Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 24 novembre 2013 - Ricorso n. 32328/09 - Palazzolo c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata dalla dott.ssa Emanuela Cataldi, funzionario linguistico. Revisione a cura delle dott.sse Emanuela Cataldi e Maria Caterina Tecca, funzionari linguistici.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO

SECONDA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 32328/09

Vito Roberto PALAZZOLO

contro Italia

 

La Corte europea dei diritti dell’uomo (Seconda Sezione), riunita il 24 settembre 2013 in una Camera composta da:

Danute Jočienè, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
Işil Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Paulo Pinto de Albuquerque, giudici,
e da Stainly Naismith, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato proposto il 15 giugno 2009,

Dopo avere deliberato, rende la seguente decisione:

 

IN FATTO

1. Il ricorrente, Vito Roberto Palazzolo, è un cittadino italiano, nato a Terrasini (Palermo) il 31 luglio 1947. È attualmente detenuto in Tailandia (Bangkok) in attesa di essere estradato in Italia. È rappresentato dinanzi alla Corte dagli avvocati B. Lauria e G. Guiso, rispettivamente del foro di Trapani e di Milano.

 

A. Le circostanze del caso di specie

 

2. I fatti della causa, come esposti dal ricorrente, si possono riassumere come segue.

 

1. Il procedimento penale a carico del ricorrente in Svizzera

3. Nel 1984 fu notificato al ricorrente in Svizzera un mandato di arresto italiano per sospetta partecipazione all’organizzazione di stampo mafioso Cosa Nostra (articolo 416 bis del codice penale italiano, “il CP”) e per appartenenza a un’organizzazione dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Roma, Palermo, Milano, New York e la Svizzera. In pendenza della sua estradizione in Italia, il ricorrente confessò alle autorità svizzere di avere commesso diversi reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti in territorio svizzero. La sua estradizione in Italia fu allora sospesa ed egli fu sottoposto a processo per violazione aggravata della legge federale svizzera in materia di sostanze stupefacenti commessa tra il 1981 e il 1983.

4. Nel 1985, la Corte delle Assise criminali del Canton Ticino dichiarò il ricorrente colpevole di finanziamento di un traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra la Svizzera e gli Stati Uniti dall’ottobre 1982 al marzo 1983 e lo condannò a tre anni di reclusione. Dopo una complessa serie di appelli, revisioni e nuovi processi, la pena iniziale – successivamente aumentata a tre anni e nove mesi di reclusione – divenne definitiva con sentenza del Tribunale federale svizzero del 3 maggio 1994.

5. Il ricorrente finì di espiare la pena detentiva in Svizzera il 1° ottobre 1989.

 

2. Il procedimento penale a carico del ricorrente dinanzi al Tribunale di Roma

6. A seguito di un conflitto di competenza tra i Tribunali di Roma e Palermo relativo ai procedimenti penali a carico del ricorrente, il 19 gennaio 1990 la Corte di Cassazione decise che il Tribunale di Roma sarebbe stato competente per tutti i reati relativi alla partecipazione del ricorrente ad organizzazioni criminali, mentre il Tribunale di Palermo sarebbe stato competente per ciascuno dei fatti delittuosi ascritti al ricorrente.

7. Il ricorrente fu processato dal Tribunale di Roma con l’accusa di partecipazione a Cosa Nostra e di appartenenza ad un’organizzazione dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Roma, Palermo, Milano, New York e la Svizzera. Fu accertato che entrambi i reati furono commessi prima del 1984.

8. Con due sentenze pronunciate il 28 marzo 1992, il Tribunale prosciolse il ricorrente dal primo reato e lo condannò a due anni di reclusione per il secondo.

9. Il ricorrente presentava quindi ricorso dinanzi allo stesso Tribunale chiedendo che la suddetta pena di due anni di reclusione fosse considerata come già sofferta all’estero, avendo egli già espiato una pena più lunga in Svizzera per lo stesso reato.

10. Il Tribunale accolse il ricorso il 1° aprile 1993.

 

3. La prima serie di procedimenti a carico del ricorrente dinanzi al Tribunale di Palermo

11. Il 3 marzo 2001, il Tribunale di Palermo respinse l’eccezione sollevata dalla difesa per cui il ricorrente era già stato condannato in Svizzera per lo stesso reato e lo condannò a dodici anni di reclusione per più episodi di traffico internazionale di sostanze stupefacenti commessi in concorso con altri appartenenti alla mafia tra il 1977 e l’11 giugno 1985.

12. Il 22 luglio 2003, tuttavia, la Corte di Appello di Palermo ritenne che le due sentenze riguardavano effettivamente gli stessi reati, per i quali il ricorrente era stato condannato in Svizzera, e dichiarò di non doversi procedere.

 

4. La seconda serie di procedimenti dinanzi al Tribunale di Palermo

 

(a) Il procedimento relativo alla custodia cautelare

 

13. In data non meglio specificata, il giudice per le indagini preliminari di Palermo ordinò che il ricorrente fosse sottoposto a custodia cautelare sulla base di “gravi indizi” di colpevolezza a carico di quest’ultimo in quanto affiliato di Cosa Nostra.

14. Il 18 marzo 2002, la suddetta decisione fu confermata dalla sezione per il riesame delle misure cautelari del Tribunale di Palermo (“la sezione specializzata”).

15. In pendenza del processo principale, il 9 gennaio 2004 la predetta decisione fu annullata dalla Corte di Cassazione per mancanza di “gravi indizi” di colpevolezza a carico del ricorrente in merito alla commissione dei reati nel periodo successivo alla decisione di proscioglimento del 28 marzo 1992, e la causa fu rimessa alla sezione specializzata. La Corte di Cassazione indicò i principi giuridici ai quali quest’ultima avrebbe dovuto attenersi e in particolare che, alla luce della decisione di proscioglimento del ricorrente per lo stesso reato pronunciata dal Tribunale di Roma il 28 marzo 1992, nessuno dei fatti ed elementi relativi al periodo contemplato dal proscioglimento, né le prove prodotte dinanzi al Tribunale di Roma, potevano essere utilizzati contro il ricorrente al fine di provarne l’appartenenza all’organizzazione criminale. Tali elementi potevano costituire solo “un generico quadro di riscontro” al fine di avvalorare altri indizi, i quali dovevano specificatamente riferirsi al periodo non contemplato dalla sentenza di proscioglimento.

16. Per l’effetto, il 2 febbraio 2004 la sezione specializzata annullò l’ordinanza di custodia cautelare a carico del ricorrente.

17. Nonostante l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del ricorrente, quest’ultimo non fu mai arrestato e rimase in libertà per tutta la durata del procedimento penale a suo carico. Fu quindi considerato latitante fino alla decisione della Corte di Cassazione del 9 gennaio 2004 e fu successivamente considerato contumace e processato in contumacia. Il ricorrente fu rappresentato dinanzi ai tribunali interni da quattro avvocati di fiducia.

 

(b) Il procedimento di primo grado

 

18. Nel frattempo, la causa fu rinviata dinanzi al Tribunale di Palermo. Il ricorrente fu accusato di appartenenza a pieno titolo a Cosa Nostra, unitamente a S.R., G.B., e G.G., dal 29 marzo 1992 “fino ad oggi” (vale a dire il giorno del suo rinvio a giudizio).

19. Il 5 luglio 2006 il Tribunale, qualificando il reato come concorso esterno in associazione di stampo mafioso in violazione degli articoli 110 e 416 bis del CP, condannò il ricorrente a nove anni di reclusione.

20. Il Tribunale pronunciò tale decisione sulla base di vari documenti, testimonianze e prove raccolte attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali nonché sulla base delle dichiarazioni rese da diversi pentiti (ex appartenenti alla mafia che collaboravano con la giustizia), compreso A.G. il quale, in quanto ex membro apicale di Cosa Nostra, era stato in stretto contatto con il capo dell’organizzazione.

21. Tutti i pentiti, compreso A.G., erano stati essi stessi condannati per concorso in Cosa Nostra e molti di loro erano stati inoltre condannati per altri reati, quali il traffico di stupefacenti, l’estorsione e l’omicidio volontario.

22. Secondo il Tribunale, le prove acquisite nell’ambito del processo principale avevano dimostrato che nel corso degli anni il ricorrente, pur essendo vissuto per un certo periodo in Sudafrica, era stato in contatto con diversi membri al vertice dell’associazione mafiosa, direttamente o tramite i suoi parenti che vivevano in Italia. Era stato provato che tali rapporti si erano protratti dopo il suo proscioglimento.

23. In particolare, nella primavera del 1996 il ricorrente – il quale, secondo diversi pentiti e testimoni, era un membro da lunga data di Cosa Nostra, aveva ospitato due mafiosi, G.B. e G.G., in Sudafrica. Tale ospitalità era stata offerta ben dopo il 29 maggio 1996 quando i due uomini erano stati dichiarati ufficialmente latitanti. Era stato inoltre provato che fino a poco prima del processo, il ricorrente aveva effettuato investimenti e svolto attività di riciclaggio di denaro per conto di vari membri apicali dell’organizzazione criminale, incluso il capo di Cosa Nostra.

24. Tali fatti erano attestati da tre testimoni sudafricani, uno dei quali, il gestore dell’azienda agricola nella quale i due latitanti furono ospitati in Sudafrica, durante il processo aveva fermamente dichiarato che gli ospiti si erano improvvisamente allontanati dal luogo il 14 giugno 1996, il giorno prima che la polizia sudafricana perquisisse i locali. La sua testimonianza era in linea con le risultanze dell’indagine ed era inoltre avvalorata dalle testimonianze di due ufficiali di polizia sudafricani nonché dalla trascrizione di una conversazione telefonica intercettata. Secondo il Tribunale, tali prove non erano state contraddette dai documenti della polizia di frontiera, dai quali emergeva che i due uomini avevano manifestamente lasciato il Sudafrica per entrare in Namibia il 21 maggio 1996. Dalle testimonianze dei suddetti ufficiali sudafricani emergeva che all’epoca la frontiera tra il Sud Africa e la Namibia non era efficacemente controllata ed era possibile varcarla in entrambe le direzioni senza lasciare alcuna traccia.

25. In merito a tali ultime circostanze, il Tribunale ritenne che diversi pentiti, e in particolare A.G., avevamo asserito che il ricorrente aveva effettuato investimenti e svolto attività di riciclaggio di denaro per conto di vari membri apicali dell’organizzazione criminale, incluso il capo di quest’ultima. Tali testimonianze, di per sé coerenti, erano inoltre concordanti con le prove raccolte attraverso le intercettazioni telefoniche ed ambientali.

26. Il Tribunale ritenne tutti i pentiti attendibili, compreso A.G.. Le loro dichiarazioni erano già state utilizzate quali prove utili alla conclusione di molti procedimenti penali. Le loro affermazioni sul ricorrente erano dettagliate, coerenti e corroborate da altre prove quali testimonianze, documenti e intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché dalle precedenti condanne del ricorrente in Italia ed in Svizzera per reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti perpetrati insieme ad appartenenti alla mafia.

27. Nelle sue argomentazioni, il Tribunale avallò i principi enunciati dalla Corte di Cassazione il 9 gennaio 2004 (si veda paragrafo 15 supra).

28. Molti pentiti e testimoni affermarono ripetutamente l’appartenenza del ricorrente a Cosa Nostra negli anni ‘70 e ’80, dichiarando che quest’ultimo aveva per molti anni lavorato per importanti capi mafiosi, effettuando investimenti e operazioni finanziarie internazionali ai fini del riciclaggio di denaro e altri favori, quali il concorso in omicidi e il favoreggiamento di latitanti. Si ritenne quindi che le loro asserzioni costituissero un valido “quadro di riscontro” per i nuovi reati ascritti al ricorrente.

29. Il Tribunale affermò che non sussisteva alcuna preclusione all’escussione dei pentiti e dei testimoni durante il processo, poiché il Tribunale di Roma non era a conoscenza delle loro dichiarazioni quando prosciolse il ricorrente nel 1992 (i pentiti iniziarono tutti a collaborare con la giustizia successivamente a tale data). Le loro dichiarazioni sui fatti che si erano verificati negli anni ’70 e ’80 potevano inoltre essere utilizzate al fine di chiarire il contesto relazionale nell’ambito del quale il ricorrente aveva agito per decenni. Il fatto che il 28 marzo 1992 lo stesso Tribunale di Roma avesse condannato il ricorrente per appartenenza a un’organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, nonché la condanna di quest’ultimo per reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti in Svizzera, dovevano inoltre essere presi in considerazione.

 

(c) Il procedimento di secondo grado

 

30. Il ricorrente interponeva appello avverso la sentenza di primo grado sulla base di quattro argomentazioni principali.

31. In primo luogo, egli sosteneva di essere stato condannato per un reato diverso da quello a lui ascritto (si veda paragrafo 19 supra). Inoltre, sebbene le argomentazioni della Corte indicassero che la condanna si basava in misura decisiva sull’asserzione del pentito A.G. secondo il quale il ricorrente aveva riciclato proventi illeciti per il capo di Cosa Nostra, il nuovo fatto non era stato specificatamente incluso nell’imputazione.

32. In secondo luogo, il ricorrente sosteneva di essersi fermamente opposto all’escussione di A.G. durante il processo principale. Il ricorrente aveva chiesto al Tribunale di dichiarare la testimonianza di A.G. inammissibile ai sensi dell’articolo 16 quater, commi 1 e 9 della Legge n. 8 del 1991, poiché quest’ultimo non aveva mai menzionato il nome del ricorrente nelle dichiarazioni rese nel termine di legge di sei mesi (si veda “Diritto interno pertinente” infra). Il Tribunale aveva tuttavia illegittimamente respinto la sua eccezione.

33. In terzo luogo, il ricorrente sosteneva di essere stato accusato senza alcuna prova e sulla base di fatti accertati dalla sentenza di proscioglimento del 28 marzo 1992, in violazione del principio del ne bis in idem e della sentenza della Corte di Cassazione del 9 gennaio 2004. Egli lamentava inoltre che il Tribunale non aveva accertato l’attendibilità dei pentiti e che le loro dichiarazioni, ed in particolare quelle di A.G., non erano state sufficientemente comprovate. Egli lamentava inoltre che il Tribunale aveva male interpretato le prove relative al presunto favoreggiamento, da parte del ricorrente, di due latitanti. Il fatto contestato, fin dall’inizio non provato, avrebbe avuto luogo prima che i due uomini fossero formalmente dichiarati latitanti, poiché emergeva da documenti ufficiali che avevano ambedue varcato la frontiera tra il Sudafrica e la Namibia il 21 maggio 1996, mentre i mandati di arresto erano stati emessi il 29 maggio 1996. Il Tribunale aveva inoltre erroneamente interpretato le prove relative al presunto coinvolgimento del ricorrente in operazioni d’investimento e riciclaggio di denaro per conto del capo di Cosa Nostra. Il Tribunale non aveva preso in considerazione le asserzioni del pentito G.B., il quale riteneva che il ricorrente avesse interrotto i rapporti con Cosa Nostra a causa dei suoi problemi giudiziari e di disaccordi con alcuni appartenenti all’organizzazione. Il Tribunale aveva inoltre attribuito importanza a fatti irrilevanti, quali la vita del ricorrente in Sudafrica, e aveva mal interpretato il significato di diverse intercettazioni telefoniche e ambientali.

34. In quarto luogo, il ricorrente lamentava la condanna ed il diniego del Tribunale di prendere in considerazione le circostanze attenuanti, data la sua lunga assenza dall’Italia la quale, secondo quanto addotto dal ricorrente, aveva inevitabilmente portato al suo distacco dall’organizzazione.

35. Il ricorrente chiedeva alla Corte di Appello di acquisire ulteriori prove a sua difesa, segnatamente un nuovo testimone e alcuni documenti.

36. In data 11 luglio 2007, la Corte di Appello di Palermo, avendo riqualificato il reato – a seguito di richiesta del Pubblico Ministero – come partecipazione a pieno titolo a Cosa Nostra (in violazione dell’articolo 416 bis del CP), confermò la sentenza di primo grado.

37. Relativamente al primo motivo di ricorso, la Corte di Appello ritenne legittima la qualificazione giuridica del reato effettuata dal Tribunale, poiché non comportava una trasformazione radicale del reato in misura tale da compromettere i diritti di difesa del ricorrente. Il Tribunale aveva inoltre precisato che le attività di riciclaggio di denaro svolte per conto di B.P. negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 dovevano ritenersi comprese nel capo d’imputazione generale ai sensi dell’articolo 416 bis, come indicato nell’atto di rinvio a giudizio.

38. Relativamente al secondo motivo di ricorso, la Corte osservò che il divieto previsto dall’articolo 16 quater, comma 9 della Legge n. 8 del 1991 si applicava solo alle dichiarazioni rese al “Pubblico Ministero e alla polizia” e non nel caso in cui un pentito rendeva testimonianza in sede di udienza in contraddittorio nell’ambito di un processo principale, come nel caso di specie.

39. Relativamente al terzo e quarto motivo di ricorso, la Corte osservò che il Tribunale aveva accertato l’attendibilità di tutti i pentiti ed esaminato tutte le prove che avvaloravano le loro testimonianze. L’uso, da parte del Tribunale, delle loro dichiarazioni in relazione agli eventi verificatisi negli anni ’70 e ’80 era inoltre conforme al principio giuridico indicato dalla Corte di Cassazione nella sua decisione del 9 gennaio 2004, la quale annullava l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del ricorrente (si veda paragrafo 15 supra).

40. La Corte di Appello non solo concordò con la valutazione complessiva delle prove effettuata dal Tribunale, ma rilevò l’evidente appartenenza del ricorrente all’organizzazione. Di fatto, in risposta ad una domanda specifica, il pentito G.B. negò che il ricorrente fosse stato espulso dall’organizzazione nel 1995. Al contrario, da una consistente quantità di prove acquisite durante il processo principale emergeva chiaramente che il ricorrente, sebbene vivesse in Sudafrica, aveva mantenuto i rapporti con l’organizzazione. In particolare, era stato provato che il ricorrente aveva prestato assistenza a due latitanti nella primavera del 1996, che era consapevole del loro status e che li aveva aiutati anche dopo la formale emissione di un mandato di arresto nei loro confronti, come dimostrato – tra le altre prove – dalla testimonianza di un suo ex dipendente. Quest’ultima testimonianza, unitamente ad altre prove (le risultanze della perquisizione, altre dichiarazioni testimoniali e le intercettazioni telefoniche), diminuì il valore probatorio dei documenti ufficiali menzionati dal ricorrente. Era stato inoltre provato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il ricorrente, fino ad epoca recente, aveva investito e riciclato i proventi di alcuni membri dell’organizzazione, inclusi quelli del capo di Cosa Nostra, come testimoniato da A.G., le cui dichiarazioni erano coerenti con quelle di altri pentiti e corroborate dal contenuto delle registrazioni di diverse intercettazioni telefoniche e ambientali.

41. La condanna del ricorrente e la decisione di non considerare le circostanze attenuanti furono quindi ritenute giuste.

42. Infine, la Corte di Appello respinse la richiesta del ricorrente tesa ad acquisire ulteriori prove, poiché né un nuovo testimone né ulteriori documenti furono ritenuti necessari alla Corte ai fini della decisione.

 

(d) Il procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione

 

43. Il ricorrente presentava ricorso in punti di diritto contro la decisione della Corte di Appello sulla base di quattro argomentazioni principali.

44. In primo luogo, egli contestava l’ammissibilità delle dichiarazioni di A.G..

45. In secondo luogo, egli riaffermava i vari motivi di ricorso concernenti l’addotta surrettizia violazione del principio del ne bis in idem poiché la sua appartenenza all’organizzazione criminale in data successiva al 28 marzo 1992 non era stata provata durante il processo.

46. In terzo luogo, egli sosteneva che le argomentazioni della Corte erano manifestamente illogiche ed errate. Egli si opponeva alla valutazione complessiva delle prove effettuata dalla Corte ritenendo che tali prove fossero state snaturate e mal interpretate, soprattutto riguardo alle dichiarazioni rese da A.G., G.B. e da alcuni testimoni, e al contenuto delle registrazioni di varie intercettazioni telefoniche e ambientali. La Corte non aveva fornito motivazioni adeguate circa l’attendibilità di A.G. o la compatibilità tra l’assenza del ricorrente dalla Sicilia per oltre trent’anni e la sua appartenenza all’organizzazione.

47. Infine, il ricorrente lamentava il diniego della Corte di Appello di ammettere le nuove prove da lui richieste le quali, secondo il ricorrente, sarebbero state decisive a suo favore.

48. Il 23 marzo 2009, la Corte di Cassazione confermò la sentenza della Corte di Appello e avallò le motivazioni di quest’ultima relativamente al primo motivo di appello, il quale era coerente con la giurisprudenza della Corte di Cassazione e con l’ultima decisione a Sezioni Unite in materia (Sentenza della Corte di Cassazione n. 1149/2009).

49. Relativamente al secondo motivo di appello, la Corte di Cassazione ritenne che il ricorrente non fosse stato giudicato due volte per lo stesso reato, poiché il periodo preso in considerazione era diverso ed erano state assunte nuove prove testimoniali.

50. Relativamente al terzo e quarto motivo di appello, la Corte di Cassazione ritenne che tali motivi non riguardassero censure di diritto ma la mera reinterpretazione delle prove che era inammissibile dinanzi alla Corte stessa, poiché la Corte di Appello aveva fornito motivazioni dettagliate e complete su ogni punto eccepito dal ricorrente, inclusi i profili relativi al diniego di ammissione di nuove prove.

 

5. Il procedimento dinanzi al Tribunale di Palermo concernente la misura cautelare

51. Il 13 ottobre 1994, il Tribunale di Palermo ordinò di sottoporre il ricorrente a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dispose, quale misura cautelare, il sequestro di determinati beni ai fini della loro eventuale confisca.

52. Il ricorrente non forniva alcuna ulteriore informazione sull’esito di tale procedimento.

 

B. Il diritto e la prassi interni pertinenti

 

1. L’articolo 273 del codice di procedura penale italiano (il “CPP”)

53. Secondo tale articolo, per “gravi indizi di colpevolezza” si intendono tutti gli indizi a carico dell’imputato che – seppur non tali da dimostrarne la penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio – sono idonei a fondare un giudizio prognostico per una fase successiva del procedimento, in relazione alla rilevante probabilità di colpevolezza emersa nella fase delle indagini.

 

2. L’articolo 16 quater, comma 1 della Legge n. 8 del 1991

54. Secondo tale disposizione, chi desideri collaborare con la giustizia deve rivelare in dettaglio, entro 180 giorni, tutte le informazioni in suo possesso relative a reati, coautori e proventi di reato.

 

3. L’articolo 16 quater, comma 9 della Legge n. 8 del 1991

55. Secondo tale disposizione, le dichiarazioni rese al Pubblico Ministero o alla polizia dopo il termine previsto dal comma 1 dello stesso articolo, non possono essere utilizzate quali prove contro altri, salvo i casi di irripetibilità.

 

4. L’articolo 192, commi 3 e 4 del CPP

56. Secondo tale disposizione, le dichiarazioni rese dal coimputato non costituiscono prova attendibile se non sono avvalorate da altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.

 

5. L’articolo 296, comma 1 del CPP

57. Secondo tale articolo, è latitante chi volontariamente si sottrae all’esecuzione di un ordine di carcerazione emesso da un’autorità giudiziaria.

 

6. L’articolo 165 del CPP

58. Questo articolo prevede che l’imputato dichiarato ufficialmente latitante sia rappresentato ad ogni effetto durante il procedimento penale dal difensore (di fiducia o nominato d’ufficio), al quale è notificato ogni atto relativo alle indagini.

 

7. L’articolo 420 quater e l’articolo 484, comma 2 bis del CPP

59. Secondo le suddette disposizioni, il latitante o l’imputato il quale, debitamente citato a comparire, rimane contumace, è ad ogni effetto rappresentato e difeso durante il procedimento penale da un difensore ed è processato in contumacia.

 

8. L’articolo 416 bis del CP

60. Ai sensi di tale articolo, nella formulazione in vigore all’epoca dei fatti, chiunque fa parte di un’associazione di stampo mafioso formata da tre o più persone è punito con la reclusione da tre a sei anni.

Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni.

L’associazione è di stampo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo o della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Tale articolo prevede inoltre diverse circostanze aggravanti e casi di confisca obbligatoria ed estende l’applicazione delle pene previste ad altre organizzazioni dello stesso tipo, comunque localmente denominate.

 

9. L’articolo 110 del CP

61. Il suddetto articolo contiene una disposizione generale del CP che estende l’applicazione della pena a coloro che concorrono nel reato.

 

10. La sentenza della Corte Costituzionale n. 283 del 14 luglio 2000

62. La suddetta sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 37, comma 1 (b) del CPP nella parti in cui non prevedeva che potesse essere ricusato il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, avesse espresso in altro procedimento nei confronti del medesimo imputato (quale il procedimento per l’applicazione di misure cautelari), una valutazione di merito sui fatti in causa.

 

11. La sentenza della Corte di Cassazione n. 1149 del 13 gennaio 2009

63. Nella suddetta sentenza la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, dichiarò che il divieto previsto dall’articolo 16 quater, comma 9 della Legge n. 8 del 1991 si applica solo alle dichiarazioni rese “al Pubblico Ministero e alla polizia”, e non nel caso in cui un pentito rende testimonianza in udienza in contraddittorio nel corso del processo principale.

 

MOTIVI DI RICORSO

1. La dedotta violazione del principio del ne bis in idem

64. Invocando l’articolo 4 § 1 del protocollo n. 7 della Convenzione, il ricorrente adduceva che i fatti giudicati durante la seconda serie di procedimenti dinanzi al Tribunale di Palermo, i quali si conclusero con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 29 aprile 2009, erano gli stessi fatti già esaminati dal Tribunale di Roma, il quale lo aveva prosciolto il 28 marzo 1992 dal reato di partecipazione a Cosa Nostra (si veda paragrafo 8 supra).

65. Il ricorrente adduceva inoltre che i tribunali interni, pur pronunciandosi formalmente su un reato continuato (articolo 416 bis del CP) concernente un periodo di tempo diverso, avevano surrettiziamente utilizzato le prove relative ai reati commessi durante il periodo di tempo precedente, coperti dal precitato proscioglimento o dalla sentenza del 3 maggio 1994 del Tribunale Federale svizzero che lo aveva condannava per reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti (si veda paragrafo 4 supra).

66. Secondo il ricorrente, i fatti asseritamente commessi dopo il 28 marzo 1992 i quali, secondo i tribunali interni, ne provavano l’appartenenza all’organizzazione criminale – in ragione del favoreggiamento ai due latitanti in Sudafrica nel 1996 e delle attività d’investimento e riciclaggio di denaro effettuate per il capo di Cosa Nostra - erano incongruenti e non avvalorati da prove.

 

2. La dedotta illegittima riqualificazione del reato da parte della Corte di Appello di Palermo

67. Il ricorrente adduceva che la Corte di Appello di Palermo lo aveva illegittimamente imputato del reato di “appartenenza a un’organizzazione criminale” ai sensi dell’articolo 416 bis del CP, nonostante il fatto che, all’esito del procedimento di primo grado, il Tribunale di Palermo avesse derubricato il reato in “concorso esterno aggravato in associazione di stampo mafioso” ai sensi degli articoli 110 e 416 bis del CP. Nel fare ciò, la Corte di Appello aveva violato il principio della corrispondenza tra l’imputazione e la condanna, il diritto a essere informato dell’imputazione, il divieto della reformatio in peius sancito dall’articolo 6, §§ 1 e 3 (a), (b) e (c) della Convenzione e il diritto di appello ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 7 della Convenzione.

 

3. La dedotta violazione del diritto del ricorrente a essere informato dell’imputazione elevata nei sui confronti

68. Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 (a) della Convenzione, il ricorrente asseriva che l’atto di rinvio a giudizio disposto nei suoi confronti dalla Procura di Palermo era vago e generico e che i suoi diritti di difesa erano quindi stati compromessi durante il procedimento penale.

 

4. La dedotta ingiustizia del procedimento e la dedotta illegittima interferenza nella vita privata del ricorrente

69. Il ricorrente lamentava inoltre che i tribunali interni lo avevano accusato di fatti – l’avere offerto ospitalità a G.B. e G.G. in Sudafrica – i quali, oltre a non essere stati comprovati in violazione dell’articolo 6 della Convenzione, rappresentavano un’illegittima interferenza nella sua vita privata, in violazione dell’articolo 8 § 2 della Convenzione.

 

5. La dedotta mancanza d’imparzialità dei tribunali interni

70. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente contestava l’assenza di imparzialità dei tribunali interni nei suoi confronti. In particolare, prima del processo, il presidente del collegio della Corte di Appello di Palermo era stato investito del procedimento a carico del ricorrente finalizzato a sottoporre quest’ultimo a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e a ordinare il sequestro preventivo di determinati beni ai fini della loro eventuale confisca. In tale contesto, il ricorrente puntualizzava di non avere presentato alla Corte di Cassazione un’istanza di ricusazione del presidente del collegio, poiché dalla giurisprudenza conforme della Corte Costituzionale in materia, come confermato dalla sentenza n. 178 del 18 maggio 1999, emergeva che il ricorrente non aveva realisticamente alcuna possibilità di ottenere un rimedio giuridico.

71. Il ricorrente adduceva inoltre l’illegittimo svolgimento durante il processo di una riunione tra il Tribunale e una delegazione del Ministero della Giustizia sudafricano in merito all’organizzazione di un’assistenza giudiziaria internazionale richiesta dalle autorità italiane. Il 25 marzo 2003, durante una riunione alla quale erano inizialmente presenti tutte le parti, compreso il Pubblico Ministero e i difensori del ricorrente, la delegazione sudafricana chiese al Tribunale di discutere alcune questioni in privato. Le parti furono quindi allontanate dalla stanza. All’esito della riunione il Tribunale, ottemperando alla richiesta delle autorità sudafricane, escluse tre persone dalla lista dei testimoni da escutere durante il processo principale (due dei quali erano stati chiesti dal Pubblico Ministero ed uno dalla difesa). La decisione, presa su richiesta della delegazione sudafricana e in assenza dei difensori del ricorrente, costituì un altro esempio della mancanza di indipendenza e di imparzialità del Tribunale di Palermo.

 

6. Il dedotto uso illegittimo delle testimonianze rese dai pentiti

72. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamentava che le dichiarazioni rese dai pentiti erano state usate contro di lui. Secondo il ricorrente, queste ultime non erano attendibili, poiché i pentiti avevano interesse ad accusarlo al fine di ottenere benefici di pena e remunerazioni. Il ricorrente adduceva inoltre che tali pentiti avevano illegittimamente reso testimonianza su fatti che si erano verificati nel periodo di tempo contemplato dalla sentenza di proscioglimento. Il ricorrente lamentava infine le vaghe e generiche asserzioni formulate nei suoi confronti da A.G. e la mancata conoscenza diretta degli eventi. Tali testimonianze furono inoltre rese solo durante il processo principale, ben dopo il termine di legge di sei mesi, in violazione dell’articolo 16 quater, comma 9 della Legge n. 8 del 1991.

 

7. La dedotta violazione delle norme interne concernenti l’ammissibilità delle prove

73. Il ricorrente, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, lamentava l’utilizzazione, da parte dei tribunali interni, di prove documentali illegittimamente acquisite dagli inquirenti italiani da due ufficiali di polizia sudafricani compiacenti e non tramite i canali ufficiali. Gli ufficiali di polizia furono successivamente escussi in qualità di testimoni durante il processo principale, malgrado fossero stati sottoposti a procedimento disciplinare nel loro paese. Ciò nonostante, i tribunali aveva creduto alle loro testimonianze totalmente inattendibili.

 

8. La dedotta violazione del diritto del ricorrente di produrre prove a sua difesa successivamente alla riunione con le autorità sudafricane

74. Il ricorrente, ai sensi dell’articolo §§ 1 e 3 (a), (b), (c) e (d) della Convenzione, lamentava che l’illegittima esclusione di alcuni testimoni dal processo principale in conseguenza della riunione del Tribunale con le autorità sudafricane (si veda paragrafo 71 supra) costituiva una violazione del suo diritto a “ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico” e conseguentemente violazione del suo diritto di provare la propria innocenza.

 

9. La dedotta violazione del diritto del ricorrente di produrre nuove prove a difesa in sede di appello

75. Il ricorrente lamentava che l’illegittimo rigetto della richiesta di nuove prove (un testimone e alcuni documenti) in appello e dinanzi alla Corte di Cassazione aveva violato i suoi diritti di difesa ai sensi dell’articolo 6 § 3 (d) della Convenzione.

 

10. La dedotta violazione del diritto del ricorrente di prendere parte al procedimento penale

76. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamentava di essere stato processato in contumacia, in base alla presunzione che egli fosse irreperibile, sebbene il suo domicilio all’estero fosse ben noto. In particolare, il ricorrente sosteneva di non avere avuto conoscenza del procedimento istituito a suo carico e di non essere quindi stato in grado di difendersi in modo pratico ed effettivo.

 

IN DIRITTO

1. Sulla dedotta violazione del principio del ne bis in idem

77. Il ricorrente lamentava di essere stato giudicato due volte per gli stessi fatti, in violazione del principio del ne bis in idem (si vedano i paragrafi 64-66). Egli invocava l’articolo 4 § 1 del Protocollo n. 7 della Convenzione, il quale recita:

“Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”.

78. La Corte preliminarmente ritiene che il ricorrente abbia avuto la possibilità di presentare questo motivo di ricorso dinanzi ai tribunali interni. In ogni caso, la Corte rileva che l’imputazione elevata a carico del ricorrente dal Tribunale di Roma, che si pronunciò per il proscioglimento del ricorrente, concerne un reato commesso prima del 28 marzo 1992, mentre la seconda serie di procedimenti dinanzi al Tribunale di Palermo si concluse con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 29 aprile 2009 concernente un reato relativo al periodo di tempo compreso tra il 29 marzo 1992 e la data in cui il ricorrente fu nuovamente citato in giudizio. Nella seconda serie di procedimenti dinanzi al Tribunale di Palermo, i tribunali interni esaminarono inoltre fatti e valutarono prove - dichiarazioni dei testimoni e dei pentiti, registrazioni di intercettazioni telefoniche e ambientali - che concernevano specificatamente tale altro periodo di tempo e di cui il Tribunale di Roma non era a conoscenza.

79. Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 § 4 della Convenzione.

 

2. Sulla dedotta illegittima riqualificazione del reato da parte della Corte di Appello di Palermo

80. Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 (a), (b) e (c) della Convenzione e l’articolo 2 del Protocollo n. 7 della Convenzione, il ricorrente lamentava l’illegittima riqualificazione del reato da parte della Corte di Appello di Palermo (si veda paragrafo 67 supra). Le disposizioni pertinenti recitano come segue:

Articolo 6 della Convenzione

“1. Nella determinazione di… ogni accusa penale formulata nei suoi confronti, ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente…da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge…

 

3. Ogni persona accusata di un reato ha diritto di:

 

(a) essere informata, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lei comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;

 

(b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

 

(c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistita gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

 

(d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

 

Articolo 2 del Protocollo n. 7

 

“1. Ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale ha il diritto di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da una giurisdizione superiore. L’esercizio di tale diritto, ivi compresi i motivi per cui esso può essere esercitato, è disciplinato dalla legge.

 

2. Tale diritto può essere oggetto di eccezioni per reati minori, quali sono definiti dalla legge, o quando l’interessato è stato giudicato in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o è stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento.”

 

81. La Corte rileva che il ricorrente non ha sollevato questo motivo di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. Di conseguenza, questa parte del ricorso è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e deve essere rigettata in applicazione sensi dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

3. Sulla dedotta violazione del diritto del ricorrente a essere informato dell’accusa formulata a suo carico

82. Il ricorrente lamentava la violazione del diritto a essere informato dell’accusa formulata a suo carico (si veda paragrafo 68 supra). Egli invocava l’articolo 6 §§ 1 e 3 (a) della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

83. La Corte rileva che il ricorrente non ha sollevato questo motivo di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. Di conseguenza, questa parte del ricorso deve essere dichiarata irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

4. Sulla dedotta iniquità del procedimento e sulla dedotta illegittima interferenza nella vita privata del ricorrente

84. Il ricorrente sosteneva che i tribunali interni lo avevano accusato di reati i quali, oltre a non essere comprovati in violazione dell’articolo 6 della Convenzione, rappresentavano una illegittima interferenza nella sua vita privata, in violazione dell’articolo 8 § 2 della Convenzione (si veda paragrafo 69 supra).

85. Il testo dell’articolo 6 è soprariportato e le previsioni pertinenti dell’articolo 8 della Convenzione recitano:

 

“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata …

 

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”

 

86. Conformemente all’articolo 6 della Convenzione e nella misura in cui si possa ritenere che tale motivo di ricorso riguardi la valutazione delle prove e le risultanze del procedimento dinanzi ai tribunali interni, la Corte ribadisce che la trattazione degli errori di fatto o di diritto asseritamente commessi da un tribunale interno non è di sua competenza, salvo e nei limiti in cui tali errori possano avere violato i diritti e le libertà salvaguardate dalla Convenzione (si veda Garcia Ruiz c. Spagna [GC], n. 30544/96, § 28, CEDU 1999-I). In particolare, la stessa Corte non può valutare i fatti che hanno indotto un tribunale interno ad adottare una decisione piuttosto che un’altra; la Corte agirebbe altrimenti come un tribunale di quarta istanza, discostandosi dai limiti imposti alla propria azione (si veda, mutatis mutandis, Kemmache c. Francia (n.3), 24 novembre 1994, § 44, Serie A n. 296-C). L’unico compito della Corte, in relazione all’articolo 6 della Convenzione, è quello di esaminare i ricorsi nei quali si adduce il mancato rispetto, da parte dei tribunali interni, di alcune specifiche garanzie procedurali stabilite nel suddetto articolo o si sostiene che lo svolgimento complessivo del procedimento non ha garantito al ricorrente un giusto processo. Spetta inoltre ai tribunali interni valutare la rilevanza delle prove proposte (si veda, tra le altre autorità, Centro Europa 7 S.r.L. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, §§ 197-98, CEDU 2012).

87. Nel caso di specie, il ricorrente aveva ampie possibilità di contestare l’ammissibilità e l’attendibilità delle prove dinanzi ai tribunali interni in due gradi di giudizio a cognizione piena e dinanzi alla Corte di Cassazione sui punti di diritto. Sia il Tribunale sia la Corte di Appello di Palermo trattarono la questione del favoreggiamento dei due latitanti in decisioni che appaiono debitamente motivate e non arbitrarie. In particolare, i predetti giudici spiegarono i motivi per i quali dovevano essere respinti i documenti ufficiali attestanti che i due uomini avevano lasciato il Sudafrica prima dell’emissione dei mandati di arresto (si vedano i paragrafi 24 e 40 supra). La Corte non vede quindi alcun motivo per contestare la valutazione delle prove effettuata a tale riguardo dai tribunali interni.

88. Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 § 4 della Convenzione.

89. Relativamente all’articolo 8 della Convenzione, la Corte osserva che il ricorrente non ha provato il motivo di ricorso. Questa parte del ricorso è quindi manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 § 4 della Convenzione.

 

5. Sulla dedotta mancanza d’imparzialità dei tribunali interni

90. Il ricorrente lamentava la mancanza d’imparzialità dei tribunali sotto diversi aspetti (si vedano i paragrafi 70-71 supra). Egli invocava l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

91. La Corte rileva che il ricorrente non ha sollevato questi motivi di ricorso dinanzi ai tribunali interni. Relativamente all’impossibilità, dedotta dal ricorrente, di ottenere una effettiva tutela giuridica qualora avesse presentato istanza di ricusazione del presidente del collegio (si veda in particolare il paragrafo 70 supra), la Corte osserva che a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 283 del 14 luglio 2000 (si veda paragrafo 62 supra), tale via di ricorso interna era accessibile e potenzialmente effettiva, non solo in teoria ma anche in pratica, in quanto mezzo volto ad offrire un rimedio giuridico.

92. Conseguentemente, questa parte del ricorso è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

6. Sul dedotto uso illegittimo delle testimonianze rese dai pentiti

93. Il ricorrente lamentava l’uso illegittimo delle testimonianze rese dai pentiti, nonché la violazione delle norme interne sull’ammissibilità delle prove, segnatamente l’articolo 16 quater, comma 9 della Legge n. 8 del 1991 (si veda paragrafo 72). Egli invocava l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

94. La Corte ribadisce che la trattazione degli errori di fatto o di diritto asseritamente commessi da un tribunale interno non è di sua competenza, salvo e nella misura in cui tali errori possano avere violato i diritti e le libertà salvaguardate dalla Convenzione. L’articolo 6, pur garantendo il diritto ad un giusto processo, non prevede alcuna norma sull’ammissibilità delle prove in quanto tale, dovendo quindi tale questione essere primariamente disciplinata dal diritto interno. Non spetta alla Corte accertare, in linea di principio, quali tipi di prove – le prove ottenute illegittimamente, ad esempio – siano ammissibili o tantomeno se il ricorrente sia colpevole o meno. La questione che deve trovare una risposta è se il procedimento nel suo complesso, incluso il modo in cui le prove sono state ottenute, sia stato giusto (si veda Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000V, e, mutatis mutandis, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], nn. 26766/05 e 22228/06, § 118, CEDU, 2011).

95. La Corte rileva che il ricorrente aveva ampie possibilità di sollevare i suddetti motivi di ricorso dinanzi ai Tribunali interni in due gradi di giudizio a cognizione piena e dinanzi alla Corte di Cassazione sui punti di diritto.

96. Relativamente alla prima parte del motivo di ricorso, la Corte rileva che i tribunali interni fornirono una motivazione completa e dettagliata relativamente all’attendibilità di tutti i pentiti e delle altre prove a sostegno delle loro testimonianze. In particolare, i tribunali interni sottolinearono che tutti i pentiti, incluso A.G., avevano una conoscenza diretta dell’organizzazione criminale, essendo loro stessi stati condannati per partecipazione a Cosa Nostra e, in molti casi, per altri reati connessi. Le loro dichiarazioni erano già state utilizzate quali prove in molti procedimenti penali giudicati in via definitiva. Le loro affermazioni in merito al ricorrente erano precise, concordanti e corroborate da altre prove, quali diverse testimonianze, documenti e registrazioni di intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché dalle precedenti condanne del ricorrente in Italia e in Svizzera per reati relativi al traffico di sostanze stupefacenti commessi in concorso con membri della mafia (si vedano i paragrafi 21, 26 e 39 supra).

97. Questa parte del ricorso deve quindi essere rigettata in quanto manifestamente infondata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

98. Relativamente alla seconda parte del motivo di ricorso, la Corte rileva che i tribunali interni applicarono i principi giuridici enunciati dalla Corte di Cassazione nella sua decisione del 9 gennaio 2004 (si veda paragrafo 15 supra). Di conseguenza, le dichiarazioni rese dai pentiti circa gli eventi che si produssero nel periodo di tempo contemplato dalla sentenza definitiva di proscioglimento del Tribunale di Roma servirono solo a dimostrare il generale contesto relazionale del ricorrente e non costituirono una prova diretta della sua colpevolezza (si vedano i paragrafi 27, 28, 29 e 50 supra).

99. La Corte non vede a tale riguardo alcun motivo per opporsi alle motivazioni dei tribunali interni. Tale parte del ricorso deve quindi essere rigettata in quanto manifestamente infondata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

100. Infine, relativamente alla dedotta violazione dell’articolo 6 quater comma 9 della Legge n. 8 del 1991, la Corte rileva che i tribunali interni trattarono la questione con decisioni interne che appaiono debitamente motivate, non arbitrarie e coerenti con la giurisprudenza interna, segnatamente con la sentenza della Corte di Cassazione n. 1149 del 13 gennaio 2009 (si veda paragrafo 63 supra).

101. Tale parte del ricorso deve quindi essere dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 4 della Convenzione.

 

7. Sulla dedotta violazione delle norme interne concernenti l’ammissibilità delle prove

102. Il ricorrente lamentava inoltre l’utilizzazione delle prove ottenute dal Sud Africa e la valutazione, da parte della Corte, dell’attendibilità delle testimonianze rese dagli ufficiali di polizia di tale paese, i quali furono escussi in qualità di testimoni nel processo principale (si veda paragrafo 73 supra). Il ricorrente invocava ancora una volta l’articolo 6 della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

103. Nella misura in cui il ricorrente lamentava l’addotta inammissibilità delle prove ottenute dal Sudafrica, la Corte rileva che questo motivo di ricorso non è stato sollevato dinanzi ai tribunali interni.

104. Di conseguenza, questa parte del ricorso è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

105. Per quanto concerne il motivo di ricorso relativo alle dedotte inattendibili dichiarazioni dei due testimoni sudafricani, la Corte osserva che il ricorrente aveva la possibilità di contestare l’attendibilità di tali prove testimoniali dinanzi ai tribunali interni. La conclusione dei tribunali interni, secondo i quali le dichiarazioni erano avvalorate da diversi documenti nonché dalle dichiarazioni di altri testimoni (si veda paragrafo 24 supra) è debitamente motivata e non arbitraria. La Corte non vede alcun motivo per contestare la valutazione delle prove effettuata a tale riguardo dai tribunali interni.

106. Di conseguenza, tale parte del ricorso è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35, § 4 della Convenzione.

 

8. Sulla dedotta violazione del diritto del ricorrente di produrre prove a difesa a seguito della riunione con le autorità sudafricane

107. Il ricorrente lamentava inoltre la violazione del diritto di produrre prove a discarico a seguito della riunione tra il Tribunale di Palermo e le autorità sudafricane (si veda paragrafo 74). Egli invocava l’articolo 6 §§ 1 e 3 (a), (b), (c) e (d) della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

108. La Corte rileva che il ricorrente non ha sollevato questo motivo di ricorso dinanzi ai tribunali interni. Di conseguenza, tale parte del ricorso è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

9. Sulla dedotta violazione del diritto del ricorrente di produrre nuove prove a sua difesa in sede di appello

109. Invocando l’articolo 6 § 3 (d) della Convenzione, il cui testo è soprariportato, il ricorrente lamentava che la sua richiesta di produzione di nuove prove dinanzi alla Corte di Appello era stata respinta (si veda paragrafo 75 supra).

110. La Corte ribadisce di non potere valutare i fatti che hanno indotto un tribunale interno ad adottare una decisione piuttosto che un’altra; la Corte agirebbe altrimenti quale tribunale di quarta istanza, discostandosi dai limiti imposti alla propria azione. La Corte ribadisce inoltre che spetta ai tribunali interni valutare la rilevanza delle prove proposte.

111. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione rigettò il motivo di ricorso del ricorrente, ritenendo che non riguardasse punti di diritto e che la Corte di Appello di Palermo avesse fornito una motivazione dettagliata e completa sul diniego di ammissione di nuove prove (si veda paragrafo 50 supra). La Corte non vede alcun motivo per contestare le valutazioni effettuate a tale riguardo dai tribunali interni.

112. Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 § 4 della Convenzione.

 

10. Sulla dedotta violazione del diritto del ricorrente di partecipare al procedimento penale

113. Il ricorrente lamentava infine di essere stato processato in contumacia (paragrafo 76). Egli invocava l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il cui testo è soprariportato.

114. La Corte rileva che il ricorrente, il quale per tutta la durata del procedimento è stato rappresentato da diversi difensori di fiducia, non ha sollevato tale motivo di ricorso dinanzi ai tribunali interni. Di conseguenza, questa parte del ricorso è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

Per questi motivi, la Corte all’unanimità,

 

Dichiara il ricorso irricevibile.

 

Stanley Naismith
Cancelliere

Danutte Jočienè
Presidente