Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 26 novembre 2013 - Ricorso n. 13431/07 - Quattrone c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata dalla dott.ssa Anna Aragona, funzionario linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo.


CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA FRANCESCO QUATTRONE c. ITALIA

(Ricorso n. 13431/07)

SENTENZA

STRASBURGO

26 novembre 2013

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Francesco Quattrone c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:

Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
Nebojša Vučinić,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Egidijus Kūris, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 5 novembre 2013,

Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 13431/07) proposto contro la Repubblica italiana con il quale un cittadino di tale Stato, sig. Francesco Quattrone («il ricorrente»), ha adito la Corte il 22 marzo 2007 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). Il ricorrente è deceduto il 2 novembre 2012. I suoi eredi, sig.ra Maria Francesca Quattrone e sig. Giuseppe Fabrizio Quattrone, nati rispettivamente nel 1969 e nel 1979, hanno informato la Corte circa la loro intenzione di proseguire la procedura. Per ragioni di ordine pratico, la Corte continuerà a chiamare il sig. Francesco Quattrone «il ricorrente».

2. Il ricorrente è stato rappresentato dall’avv. C. Mazzù, del foro di Messina. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.

3. In data 11 febbraio 2010, il ricorso è stato comunicato al Governo in relazione ai motivi di ricorso basati sulla durata dei due procedimenti Pinto e sulla condanna del ricorrente alle spese (articolo 6 § 1 della Convenzione). Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

A. Il primo procedimento

1. Il procedimento penale RG n. 1099/1992

4. Con ordinanza del 6 settembre 1992 il giudice per le indagini preliminari (di seguito il «GIP») di Reggio Calabria disponeva a carico del ricorrente la custodia cautelare in carcere a causa dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di ricettazione.

5. Il 13 novembre 1992 la misura degli arresti domiciliari sostituiva quella della custodia cautelare in carcere. In data 9 febbraio 1993 al ricorrente veniva concessa la libertà provvisoria.

6. Con sentenza del 21 febbraio 1994 il tribunale di Reggio Calabria condannava il ricorrente a tre anni di reclusione ed alla multa di 8.000.000 di lire italiane. Con sentenza del 18 marzo 1998 la corte d’appello di Reggio Calabria riduceva la pena ad un anno e nove mesi ed a 4.000.000 di lire italiane di multa. Con sentenza del 26 ottobre 1999 la Corte di cassazione annullava la condanna e rinviava il procedimento alla corte d’appello.

7. Con sentenza del 10 aprile 2002, depositata in cancelleria il 9 luglio 2002, la corte d’appello di Messina assolveva il ricorrente «perché il fatto non sussiste».

2. Il primo procedimento Pinto

8. Il 7 aprile 2003 il ricorrente adiva la corte d’appello di Catanzaro ai sensi della legge «Pinto», chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti a causa dell’eccessiva durata del procedimento principale (RG n. 1099/1992).

9. Con decisione del 10 giugno 2003 (n. 64/2003) la corte d’appello dichiarava la propria incompetenza, affermando che il ricorso doveva essere presentato alla corte d’appello di Reggio Calabria.

10. Il 26 gennaio 2004 il ricorrente adiva quest’ultima autorità giudiziaria (n. 4/04) la quale, con sentenza del 10 gennaio 2008, depositata in cancelleria il 19 novembre 2008, constatava il superamento di una durata ragionevole e condannava il ministero della Giustizia al pagamento di 4.500 EUR al ricorrente per danno morale, più le spese. Il ricorrente non proponeva ricorso per cassazione.

11. Nelle osservazioni presentate il 14 luglio 2010 in risposta a quelle del Governo, il ricorrente affermava che l’indennizzo Pinto non era ancora stato pagato.

B. Il secondo procedimento RG n. 7/1991

12. Il 2 dicembre 1992 il GIP di Reggio Calabria disponeva la custodia cautelare in carcere a carico del ricorrente, che si trovava già agli arresti domiciliari nell’ambito del procedimento RG n. 1099/1992. Il ricorrente era sospettato di concorso in omicidio. Con decisione del 6 aprile 1993 la Corte di cassazione, dopo aver constatato l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per giustificare la custodia cautelare in carcere ai sensi dell’articolo 273 c. 1 CPP, annullava senza rinvio l’ordinanza di custodia cautelare.

13. Con decreto del 3 giugno 1994 il GIP archiviava il procedimento a carico del ricorrente.

C. Il terzo procedimento RG n. 1296/1992

14. Accusato di truffa, falso in atto pubblico e abuso di ufficio, il ricorrente, detenuto nel carcere di Messina in esecuzione dell’ordinanza del 2 dicembre 1992, era oggetto di una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere da parte del GIP di Reggio Calabria, emessa in data imprecisata.

15. Il ricorrente veniva rilasciato il 13 marzo 1993. Con sentenza del tribunale di Reggio Calabria del 16 gennaio 2001, depositata in cancelleria il 13 aprile 2001, il ricorrente veniva assolto da alcune accuse, mentre per i restanti fatti il tribunale dichiarava «non doversi procedere», in quanto i fatti contestati, da un lato, erano prescritti e, dall’altro, non erano stati oggetto di querela.

16. Il ricorrente non adiva i giudici nazionali ai sensi della «legge Pinto».

D. Il quarto procedimento

1. Il procedimento penale RG n. 17/92

17. Il 13 marzo 1993, il GIP ordinava a carico del ricorrente la custodia cautelare in carcere. La misura veniva eseguita il 15 marzo 1993. Il ricorrente era sospettato di abuso di ufficio e di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il 24 giugno 1993, a causa del suo stato di salute, l’interessato veniva trasferito in ospedale. Il 13 ottobre 1993 veniva rilasciato. Con sentenza del 18 luglio 2003, depositata in cancelleria il 17 ottobre 2003, il tribunale di Reggio Calabria assolveva il ricorrente, dichiarando che «il fatto non sussiste».

2. Il secondo procedimento Pinto

18. Il 27 luglio 2004 il ricorrente adiva la corte d’appello di Catanzaro ai sensi della legge «Pinto», chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti a causa dell’eccessiva durata del quarto procedimento principale (RG n. 17/92).

19. Con decisione del 27 maggio 2005 (n. 161/04), depositata in cancelleria il 14 giugno 2005, la corte d’appello constatava il superamento di una durata ragionevole e condannava il ministero della Giustizia al pagamento di 27.700 EUR a favore del ricorrente per il danno morale, più le spese. Tuttavia, essa rigettava la domanda di risarcimento del danno materiale, sostenendo che tale danno non fosse stato cagionato dalla durata del procedimento in quanto tale, bensì dalla custodia cautelare e dal fatto che il procedimento si fosse concluso con l’assoluzione.

20. La somma accordata in esecuzione della decisione Pinto, maggiorata di interessi, veniva pagata il 21 ottobre 2005. Il ricorrente riceveva 32.167,82 EUR.

21. Il ricorrente ricorreva per cassazione. Nelle sue osservazioni la procura aveva proposto di ritenere fondata una parte dei motivi di ricorso presentati dal ricorrente. Con sentenza del 24 ottobre 2007, depositata il 5 febbraio 2008 (RG n. 18589/05), la Corte di cassazione confermava la decisione della corte d’appello e condannava il ricorrente al pagamento di 10.000 EUR per le spese processuali. La decisione non contiene motivazioni su questo punto.

E. I procedimenti per la riparazione per l’«ingiusta» detenzione

1. Il primo procedimento

22. Il 12 novembre 2003 il ricorrente adiva la corte d’appello di Messina al fine di ottenere la riparazione dei danni cagionati dai tre periodi di custodia cautelare in carcere. Egli chiedeva per ciascun periodo l’indennizzo massimo previsto dalla legge.

Con ordinanza del 19 gennaio 2005, depositata in cancelleria il 1o marzo 2005, la corte d’appello, sulla base dell’articolo 314 CPP comma 1 (riparazione per l’ingiusta detenzione «sostanziale», paragrafi 25 e 26 infra), accoglieva parzialmente la domanda del ricorrente. Richiamando la giurisprudenza della Corte di cassazione, essa sottolineava che il procedimento per la riparazione era di natura risarcitoria e che la custodia cautelare subita dall’interessato doveva quindi essere considerata nel suo insieme, indipendentemente dal fatto che il ricorrente fosse stato assolto (primo e terzo procedimento) ed avesse ottenuto un’archiviazione (secondo procedimento) dopo l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’assenza di gravi indizi di colpevolezza (paragrafi 12 e 13 supra). La corte d’appello accordava all’interessato 180.000 EUR per i danni morali e materiali, escludendo da questi ultimi i danni che, a parere della corte, derivavano dal fatto di essere accusato nell’ambito di un procedimento penale concernente crimini particolarmente gravi. Il ricorrente proponeva ricorso per cassazione, il quale veniva rigettato con sentenza depositata in cancelleria il 21 dicembre 2006.

2. Il secondo procedimento

23. Il 6 ottobre 2004 il ricorrente adiva la corte d’appello di Reggio Calabria al fine di ottenere la riparazione dei danni subiti a causa della carcerazione inflittagli nell’ambito del quarto procedimento penale. Con ordinanza del 9 dicembre 2005, depositata in cancelleria il 21 dicembre 2005, ai sensi dell’articolo 314 CPP comma 1, (riparazione per l’ingiusta detenzione «sostanziale», paragrafi 25 e 26 infra), la corte d’appello accoglieva la richiesta del ricorrente, accordandogli 150.000 EUR. Il ricorrente proponeva ricorso per cassazione, il quale veniva rigettato con sentenza depositata in cancelleria il 7 marzo 2008.

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

24. Il diritto e la prassi interni pertinenti relativi alla legge n. 89 del 24 marzo 2001, detta «legge Pinto», sono riportati nella sentenza Cocchiarella c. Italia ([GC], n. 64886/01, §§ 23-31, CEDU 2006 V).

25. Per quanto concerne il diritto alla riparazione per «l’ingiusta» detenzione, l’articolo 314 del CPP prevede il diritto alla riparazione in due casi distinti: quando, all’esito di un giudizio di merito, l’accusato è prosciolto (riparazione per ingiustizia detta «sostanziale», prevista dal comma 1) ovvero quando è stato accertato che l’indagato è stato sottoposto a custodia cautelare in carcere senza che sussistessero le condizioni previste dagli articoli 273 e 280 del CPP (riparazione per ingiustizia detta «formale», prevista dal comma 2). L’articolo 273 c. 1 CPP dispone:

«Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza.»

26. L’articolo 314 c. 1 e 2 del CPP recita:

«1. Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave.

2. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280.»

27. La Corte di cassazione ha più volte precisato che l’espressione «decisione irrevocabile», sulla base della quale è possibile ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione, ai sensi del secondo comma dell’articolo 314 CPP, si riferisce ai seguenti provvedimenti: ordinanza del tribunale della libertà e del riesame, che non sia stata impugnata; sentenza della Corte di cassazione che annulla una decisione del predetto tribunale ovvero sentenza emessa dalla Corte di cassazione adita direttamente dopo l’applicazione di una misura cautelare personale (si veda la sentenza della quarta sezione della Corte di cassazione n. 18237 del 7 febbraio 2003, depositata in cancelleria il 17 aprile 2003); decisione irrevocabile inerente al merito della responsabilità penale che accerta l’assenza ab initio delle condizioni necessarie ai fini dell’applicabilità della misura cautelare (si vedano le sentenze della quarta sezione della Corte di cassazione n. 42022 del 6 novembre 2006, depositata in cancelleria il 12 dicembre 2006 e n. 2660 del 3 dicembre 2008, depositata il 21 gennaio 2009).

28. Quanto alla posizione della giurisprudenza della Corte nel sistema giuridico italiano ed in particolare all’obbligo dei tribunali nazionali di adottare un’interpretazione del diritto interno conforme al diritto convenzionale, si vedano il diritto e la prassi interni nella decisione Daddi c. Italia (dec.), n. 15476/09, 2 giugno 2009.

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ECCESSIVA DURATA DEI PROCEDIMENTI «PINTO»

29. Il ricorrente contesta la violazione dell’articolo 6 della Convenzione a causa della asserita eccessiva durata dei procedimenti «Pinto». L’articolo 6 recita nella parte pertinente:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (...) entro un termine ragionevole, da un tribunale (...), il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...)».

A. Sulla ricevibilità

30. La Corte, constatando che tale motivo di ricorso non incorre in alcuno degli altri motivi di irricevibilità di cui all’articolo 35 § 3 della Convenzione, lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

31. Il Governo sostiene che la durata dei due procedimenti Pinto non ha comportato la violazione dell’articolo 6 § 1. Per quanto concerne il primo procedimento, esso ritiene che la sua durata si giustifichi con il fatto che il ricorrente avesse in un primo tempo adito un’autorità giudiziaria che non era competente, ossia la corte d’appello di Catanzaro; in relazione al secondo procedimento, esso afferma che una durata inferiore a quattro anni per due gradi di giudizio non può essere considerata irragionevole.

32. La Corte osserva che i procedimenti «Pinto», che hanno avuto inizio il 7 aprile 2003 ed il 27 luglio 2004, si sono conclusi rispettivamente il 19 novembre 2008 ed il 5 febbraio 2008. La loro durata era dunque rispettivamente pari a cinque anni e sette mesi ed a tre anni e sei mesi per due gradi di giudizio. Nel caso del primo procedimento, anche considerando come decorrenza la data nella quale il ricorrente ha adito l’autorità competente a dirimere la controversia, ossia la corte d’appello di Reggio Calabria, la durata complessiva pertinente è di quasi cinque anni (26 gennaio 2004 – 19 novembre 2008).

33. Nella sentenza CE.DI.SA Fortore S.N.C. Diagnostica Medica Chirurgica c. Italia (nn. 41107/02 e 22405/03, § 39, 27 settembre 2011), la Corte ha ritenuto che per due gradi di giudizio in linea di principio la durata di un procedimento «Pinto» non dovrebbe superare due anni, salvo circostanze eccezionali.

34. La Corte osserva che la durata dei due procedimenti Pinto ha superato di gran lunga il termine summenzionato e che nel caso di specie non si ravvisa alcuna circostanza eccezionale atta a giustificare il superamento del termine.

35. Pertanto, la Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1.

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE A CAUSA DELLA CONDANNA ALLE SPESE INFLITTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE «PINTO»

36. Il ricorrente ritiene che l’importo delle spese, al pagamento delle quali è stato condannato dalla Corte di cassazione «Pinto», sia eccessivo, arbitrario e rivesta un carattere punitivo. Nelle osservazioni del 14 luglio 2010, egli afferma di non aver adito la Corte di cassazione nell’ambito del primo procedimento Pinto per timore di essere nuovamente condannato al pagamento di spese molto elevate in caso di rigetto della domanda.

A. Sulla ricevibilità

37. La Corte, constatando che tale motivo di ricorso non incorre in alcuno degli altri motivi di irricevibilità di cui all’articolo 35 § 3 della Convenzione, lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

38. Il Governo afferma che la condanna è giustificata dal fatto che la domanda del ricorrente fosse infondata e che la decisione di accordare e regolamentare il diritto al rimborso delle spese a favore della parte vittoriosa rientra nelle scelte discrezionali degli Stati.

39. La Corte osserva, innanzi tutto, che il ricorrente è stato condannato al pagamento di spese processuali di importo particolarmente elevato, ossia pari a 10.000 EUR. Essa rileva in seguito che la Corte di cassazione non ha ritenuto abusiva o temeraria la domanda del ricorrente e che la procura nelle sue osservazioni ha considerato fondata una parte delle doglianze del ricorrente (si veda il paragrafo 21 supra).

40. Alla luce di tali considerazioni e tenuto conto della natura del procedimento Pinto, la Corte è del parere che tale somma di per sé dia adito a dubbi sulla sua compatibilità con lo spirito di un procedimento per la riparazione di una violazione della Convenzione (si veda Cocchiarella c. Italia [GC], n. 64886/01, CEDU 2006 V).

41. La Corte constata, tuttavia, che la sentenza della Corte di cassazione Pinto non contiene alcuna motivazione relativa all’importo delle spese, il che rende impossibile stabilire se tale sentenza costituisca un intralcio al rimedio «Pinto» ovvero se abbia ridotto in modo sostanziale il diritto alla riparazione Pinto, riconosciuto dalla corte d’appello di Catanzaro.

42. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, l’articolo 6 § 1 della Convenzione obbliga i tribunali a motivare le loro decisioni (Van de Hurk c. Paesi Bassi, sentenza del 19 aprile 1994, § 61, serie A n. 288).

43. L’estensione di tale obbligo può variare secondo la natura della decisione e deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ogni singolo caso (Ruiz Torija c. Spagna, sentenza del 9 dicembre 1994, § 29, serie A n. 303-A; Hiro Balani c. Spagna, sentenza del 9 dicembre 1994, § 27, serie A n. 303 B; Higgins e altri c. Francia, sentenza del 19 febbraio 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998 I, p. 60, § 42).

44. L’obbligo di motivazione si applica altresì alla condanna alle spese (Associazione per la difesa dei diritti umani c. Romania (dec.), n. 2959/11, 22 novembre 2011) ed alle pene pecuniarie inflitte a causa del carattere abusivo del ricorso (G.L. c. Italia, n. 15384/89, decisione della Commissione del 9 maggio 1994, Decisions et rapports (DR) 77-A, p. 5).

45. Nel caso di specie, tenuto conto dell’elevato importo delle spese rispetto alla natura del procedimento Pinto, la Corte ritiene che l’assenza di ogni giustificazione nelle motivazioni della sentenza in questione abbia comportato la violazione dell’articolo 6 della Convenzione.

III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELLA DURATA DEI PROCEDIMENTI PRINCIPALI

46. Il ricorrente denuncia la durata del primo, del terzo e del quarto procedimento principale rispetto all’articolo 6 § 1 della Convenzione e, per quanto concerne specificamente il primo ed il quarto procedimento, l’insufficienza dell’indennizzo ottenuto nell’ambito dei ricorsi «Pinto», tenuto conto dell’assenza di riparazione per tutte le gravi accuse che hanno compromesso la sua reputazione.

Sul terzo procedimento

47. La Corte rammenta innanzi tutto che quando un ricorrente lamenta la durata eccessiva di un procedimento nazionale, è necessario che il medesimo abbia adito i giudici nazionali ai sensi della legge Pinto ai fini dell’articolo 35 § 1 della Convenzione (Brusco c. Italia (dec.), n. 69789/01, CEDU 2001 IX).

48. La Corte rileva che il ricorrente non ha proposto tale ricorso in relazione al procedimento nazionale in oggetto.

49. Per tale ragione, la Corte ritiene che questa parte del ricorso sia irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e debba essere rigettata a norma dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

Sul primo e sul quarto procedimento

50. La Corte rammenta la propria giurisprudenza nella causa Cocchiarella c. Italia (sentenza sopra citata, § 84) secondo la quale, in questo tipo di cause, la Corte è tenuta ad accertare, da un lato, se vi sia stato riconoscimento da parte delle autorità, almeno in sostanza, della violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione e, dall’altro, se la riparazione possa essere considerata appropriata e sufficiente.

51. La prima condizione, ossia la constatazione di violazione da parte delle autorità nazionali, non è in discussione, come si evince dalle decisioni delle corti d’appello Pinto di Reggio Calabria e Catanzaro.

52. Quanto alla seconda condizione, la Corte rammenta le caratteristiche necessarie affinché un ricorso interno garantisca una riparazione appropriata e sufficiente; nello specifico, al fine di poter valutare l’importo dell’indennizzo attribuito dai giudici nazionali, la Corte tiene conto, sulla base degli elementi a sua disposizione, di quanto essa avrebbe accordato nella stessa situazione per il periodo preso in considerazione dal giudice nazionale (Cocchiarella, sopra citata, §§ 86-107).

53. La Corte constata che i procedimenti in questione hanno avuto inizio il 6 settembre 1992 ed il 13 marzo 1993 e si sono conclusi rispettivamente il 9 luglio 2002 ed il 17 ottobre 2003. Di conseguenza, la durata dei citati procedimenti è stata rispettivamente di nove anni e dieci mesi per tre gradi di giudizio e di dieci anni e sette mesi per un grado di giudizio.

54. Per quanto concerne il primo procedimento, il ricorrente sostiene di non aver proposto ricorso per cassazione, a causa del fatto che il procedimento dinanzi alla corte d’appello Pinto è durato cinque anni, il che avrebbe privato il rimedio interno della sua efficacia. Anche volendo supporre che il ricorrente fosse per questa ragione esonerato dall’obbligo di esaurimento delle vie di ricorso interne, questo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato.

55. In effetti, la Corte ritiene che la somma complessivamente ottenuta dal ricorrente, ossia 4.500 EUR, superi quella che avrebbe potuto essere accordata, tenuto conto dell’esistenza del ricorso Pinto.

56. Quanto al danno alla reputazione del ricorrente, che fra l’altro avrebbe avuto importanti ripercussioni sulle sue entrate professionali, la Corte ritiene che il danno in questione non possa essere attribuito alla durata del procedimento, bensì alle accuse mosse nei confronti dell’interessato, le quali non hanno condotto ad una dichiarazione di colpevolezza.

57. L’indennizzo ricevuto dal ricorrente può dunque essere ritenuto adeguato e quindi atto a riparare la violazione subita (Garino c. Italia (dec.), nn. 16605/03, 16641/03 e 16644/03).

58. Di conseguenza, il ricorrente non può più considerarsi «vittima» di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione in relazione alla durata del primo procedimento, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.

59. Per le stesse ragioni, il motivo di ricorso relativo al quarto procedimento deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato. In effetti, la Corte ritiene che la somma complessivamente ottenuta dal ricorrente, ossia 27.700 EUR, superi quella che avrebbe potuto essere accordata, tenuto conto dell’esistenza del ricorso Pinto. Alla luce delle ragioni esposte al paragrafo 56 supra, in relazione al motivo di ricorso concernente la durata del procedimento non può essere accordata al ricorrente nessuna riparazione a titolo di risarcimento del danno materiale.

56. Dal momento che gli indennizzi ricevuti dal ricorrente possono essere ritenuti adeguati ed atti a riparare la violazione subita (Garino c. Italia, sopra citata), il ricorrente non può più essere considerato «vittima» di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.

57. Detti motivi di ricorso sono dunque manifestamente infondati e devono essere rigettati in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

IV. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELLA DURATA RAGIONEVOLE DEI PROCEDIMENTI RELATIVI ALLA RIPARAZIONE PER L’INGIUSTA DETENZIONE

58. Il ricorrente lamenta in sostanza l’eccessiva durata dei procedimenti aventi per oggetto la riparazione per l’ingiusta detenzione.

59. Nelle decisioni Grasso c. Italia (dec.), n. 50488/99, 25 giugno 2002 e Mercuri c. Italia (dec.), n. 47247/99, 5 luglio 2001, concernenti casi di «ingiusta detenzione», la Corte ha stabilito che il diritto alla riparazione, che i ricorrenti intendevano far valere a livello nazionale, poteva essere considerato come un diritto di carattere civile ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione e che, di conseguenza, la citata disposizione doveva trovare applicazione (si veda altresì, mutatis mutandis, Georgiadis c. Grecia, 29 maggio 1997, §§ 32-36, Recueil des arrêts et décisions 1997 III).

60. Nel caso di specie, la Corte rileva che il ricorrente non ha adito i giudici «Pinto».

61. La Corte rammenta che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne è finalizzata a fornire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di riparare le violazioni ai medesimi contestate, prima che dette violazioni siano presentate alla Corte (si vedano, tra molte altre, Remli c. Francia, 23 aprile 1996, § 33, Recueil 1996-II, e Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 74, CEDU 1999-V). Questa regola si basa sull'ipotesi, oggetto dell'articolo 13 della Convenzione – con il quale essa presenta strette affinità –, che l'ordinamento interno offra un ricorso effettivo per la dedotta violazione (Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 152, CEDU 2000-XI). Pertanto, essa costituisce un aspetto importante del principio secondo il quale il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione riveste carattere di sussidiarietà rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti dell’uomo (Akdivar ed altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 65, Recueil 1996-IV).

62. Tuttavia l’obbligo derivante dall’articolo 35 è limitato ad un utilizzo normale dei ricorsi verosimilmente efficaci, sufficienti ed accessibili (Sofri ed altri c. Italia (dec.), n. 37235/97, CEDU 2003-VIII). In particolare, la Convenzione impone l’esaurimento dei soli ricorsi che siano al contempo relativi alle violazioni contestate, disponibili ed adeguati. La loro esistenza deve presentare un sufficiente grado di certezza non solo teorica, ma anche pratica e non deve mancar loro l’effettività e l’accessibilità volute (Dalia c. Francia, sentenza del 19 febbraio 1998, Recueil 1998-I).

63. La Corte rammenta che il semplice fatto di nutrire dei dubbi sulle prospettive di successo di un determinato ricorso, che non sia manifestamente destinato a fallire, non costituisce una valida ragione per giustificare il mancato utilizzo di ricorsi interni (Brusco c. Italia (dec.) n. 69789/01, CEDU 2001-IX e Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 70, 17 settembre 2009). Al contrario, sussiste un interesse ad adire il tribunale competente, al fine di consentire a quest’ultimo di sviluppare i diritti esistenti avvalendosi della propria facoltà di interpretazione (si vedano, Ciupercescu c. Romania, n. 35555/03, § 169, 15 giugno 2010 e Iambor c. Romania (n. 1), no 64536/01, § 221, 24 giugno 2008). Inoltre, la Corte osserva che, per quanto possibile, in diritto interno i giudici nazionali sono tenuti a seguire un’interpretazione conforme al diritto convenzionale, come più volte affermato dalla Corte costituzionale italiana, in particolare nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 (si veda Daddi c. Italia (dec.), n. 15476/09, 2 giugno 2009).

64. La Corte ritiene che, allo stato attuale, nulla indica che la legge Pinto non costituisca una via di ricorso da esaurire al fine di porre rimedio alla durata irragionevole del procedimento relativo all’ingiusta detenzione. D’altronde, il ricorrente non ha fornito elementi o citato circostanze particolari, che potessero condurre la Corte ad una diversa conclusione.

65. Di conseguenza, tale motivo di ricorso deve essere rigettato per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

V. SULLE DEDOTTE VIOLAZIONI DEGLI ARTICOLI 5 §§ 1 c) e 5, 8 E 13 DELLA CONVENZIONE E 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

66. Invocando gli articoli 5 §§ 1 c) e 5, 8 e 13 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1, il ricorrente sostiene che la custodia cautelare sofferta nell’ambito dei quattro procedimenti principali fosse ingiusta e la riparazione accordata insufficiente.

67. Libera di qualificare giuridicamente i fatti della causa, la Corte ritiene che le doglianze del ricorrente richiedano un esame sotto il profilo dell’articolo 5 §§ 1 c) e 5, che recita:

Art. 5

« 1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:

(...)

c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso;

(...)

5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione.»

68. Per quanto concerne la detenzione sofferta nell’ambito del secondo procedimento principale, il ricorrente sostiene che, non essendo basata sull’illegalità formale della detenzione, bensì unicamente sulla sua ingiustizia sostanziale, la decisione di accordare la riparazione non è di per sé atta a riparare la violazione dell’articolo 5 § 1 c), implicitamente riconosciuta dalla Corte di cassazione. Infine, la custodia cautelare in carcere avrebbe compromesso gravemente la sua reputazione.

69. La Corte rileva, innanzi tutto, che il 6 aprile 1993, annullando la misura di custodia cautelare in carcere disposta dal giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione ha ritenuto che non sussistessero ragioni plausibili per sospettare il ricorrente della commissione di un reato (paragrafo 12 supra), il che costituisce un implicito riconoscimento di violazione dell’articolo 5 § 1 c). Essa osserva, inoltre, che la corte d’appello di Messina, ai sensi del primo comma dell’articolo 314 CPP (che prevede la riparazione per l’ingiusta detenzione «sostanziale», si veda il paragrafo 25 supra), ha accolto la domanda proposta dal ricorrente il 12 novembre 2003, accordando al medesimo 180.000 EUR per danni morali e materiali. La somma ottenuta dal ricorrente è ben superiore a quella che la Corte avrebbe accordato a titolo di risarcimento del danno morale nel caso di constatazione di violazione dell’articolo 5 § 1 c).

70. In queste condizioni, la compensazione dovuta al ricorrente ai sensi del CPP italiano, a causa dell’assoluzione, coincide con la compensazione alla quale egli avrebbe potuto avere diritto ai sensi dell’articolo 5 § 1 c) della Convenzione (si vedano, mutatis mutandis, N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, § 57, CEDU 2002 X e, Pisano c. Italia [GC], sentenza (cancellazione) del 24 ottobre 2002, n. 36732/97, § 47).

71. Infine, la Corte condivide il parere dei tribunali nazionali, secondo i quali il danno alla reputazione non sarebbe legato alla detenzione sofferta, bensì all’esistenza stessa di un procedimento penale.

72. Di conseguenza, la Corte ritiene che il ricorrente non possa più considerarsi vittima ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, dal momento che le autorità nazionali hanno riconosciuto e riparato la violazione della Convenzione (si vedano, mutatis mutandis, le sentenze Amuur c. Francia del 25 giugno 1996, § 36, Recueil 1996-III e Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999-VI). Questa parte del ricorso è pertanto manifestamente infondata e deve essere rigettata a norma dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

73. Per quanto riguarda la detenzione sofferta nell’ambito del primo, del terzo e del quarto procedimento principale, la Corte constata che il ricorrente sostiene di aver esaurito le vie di ricorso interne, avendo adito le competenti corti d’appello al fine di ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione.

74. La Corte rileva che dal fascicolo non si evince che il ricorrente abbia contestato le ordinanze di custodia cautelare in carcere dinanzi al tribunale della libertà e del riesame (si vedano i paragrafi 4-5, 14 e 17 supra).

75. Essa osserva che il procedimento avente per oggetto la riparazione per l’ingiusta detenzione, in assenza di previo riconoscimento dell’illegalità formale della detenzione, non costituisce un rimedio effettivo finalizzato a contestare le violazioni dell’articolo 5 della Convenzione. In effetti, i giudici preposti alla riparazione per l’ingiusta detenzione non hanno la competenza per dichiarare l’ingiustizia formale di una detenzione, bensì possono solo accordare, ai sensi dell’articolo 314 c. 2 CPP, una riparazione sulla base di una precedente decisione irrevocabile, che attesti l’illegalità della detenzione (si vedano i paragrafi 25-27 supra). Ne consegue che questa parte del ricorso deve essere rigettata per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, a norma dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

76. In relazione al motivo di ricorso avente per oggetto la violazione dell’articolo 5 § 5, la Corte rammenta che tale disposizione è rispettata quando è possibile chiedere riparazione per una privazione della libertà operata in condizioni contrarie ai paragrafi 1, 2, 3 o 4 (Wassink c. Paesi Bassi, 27 settembre 1990, § 38, serie A n. 185-A, e Houtman e Meeus c. Belgio, n. 22945/07, § 43, 17 marzo 2009). Il diritto alla riparazione di cui al paragrafo 5 presuppone dunque che la violazione di uno degli altri paragrafi sia stata accertata da un’autorità nazionale o dalle istituzioni della Convenzione. Al riguardo, l’effettivo esercizio del diritto alla riparazione, garantito dalla disposizione in questione, deve essere assicurato con sufficiente certezza (Stanev c. Bulgaria [GC], n. 36760/06, § 182, CEDU 2012, Ciulla c. Italia, 22 febbraio 1989, § 44, Serie A n. 148, Sakık e altri c. Turchia, 26 novembre 1997, § 60, Recueil 1997 VII, e N.C. c. Italia, sentenza sopra citata, § 49).

77. Nel caso di specie, nell’ambito del secondo procedimento, il ricorrente, ai sensi dell’articolo 314 CPP, ha adito i tribunali nazionali al fine di ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta. Considerate le conclusioni alle quali la Corte è pervenuta ai paragrafi 72-76 supra, essa ritiene che i tribunali nazionali abbiano garantito l’effettivo esercizio del diritto alla riparazione previsto dall’articolo 5 § 5 della Convenzione.

78. Ne consegue che tale motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

79. Per quanto concerne gli altri procedimenti, la Corte rileva che non è stata constatata alcuna violazione dell’articolo 5 §§ 1, 2, 3 o 4, né da parte dei tribunali nazionali, né da parte della Corte. Ne consegue che l’articolo 5 § 5 non trova applicazione al riguardo ed il relativo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

VI. SULLE DEDOTTE VIOLAZIONI DEGLI ARTICOLI 3 E 5 DELLA CONVENZIONE

80. Il ricorrente afferma inoltre che le quattro successive ordinanze di custodia cautelare avevano lo scopo di indurlo a confessare, il che avrebbe comportato la violazione degli articoli 3 e 5 della Convenzione.

81. Gli articoli 3 e 5 recitano:

Art. 3

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

Art. 5

« 1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:

a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;

b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge;

c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso;

d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;

e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;

f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione.

(...)

82. Avendo adito le corti d’appello al fine di ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione, il ricorrente ritiene di aver soddisfatto la condizione dell’esaurimento delle vie di ricorso interne.

83. La Corte rileva che, al fine di contestare la legalità delle quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere, il ricorrente avrebbe dovuto impugnare ogni provvedimento dinanzi alle competenti autorità nazionali (nella fattispecie, il tribunale della libertà e del riesame) ovvero, in assenza di un ricorso interno accessibile ed effettivo, adire la Corte entro sei mesi dalla fine dell’ultimo periodo di custodia cautelare in carcere.

84. La Corte constata, da un lato, che dal fascicolo non si evince che il ricorrente abbia impugnato dinanzi ai tribunali competenti le ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse nell’ambito del primo, del terzo e del quarto procedimento e, dall’altro, che per le ragioni esposte al paragrafo 79 supra il procedimento avente per oggetto la riparazione per l’ingiusta detenzione non è un rimedio effettivo ai fini dell’accertamento dell’ingiustizia «formale» della custodia cautelare in carcere, in assenza di una preventiva decisione irrevocabile, che attesti l’illegalità di tale misura. La Corte ritiene che tale motivo di ricorso debba quindi essere rigettato per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Tuttavia, anche presupponendo che il ricorrente non disponesse, in linea di principio, di nessuna via di ricorso interna al fine di sollevare almeno in sostanza la doglianza in questione, tenuto conto del fatto che il ricorso è stato proposto il 22 marzo 2007 e che il ricorrente è stato messo definitivamente in libertà il 13 ottobre 1993, detto motivo di ricorso è stato proposto oltre il termine di sei mesi e deve essere rigettato a norma dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

VII. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

85. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danni

86. Il ricorrente chiedeva 2.500.000 euro (EUR) a titolo di risarcimento del danno morale e 1.800.000 EUR a titolo di risarcimento del danno materiale subito a causa delle violazioni dei diritti garantiti dagli articoli 3, 5, 6, 8, 13 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1. In particolare egli sottolineava di aver dovuto attendere più di cinque anni «per ottenere misere compensazioni [...] per l’ingiusta custodia cautelare e per l’eccessiva durata dei processi (oltre alla condanna al pagamento di una somma eccessiva per le spese)».

87. Il ricorrente chiedeva altresì 10.000 EUR, al cui pagamento era stato condannato dalla Corte di cassazione Pinto a titolo di rimborso delle spese processuali (si veda il paragrafo 21 supra).

88. Il Governo sostiene che il ricorrente ha chiesto l’equa soddisfazione solo per il motivo di ricorso relativo all’ingiusta detenzione.

89. La Corte constata che, come si evince dal paragrafo 90 [sic] supra, nelle sue osservazioni sull’equa soddisfazione il ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni morali e patrimoniali derivanti non solo dalla durata dei procedimenti per la riparazione per l’ingiusta detenzione, ma anche dalla durata dei procedimenti Pinto e dalla condanna al pagamento delle spese inflitta dalla Corte di cassazione.

90. La Corte rileva altresì che nel caso di specie la concessione di un’equa soddisfazione può basarsi unicamente sulle violazioni dell’articolo 6 della Convenzione (constatate ai paragrafi 31-35 e 38-45 supra).

91. Nella causa Belperio e Ciarmoli c. Italia (n. 7932/04, 21 dicembre 2010), concernente la durata dei procedimenti Pinto, la Corte, considerate le specifiche circostanze delle cause, ha stabilito la necessità di un approccio uniforme, accordando a ciascun ricorrente la somma forfettaria di 200 EUR. Tuttavia, nel caso di specie, tenuto conto delle particolari circostanze della causa e deliberando in via equitativa come previsto dall’articolo 41 della Convenzione, la Corte ritiene equo accordare in totale agli eredi del ricorrente congiuntamente 1.500 EUR per il danno morale.

92. Per quanto concerne il danno materiale cagionato dalla condanna alle spese nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione Pinto (paragrafo 21 supra), in considerazione del fatto che la corte d’appello aveva accordato a titolo di risarcimento del danno morale una somma ritenuta adeguata alla riparazione della violazione dell’articolo 6 della Convenzione, la Corte ritiene ragionevole accordare congiuntamente agli eredi del ricorrente 8.500 EUR.

B. Spese

93. Producendo i relativi documenti giustificativi, il ricorrente chiedeva 71.000 EUR per le spese del procedimento dinanzi alla Corte, nonché un’ulteriore somma di 40.000 EUR a titolo di rimborso delle spese sostenute nell’ambito dei procedimenti nazionali.

94. Il Governo sostiene che le somme richieste sono comunque eccessive e la somma relativa al procedimento dinanzi alla Corte non è pertinente.

95. La Corte rammenta che l’attribuzione delle spese a titolo dell’articolo 41 presuppone che ne siano accertate la realtà e la necessità, e che il loro importo sia ragionevole (Iatridis c. Grecia (equa soddisfazione) [GC], n. 31107/96, § 54, CEDU 2000-XI). Inoltre, le spese di giustizia sono recuperabili solo se si riferiscono alle violazioni constatate (si vedano, ad esempio, Beyeler c. Italia (equa soddisfazione) [GC], n. 33202/96, § 27, 28 maggio 2002; Sahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 105, CEDU 2003-VIII).

96. Nel caso di specie, tenuto conto dei documenti in suo possesso e della propria giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la somma di 2.000 EUR per le spese del procedimento dinanzi alla medesima e la accorda congiuntamente agli eredi del ricorrente.

97. Quanto alla restante parte della richiesta, la Corte rammenta che le spese relative ai procedimenti nazionali devono risultare necessarie, vale a dire che il ricorrente doveva sostenerle per impedire la violazione o per porvi rimedio. Nella fattispecie, tenuto conto della natura delle violazioni dell’articolo 6 della Convenzione constatate ai paragrafi 35 e 45 supra (durata dei procedimenti Pinto e condanna al pagamento delle spese del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione Pinto), la Corte ritiene che il ricorrente non potesse o, secondo il caso, non fosse tenuto a promuovere alcun procedimento per impedire le violazioni o per porvi rimedio e non ha dunque sostenuto alcuna spesa. Di conseguenza, la Corte rigetta la richiesta per il resto.

C. Interessi moratori

98. La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL’UNANIMITA’

1. Dichiara il ricorso ricevibile quanto alle doglianze basate sull’eccessiva durata dei procedimenti Pinto e sulla condanna alle spese del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione Pinto ed irricevibile per il resto;

2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione (durata dei procedimenti Pinto);

3. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione (condanna al pagamento delle spese del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione Pinto);

4. Dichiara

a) che lo Stato convenuto deve versare agli eredi del ricorrente congiuntamente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:

i) 1.500 EUR (millecinquecento euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;

ii) 8.500 EUR (ottomilacinquecento euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno materiale;

iii) 2.000 EUR (duemila euro), più l’importo eventualmente dovuto dagli eredi del ricorrente a titolo di imposta, per le spese;

b) che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;

 

5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto in data 26 novembre 2013, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Stanley Naismith
Cancelliere

Işil Karakaş
Presidente