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Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 7 gennaio 2014 - Ricorso n.77/07 - Cusan e Fazio c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata e rivista da Anna Aragona, Rita Pucci, Rita Carnevali e Martina Scantamburlo, funzionari linguistici.
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA CUSAN E FAZZO c. ITALIA

(Ricorso n. 77/07)

SENTENZA

STRASBURGO

7 gennaio 2014

 

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Cusan e Fazzo c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 26 novembre 2013,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 77/07) proposto contro la Repubblica italiana con cui due cittadini di tale Stato, sig.ra Alessandra Cusan e sig. Luigi Fazzo («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 13 dicembre 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.

3. I ricorrenti lamentano il rifiuto delle autorità italiane di accogliere la loro domanda volta a ottenere la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre.

4. Il 7 febbraio 2013 il ricorso è stato comunicato al Governo. Come consentito dall'articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito della causa.

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1964 e nel 1958 e sono residenti a Milano.

6. I ricorrenti sono una coppia sposata. Il 26 aprile 1999 nacque la loro prima figlia, Maddalena.

7. Il ricorrente presentò domanda all’ufficiale dello stato civile affinché la figlia fosse iscritta nei registri dello stato civile con il cognome della madre (Cusan). La domanda fu respinta e Maddalena fu iscritta con il cognome del padre (Fazzo).

8. Nel giugno 2000 i ricorrenti presentarono dinanzi al tribunale di Milano un ricorso contro tale decisione, sostenendo che erano d’accordo nel voler iscrivere Maddalena con il cognome della madre e che non vi era alcuna disposizione del diritto italiano che lo impedisse.

9. Con sentenza del 6 giugno 2001, depositata in cancelleria l’8 giugno 2001, il tribunale di Milano respinse il ricorso dei ricorrenti.

10. Nella motivazione, il tribunale osservava che, anche se nessuna disposizione di legge imponeva di iscrivere un figlio nato da una coppia sposata con il cognome del padre, tale regola corrispondeva a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana. Il tribunale riteneva inoltre superflua la questione dell’esistenza o meno di una disposizione di legge esplicita, osservando in effetti che, ai sensi del vecchio articolo 144 del codice civile («il CC»), la donna sposata adottava il cognome del marito, e che i figli potevano essere iscritti solo con tale cognome; esso era di fatto comune ai coniugi, anche se, successivamente, l’articolo 143 bis del CC aveva previsto che il cognome del marito potesse essere semplicemente aggiunto a quello della moglie.

11. I ricorrenti interposero appello.

12. Con sentenza del 24 maggio 2002, depositata in cancelleria il 4 giugno 2002, la corte d’appello di Milano confermò la sentenza di primo grado.

13. Nella motivazione, la corte d’appello osservava che la Corte costituzionale aveva affermato più volte (ordinanze nn. 176 del 28 gennaio 1988 e 586 dell’11 maggio 1988) che la mancata previsione della possibilità, per la madre, di trasmettere il proprio cognome ai «figli legittimi» non violava l’articolo 29 (matrimonio ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi) né l’articolo 3 (eguaglianza dei cittadini davanti alla legge) della Costituzione. Essa osservò che la Corte costituzionale aveva indicato che spettava al legislatore decidere sull’opportunità di introdurre un sistema diverso di attribuzione del cognome e che almeno sei disegni o proposte di legge erano all’epoca all’esame del Parlamento. Ciò dimostrava a suo avviso che la regola non scritta di attribuzione del cognome era ancora in vigore; la giurisprudenza del resto non ne aveva messo in dubbio l’esistenza.

14. Per la corte d’appello, la mancata applicazione di tale regola avrebbe comportato delle conseguenze per i figli ai quali fosse stato attribuito il cognome della madre, in quanto avrebbero potuto essere individuati come «figli non legittimi».

15. I ricorrenti presentarono ricorso per cassazione.

16. Con ordinanza del 26 febbraio 2004, depositata in cancelleria il 17 luglio 2004, la Corte di cassazione ritenne che la questione incidentale della legittimità costituzionale della regola che attribuisce ai «figli legittimi» il cognome del padre era rilevante e non manifestamente infondata; di conseguenza, sospese il procedimento e ordinò la trasmissione del fascicolo alla Corte costituzionale.
Nella motivazione dell’ordinanza, la Corte di cassazione precisò che la regola in questione non era una norma consuetudinaria, ma risultava dall’interpretazione di alcuni articoli del CC.

17. Con sentenza (n. 6) del 16 febbraio 2006, la Corte costituzionale dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale.

Nella motivazione, la Corte costituzionale ritenne che il sistema in vigore di attribuzione del cognome fosse retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale che affondava le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e non era più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Inoltre, la Corte rilevò che l’articolo 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (ratificata con legge 14 marzo 1985, n. 132) impegnava gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti famigliari e, in particolare, ad assicurare gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome.

18.La Corte costituzionale richiamò anche le raccomandazioni nn. 1271 del 1995 e 1362 del 1998 del Consiglio d’Europa, nonché la giurisprudenza della Corte (in questo caso Burghartz c. Svizzera, 22 febbraio 1994, serie A n. 280-B; Stjerna c. Finlandia, 25 novembre 1994, serie A n. 299-B; e Ünal Tekeli c. Turchia, n. 29865/96, CEDU 2004-X).

19.Tuttavia, la Corte costituzionale ritenne che l’intervento invocato dalla Corte di cassazione richiedesse una operazione che esorbitava dai suoi poteri.
Essa rilevò in effetti che veniva lasciata aperta tutta una serie di opzioni, ossia: 1o) se la scelta del cognome dipendesse esclusivamente dalla volontà dei coniugi; 2o) se ai coniugi fosse consentito derogare alla regola; 3°) se la scelta dei coniugi dovesse avvenire una sola volta con effetto per tutti i loro figli o dovesse essere espressa all'atto della nascita di ciascuno di essi. La Corte costituzionale osservò che i disegni di legge (nn. 1739-S, 1454 S e 3133-S) presentati nel corso della XIV legislatura testimoniavano la pluralità delle opzioni prospettabili, la scelta tra le quali non poteva che essere rimessa al legislatore. Ritenne anche che una dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni interne pertinenti avrebbe determinato un vuoto giuridico.

20. Con sentenza del 29 maggio 2006, depositata in cancelleria il 16 luglio 2006, la Corte di cassazione prese atto della decisione della Corte costituzionale e respinse il ricorso dei ricorrenti.
Nella motivazione essa sottolineò che la norma denunciata dai ricorrenti era retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, ma che spettava comunque al legislatore ridisegnarla in senso costituzionalmente adeguato.

21. Il 31 marzo 2011 i ricorrenti domandarono al Ministro dell’Interno di essere autorizzati a far completare il cognome dei loro «figli legittimi» aggiungendo il cognome «Cusan». Essi spiegavano che con ciò desideravano permettere ai figli di identificarsi nel patrimonio morale del loro nonno materno – deceduto nel 2011 – che, secondo loro, era stato un filantropo; poiché il fratello della ricorrente non aveva avuto discendenti, essi precisavano che il cognome «Cusan» poteva perpetuarsi soltanto passando ai figli di Alessandra Cusan.

22. Con decreto del 14 dicembre 2012, il prefetto di Milano autorizzò i ricorrenti a cambiare il cognome dei loro figli in «Fazzo Cusan».

23. I ricorrenti precisano che nonostante questa autorizzazione, essi desiderano proseguire il loro ricorso dinanzi alla Corte. In proposito fanno osservare che il decreto del Prefetto è stato emesso all’esito di un procedimento amministrativo, e non giudiziario, e che non sono stati autorizzati a dare alla loro figlia soltanto il cognome della madre, come avevano domandato al tribunale di Milano.

II.  IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

24. L’articolo 29 della Costituzione recita:

«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.»

25. Gli articoli da 153 a 164 del regio decreto n. 1238 del 9 luglio 1939, in vigore all’epoca della nascita di Maddalena, prevedevano che la domanda volta al cambiamento del cognome doveva essere presentata al Presidente della Repubblica, esporre le ragioni che la giustificavano ed essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Il Presidente della Repubblica esercitava un potere discrezionale in materia.

26. Dopo la nascita di Maddalena è entrato in vigore il decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 3 novembre 2000. L’articolo 84, intitolato «cambiamento del cognome», recita:

«Chiunque vuole cambiare il cognome o aggiungere al proprio un altro cognome deve farne richiesta al Ministero dell’Interno esponendo le ragioni della domanda.»

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE, CONSIDERATO ISOLATAMENTE O IN COMBINATO DISPOSTO CON L’ARTICOLO 14

27. I ricorrenti contestano il rifiuto delle autorità italiane di accogliere la loro domanda volta ad attribuire alla figlia il cognome della madre e il fatto che la legislazione italiana, come interpretata all’epoca dei fatti, imponeva l’attribuzione automatica e senza eccezioni del cognome del padre ai «figli legittimi». Essi ritengono che la legge italiana avrebbe dovuto permettere ai genitori di scegliere il cognome dei propri figli e invocano l’articolo 8 della Convenzione, considerato isolatamente o in combinato disposto con l’articolo 14.
Queste disposizioni sono così formulate:

Articolo 8

«1.  Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»

Articolo 14

«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella (…) Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»

28. Il Governo contesta questa tesi.

A.  Sulla ricevibilità

1.  L’eccezione del Governo relativa alla perdita della qualità di «vittime» dei ricorrenti

29. Il Governo afferma innanzitutto che il ricorso è «oggi irricevibile e (…) infondato», facendo valere che i ricorrenti sono stati autorizzati dal prefetto di Milano ad aggiungere, per tutti i loro figli minorenni, il cognome della madre (Cusan) al cognome del padre (Fazzo – paragrafo 22 supra).

30. I ricorrenti non ritengono di aver perduto la qualità di vittime. Secondo loro, l’autorizzazione ad aggiungere il cognome della madre al cognome del padre non era una misura sufficiente, non essendo stata riconosciuta, neanche implicitamente, una violazione della Convenzione, e non ha permesso di attribuire a Maddalena il cognome «Cusan» fin dalla sua nascita. Per di più, precisano, non è stato accordato alcun indennizzo per il periodo precedente alla decisione del prefetto.

31.La Corte rammenta che una decisione o una misura favorevole al ricorrente è in linea di principio sufficiente a revocargli la qualità di «vittima» soltanto se le autorità nazionali hanno riconosciuto, espressamente o sostanzialmente, e poi riparato la violazione della Convenzione (si vedano, ad esempio, Eckle c. Germania, 15 luglio 1982, § 69, serie A n. 51; Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999-VI; Jensen c. Danimarca (dec.), n. 48470/99, CEDU 2001-X; e Torreggiani e altri c. Italia, nn. 57875/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, § 38, 8 gennaio 2013).

32. Nel caso di specie, i ricorrenti lamentano di non aver potuto far attribuire alla figlia, fin dalla sua nascita, il cognome della madre. Le autorità italiane non hanno accettato di iscrivere Maddalena nei registri dello stato civile con il cognome della ricorrente, e si sono limitate ad autorizzare, dopo circa tredici anni, un cambiamento di cognome in base all’articolo 84 del decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 (paragrafi 22 e 26 supra). Questo cambiamento non è consistito nell’attribuire soltanto il cognome della madre, come domandavano i ricorrenti (paragrafo 23 supra), ma semplicemente nell’aggiungere il cognome della madre a quello del padre.

33. In tali circostanze, non può essere accolta l’eccezione del Governo relativa alla perdita della qualità di vittime dei ricorrenti.

2.  L’eccezione del Governo basata sull’assenza di un pregiudizio significativo

34. Il Governo afferma altresì, nell’ultimo paragrafo delle sue osservazioni, che «i ricorrenti non hanno subito alcun pregiudizio significativo ai sensi dell’articolo 35 § 3 b)» della Convenzione.

35. I ricorrenti ritengono che tale eccezione non sia suffragata da elementi di prova. In ogni caso, pur non avendo subito perdite finanziarie, essi ritengono che sia stato violato uno dei loro diritti fondamentali, ossia il diritto al nome, che rientra nella nozione di «vita privata» ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, e di aver subito una discriminazione basata sul sesso. Inoltre, a loro parere, il ricorso solleva questioni di carattere generale non ancora risolte dalla Corte, le quali possono riguardare tutte le persone che si trovino in una situazione analoga.

36. La Corte rammenta che, secondo la propria giurisprudenza, il principale elemento del criterio di ricevibilità previsto dall’articolo 35 § 2 b) della Convenzione è costituito dalla questione di stabilire se il ricorrente abbia subito un  «pregiudizio significativo» (Adrian Mihai Ionescu c. Romania (dec.), n. 36659/04, § 32, 1o giugno 2010). La nozione di «pregiudizio significativo», derivante dal principio de minimis non curat praetor, rimanda all'idea che la violazione di un diritto deve raggiungere una soglia minima di gravità per giustificare l’esame da parte di una giurisdizione internazionale. La valutazione di questa soglia è, per sua natura, relativa e dipende dalle circostanze del caso di specie (Korolev c. Russia, (dec.), n. 25551/05, CEDU 2010). Tale valutazione deve tenere conto sia della percezione soggettiva del ricorrente sia del valore oggettivo della controversia. Essa rimanda quindi a criteri quali gli effetti economici della controversia o il valore della causa per il ricorrente (Adrian Mihai Ionescu, decisione sopra citata, § 34).

37. La Corte osserva che la causa non sembra avere un valore economico. Tuttavia, è evidente l’importanza soggettiva che la questione riveste per i ricorrenti (si veda, a contrario, Shefer c. Russia (dec.), n. 45175/04, 13 marzo 2012). Questi ultimi hanno effettivamente presentato ricorso contro la decisione contenente il rifiuto di attribuire a Maddalena il cognome materno e hanno proseguito il procedimento fino all’ultimo (si veda, mutatis mutandis, Eon c. Francia, n. 26118/10, § 34, 14 marzo 2013).

38. Tenuto conto di quanto precede, la Corte ritiene che non sussista la prima condizione dell’articolo 35 § 3 b) della Convenzione, ossia l’assenza di pregiudizio significativo per i ricorrenti. Pertanto, l’eccezione del Governo deve essere rigettata.

39. La Corte tiene a precisare, peraltro, che è necessario proseguire l’esame della causa anche in nome del rispetto dei diritti dell’uomo (si veda, mutatis mutandis, Nicoleta Gheorghe c. Romania, n. 23470/05, § 24, 3 aprile 2012, e Eon, sopra citata, § 35). Al riguardo, essa osserva che il ricorso proposto alla Corte dai ricorrenti solleva in particolare la questione dell’impossibilità, per una coppia sposata, di attribuire ai figli, alla nascita, il cognome materno. Si tratta della prima causa di questo tipo che la Corte è chiamata ad esaminare in relazione all’Italia ed una decisione della Corte in materia fungerebbe da guida per i giudici nazionali. La questione è stata d’altronde oggetto di diversi disegni di legge (paragrafi 13 e 19 supra) e, come sottolineato dallo stesso Governo (paragrafo 50 infra), la Corte costituzionale ha concluso che fosse necessario un intervento del legislatore.

3.  Altri motivi di irricevibilità

40. La Corte constata che il presente motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e rileva peraltro che esso non incorre in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

B.  Sul merito

1.  Argomenti delle parti

a)  I ricorrenti

41. I ricorrenti ritengono che, nelle società moderne, l’unità della famiglia non può dipendere dalla trasmissione del cognome del padre e che la tutela degli interessi del minore non può certo giustificare la discriminazione in questione. Essi sottolineano che è stato posto in essere un trattamento diversificato nei confronti di persone che si trovano in situazioni analoghe, ossia marito e moglie, in quanto ai «figli legittimi» veniva imposto il cognome del padre. Tale discriminazione, a loro parere, era chiaramente basata sul sesso.

42. I ricorrenti non contestano che, di norma, le disposizioni in materia di determinazione del cognome rivestono un interesse pubblico, con particolare riguardo alla salvaguardia dell’unità della famiglia e alla possibilità di identificare le persone in relazione alla loro origine. Tuttavia, essi ritengono che l’attribuzione automatica ed obbligatoria del cognome del padre nel caso di specie non perseguisse tali fini.

43. Per quanto concerne l’unità della famiglia, l’attribuzione del cognome della madre avrebbe avuto, a loro parere, lo stesso effetto dell’attribuzione del cognome del padre, in quanto Maddalena sarebbe stata identificata solo con il cognome di uno dei genitori. Inoltre, la ricorrente ha costantemente utilizzato il suo cognome da nubile. Maddalena era peraltro la primogenita della famiglia e i ricorrenti hanno altresì chiesto l’attribuzione del cognome «Cusan» per gli altri due figli, nati nel 2001 e nel 2003. Alla luce di quanto precede, i ricorrenti ritengono che il solo scopo della misura contestata fosse la protezione di una tradizione, nella quale il padre ha una posizione privilegiata, come riconosciuto dalla Corte di cassazione.

44. In ogni caso, anche se fosse stato perseguito uno scopo legittimo, sussisterebbe una sproporzione tra tale scopo ed i mezzi impiegati, dal momento che l’unità della famiglia poteva essere garantita da misure meno vincolanti, quali il semplice obbligo di attribuire lo stesso cognome a tutti i figli di una coppia coniugata. 

45. Quanto all’argomento del Governo (paragrafo 51 infra) secondo il quale l’attribuzione del cognome della madre avrebbe recato pregiudizio a Maddalena, i ricorrenti non vedono perché tale circostanza avrebbe dovuto privare il ricorrente dei suoi diritti genitoriali. Anche volendo supporre che fosse così, tale conseguenza sarebbe, a loro parere, manifestamente contraria alla Convenzione.

46. I ricorrenti sottolineano altresì che se la Corte dovesse concludere per la violazione dell’articolo 14 della Convenzione, sarebbe opportuno esaminare il ricorso anche sotto il profilo dell’articolo 8 considerato isolatamente, poiché ai sensi di tale articolo ogni ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare deve essere «prevista dalla legge». I giudici nazionali hanno già riconosciuto, secondo i ricorrenti, che l’attribuzione del cognome del padre non si basava su alcuna norma scritta. Secondo la corte d’appello si trattava di una consuetudine. La Corte di cassazione respingeva questa tesi, ritenendo che la regola derivasse da una considerazione globale di più disposizioni del sistema giuridico italiano. I ricorrenti non condividono quest’ultimo parere e ritengono che, in assenza di una precisa norma scritta, si tratti piuttosto di una norma di natura consuetudinaria, che i giudici nazionali avrebbero dovuto rifiutare di applicare in quanto contraria ai principi costituzionali dell’uguaglianza dei sessi e dei coniugi. Inoltre, pur aderendo implicitamente alla modifica operata dalla Corte di cassazione e pur non avendo formalmente proceduto al suo annullamento, la Corte costituzionale ha chiaramente affermato che la norma in questione era contraria alla Costituzione, il che renderebbe dubbia, secondo i ricorrenti, la sua validità come base legale a giustificazione di un’ingerenza nei diritti fondamentali dell’individuo.

47. I ricorrenti ne deducono che l’ingerenza denunciata non era «prevista dalla legge» ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, in quanto mancava una disposizione scritta chiara e prevedibile, come dimostra la varietà degli approcci seguiti dai giudici nazionali.

48.Inoltre, in ogni caso, per le ragioni prima esposte, l’ingerenza non perseguirebbe uno scopo legittimo e non sarebbe necessaria in una società democratica. 

b)  Il Governo

49.Il Governo afferma che la domanda dei ricorrenti, volta ad attribuire alla figlia minore esclusivamente il cognome della madre, è stata rigettata solo perché le autorità civili coinvolte non conoscevano il decreto presidenziale n. 396 del 3 novembre 2000 – il cui articolo 84 prevede che chiunque possa ottenere un cambiamento del nome o del cognome per giustificati motivi (paragrafo 26 supra). I ricorrenti avrebbero d’altronde potuto, a suo parere, indirizzare tale domanda direttamente al prefetto, invece di adire i giudici civili. 

50. Il Governo ritiene che la Corte di cassazione e la Corte costituzionale abbiano attentamente esaminato le affermazioni dei ricorrenti ed osserva che la Corte costituzionale è giunta alla conclusione che fosse necessario un intervento del legislatore. Del resto, esso afferma che la possibilità di sostituire o di integrare il cognome era già stata introdotta dal decreto presidenziale n. 396 del 2000. Questa modifica legislativa era intervenuta, spiega il Governo, a causa di decisioni giudiziarie nazionali che avevano fatto riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario nel caso di persone aventi doppia cittadinanza; il Consiglio di Stato aveva altresì autorizzato la sostituzione del cognome paterno con quello materno per motivi di riconoscenza nei confronti del nonno materno. In tal modo, secondo il Governo l’Italia avrebbe tenuto conto dell’evoluzione della società attuale e della tutela dei diritti dell’uomo in una materia così delicata come quella familiare. Il Governo ne deduce che non vi è stata ingerenza nella vita privata e familiare dei ricorrenti, i quali disponevano di un ricorso effettivo dinanzi al prefetto.

51. In ogni caso, secondo il Governo la procedura per il cambiamento del cognome deve conseguire un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico alla determinazione dello stato civile degli individui, da un lato e, dall’altro, il diritto all’identità personale, in quanto diritto fondamentale tutelato dal CC. Questo equilibrio sarebbe assicurato dalle disposizioni del decreto presidenziale n. 396 del 2000. Se il cognome del padre fosse stato sostituito da quello della madre, precisa il Governo, vi sarebbe stata tra i ricorrenti una discriminazione contraria all’articolo 14 della Convenzione. Ne sarebbe conseguito il mancato riconoscimento di Maddalena da parte di suo padre e la responsabilità della minore sarebbe rimasta a carico della sola ricorrente. Il Governo insiste al riguardo sulla necessità che i minori abbiano un’identità personale ed una situazione giuridica sicure e verificabili.

52. Secondo il Governo, il principio di non discriminazione deve essere applicato sia orizzontalmente che verticalmente, vale a dire tra i coniugi e nei confronti dei figli, al fine di garantire a tutte le persone coinvolte l’esercizio dei diritti e delle libertà: in mancanza di giustificazioni oggettive e ragionevoli addotte dai ricorrenti a sostegno della loro domanda di sostituzione del cognome, l’accoglimento della medesima avrebbe provocato una discriminazione tra i coniugi basata sul sesso, nonché la violazione dell’articolo 14.

2.  Valutazione della Corte

53. La Corte ritiene che la doglianza dei ricorrenti si presti ad essere esaminata innanzitutto sotto il profilo dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8.

a)  Sull’applicabilità dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8

54. Come la Corte ha costantemente dichiarato, l’articolo 14 della Convenzione integra le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli. Esso non ha un’esistenza indipendente, in quanto vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» da esse sancito. Certo, esso può essere chiamato in causa anche in assenza di inosservanza delle loro esigenze e, in tale misura, possiede una portata autonoma, ma non può trovare applicazione se i fatti della controversia non rientrano nel campo di applicazione di almeno una di dette clausole (si vedano, tra molte altre, Van Raalte c. Paesi Bassi, 21 febbraio 1997, § 33, Recueil 1997-I; Petrovic c. Austria, 27 marzo 1998, § 22, Recueil 1998-II; e Zarb Adami c. Malta, n. 17209/02, § 42, CEDU 2006-VIII).

55. La Corte rammenta che l’articolo 8 della Convenzione non contiene alcuna disposizione esplicita in materia di cognome ma che, in quanto mezzo determinante di identificazione personale (Johansson c. Finlandia, n. 10163/02, § 37, 6 settembre 2007, e Daróczy c. Ungheria, n. 44378/05, § 26, 1°  luglio 2008) e di ricongiungimento ad una famiglia, ciò non di meno il cognome di una persona ha a che fare con la vita privata e familiare di questa. Il fatto che lo Stato e la società abbiano interesse a regolamentarne l’uso non è sufficiente ad escludere la questione del cognome delle persone dal campo della vita privata e familiare, intesa come comprendente, in certa misura, il diritto dell’individuo di allacciare relazioni con i propri simili (Burghartz, sopra citata, § 24; Stjerna, sopra citata, § 37; Ünal Tekeli, sopra citata, § 42, CEDU 2004 X; Losonci Rose e Rose c. Svizzera, n. 664/06, § 26, 9 novembre 2010; Garnaga c. Ucraina, n. 20390/07, § 36, 16 maggio 2013).

56. Nel caso di specie, i ricorrenti, in quanto genitori di Maddalena, erano titolari di un interesse chiaro e ricollegabile ad un diritto strettamente personale di intervenire nel processo di determinazione del cognome del loro neonato. Del resto, i giudici nazionali hanno costantemente riconosciuto ai ricorrenti il diritto di stare in giudizio nel procedimento relativo alla contestazione del rifiuto di attribuire a Maddalena il cognome della madre. È inoltre opportuno rammentare che la Corte ha affermato che la scelta del nome del figlio da parte dei genitori rientra nella sfera privata di questi ultimi (si vedano, in particolare, Guillot c. Francia, 24 ottobre 1996, § 22, Recueil 1996-V, e Johansson, sopra citata, § 28). Lo stesso dicasi per quanto riguarda il cognome.

57. L’oggetto del ricorso rientra quindi nel campo di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione. L’articolo 14 trova pertanto applicazione.

b)  Sull’osservanza dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8

i.  Principi generali

58. Nella sua giurisprudenza, la Corte ha stabilito che per discriminazione si intende il fatto di trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovano, in un determinato campo, in situazioni comparabili (Willis c. Regno Unito, n. 36042/97, § 48, CEDU 2002-IV). Tuttavia, una disparità di trattamento non comporta automaticamente una violazione di tale articolo. Occorre accertare che alcune persone poste in situazioni analoghe o comparabili in un determinato campo godono di un trattamento preferenziale e che tale disparità è discriminatoria (Ünal Tekeli, sopra citata, § 49, e Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 71).

59. Una differenza è discriminatoria ai sensi dell’articolo 14 se è priva di giustificazione oggettiva e ragionevole. L’esistenza di una tale giustificazione si valuta alla luce dei principi solitamente prevalenti nelle società democratiche. Una disparità di trattamento nell’esercizio di un diritto enunciato dalla Convenzione non deve solo perseguire uno scopo legittimo: si ha violazione dell’articolo 14 anche quando non esiste «un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo prefisso» (si vedano, ad esempio, Petrovic, sopra citata, § 30, e Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, § 177, serie A n. 102).

60. In altri termini, il concetto di discriminazione ingloba di solito i casi in cui un individuo o un gruppo si vede trattato meno bene di un altro, senza valida giustificazione, anche se la Convenzione non richiede il trattamento più favorevole (Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985, § 82, serie A n. 94). Infatti, l’articolo 14 non impedisce una disparità di trattamento se essa si fonda su una valutazione oggettiva di circostanze di fatto fondamentalmente diverse e se, ispirandosi all’interesse pubblico, essa garantisce un giusto equilibrio tra la salvaguardia degli interessi della comunità e il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione (si vedano, tra le altre, G.M.B. e K.M. c. Svizzera (dec.), n. 36797/97, 27 settembre 2001, e Zarb Adami, sopra citata, § 73).

61. Gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento nello stabilire se e in quale misura differenze tra situazioni sotto altri aspetti analoghe giustifichino disparità di trattamento giuridico (Gaygusuz c. Austria, 16 settembre 1996, § 42, Recueil 1996-IV). L’ampiezza di tale margine di apprezzamento varia a seconda delle circostanze, dei campi e del contesto (Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 40, serie A n. 87, e Inze c. Austria, 28 ottobre 1987, § 41, serie A n. 126), ma la decisione finale in merito all’osservanza delle esigenze poste dalla Convenzione spetta alla Corte. La Convenzione è innanzitutto un meccanismo di tutela dei diritti dell’uomo, la Corte deve quindi tenere conto dell’evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati contraenti in generale e reagire, ad esempio, al consenso suscettibile di manifestarsi quanto alle norme su cui intervenire (Ünal Tekeli, sopra citata, § 54; Zarb Adami, sopra citata, § 74; e Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 74).

ii.  Sulla disparità di trattamento tra persone che si trovano in situazioni simili

62. Stando alla lettura del diritto interno operata dalla Corte di cassazione (paragrafo 16 supra), la regola secondo la quale i «figli legittimi» si vedono attribuire alla nascita il cognome del padre risulta, mediante adeguata interpretazione, dal combinato disposto di un certo numero di articoli del codice civile. La legislazione interna non prevede alcuna eccezione a tale regola. È vero, come sottolinea il Governo (paragrafi 49-51 supra), che l’articolo 84 del decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 prevede la possibilità di un cambiamento del cognome e che, nel caso di specie, il prefetto di Milano ha autorizzato i ricorrenti a completare il cognome di Maddalena con l’aggiunta di un altro cognome (quello della madre – paragrafo 22 supra). Tuttavia, occorre distinguere la determinazione del cognome alla nascita dalla possibilità di cambiare il cognome nel corso della vita. Al riguardo, la Corte rinvia alle considerazioni da essa esposte nell’ambito dell’eccezione del Governo relativa alla perdita, da parte dei ricorrenti, della qualità di vittime (paragrafo 32 supra).

63. Alla luce di quanto precede, la Corte è del parere che, nell’ambito della determinazione del cognome da attribuire al «figlio legittimo», persone che si trovavano in situazioni simili, vale a dire il ricorrente e la ricorrente, rispettivamente padre e madre del bambino, siano stati trattati in maniera diversa. Infatti, a differenza del padre, la madre non ha potuto ottenere l’attribuzione del suo cognome al neonato, e ciò nonostante il consenso del coniuge.

iii.  Sull’esistenza di una giustificazione oggettiva e ragionevole

64. La Corte rammenta che, se una politica o una misura generale ha effetti pregiudizievoli sproporzionati su un gruppo di persone, non si può escludere che essa possa essere considerata discriminatoria anche se non prende di mira specificamente quel gruppo (McShane c. Regno Unito, n. 43290/98, § 135, 28 maggio 2002). Inoltre, soltanto considerazioni fortissime possono indurre la Corte a ritenere compatibile con la Convenzione una disparità di trattamento fondata esclusivamente sul sesso (Willis, sopra citata, § 39; Schuler-Zgraggen c. Svizzera, 24 giugno 1993, § 67, serie A n. 263; e Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 80).

65. La Corte rammenta di avere avuto modo di trattare questioni in parte simili nelle cause Burghartz, Ünal Tekeli e Losonci Rose e Rose, sopra citate. La prima riguardava il rifiuto opposto ad una richiesta del marito che desiderava far precedere il cognome, nello specifico quello della moglie, dal proprio. La seconda aveva ad oggetto la norma di diritto turco secondo la quale la donna sposata non può portare esclusivamente il cognome da nubile dopo il matrimonio, mentre l’uomo sposato mantiene il cognome così com’era prima del matrimonio. La causa Losonci Rose e Rose verteva sulla necessità, nel diritto svizzero, per i coniugi che desideravano prendere entrambi il cognome della moglie, di presentare alle autorità una richiesta comune, in assenza della quale veniva loro attribuito il cognome del marito come nuovo cognome dopo il matrimonio.

66. In tutte queste cause, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8. In particolare, essa ha ricordato l’importanza di un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi e dell’eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome. Essa ha inoltre ritenuto che la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non potesse giustificare una discriminazione nei confronti delle donne (si veda, in particolare, Ünal Tekeli, sopra citata, §§ 64-65).

67. La Corte non può che giungere a conclusioni analoghe nella presente causa, in cui la determinazione del cognome dei «figli legittimi» è stata fatta unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori. La regola in questione vuole infatti che il cognome attribuito sia, senza eccezioni, quello del padre, nonostante la diversa volontà comune ai coniugi. Del resto, la stessa Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale, che non è più compatibile con il principio costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna (paragrafo 17 supra). La Corte di cassazione lo ha confermato (paragrafo 20 supra). La regola secondo la quale il cognome del marito è attribuito ai «figli legittimi» può rivelarsi necessaria in pratica e non è necessariamente in contrasto con la Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 49), tuttavia l’impossibilità di derogarvi al momento dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne.

iv.  Conclusioni

68. Tenuto conto di quanto precede, la giustificazione avanzata dal Governo non sembra ragionevole e la disparità di trattamento constatata si rivela quindi discriminatoria ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione. Vi è stata quindi violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.

69. In considerazione di queste conclusioni, la Corte non ritiene necessario verificare se vi sia stata anche violazione dell’articolo 8 considerato isolatamente (Burghartz, sopra citata, § 30, e Ünal Tekeli, sopra citata, § 69).

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 5 DEL PROTOCOLLO N. 7, CONSIDERATO ISOLATAMENTE O IN COMBINATO DISPOSTO CON L’ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE

70. I ricorrenti considerano che le disposizioni legislative vigenti in materia di determinazione del cognome dei «figli legittimi» non garantiscono la parità tra i coniugi, e che l’Italia avrebbe dovuto prevedere la possibilità di attribuire il cognome della madre se i genitori erano d’accordo.
Essi invocano l’articolo 5 del Protocollo n. 7, considerato isolatamente o in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione.
L’articolo 5 sopra citato recita:

«I coniugi godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell’interesse dei figli.»

71.Il Governo contesta questa tesi.

72.La Corte osserva che questo motivo di ricorso è legato a quello sopra esaminato e, pertanto, deve essere anch’esso dichiarato ricevibile.

73.Considerata la conclusione alla quale è giunta sotto il profilo dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione, la Corte non ritiene necessario esaminare se vi sia stata anche violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 5 del Protocollo n. 7, o di tale ultima disposizione considerata isolatamente.

III.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

74.Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

75.I ricorrenti precisano che non chiedono alcuna somma per il danno che avrebbero subito o per le spese sostenute dinanzi ai giudici nazionali e alla Corte, in quanto la semplice constatazione di una violazione costituisce, per loro, date le particolari circostanze del caso di specie, un’equa soddisfazione sufficiente. Pertanto, la Corte ritiene che non sia opportuno pronunciarsi sull’applicazione dell’articolo 41 della Convenzione.

IV.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 46 DELLA CONVENZIONE

76.Ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione,

«1.  Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2.  La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione

(...).»

77.I ricorrenti fanno notare che le violazioni da essi denunciate derivano da una lacuna nel diritto interno. Nonostante i cambiamenti introdotti nel 2000, quest’ultimo impone ancora di attribuire ai «figli legittimi» il cognome del padre. La sostituzione del cognome può avvenire unicamente per motivi imperiosi e dipende piuttosto dal potere discrezionale del prefetto. I ricorrenti chiedono pertanto alla Corte di invitare il Governo a introdurre, in materia, le riforme legislative necessarie per garantire la parità tra i sessi e tra i coniugi.

78.Il Governo si oppone, sostenendo che la legislazione vigente è lo strumento giuridico che ha permesso loro di far aggiungere ai loro figli il cognome della madre al cognome del padre, e pertanto, a suo parere, di ottenere soddisfazione a livello interno. Di conseguenza i ricorrenti non potrebbero, secondo il Governo, chiedere alla Corte di costringere lo Stato convenuto a modificarla.

79. La Corte rammenta che, ai sensi dell’articolo 46, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive rese dalla Corte sulle controversie nelle quali sono parti, e il Comitato dei Ministri è incaricato di vigilare sull’esecuzione di tali sentenze. Ne consegue in particolare che, quando la Corte conclude per l’esistenza di una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali, da integrare nel proprio ordinamento giuridico interno al fine di porre un termine alla violazione constatata e di eliminarne, per quanto possibile, le conseguenze (si vedano, tra le altre, Xenides-Arestis c. Turchia, n. 46347/99, §§ 39-40, 22 dicembre 2005; Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, § 233, CEDU 2006-V; Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, § 192, CEDU 2004-V; Bottazzi c. Italia [GC], n. 34884/97, § 22, CEDU 1999-V; e Di Mauro c. Italia [GC], n. 34256/96, § 23, CEDU 1999-V). Lo Stato deve altresì adottare tali misure nei confronti delle altre persone che si trovano nella stessa situazione del o dei ricorrenti, in quanto il suo obiettivo deve essere in particolare quello di risolvere i problemi che hanno portato la Corte alla constatazione di violazione (Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000-VIII; Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], n. 28957/95, § 120, CEDU 2002 VI; Lukenda c. Slovenia, n. 23032/02, § 94, CEDU 2005 X; e S. e Marper c. Regno Unito [GC], nn. 30562/04 e 30566/04, § 134, CEDU 2008). Nell’ambito dell’esecuzione delle sentenze della Corte, il Comitato dei Ministri sottolinea costantemente tale obbligo (Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 125, CEDU 2009; si vedano, in particolare e tra le altre, le risoluzioni ResDH(97)336, IntResDH(99)434, IntResDH(2001)65 e ResDH(2006)1).

80. In linea di principio, non spetta alla Corte definire quali possano essere le misure di riparazione appropriate che lo Stato convenuto può adottare per adempiere ai propri obblighi rispetto all’articolo 46 della Convenzione. Tuttavia, quando è stato rilevato un malfunzionamento nel sistema nazionale di tutela dei diritti dell’uomo, la Corte ha cura di agevolarne la soppressione rapida e effettiva (Driza c. Albania, n. 33771/02, § 125, CEDU 2007 XII, e Vyerentsov c. Ucraina, n. 20372/11, § 94, 11 aprile 2013).

81.Nella presente causa, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8, a causa dell’impossibilità per i ricorrenti, al momento della nascita della figlia, di far iscrivere quest’ultima nei registri dello stato civile attribuendole il cognome della madre. Tale impossibilità derivava da una lacuna del sistema giuridico italiano, secondo il quale il «figlio legittimo» è iscritto nei registri dello stato civile con il cognome del padre, senza possibilità di deroga, nemmeno in caso di consenso tra i coniugi in favore del cognome della madre. Quando ha constatato l’esistenza di una lacuna nella legislazione nazionale, la Corte normalmente ne individua la causa al fine di aiutare lo Stato contraente a trovare la soluzione appropriata e il Comitato dei Ministri a vigilare sull’esecuzione della sentenza (si vedano, ad esempio, Maria Violeta Lăzărescu c. Romania, n. 10636/06, § 27, 23 febbraio 2010; Driza, sopra citata, §§ 122-126; e Ürper e altri c. Turchia, nn. 14526/07 e altri, §§ 51 e 52, 20 ottobre 2009). Tenuto conto della situazione sopra constatata, la Corte ritiene che dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nella prassi italiane al fine di rendere tale legislazione e tale prassi compatibili con le conclusioni alle quali è giunta nella presente sentenza, e di garantire che siano rispettate le esigenze degli articoli 8 e 14 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Vyerentsov, sopra citata, § 95).

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

  1. Dichiara, a maggioranza, il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara, con 6 voti contro 1, che vi è stata violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione;
  3. Dichiara, all’unanimità, non doversi esaminare il motivo di ricorso relativo all’articolo 8 considerato isolatamente, né il motivo di ricorso relativo all’articolo 5 del Protocollo n. 7, considerato isolatamente o in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 7 gennaio 2014, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Stanley Naismith
Cancelliere 

Işıl Karakaş
Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Popović.

A.I.K.
S.H.N.

OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE POPOVIĆ

Mi rammarico di non poter condividere il giudizio della maggioranza nella presente causa. In effetti, l’eccezione del governo convenuto alla quale fa riferimento la sentenza nel paragrafo 34 è a mio parere giustificata. Il governo italiano ha affermato che i ricorrenti non avevano subito alcun pregiudizio significativo ai sensi dell’articolo 35 § 3 b) della Convenzione. I ricorrenti stessi non hanno affermato di aver subito un danno patrimoniale. Lamentano di non poter attribuire alla figlia il cognome della madre. Tuttavia, dalla lettura del paragrafo 22 della sentenza emerge che il prefetto di Milano aveva autorizzato i ricorrenti a cambiare il cognome dei figli come desideravano.

I fatti di causa, che ho appena riassunto, mi portano a concludere: 1) che i ricorrenti non hanno subito alcun pregiudizio significativo e 2) che anche se lo avessero subito, avrebbero perduto la qualità di vittima. Tale ultima constatazione porta inevitabilmente alla ricevibilità della prima eccezione sollevata dal governo convenuto nel paragrafo 29 della sentenza.

Il nucleo della causa, come presentata dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, si rivela dunque astratto e dà l’impressione che il ricorso rappresenti soltanto una sorta di actio popularis, di cui i ricorrenti non possono investire la nostra Corte.

Tengo a sottolineare che il problema in questa causa riguarda essenzialmente il margine di apprezzamento degli Stati membri della Convenzione. Esso riguarda la tradizione di ciascun paese e la prassi contestata non dovrebbe essere soggetta a armonizzazione a livello europeo. Per citare solo un esempio, del resto ben noto, in Spagna le persone di entrambi i sessi portano più cognomi trasmessi dalle famiglie di entrambi i coniugi. Bisogna forse dire allo Stato spagnolo di cambiare tale prassi? La maggioranza nella presente causa sembra trasformare la percezione chiara di un fenomeno sociale, il che non rientra nella tutela dei diritti dell’uomo.

Per tutti questi motivi ritengo che il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato irricevibile in applicazione dell’articolo 35 della Convenzione