Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 9 luglio 2013 - Ricorso n. 35887/11 - De Santis e Olanda c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Anna Aragona, funzionario linguistico. Revisione a cura di Martina Scantamburlo.
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 35887/11

Anna Lisa DE SANTIS e OLANDA contro Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 9 luglio 2013 in una camera composta da:
Danutė Jočienė, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato proposto il 31 maggio 2011,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,
Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

1. I ricorrenti, sig. Mario de Santis (il primo ricorrente), sig.ra Carmela Olanda (la seconda ricorrente), e sig.ra Anna Lisa de Santis (la terza ricorrente), sono cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1944, nel 1955 e nel 1986. Risiedono a Verona. I primi due ricorrenti sono i genitori ed i tutori della terza ricorrente. Sono rappresentati dinanzi alla corte dall’avv. A. Mascia, del foro di Strasburgo.

2. Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, P. Accardo.

Le circostanze del caso di specie

3. I fatti della causa, così come esposti dai ricorrenti, si possono riassumere come segue.

1. L’ospedalizzazione della prima ricorrente

4. Il 18 ottobre 1986 la prima ricorrente, la quale era alla ventinovesima settimana di gravidanza, manifestava dei sintomi di parto prematuro. Alle sei del mattino la medesima si recava presso l’ospedale di Borgo Roma (di seguito «l’ospedale») a causa di dolori al basso ventre. La suddetta veniva ricoverata. Il dottor L.Z., di guardia in ospedale, non riteneva necessario effettuare un’ecografia, né una verifica del ritmo cardiaco del feto. L’ipotesi di un parto cesareo non veniva presa in considerazione. Alle ore 18.50 avveniva la rottura delle acque e alle 19.55 la ricorrente dava alla luce una bambina (la terza ricorrente), con parto naturale.

5. Al momento del parto non era presente alcun pediatra. Le infermiere collocavano la terza ricorrente in incubatrice e la conducevano al reparto di pediatria. In seguito, la neonata veniva trasferita al reparto prematuri. Il giorno successivo, a partire dalle 10 secondo quanto riferito dai ricorrenti, la respirazione della neonata veniva stabilizzata mediante un insufflatore automatico.

6. Il 27 ottobre i medici riscontravano nella neonata i sintomi di un’infezione dovuta al batterio Klebsiella. Il 5 novembre gli esami medici eseguiti consentivano di accertare che la neonata aveva subito lesioni cerebrali a causa di un’emorragia intraventricolare bilaterale e subependimale. L’11 novembre 1986 i primi due ricorrenti venivano informati dal primario del reparto di neonatologia delle condizioni della figlia. Questi avrebbe spiegato ai ricorrenti che dette condizioni erano dovute ad una serie di errori commessi durante il parto.

7. La terza ricorrente, che ha attualmente ventisei anni, è portatrice di un handicap grave. Ha bisogno costante di assistenza e di riabilitazione continua, quest’ultima finalizzata a prevenire un peggioramento del suo stato. Le è stata riconosciuta una percentuale di invalidità del 100 % a causa del danno neurologico che pregiudica la motilità delle gambe e del grave handicap mentale irreversibile.

2.  Il procedimento civile di primo grado

8. Il 25 gennaio 1993, i primi due ricorrenti, a loro nome e per conto della figlia, promuovevano un procedimento di risarcimento danni dinanzi al tribunale di Verona (di seguito «il tribunale») contro l’organismo per i servizi sanitari («ULSS») n. 25, messo in liquidazione nel 1992, contro due medici (il ginecologo ed il pediatra) ed una compagnia di assicurazioni. Nel corso del procedimento, il commissario incaricato della liquidazione della ULSS n. 25 veniva citato a comparire.
In particolare, i ricorrenti sostenevano esservi state disfunzioni e problemi di coordinamento tra i reparti dell’ospedale, nonché un ritardo nella somministrazione di cure alla terza ricorrente. I ricorrenti affermavano di aver speso quasi 9.000 euro (EUR) al mese dopo la nascita della figlia, di aver dovuto vendere il loro appartamento e prendere in prestito denaro dalla famiglia. In concreto, i ricorrenti chiedevano la corresponsione delle seguenti somme:

  • a titolo di risarcimento per il danno subito dalla terza ricorrente: 7.400.000.000 lire italiane (ITL) (circa 3.821.000,00 EUR), di cui 2.000.000.000 ITL (circa 1.033.000 EUR) per il danno biologico; 1.500.000.000 ITL (circa 775.000 EUR) per il danno morale; 3.000.000.000 ITL (circa 1.550.000 EUR) a titolo di rimborso delle spese sostenute e da sostenere per cure, assistenza e mantenimento;
  • a titolo di risarcimento per il danno subito dalla seconda ricorrente: 500.000.000 ITL (circa 258.000 EUR) per il danno morale e 300.000.000 ITL (circa 155.000 EUR) per il mancato guadagno professionale;
  • a titolo di risarcimento per il danno subito dal ricorrente: 500.000.000 ITL (circa 258.000 EUR) per il danno morale.

I ricorrenti chiedevano inoltre il versamento di una somma provvisionale, in attesa della decisione sul merito, ai sensi dell’articolo 700 del codice di procedura civile.

9. Il 6 febbraio 1997 il giudice competente si pronunciava sulla questione dell’acconto, ordinando alla ULSS n. 25 di versare a titolo provvisionale 50.000.000 ITL (circa 26.000 EUR) ai ricorrenti e di pagare 12.000.000 ITL (circa 6.200 EUR) al mese, per un periodo di dodici mesi, con riserva di riesaminare la situazione, per i costi delle terapie eseguite in ambito ospedaliero.

10. A seguito di richiesta presentata dai ricorrenti il 19 maggio 1997, il 4 giugno 1997, lo stesso giudice ordinava alla ULSS n. 25 di versare un acconto di 18.000.000 ITL (circa 9.300 EUR). Il 4 dicembre 1997 veniva versata ai ricorrenti una somma di 6.000.000 ITL (circa 3.100 EUR).

11. Con sentenza del 19 aprile 2000, il tribunale, sulla base delle perizie depositate nel corso del processo, riteneva che ai due medici in questione dovesse essere imputata una colpa grave e che vi fosse un nesso di causalità tra la loro condotta e l’handicap della terza ricorrente. In primo luogo, il responsabile del reparto di neonatologia non era presente al momento del parto; il medesimo non aveva provveduto a stabilizzare la respirazione della neonata, né aveva effettuato un’ecografia durante le sue prime ore di vita. Dal fascicolo si evinceva che fino alle 21.00, vale a dire oltre un’ora dopo la nascita, non era stato eseguito alcun esame sulla minore. L’unico pediatra di turno era impegnato ad eseguire un intervento d’urgenza su un altro paziente e questo ritardo nella presa in carico terapeutica della neonata poteva aver aumentato il rischio di emorragia cerebrale. Inoltre, durante la giornata, il pediatra in questione non si era preoccupato delle condizioni della ricorrente. Quanto al ginecologo, questi non aveva subito trasferito la neonata in pediatria. Secondo i pareri medici depositati dai periti, le condizioni della minore erano state causate in secondo luogo dal batterio Klebsiella, ossia da un’infezione ospedaliera che aveva colpito la neonata nove giorni dopo la nascita. Non è stato tuttavia dimostrato che sia stata quest’infezione a provocare l’emorragia della terza ricorrente. Soprattutto non era facile determinare il momento dell’insorgenza dell’emorragia, dato che alla nascita non era stato effettuato un monitoraggio ecografico. Secondo il tribunale, l’ipotesi più probabile era che l’emorragia fosse sopravvenuta dopo la prima settimana di vita e che potesse essere stata provocata dall’infezione di Klebsiella. In conclusione, il tribunale riteneva che l’handicap della terza ricorrente fosse in parte dovuto al ritardo nell’assistenza da parte dei medici al momento del parto e nelle prime ore di vita. Alla loro responsabilità si aggiungeva quella della ULSS n. 25 (rappresentata dal commissario liquidatore), non solo in quanto datore di lavoro ma anche per non aver organizzato efficacemente il reparto pediatrico. Presso quest’ultimo era in servizio un solo pediatra, il quale si doveva occupare anche delle urgenze. Il tribunale condannava i due medici, l’ULSS n. 25 e la compagnia d’assicurazioni a pagare un risarcimento danni ai ricorrenti.

12.In relazione alle somme accordate, il tribunale rilevava in primo luogo che non era stata richiesta alcuna somma per il danno subito dai fratelli e dalle sorelle della terza ricorrente.

13. In relazione al danno subito dalla terza ricorrente, il tribunale prendeva atto che la medesima era invalida al 100 % e necessitava di assistenza costante, senza prospettive di miglioramento. Occorreva risarcire il danno biologico e accordare 8.934.000 ITL per ogni punto percentuale di invalidità, ossia 893.400.000 ITL (circa 461.500 EUR). Quanto alla perdita della capacità lavorativa (lucrum cessans), non sussistevano elementi che indicassero quale tipo di lavoro avrebbe potuto svolgere la terza ricorrente. Tuttavia, tenuto conto dell’ambiente sociale e familiare, era presumibile che la medesima avrebbe seguito gli studi universitari, iniziando probabilmente a lavorare all’età di 24 anni, dopo la laurea. Il tribunale riteneva che l’interessata avrebbe percepito una somma corrispondente al triplo della pensione sociale. Questa somma doveva essere moltiplicata per un coefficiente attuariale corrispondente all’età di inizio dell’attività professionale, nella fattispecie 24 anni, quindi un coefficiente di 19,074. L’importo ottenuto doveva a sua volta essere moltiplicato per il grado di invalidità (100 %). Si otteneva così la somma di 458.084.999 ITL (circa 236.600 EUR). La somma doveva in seguito essere adattata in funzione della probabile durata della vita professionale, che per le donne è generalmente più breve rispetto agli uomini. La somma così adattata doveva essere poi capitalizzata sulla base dell’età attuale della ricorrente, ossia quattordici anni. Per effetto della capitalizzazione anticipata la somma in questione era pari a 231.905.530 ITL (120.000 EUR) ed a questa andavano aggiunti gli interessi maturati a partire dalla data della sentenza, trattandosi di un danno futuro. Quanto al damnum emergens, vale a dire al costo dell’assistenza continua, passata e futura, il tribunale osservava che i genitori stavano assistendo e mantenendo la terza ricorrente e che questa situazione si sarebbe protratta fino al compimento dell’età di 24 anni. A partire dal suo venticinquesimo compleanno, la terza ricorrente avrebbe percepito mensilmente la soma di 3.000.000 ITL (circa 1.550 EUR), la quale moltiplicata per il coefficiente attuariale relativo ad una persona dell’età di 24 anni (ossia 19,074) dava un risultato di 686.664.000 ITL (circa 355.000 EUR). Trattandosi di un danno futuro, gli interessi dovevano essere calcolati dal giorno della decisione. Il tribunale accordava altresì 446.700.000 ITL (circa 231.000 EUR) a titolo di risarcimento del danno morale, tenuto conto delle sofferenze presenti e future. Infine dovevano essere detratti gli acconti già versati.

14. In relazione al danno subito dai primi due ricorrenti, il tribunale accordava loro 80.000.000 ITL cadauno (circa 41.300 EUR) più interessi, a titolo di risarcimento del danno morale. Quanto alla domanda di risarcimento del danno materiale, il tribunale riteneva che in parte essa non fosse documentata ed in parte il suo nesso con l’oggetto della controversia non fosse suffragato da elementi di prova.

15. Si evince dal fascicolo che il 5 luglio 2001 veniva versato ai ricorrenti un acconto di 3.481.186.159 ITL (ossia 1.797.882,61 EUR), di cui 147.225,18 EUR a beneficio dei genitori.

3.  Il procedimento d’appello

16. Le parti convenute proponevano appello avverso la decisione del  tribunale di Verona. In particolare, i medici affermavano che l’handicap della minore era stato provocato da un’infezione ospedaliera. I ricorrenti chiedevano il versamento di 150.000.000 ITL cadauno (circa 77.500 EUR) a titolo di risarcimento del danno morale e di 200.000 000 ITL cadauno (103.000 EUR) per danni «biologici».

17. Con sentenza del 16 marzo 2005, la corte d’appello di Trento accoglieva l’appello dei medici. La corte basava le sue conclusioni sugli elementi di prova raccolti nel corso del procedimento, quali le perizie mediche. Essa constatava che vi era stato un errore di lettura della cartella clinica della neonata, in quanto non era vero che la medesima non avesse ricevuto cure sino alle 21.00. In effetti, alle 21.00 i risultati degli esami e delle analisi eseguiti sulla neonata erano già disponibili. Non vi era dunque stato un ritardo nell’assistenza medica. Sia le cure somministrate alla terza ricorrente, sia il controllo medico cui la medesima veniva sottoposta dopo la nascita erano stati adeguati. Tutti i periti erano giunti alla conclusione che non vi fosse colpa medica ed avevano dichiarato che l’emorragia cerebrale presentava caratteristiche incompatibili con le emorragie che possono insorgere al momento del parto. Non vi era alcun nesso di causalità tra la condotta dei due medici e l’emorragia della terza ricorrente, cagionata da un’infezione ospedaliera, di cui l’ospedale era il solo responsabile. In conclusione, si trattava esclusivamente di una responsabilità contrattuale dell’ospedale, che non aveva dimostrato di aver adottato misure preventive a garanzia di un’adeguata igiene.

18. La corte d’appello condannava di conseguenza il commissario liquidatore e la ULSS n. 25 a pagare il risarcimento danni, previa detrazione degli acconti versati.

19. Riguardo alle richieste dei ricorrenti, la corte d’appello accordava a titolo di risarcimento del danno morale un importo superiore a quello determinato in primo grado (120.000.000 ITL cadauno, ossia 61.974,83 EUR cadauno). Essa dichiarava inammissibile la domanda di risarcimento per i danni biologici, in quanto questa non era stata presentata in primo grado.

4.  Il procedimento di cassazione

20. Le parti convenute ed i ricorrenti presentavano ricorso per cassazione. Questi ultimi contestavano, in particolare, la conclusione della corte d’appello relativa all’assenza di nesso di causalità tra la condotta dei medici e l’handicap della terza ricorrente. Inoltre, i primi due ricorrenti contestavano la dichiarazione di inammissibilità della loro domanda di risarcimento del danno «biologico» pronunciata in secondo grado e lamentavano altresì la circostanza che il danno materiale non fosse stato risarcito. 

21. Con sentenza del 1o dicembre 2010 la Corte di cassazione rigettava i ricorsi, affermando che la corte d’appello aveva motivato in modo logico e corretto tutti i punti controversi. Essa riteneva in particolare che la corte d’appello avesse a ragione dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno biologico. Poiché la corte d’appello non aveva esaminato la questione del risarcimento del danno materiale, per la Corte di cassazione quest’ultima era nuova e quindi inammissibile.

5.  Il procedimento «Pinto»

22. Il 31 maggio 2011 i ricorrenti depositavano presso la corte d’appello di Trento una domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata del procedimento, ai sensi della legge Pinto. Essi chiedevano il risarcimento dei danni morali cagionati dall’eccessiva durata del procedimento (diciassette anni e undici mesi), che quantificavano in 22.000 EUR cadauno.

23. Con decisione del 4 ottobre 2011 la corte d’appello di Trento accordava ai primi due ricorrenti la somma di 9.250 EUR cadauno e di 6.000 EUR alla terza ricorrente.

6.  La situazione della terza ricorrente

24. Lo stato di salute della terza ricorrente richiede riabilitazione, cure di  kinesiterapia, ortofonia per il linguaggio, psicologia di sostegno nonché riabilitazione in acqua. La ricorrente ha bisogno altresì di ippoterapia, calzature ortopediche, esami oftalmologici e occhiali.

25. I ricorrenti riferiscono di aver speso, a partire dal 2001, la somma di 9.000 EUR mensili per pagare le cure mediche. Tra il 2002 ed il 2005 si sono recati all’estero per seguire altre cure. Essi avrebbero speso 301.000 EUR. Hanno chiesto 150.000 EUR e 60.000 EUR ai loro familiari, somme che non hanno potuto restituire. I ricorrenti hanno dovuto vendere il loro appartamento e la seconda ricorrente ha dovuto lasciare il suo lavoro per occuparsi della terza ricorrente. 

MOTIVI DI RICORSO

26. I ricorrenti affermano che le autorità italiane hanno disatteso gli obblighi positivi derivanti dall’articolo 2 § 1 della Convenzione e lamentano, in sostanza, il fatto che l’handicap della terza ricorrente sia stato cagionato dalle negligenze mediche commesse dai servizi sanitari dell’ospedale di Borgo Roma e dall’inosservanza, da parte di questi ultimi, degli standard medici in materia di cure dispensate ai neonati. Essi contestano, inoltre, la violazione dell’obbligo procedurale di protezione del diritto alla vita, derivante dalla disposizione invocata. Riferendosi alla causa Oyal c. Turchia (n. 4864/05, 23 marzo 2010), essi chiedono alla Corte di condannare lo Stato italiano a prestare assistenza medica completa e gratuita alla terza ricorrente per il resto della vita.

IN DIRITTO

27. I ricorrenti affermano che le autorità italiane hanno disatteso gli obblighi positivi derivanti dall’articolo 2 della Convenzione. Ai sensi del primo periodo dell’articolo 2,

«Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge.»

A. Argomenti delle parti

1. Tesi del Governo

28. Riferendosi alla causa Calvelli e Ciglio (Calvelli e Ciglio c. Italia [GC], n. 32967/96, CEDU 2002 I), il Governo rammenta che la Corte ha già concluso che il sistema italiano offre alle persone sottoposte alla sua giurisdizione dei mezzi, che sul piano teorico rispondono alle esigenze dell’articolo 2. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno promosso un procedimento civile, che ha condotto all’individuazione delle cause e delle responsabilità, nonché al risarcimento degli interessati. Questi ultimi non sono quindi più vittime di una violazione della Convenzione.

29. Più specificamente, il Governo osserva che non spetta alla Corte riesaminare la cartella clinica, mettendo in discussione le conclusioni dei giudici nazionali, i quali hanno ritenuto che lo stato della terza ricorrente fosse stato cagionato da un’infezione ospedaliera, di cui era responsabile l’ospedale. D’altronde il problema delle infezioni ospedaliere è da tempo oggetto di numerose disposizioni di legge e di circolari del ministero della Salute. All’epoca della nascita della minore era in vigore la circolare ministeriale n. 52/1985, che prevedeva l’istituzione presso ogni ospedale di un comitato tecnico responsabile della lotta contro le infezioni ospedaliere, nonché l’organizzazione da parte delle regioni di una rete di formazione specifica del personale sanitario a vari livelli. 

30. Il Governo osserva inoltre che la corte d’appello ha accordato un risarcimento superiore a quello determinato dal tribunale. I ricorrenti sono dunque stati risarciti, nella misura in cui le loro richieste sono state giudicate ammissibili.

31. In relazione alla durata del procedimento avente per oggetto la richiesta di risarcimento danni, il Governo osserva, da un lato, che i ricorrenti hanno percepito vari acconti nel corso dello stesso. Dall’altro, essi sono stati risarciti ai sensi della legge Pinto, conformemente alle tabelle previste dalla Corte.

32. In conclusione, il Governo chiede alla Corte di dichiarare irricevibile il ricorso.

2. Tesi dei ricorrenti

33. I ricorrenti rimproverano ai servizi sanitari dell’ospedale di Borgo Roma di aver commesso negligenze mediche, che hanno messo in pericolo la vita della terza ricorrente e rientrano nell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione.

34. Inoltre, essi ritengono che il procedimento nazionale non fosse conforme alle esigenze dell’articolo 2 della Convenzione sotto tre aspetti. In primo luogo, il procedimento in questione non avrebbe condotto all’individuazione delle vere cause dello stato della terza ricorrente, di modo che i veri responsabili non hanno dovuto rispondere delle loro azioni. I ricorrenti rammentano al riguardo che i giudici nazionali, ad eccezione dei giudici di primo grado, sono giunti alla conclusione che la responsabilità fosse unicamente dell’ospedale e chiedono alla Corte di riesaminare la cartella clinica della terza ricorrente e di accertare la responsabilità personale dei medici. In secondo luogo, la durata del procedimento in questione è stata eccessiva. Ne consegue che gli interessati sono stati risarciti con notevole ritardo. Tale durata è indipendente dalla violazione del termine ragionevole, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, risarcita a livello nazionale in applicazione della legge Pinto. In ultimo luogo, i ricorrenti sostengono di non essere stati totalmente risarciti, osservando al riguardo che alcune richieste dei primi due ricorrenti (danno biologico e danno materiale) sono state rigettate. Riguardo alla terza ricorrente, i giudici nazionali avrebbero risarcito le spese di assistenza solo per un periodo di diciannove anni, ritenendo implicitamente che l’aspettativa di vita dell’interessata fosse pari a trentaquattro anni. Tale somma è insufficiente ed i ricorrenti chiedono alla Corte di condannare le autorità italiane a prestare assistenza medica completa e gratuita alla terza ricorrente per il resto della sua vita.

B. Valutazione della Corte

35. La Corte osserva che la terza ricorrente è portatrice di un grave handicap. Essa rammenta di aver esaminato, in alcune cause, i pregiudizi recati all’integrità fisica sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione (si veda, tra le altre, Csoma c. Romania, n. 8759/05, §§ 41-43, 15 gennaio 2013). Essa non ha tuttavia escluso che l’articolo 2 della Convenzione possa trovare applicazione quando la persona non sia deceduta (paragrafo 36 infra) e anche nel caso di grave malattia (paragrafo 37 infra).

36. La Corte ha effettivamente esaminato più volte i motivi di ricorso basati sull’articolo 2 in casi nei quali i ricorrenti non erano deceduti per le conseguenze delle condotte contestate (in particolare nelle cause L.C.B. c. Regno Unito, 9 giugno 1998, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1998 III; Yaşa c. Turchia, 2 settembre 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998 VI; Makaratzis c. Grecia [GC], n. 50385/99, CEDU 2004 XI). Tuttavia solo in circostanze eccezionali le condotte addebitate allo Stato o ai suoi agenti costituiscono una violazione dell’articolo 2 della Convenzione, nel caso in cui la vittima non sia deceduta (Makaratzis sopra citata, § 51; Peker c. Turchia (n. 2), n. 42136/06, §§ 41-43, 12 aprile 2011).

37.La Corte ha altresì esaminato motivi di ricorso basati sull’articolo 2 della Convenzione sollevati da ricorrenti colpiti da gravi malattie. Nella summenzionata causa L.C.B., nella quale la ricorrente affetta da leucemia era figlia di un militare in servizio sull’isola Christmas durante gli esperimenti nucleari britannici, la Corte ha dovuto appurare, sotto il profilo dell’articolo 2, se lo Stato avesse fatto tutto il possibile per impedire che la vita dell’interessata fosse messa in pericolo. Nella causa Nitecki c. Polonia ((dec.), n. 65653/01, 21 marzo 2002), la Corte ha esaminato un motivo di ricorso basato sull’articolo 2 della Convenzione, avente per oggetto il rifiuto delle autorità nazionali di rimborsare al 100 % il costo di un farmaco salvavita ad un ricorrente affetto da sclerosi amiotrofica laterale. Nella causa Gheorghe c. Romania ((dec.), n. 19215/04, 22 settembre 2005), la Corte ha esaminato un motivo di ricorso basato sull’articolo 2, sollevato da un ricorrente affetto da emofilia, il quale contestava il rifiuto delle autorità nazionali di garantirgli gratuitamente un trattamento medico preventivo. Nella decisione Karchen e altri c. Francia (n. 5722/04, 4 marzo 2008) e nella sentenza G.N. e altri c. Italia (n. 43134/05, 1o dicembre 2009), nelle quali i ricorrenti, emofilici o talassemici, erano stati contagiati dal virus dell’HIV o dell’epatite C a seguito della somministrazione di prodotti ematici, la Corte ha ritenuto che gli interessati, contagiati da un virus potenzialmente letale, avessero il locus standi per sollevare un motivo di ricorso basato sull’articolo 2 della Convenzione. La Corte ha ritenuto applicabile l’articolo 2 in una causa (Oyal c. Turchia, n. 4864/05, 23 marzo 2010), nella quale un adolescente era stato contagiato dal virus HIV in occasione di trasfusioni sanguigne eseguite dopo la nascita.

38. In ogni caso, i principi derivanti dagli articoli 2 e 8 della Convenzione in materia sono simili.

39. La Corte rileva che, durante l’ospedalizzazione a Borgo Roma, la terza ricorrente ha sofferto di un’emorragia cerebrale dovuta ad un’infezione ospedaliera. Tenuto conto del probabile rischio per la vita dell’interessata, essa decide di esaminare il ricorso sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione.

40. Per quanto concerne i primi due ricorrenti, la Corte osserva che questi non sono stati contagiati dall’infezione in questione e che la loro vita non ha corso potenziali rischi. Di conseguenza occorre stabilire se l’articolo 2 della Convenzione è applicabile nei loro confronti. E’ vero che il Governo sembra avere riconosciuto implicitamente il locus standi dei primi due ricorrenti, dal momento che essi hanno potuto far valere la loro autonoma posizione dinanzi ai giudici nazionali, ottenendo delle decisioni che riconoscevano loro, almeno parzialmente, un risarcimento danni (Oyal sopra citata, § 60; a contrario Karchen e altri, sopra citata). La Corte ritiene tuttavia che la questione dell’applicabilità dell’articolo 2 ai primi due ricorrenti può restare insoluta, poiché il ricorso è comunque irricevibile per i motivi che seguono.

41. La Corte rammenta che il primo periodo dell’articolo 2 impone allo Stato non solo di astenersi dal dare «intenzionalmente» la morte, ma anche di adottare le misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione (L.C.B. sopra citata, Powell c. Regno Unito (dec.), n. 45305/99, CEDU 2000 V ; Vo c. Francia [GC], n. 53924/00 § 88, CEDU 2004 VIII). Questi principi si applicano altresì al settore della sanità pubblica. In ragione dei suoi obblighi positivi, lo Stato deve elaborare un quadro normativo che imponga agli ospedali, sia pubblici sia privati, l’adozione di misure idonee ad assicurare la protezione della vita dei pazienti. Inoltre, esso deve istituire un sistema giudiziario efficace e indipendente, al fine di poter accertare la causa del decesso di un individuo che si trovi sotto la responsabilità di operatori sanitari, pubblici o privati, e se del caso di obbligare i medesimi a rispondere delle loro azioni (decisione Powell sopra citata; Calvelli e Ciglio c. Italia [GC], n. 32967/96, § 49, CEDU 2002 I; Vo sopra citata, § 89).

42. Nella presente causa, nessuno contesta l’esistenza di una normativa idonea a tutelare la vita dei pazienti, né l’esistenza di un sistema giudiziario efficace e indipendente, il quale permetta di accertare la causa del decesso di un individuo che si trovi sotto la responsabilità di operatori sanitari.

43. Le doglianze dei ricorrenti riguardano principalmente le cause dello stato di salute della terza ricorrente, che a loro parere sono da ricercarsi nella negligenza dei medici in servizio al momento del parto, nonché la circostanza che i giudici italiani abbiano scartato questa tesi, giungendo alla conclusione dell’esclusiva responsabilità dell’ospedale. Essi ritengono che ciò costituisca un’inosservanza degli obblighi materiali e procedurali derivanti dall’articolo 2 della Convenzione.

44. La Corte rileva che i ricorrenti hanno avuto accesso ai giudici civili, al fine di ottenere l’individuazione dei responsabili e la loro condanna al risarcimento danni. La corte d’appello di Trento ha escluso la responsabilità personale dei medici sulla base di varie perizie e dopo aver constatato un errore di lettura della cartella clinica della terza ricorrente in primo grado (si veda il paragrafo 17 supra), il che permetteva di escludere la tesi dei ritardi nella presa in carico medica della neonata. I giudici hanno così individuato la causa dell’emorragia cerebrale, ossia l’infezione ospedaliera dovuta al batterio Klebsiella, ritenendo che questa fosse la sola causa dello stato di salute della terza ricorrente. Essi hanno pertanto attribuito la responsabilità all’ospedale, per non aver rispettato le regole di igiene e non aver adottato le necessarie misure di prevenzione e di organizzazione. Sulla base di tali elementi, essi hanno condannato l’ospedale al risarcimento danni.

45. La Corte non può sostituire la propria valutazione a quella dei giudici nazionali, rimettendo in discussione le conclusioni alle quali i medesimi sono giunti al termine di un procedimento civile celebrato in contraddittorio. Essa ritiene pertanto che il procedimento promosso dai ricorrenti abbia conseguito il fine dell’individuazione della causa dello stato di salute della terza ricorrente e della condanna del responsabile al risarcimento danni.

46. Resta da appurare se il risarcimento accordato dai giudici nazionali fosse adeguato e sufficiente. Al riguardo la Corte rileva che i primi due ricorrenti hanno ottenuto un indennizzo di 61.974,83 EUR cadauno, a titolo di risarcimento del danno morale. Le loro richieste relative al risarcimento del danno materiale e biologico sono state rigettate, in quanto non suffragate da elementi di prova o in quanto irricevibili (paragrafi 14 e 21 supra). L’assenza d’indennizzo per i danni di cui sopra non può quindi influire sulla valutazione della natura del risarcimento.

47. Riguardo alla terza ricorrente, la Corte osserva che sono stati risarciti il danno morale, il danno biologico, il danno materiale derivante dalla perdita della capacità lavorativa ed il danno materiale relativo ai costi dell’assistenza passata e futura (a contrario, Oyal, sopra citata, § 71). Per determinare l’indennizzo del danno materiale futuro, i giudici hanno tenuto conto dell’aspettativa di vita, ottenuta mediante un calcolo attuariale in funzione dell’età e del sesso femminile dell’interessata (paragrafo 13 supra). Dal fascicolo non si evince che i giudici abbiano ritenuto che l’aspettativa di vita della terza ricorrente fosse di altri 19 anni. In ogni caso, gli importi accordati alla terza ricorrente non sono stati contestati dinanzi alla corte d’appello ed alla Corte di cassazione.

48.In conclusione, la Corte ritiene che il risarcimento ottenuto dai ricorrenti fosse adeguato e sufficiente.

49.Resta da esaminare infine il motivo di ricorso relativo alla durata del procedimento promosso dinanzi ai giudici nazionali (diciassette anni e undici mesi per tre gradi di giudizio). A parere della Corte, una lunga durata del procedimento potrebbe eventualmente suscitare dei dubbi sull’efficacia di un tale ricorso, nonché porre conseguentemente un problema sotto il profilo della protezione procedurale garantita dall’articolo 2 della Convenzione (Lazzarini e Ghiacci c. Italia (dec.), n. 53749/00; Calvelli e Ciglio, sopra citata, § 53; Byrzykowski c. Polonia, sopra citata, § 105; Šilih c. Slovenia [GC], n. 71463/01, 9 aprile 2009, § 211, e Oyal, sopra citata, §§ 74-77).
Tuttavia, la Corte ritiene che la durata del procedimento civile promosso dai ricorrenti non possa escluderne l’efficacia. Al riguardo, la Corte rileva che i ricorrenti hanno percepito degli acconti a febbraio, giugno e dicembre 1997 (paragrafi 9 e 10 supra). Successivamente, in data 5 luglio 2001, essi hanno percepito un acconto di 1.797.882,61 EUR (paragrafo 15 supra). Non è possibile sostenere che le autorità competenti siano rimaste totalmente passive di fronte alle affermazioni dei ricorrenti e che il procedimento in questione sia stato inefficace fino a questo punto (Lazzarini e Ghiacci, sopra citata). La Corte osserva in seguito che, sotto il profilo dell’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti si sono rivolti ai sensi della legge Pinto alla corte d’appello di Trento (a contrario, Oyal, sopra citata). Quest’ultima ha constatato che il termine ragionevole era stato superato, accordando loro un indennizzo (paragrafi 22-23 supra).

In conclusione, la Corte ritiene che il procedimento in questione fosse conforme alle esigenze dell’articolo 2.

50. Tenuto conto di quanto precede, la Corte ritiene che vi sia stata da parte delle autorità nazionali una reazione appropriata ed adeguata rispetto alla violazione del diritto alla vita contestata dai ricorrenti. Di conseguenza, questi ultimi non possono più ritenersi vittime di una violazione dell’articolo 2 della Convenzione. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Danutė Jočienė
Presidente

Stanley Naismith
Cancelliere