del dispositivo della sentenza X e altri c. Austria, sopra citata) – la situazione di una coppia sposata da quella di una coppia omosessuale non sposata. Si può di certo sostenere che la distinzione in questione vale solo per il caso di specie, ossia la questione dell’adozione coparentale. Ora non è questo il caso. Come si evince anche dalle cause menzionate nel passaggio sopra citato, tale distinzione riflette una costante nella giurisprudenza della Corte. Infatti, quest’ultima ha potuto constatare più volte e in relazione a casi concernenti un ampio ventaglio di temi di ordine personale, economico o sociale che l’istituto del matrimonio crea un regime speciale a favore degli interessati. Il matrimonio è caratterizzato da un insieme di diritti e di obblighi che lo distinguono chiaramente dal caso di una coppia stabile che convive senza essere sposata. Questo dato costante della giurisprudenza della Corte è stato riassunto anche dalla Grande Camera in un caso relativo a prestazioni sociali, vale a dire in occasione di una causa che sollevava una questione ben diversa da quella dell’adozione coparentale. Così, nella causa Şerife Yiğit c. Turchia ([GC], n. 3976/05, 2 novembre 2010), la Corte ha rammentato che:
«72. Relativamente all’articolo12 della Convenzione, la Corte ha già constatato che è ampiamente riconosciuto che il matrimonio conferisca uno status e dei diritti particolari a coloro che lo contraggono (Burden, sopra citata, § 63, e Joanna Shackell c. Regno Unito (dec.), n. 45851/99, 27 aprile 2000). La protezione del matrimonio costituisce in via di principio un motivo importante e legittimo per giustificare una disparità di trattamento tra coppie sposate e coppie non sposate (Quintana Zapata c. Spagna, n. 34615/97, decisione della Commissione del 4 marzo 1998, Décisions et rapports (DR) 92, p. 139). Il matrimonio è caratterizzato da un insieme di diritti e obblighi che lo differenziano nettamente dalla situazione di un uomo e di una donna che vivono insieme (Nylund c. Finlandia (dec.), n. 27110/95, CEDU 1999 VI, e Lindsay c. Regno Unito (dec.), n. 11089/84, 11 novembre 1986). Anche gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento quando prevedono un trattamento diverso a seconda che una coppia sia sposata o meno, soprattutto in settori che rientrano nella politica sociale e fiscale, ad esempio in materia di imposizioni, di pensione e di previdenza sociale (si veda, mutatis mutandis, Burden, sopra citata, § 65).»
Si veda anche la sentenza Korosidou c. Grecia (n. 9957/08, § 64, 10 febbraio 2011).
10. Sembra quindi esistere una linea giurisprudenziale chiara che ritorna come un tema ricorrente nelle cause riguardanti un’ampia gamma di questioni, sia dal punto di vista dell’articolo 8 che da quello dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione, e che consiste nel distinguere, da un lato, le coppie sposate, omosessuali o eterosessuali, e, dall’altro, delle coppie non sposate, omosessuali o eterosessuali. Di conseguenza, accogliere seppure implicitamente o indirettamente che una coppia stabile non sposata si trovi in una situazione assimilabile a quella di una coppia sposata non sembra compatibile con la giurisprudenza della Corte.

b) La situazione delle coppie omosessuali non sposate è assimilabile a quella delle coppie eterosessuali non sposate

11. Rimane ora da sapere se quanto afferma esplicitamente la maggioranza nella presente sentenza – vale a dire che la situazione dei ricorrenti non è assimilabile a quella di una coppia eterosessuale stabile non sposata – sia compatibile con la giurisprudenza della Corte. A tale riguardo, occorre fare riferimento ancora una volta alla sentenza X e altri c. Austria sopra citata. In questa sentenza la Grande Camera ha adottato una posizione che sembra attestarsi agli antipodi di quella che adotta la Corte nella presente sentenza in quanto essa equipara precisamente la situazione dei ricorrenti – una coppia omosessuale stabile non sposata – a quella di una coppia eterosessuale stabile non sposata (X e altri c. Austria, sopra citata, §§ 111-112):
«β) Confronto tra la situazione dei ricorrenti e quella di una coppia eterosessuale non sposata nella quale uno dei partner desideri adottare il figlio dell’altro
111. La Corte rileva che le osservazioni dei ricorrenti riguardano sostanzialmente il confronto tra la loro situazione e quella di una coppia eterosessuale non sposata. Gli interessati sottolineano che, nel diritto austriaco, l’adozione coparentale è aperta non solo alle coppie sposate, ma anche alle coppie eterosessuali non sposate, mentre è giuridicamente impossibile per le coppie omosessuali
– Situazione assimilabile
112. La Corte osserva che nessuna delle parti sostiene che la legge opera una distinzione tra le coppie omosessuali e le coppie eterosessuali non sposate con uno status giuridico particolare analogo a quello che distingue le prime e le seconde dalle coppie sposate. Del resto, il Governo non contesta che la situazione delle coppie eterosessuali non sposate sia assimilabile a quella delle coppie omosessuali, ammettendo che, in termini personali, le coppie omosessuali sono in teoria idonee o inidonee quanto le coppie eterosessuali all’adozione in generale e all’adozione coparentale in particolare. La Corte constata che la situazione dei ricorrenti, desiderosi di stabilire un legame giuridico tra il primo e il secondo di essi, è assimilabile a quella di una coppia eterosessuale nella quale uno dei partner desiderasse adottare il figlio dell’altro.»
12. Ancora una volta si potrebbe dedurre che queste affermazioni riguardano soltanto la questione dell’adozione coparentale e che il raffronto tra le coppie omosessuali ed eterosessuali non sposate non vale in altre ipotesi. Un approccio simile non ci sembra convincente per una serie di ragioni. La prima è di natura puramente logica. Infatti, le due affermazioni contenute nei due suddetti passaggi della sentenza X e altri c. Austria rappresentano le due facce della stessa medaglia. Affermare, da un lato, che la situazione delle coppie sposate e non sposate non è paragonabile, e affermare, dall’altro, che le coppie non sposate stabili omosessuali o eterosessuali, si trovano in situazioni analoghe, ci sembra perfettamente coerente. Le due affermazioni derivano l’una dall’altra e sono complementari. Questo punto di vista è corroborato anche da un’altra sentenza importante e più recente della Grande Camera, Vallianatos e altri c. Grecia, [GC], n. 29381/09 e 32684/09, CEDU 2013 (estratti), riguardante il «patto di vita comune» che la legge greca in vigore all’epoca dei fatti (da allora modificata) riservava alle coppie eterosessuali. Collocando la controversia nel suo contesto, la Corte ha ribadito ancora una volta che la situazione delle coppie eterosessuali non sposate è assimilabile a quella delle coppie omosessuali non sposate (Vallianatos e altri c. Grecia, sopra citata, § 72):
«α) Paragone tra la situazione dei ricorrenti e quella di una coppia eterosessuale e esistenza di una disparità di trattamento
78. La prima questione che la Corte deve risolvere è se la situazione dei ricorrenti sia assimilabile a quella di una coppia eterosessuale che desidera concludere un «patto di vita comune» ai sensi della legge n. 3719/2008. La Corte ricorda che le coppie omosessuali sono, proprio come le coppie eterosessuali, in grado di intrattenere relazioni stabili (Schalk e Kopf, sopra citata, § 99). Essa ritiene pertanto che i ricorrenti si trovino in una situazione assimilabile a quella di persone eterosessuali per quanto riguarda la loro necessità di riconoscimento giuridico e di protezione del loro rapporto di coppia (ibidem).»
Tale posizione costituisce il messaggio principale intorno a cui si articola l’insieme del ragionamento della Corte in tale causa.
13. Inoltre, gli argomenti utilizzati dalla maggioranza per sostenere l’affermazione – nuova nella giurisprudenza della Corte – secondo cui la situazione di una coppia omosessuale stabile non sarebbe assimilabile a quella di una coppia eterosessuale stabile non sembrano convincenti. Il primo argomento consiste nell’affermare che le due situazioni sarebbero diverse ai fini dell’ottenimento di un permesso di soggiorno in Italia poiché le coppie eterosessuali possono sposarsi e quindi «regolarizzare» la loro situazione alla luce delle disposizioni pertinenti del diritto italiano, il che non avviene nel caso di una coppia omosessuale (paragrafo 83 della sentenza). Ora, questo argomento potrebbe essere applicato mutatis mutandis in molti altri casi, mettendo seriamente in discussione, si è visto, lo status particolare del matrimonio quale risulta dalla Convenzione e dalla giurisprudenza della Corte (si veda supra). Peraltro, l’argomento in questione equivarrebbe ad affermare, in sostanza, che una coppia eterosessuale di cui uno dei membri desideri ottenere un permesso di soggiorno è obbligato a sposarsi nolens volens, il che non avviene nel caso di una coppia omosessuale. Tuttavia, se si accoglie questa tesi, è probabile che in futuro la Corte sia adita da una coppia eterosessuale che invocherà tale disparità di trattamento per sostenere di aver subito una discriminazione. Si rischia pertanto di perdersi nei meandri di sillogismi che portano a risultati abbastanza complessi e piuttosto difficili da seguire.
14. Il secondo argomento della maggioranza, volto a differenziare le coppie eterosessuali e omosessuali non sposate, sembra a prima vista applicarsi specificamente alla presente causa. Esso consiste nell’affermare che i ricorrenti hanno dimostrato la loro intenzione di sposarsi perché alla fine lo hanno fatto nei Paesi Bassi e che quindi la loro situazione «non può neppure essere paragonata a quella di una coppia eterosessuale che, per motivi personali, non desidera impegnarsi in un matrimonio o un’unione civile» (paragrafo 84). Ora, ricordiamolo, il matrimonio dei ricorrenti ha avuto luogo l’8 maggio 2010, cioè dopo il periodo controverso, mentre i ricorrenti non si trovavano più in Italia. Pertanto, si può dedurre da un tale evento – che le autorità nazionali non potevano nemmeno prevedere – una conseguenza giuridica così importante per quanto riguarda il carattere comparabile delle situazioni e gli obblighi giuridici che ne derivano per uno Stato parte? È sensato porsi sul piano delle intenzioni individuali per giungere a delle conclusioni di ordine generale?

5. Conclusione

15. L’approccio della maggioranza in merito alle situazioni paragonabili non mi sembra compatibile con la giurisprudenza della Corte. In particolare, non condivido la posizione della maggioranza secondo cui la situazione dei ricorrenti non era assimilabile a quella di una coppia eterosessuale stabile non sposata. Pertanto, non occorre affrontare la parte della sentenza per sapere se esistesse o meno una giustificazione obiettiva e ragionevole (paragrafi 87 e seguenti della sentenza). Poiché le due situazioni sopra menzionate sono paragonabili, il fatto che sono state trattate in modo identico non costituisce una discriminazione ai sensi dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.

II. La presente causa può sollevare un problema rispetto all’articolo 8 considerato separatamente

16. Si sa che, dopo la famosa sentenza Marckx c. Belgio (13 giugno 1979, serie A, n. 31), la Corte ha progressivamente ampliato il concetto di «vita familiare», qualificata esplicitamente come nozione autonoma (L.-A. Sicilianos, «La ‘vita familiare’ in quanto nozione autonoma rispetto alla CEDU», in Casadevall, J., Raimondi, G. e al. (eds), Mélanges en l’honneur de Dean Spielmann, Oisterwijk: Wolf Legal Publishers, 2015, pp. 595-602), fino ad includervi in particolare – al di là della famiglia tradizionale – alcune forme di relazione de facto tra persone di sesso opposto o dello stesso sesso (si vedano in particolare Schalk e Kopf c. Austria, n. 30141/04, 24 giugno 2010, § 91 e seguenti, e Vallianatos e altri c. Grecia, sopra citata, § 73).
17. .D’altro canto, come ricordato nella presente sentenza, «in base ad un consolidato principio di diritto internazionale, gli Stati possono, senza pregiudizio degli obblighi per essi derivanti dai trattati, controllare l’ingresso e il soggiorno dei non cittadini nel loro territorio » (paragrafo 55 della sentenza). Se è vero che la Convenzione non garantisce il diritto per lo straniero di entrare o di risiedere in un determinato paese (si vedano, fra altre, Nunez c. Norvegia, n. 55597/09, § 66, 28 giugno 2011, e Jeunesse c. Paesi Bassi [GC], n. 12738/10, § 100, CEDU 2014), la Corte ha ammesso che, in determinate circostanze, l’allontanamento dei non nazionali può costituire una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, ed ha fornito a questo proposito un insieme di criteri (si veda in particolare Üner c. Paesi Bassi ([GC], n. 46410/99, §§ 54-60, CEDU 2006 XII), criteri riassunti e applicati recentemente nella sentenza Kolonja c. Grecia (n. 49441/12, 19 maggio 2016, § 48 e seguenti). È opportuno sottolineare che la giurisprudenza della Corte in materia è stata debitamente presa in considerazione nei lavori della Commissione del diritto internazionale (CDI) volta a codificare il diritto internazionale generale in materia di espulsione (si veda il progetto di articoli della CDI sull’espulsione degli stranieri, adottato in occasione della 66a sessione della CDI (2014), Rapport de la CDI, UN doc. A/69/10, e in particolare l’articolo 18, intitolato «obbligo di rispettare il diritto alla vita familiare», ibid., pag. 46 e le relative osservazioni).
18. La questione che si pone a questo punto è quella di sapere se la logica sottesa a tale giurisprudenza si possa trasporre mutatis mutandis in materia di ricongiungimento familiare. Facendo riferimento agli elementi della presente causa, si nota che l’ECSOL, quale terzo interveniente, ha presentato uno studio di diritto comparato sulla possibilità per i partner dello stesso sesso, di ottenere un permesso di soggiorno nei paesi ospitanti (paragrafo 79 della sentenza), dimostrando che esiste una tendenza positiva importante in tal senso. Lo studio in questione fa anche valere che almeno 24 Stati non operano alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nel rilascio dei permessi di soggiorno (ibidem). I ricorrenti e gli altri terzi intervenienti presentano anch’essi degli elementi di diritto comparato che avvalorano la stessa idea (paragrafi 72 e 75 e seguenti della sentenza). Si osserva inoltre che la direttiva 2004/38/CE (citata al paragrafo 29 della sentenza) fornisce una definizione ampia della nozione di «familiare» per comprendere, oltre al coniuge, il «partner» del cittadino dell’UE che circola all’interno dell’Unione, senza alcuna distinzione fondata sull’orientamento sessuale. La risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 (citata ai punti 31 e 32 della sentenza) chiedeva un ampliamento del campo di applicazione della direttiva in questione, a seguito, in particolare, delle sentenze della Corte di giustizia nelle cause Metock, Jipa e Huber. In un ordine di idee vicino, la raccomandazione 1686 (2004) dell’APCE relativa alla mobilità umana e al diritto al ricongiungimento familiare, citata al punto 34 della sentenza, raccomanda al Comitato dei Ministri, tra l’altro, «[di] applicare, ove ciò sia possibile e appropriato, un’interpretazione ampia della nozione di «famiglia» e in particolare [di] includere in tale definizione i membri della famiglia naturale, i conviventi, compresi i partner dello stesso sesso (...)». Tutti questi elementi avvalorano l’idea secondo cui ci sarebbe una tendenza sempre più significativa a consentire il ricongiungimento familiare e rilasciare un permesso di soggiorno non solo ai coniugi ma anche ai partner, senza distinzione basata sull’orientamento sessuale. Occorre inoltre che gli interessati possano far valere di essere legati da una relazione stabile e debitamente attestata.
19. Gli elementi in questione presentano un interesse certo e avrebbero meritato di essere ulteriormente verificati e analizzati per permettere alla Corte di stabilire se la tendenza in questione sia attualmente sufficientemente forte a livello paneuropeo. Se questo è effettivamente il caso, e conformemente alla metodologia seguita dalla Corte, l’esistenza di una siffatta tendenza limiterebbe la discrezionalità degli Stati in materia e solleverebbe la questione del rispetto dell’articolo 8 considerato separatamente.