Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'8 ottobre 2013 - Ricorso n. 18675/09 - xxx c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata dalla dott.ssa Anna Aragona, funzionario linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 18675/09
xxx xxx
contro Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita l’8 ottobre 2013 in una camera composta da:

Danutė Jočienė, presidente,
Guido Raimondi,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato proposto il 30 marzo 2009,

Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,

Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

1.  Il ricorrente, xxx xxx è un cittadino italiano nato nel 1982 e residente a xxx. E’ rappresentato dinanzi alla Corte dall’avv. D.M. Conticchio, di Casamassima.

Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.

A.  Le circostanze del caso di specie

2.  I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue. 

3.  Il 15 maggio 2005 il Procuratore della Repubblica di Bari chiedeva a carico del ricorrente l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza unitamente all’obbligo di soggiorno nel comune di residenza.  Tale richiesta si basava sull’attività criminale del ricorrente, condannato due volte per furto, arrestato il 16 novembre 2004 per rapina ed in seguito ricercato per un’altra rapina. Dalle informazioni raccolte dalla polizia e dai carabinieri (rapporto dei carabinieri datato 14 dicembre 2004) risultava che l’interessato aveva un tenore di vita elevato, pur non avendo un lavoro che gli permettesse di provvedere ai propri bisogni, e che il medesimo frequentava ambienti criminali.  Egli era già stato avvisato dalla polizia il 17 settembre 2004, ma la situazione non era cambiata ed il soggetto risultava essere socialmente pericoloso ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 1423/56.

4.  In un rapporto datato 2 febbraio 2006, la polizia comunicava al tribunale di Bari che il ricorrente era stato denunciato il 25 marzo 2005 per rapina e aggressione. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere del 19 luglio 2005 non era stato eseguito a causa del precario stato di salute dell’interessato.

5.  La prima udienza dinanzi al tribunale di Bari si teneva in data 8 febbraio 2006. Il procuratore della Repubblica chiedeva l’applicazione della misura per un periodo di due anni. L’avvocato del ricorrente si opponeva e depositava il fascicolo sanitario del suo assistito. Da tale fascicolo si evinceva che l’interessato aveva subito un incidente stradale il 18 aprile 2005, a seguito del quale era rimasto ricoverato fino al 18 maggio 2005. Durante la degenza, il ricorrente aveva subito una craniotomia al fine di evacuare un ematoma epidurale ed era stato in coma. Dopo aver esposto le sue conclusioni, l’avvocato del ricorrente lasciava l’aula d’udienza. In seguito il tribunale rinviava l’udienza alla data del 22 marzo 2006, al fine di raccogliere informazioni più recenti sullo stato di salute del ricorrente.

6.  Dal rapporto dei carabinieri del 20 marzo 2006 risultava che nell’incidente del 18 aprile 2005 il ricorrente aveva riportato lesioni molto gravi ed i medici avevano riservato la prognosi a causa del trauma cranico. Dopo qualche settimana di degenza, il ricorrente aveva ripreso conoscenza.  Il medesimo si recava una volta a settimana all’ospedale ed assumeva farmaci per evitare le crisi epilettiche sopravvenute dopo l’incidente. Dopo aver lasciato l’ospedale il ricorrente non aveva commesso nuovi reati; solo raramente era stato visto in compagnia di persone appartenenti ad ambienti criminali.

7.  Poiché l’avvocato del ricorrente non si era presentato all’udienza del 22 marzo 2006, il tribunale designava un avvocato d’ufficio e chiedeva ai carabinieri informazioni supplementari sullo stato di salute del ricorrente. L’udienza successiva veniva fissata in data 3 maggio 2006.

8.  Secondo un rapporto dei carabinieri del 24 aprile 2006, il ricorrente conduceva una vita regolare e non risultava limitato dal punto di vista fisico e mentale.

9.  Con decisione del 3 maggio 2006, basandosi sulle informazioni trasmesse dai carabinieri e ritenendo che il ricorrente fosse socialmente pericoloso, il tribunale di Bari ordinava a suo carico, per un periodo di due anni, l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza unitamente all’obbligo di soggiorno nel comune di residenza (xxx). Il ricorrente era rappresentato dall’avvocato d’ufficio.

Ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 1423/56, tale misura comportava per il ricorrente, in particolare, i seguenti obblighi:

- non trasferire la residenza o il domicilio in un altro comune;

- non allontanarsi dal comune di residenza senza la preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria; 

- restare in casa tra le 22:00 e le 6:00, eccetto in casi di reale necessità, comunicati alle autorità di pubblica sicurezza;

- presentarsi tutte le domeniche all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza.

10.  La decisione in questione veniva notificata al ricorrente il 7 febbraio 2008. In tale data la misura cominciava a produrre i suoi effetti.

11.  Il 18 febbraio 2008 il ricorrente proponeva appello. Egli sosteneva, in primo luogo, che i diritti della difesa non erano stati rispettati, in quanto la citazione all’udienza del 22 marzo 2006 non era stata notificata al difensore, che pertanto era risultato assente. In secondo luogo, il ricorrente non aveva assistito al procedimento a causa del suo stato di salute. In terzo luogo, lo stato di salute del ricorrente si era in seguito aggravato e la sua personalità ne era stata mutata, facendo sì che cessasse la sua pericolosità sociale. A sostegno di tali affermazioni, il ricorrente depositava due relazioni peritali, redatte su sua richiesta nell’ottobre e nel dicembre 2007. Da tali relazioni risultava che il ricorrente soffriva di sindrome post-traumatica (alterazioni della memoria a breve termine, dell’attenzione e dell’umore) e di epilessia cagionata dall’incidente stradale.

12.  Il 25 febbraio 2008 il ricorrente chiedeva la revoca della misura a causa dell’aggravamento del suo stato di salute.  

13.  Con decisione del 2 ottobre 2008, depositata in cancelleria e notificata il 6 ottobre 2008, la corte d’appello di Bari accoglieva il primo gravame del ricorrente, ossia quello basato su un vizio procedurale. Essa rammentava che la presenza del difensore nominato dall’interessato era obbligatoria; il fatto che la citazione all’udienza non gli fosse stata notificata comportava la nullità della procedura, ai sensi degli articoli 179 e 178 c) del codice di procedura penale. Di conseguenza, la corte rinviava il fascicolo al tribunale di Bari ai fini di una nuova decisione e dichiarava cessata l’efficacia della misura.

14.  In data imprecisata, il procedimento riprendeva dinanzi al tribunale di Bari. Il difensore del ricorrente sosteneva che erano trascorsi diversi anni dalla valutazione della pericolosità sociale, la quale non era più attuale. In effetti, a seguito dell’incidente, la personalità del ricorrente era cambiata: egli soffriva di perdite di memoria e di crisi epilettiche e non era più pericoloso. Date le sue condizioni, il ricorrente era stato dichiarato invalido al 100 %. Dal fascicolo si evinceva che la dichiarazione di invalidità era datata dicembre 2008.

15.  Il procuratore della Repubblica dichiarava di voler rinunciare all’applicazione della misura a carico del ricorrente. Il 23 settembre 2009, a seguito della dichiarazione del procuratore della Repubblica, il tribunale di Bari dichiarava inammissibile la proposta di applicazione della misura  di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

B.  Il diritto e la prassi interni pertinenti

16.  La legge n. 1423 del 27 dicembre 1956 prevede diverse misure di prevenzione nei confronti delle «persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità». Nelle linee essenziali detta legge è riassunta nella sentenza Guzzardi c. Italia del 6 novembre 1980 (§§ 46-49, serie A n. 39).

Ai sensi dell’articolo 1, essa si applica, tra l’altro, a coloro dei quali si debba ritenere, per la condotta ed il tenore di vita e sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose o con il favoreggiamento, ovvero mostrino segni esteriori di tendenza a delinquere.   

L’articolo 3 permette di disporre a carico di un tale individuo la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, se del caso unitamente al divieto di soggiorno in un determinato comune o in una determinata provincia ovvero all’obbligo di soggiorno in un determinato comune. L’applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è preceduta da un avviso ufficiale, con il quale la polizia invita l’interessato a tenere una condotta conforme alla legge. Se, nonostante l’avviso, l’interessato non modifica la sua condotta ed è pericoloso per la sicurezza pubblica, la polizia può proporre all’autorità giudiziaria l’applicazione della misura in questione.

L’applicazione di queste misure di prevenzione rientra nella competenza esclusiva del tribunale avente sede nel capoluogo di provincia. Il tribunale delibera entro trenta giorni, in camera di consiglio e con decreto motivato, dopo aver ascoltato il pubblico ministero e l’interessato, il quale può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato (articolo 4, secondo comma). La procura e l’interessato possono proporre ricorso entro dieci giorni, senza effetto sospensivo; la Corte d'appello provvede, in camera di consiglio, con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso (articolo 4, quinto e sesto comma). Avverso quest’ultima decisione è ammessa, con le stesse modalità, la proposizione di un ricorso per cassazione, sul quale la Corte di cassazione si pronuncia in camera di consiglio entro trenta giorni (articolo 4, settimo comma). 

In occasione dell’adozione di una delle misure menzionate dall’articolo 3, il tribunale ne precisa la durata – non inferiore ad un anno e non superiore a cinque (articolo 4, quarto comma) - e fissa le regole che la persona in questione deve osservare (articolo 5, primo comma). L’inosservanza delle regole in questione è sanzionata con una pena privativa della libertà (articolo 9).

MOTIVI DI RICORSO

17.  Invocando gli articoli 5, 5 § 5 e 13 della Convenzione, il ricorrente lamenta:

a) che, considerato l’esito favorevole del procedimento promosso a livello nazionale, la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza era ingiustificata;
b) che è impossibile ottenere una riparazione a livello nazionale, nonostante la decisione della corte d’appello che ha dichiarato cessati gli effetti della misura;
c) che in ogni caso la durata della misura contestata è stata eccessiva (dal 7 febbraio 2008 al 6 ottobre 2008), dal momento che la corte d’appello di Bari ha deliberato oltre il termine di trenta giorni previsto dal diritto nazionale.  

IN DIRITTO

18.  Il ricorrente lamenta che la misura applicata a suo carico è contraria all’articolo 5 della Convenzione e che egli non ha possibilità di ottenere una riparazione ai sensi dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.

L’articolo 5 della Convenzione, nelle parti pertinenti, dispone:

«Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:

(...)

5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione».

A.  Argomenti delle parti

19.  Il Governo sostiene che il ricorrente non è più vittima di una violazione della Convenzione, visto l’esito favorevole del procedimento nazionale. Richiamando la giurisprudenza della Corte (tra le altre, Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, serie A n. 281), il Governo osserva in seguito che l’articolo 5 non è applicabile nel caso di specie e che il ricorso rientra nell’ambito dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. Di conseguenza, l’articolo 5 § 5 della Convenzione non è pertinente.

L’ingerenza nel diritto alla libera circolazione era prevista dalla legge, rispondeva ad uno scopo legittimo ed era proporzionata. Al riguardo, il Governo rammenta che la misura è stata disposta a causa della pericolosità sociale del ricorrente, la quale risultava dai rapporti di polizia e carabinieri, dal momento che l’interessato persisteva nella sua condotta nonostante l’avviso ricevuto dalla polizia. Quanto allo stato di salute dell’interessato all’epoca in cui la misura era stata disposta, dalle informazioni raccolte dal tribunale di Bari si evinceva che il ricorrente viveva a casa, si recava una volta a settimana in ospedale, seguiva una terapia farmacologica e non presentava limitazioni fisiche o psichiche. Non è corretto affermare che nella primavera del 2006 il ricorrente fosse invalido al 100 %, in quanto tale invalidità era stata dichiarata alla fine del 2008, sulla base di perizie eseguite alla fine del 2007. Il Governo osserva in seguito che la decisione della corte d’appello del 2 ottobre 2008 ha unicamente constatato un vizio procedurale, senza rimettere in discussione la fondatezza della misura disposta dal tribunale.

Quanto all’inosservanza del termine di trenta giorni da parte della corte d’appello di Bari, il Governo osserva che detto termine non è categorico e che la sua inosservanza non ha conseguenze giuridiche. Peraltro esso non rende sproporzionata la misura. In ogni caso, la durata del procedimento dinanzi alla corte d’appello non è stata eccessiva.  

20.  Il ricorrente sostiene che la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza rientra nell’ambito dell’articolo 5 della Convenzione e precisa che l’inosservanza delle relative regole di condotta è sanzionata con una pena privativa della libertà. A suo parere, si applica altresì l’articolo 2 del Protocollo n. 4, poiché la misura in questione costituisce un’ingerenza nel diritto di circolare liberamente.

Nonostante l’esito favorevole del procedimento, il ricorrente ritiene di essere ancora vittima di una violazione della Convenzione, essendo stato sottoposto per otto mesi alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Detto periodo è lungo e dipende dal fatto che il termine di trenta giorni, previsto per la decisione, non è stato rispettato dalla corte d’appello di Bari. Si tratta di un problema indipendente dalla durata del procedimento. D’altronde, il ricorso proposto innanzi al tribunale di Bari non aveva effetto sospensivo.

Il ricorrente sostiene in seguito che la decisione adottata dalla corte d’appello di Bari di annullare il procedimento in questione a causa della mancata citazione dell’avvocato di fiducia rende illegale la misura in questione. In ogni caso, questa misura non avrebbe dovuto essere disposta dal tribunale di Bari a causa delle sue condizioni di salute. Da un lato, il tribunale di Bari avrebbe a torto affidato ai carabinieri il compito di raccogliere le informazioni sul suo stato di salute. Dall’altro, se fosse stato regolarmente citato all’udienza del 22 marzo 2006, l’avvocato di fiducia avrebbe potuto produrre le relazioni peritali e sostenere che il ricorrente era stato dichiarato invalido.

B.  Valutazione della Corte

21.  La Corte deve dapprima appurare se tale disposizione è applicabile al caso di specie. Essa rammenta innanzi tutto che, proclamando il «diritto alla libertà», il paragrafo 1 dell’articolo 5 riguarda la libertà fisica della persona. Quindi non concerne le semplici restrizioni alla libertà di circolazione; queste sono disciplinate dall’articolo 2 del Protocollo n. 4. Per determinare se un individuo viene «privato della libertà» ai sensi dell’articolo 5, occorre partire dalla situazione concreta e tener conto di un insieme di criteri, come il genere, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione della misura considerata. Tra privazione e restrizione di libertà sussiste solo una differenza di grado o intensità, non di natura o sostanza (Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, §§ 92-93).

22.  A parere della Corte, gli obblighi imposti al ricorrente non hanno comportato una privazione di libertà ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione, ma semplici restrizioni alla libertà di circolare (si veda, Raimondo c. Italia, serie A n. 281-A, § 39, 22 febbraio 1994 e, mutatis mutandis, Villa c. Italia, n. 19675/06, §§ 41-43, 20 aprile 2010). Ne consegue che i motivi di ricorso basati sull’articolo 5 della Convenzione sono incompatibili ratione materiae con la Convenzione e devono essere rigettati a norma dell’articolo 35 §§ 3 e 4.

23.  Dal momento che l’articolo 5 non è applicabile, il motivo di ricorso in questione deve essere esaminato sotto il profilo dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. Detta disposizione prevede:

« 1.  Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza.

(...)

3.  L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.

(...) »

24.  La Corte non condivide l’argomento del Governo secondo il quale il ricorrente non è più «vittima» ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione. In effetti, una decisione o una misura favorevole al ricorrente è in linea di principio sufficiente a privarlo della qualità di «vittima» solo quando le autorità nazionali abbiano riconosciuto, esplicitamente o sostanzialmente, la violazione della Convenzione e vi abbiano posto rimedio (Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999 VI ; Jensen c. Danimarca (dec.), n. 48470/99, CEDU 2001 X). E’ vero che il tribunale di Bari ha deciso, il 23 settembre 2009, di non applicare la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Tuttavia, il ricorrente era già stato sottoposto per otto mesi alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza unitamente all’obbligo di soggiorno nel comune di residenza. Con la decisione del 2 ottobre 2008 la corte d’appello di Bari ha riconosciuto la sussistenza di un vizio di forma nel procedimento di primo grado ed ha dichiarato cessati gli effetti della misura in questione, senza pronunciarsi sulla misura in se stessa. In tali circostanze, la Corte ritiene che le autorità nazionali non abbiano riconosciuto la violazione dedotta dal ricorrente, né che vi abbiano posto rimedio. Questi può dunque ritenersi vittima di una violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4.

25.  Secondo la giurisprudenza della Corte ogni misura che limita il diritto alla libertà di circolazione deve essere prevista dalla legge, perseguire uno degli scopi legittimi menzionati al terzo paragrafo dell'articolo 2 del Protocollo n. 4 e mantenere un giusto equilibrio tra l'interesse generale e i diritti dell'individuo (Baumann c. Francia, n. 33592/96, § 61, CEDU 2001-V, e Riener c. Bulgaria, n. 46343/99, § 109, 23 maggio 2006).

26.  Nel caso di specie, la misura in questione aveva una base legale nel diritto italiano. Il tribunale di Bari ha ritenuto che essa fosse necessaria a fronte della pericolosità sociale del ricorrente. Quest’ultima è stata accertata sulla base dei reati per i quali l’interessato era stato condannato, nonché sulla base di ulteriori elementi, quali i fatti commessi dopo la condanna, l’assenza di un lavoro che gli consentisse di provvedere al suo sostentamento e le sue frequentazioni. Nel loro complesso, tali elementi hanno condotto le autorità a pensare che l’interessato fosse incline a delinquere. Le misure restrittive della sua libertà di circolazione erano dunque necessarie al «mantenimento dell’ordine pubblico», nonché alla «prevenzione dei reati».

Tali considerazioni non possono essere messe in discussione dalla decisione della corte d’appello di Bari, con la quale è stata riconosciuta l’esistenza di un vizio di forma nel procedimento di primo grado.  Si tratta infatti di una decisione che non chiama in causa ex tunc la base legale della misura controversa. La Corte richiama sul punto la propria giurisprudenza relativa all’articolo 5 della Convenzione, le cui garanzie sono più rigide, nei casi in cui una misura privativa della libertà venga successivamente revocata (Benham c. Regno Unito, 10 giugno 1996, §§ 43 e 46, Recueil des arrêts et décisions 1996 III; Hokic e Hrustic c. Italia, n. 3449/05, §§ 23-25; Khoudoyorov c. Russia, n. 6847/02, §§ 128-129, CEDU 2005 X (estratti)), giurisprudenza che si applica a fortiori al caso di specie. Per la Corte, la decisione del tribunale di Bari, che disponeva l’applicazione della misura, costituiva una base legale per la restrizione dei diritti del ricorrente, fino alla decisione della corte d’appello di Bari. La sola circostanza che la decisione del tribunale sia stata successivamente revocata non pregiudica, in quanto tale, la legalità dell’ingerenza per il periodo precedente. In effetti, la decisione del tribunale era prima facie valida ed efficace fino al momento in cui è stata revocata dall’autorità giudiziaria di grado superiore.

D’altronde, il ricorrente non ha lamentato ritardi nell’esecuzione della decisione, con la quale si dichiarava la cessazione dell’efficacia della misura (a contrario, Raimondo sopra citata, §§ 39-40).

27.  Riguardo alla proporzionalità della misura contestata, la durata di quest’ultima si giustifica solo per il lasso di tempo necessario al conseguimento dell’obiettivo perseguito (Villa c. Italia, n. 19675/06, § 47, 20 aprile 2010 e, mutatis mutandis, Napijalo c. Croazia, n. 66485/01, §§ 78-82, 13 novembre 2003, e Gochev c. Bulgaria, n. 34383/03, § 49, 26 novembre 2009). D’altronde, seppure inizialmente giustificata, una misura restrittiva della libertà di circolazione di una persona può diventare sproporzionata e violare i diritti della medesima, qualora si protragga automaticamente per un lungo periodo (Luordo c. Italia, n. 32190/96, § 96, CEDU 2003-IX, Riener sopra citata, § 121, e Földes e Földesné Hajlik c. Ungheria, n. 41463/02, § 35, 31 ottobre 2006).

Nel caso di specie, la durata della misura contestata è stata fissata dal tribunale di Bari a due anni. La misura è stata applicata al ricorrente a partire dal 7 febbraio 2008 ed i suoi effetti sono cessati a seguito della decisione della corte d’appello di Bari del 2 ottobre 2008, notificata il 6 ottobre 2008. In linea di principio, l’autorità giudiziaria nazionale avrebbe dovuto rispettare il termine di trenta giorni previsto dalle disposizioni di diritto interno ai fini della decisione, termine che cominciava a decorrere dalla data dell’appello, il 18 febbraio 2008. A parere della Corte, come già dichiarato riguardo alla violazione del diritto ad un ricorso effettivo (Messina c. Italia (n. 2), n. 25498/94, §§ 94-96, CEDU 2000 X), la semplice inosservanza del termine di legge non pregiudica automaticamente il conseguimento di un giusto equilibrio. Essa osserva al riguardo che, nel caso di specie, la misura è stata applicata per otto mesi e che si è conclusa prima della scadenza inizialmente fissata. A parere della Corte detta situazione non ha pregiudicato il giusto equilibrio.

Quanto all’argomento del ricorrente secondo il quale la misura non avrebbe dovuto essere disposta nel 2006, in quanto egli era già invalido, la Corte rileva che lo stato di salute dell’interessato è peggiorato solo dopo la decisione emessa dal tribunale di Bari il 3 maggio 2006. In effetti, le relazioni peritali redatte su richiesta del ricorrente, nelle quali è attestata la gravità del suo stato di salute, recano la data dell’ottobre e del dicembre 2007. Inoltre, solo nel dicembre 2008 il ricorrente è stato riconosciuto invalido al 100 %. Di conseguenza, anche qualora avesse assistito all’udienza del 22 marzo 2006, l’avvocato di fiducia del ricorrente non avrebbe potuto far valere il riconoscimento dell’invalidità al 100 % del suo assistito, né depositare le relazioni peritali in questione. Tenuto conto di tali elementi, la Corte ritiene che la misura in questione non fosse sproporzionata. 

28.  Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

29.  Il ricorrente sostiene altresì la violazione dell’articolo 13 della Convenzione, in quanto il medesimo non dispone di un ricorso finalizzato alla richiesta di riparazione dinanzi alle autorità giudiziarie nazionali. L’articolo 13 della Convenzione dispone:

«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (...) Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»

30.  La Corte rammenta che l'articolo 13 non può essere interpretato come obbligo di istituire un ricorso interno per qualsivoglia doglianza, sia pure ingiustificata, che un individuo può presentare in base alla Convenzione: deve trattarsi di un motivo di ricorso difendibile rispetto a quest'ultima (Boyle et Rice c. Regno Unito, serie A n. 131, § 52, 24 aprile 1988).

 Nella presente causa, la Corte ha appena concluso che le doglianze del ricorrente basate sull’articolo 2 del Protocollo n. 4 sono  manifestamente infondate. Una doglianza non sfugge tuttavia all’esame ai sensi dell’articolo 13 solo perché la Corte l’ha dichiarata manifestamente infondata sotto il profilo della clausola normativa invocata  (Al-Shari e altri c. Italia (dec.), n. 57/03, 5 luglio 2005; si veda altresì, mutatis mutandis, Boyle e Rice, sopra citata, § 54). La Corte non ritiene di dover fornire una definizione astratta del concetto di difendibilità, bensì deve stabilire, alla luce dei fatti e della natura del problema o dei problemi giuridici in causa, se ogni violazione alla base di un motivo di ricorso presentato ai sensi dell’articolo 13 fosse difendibile (Boyle e Rice, sopra citata, § 55). Le considerazioni della Corte sugli elementi di fatto in base ai quali sono state respinte le doglianze del ricorrente sotto il profilo della clausola normativa invocata la inducono di conseguenza a concludere, sotto il profilo dell'articolo 13, che non si tratta di motivi di ricorso difendibili  (si veda, ad esempio e tra molte altre, Walter c. Italia (dec.), n. 18059/06, 11 luglio 2006, e Al-Shari e altri, decisione sopra citata). Pertanto, nel caso di specie, non trova applicazione l’articolo 13.

31. Ne consegue che il presente motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 § 4.

 

Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,

Dichiara il ricorso irricevibile. 

Danutė Jočienė
Presidente

Stanley Naismith
Cancelliere