Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 9 luglio 2013 - Ricorso n.51160/06 - Di Giovanni c.Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita da Anna Aragona e Martina Scantamburlo, funzionari linguistici, e da Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura di Martina Scantamburlo e Anna Aragona.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA DI GIOVANNI c. ITALIA

(Ricorso no 51160/06)

SENTENZA

STRASBURGO

9 luglio 2013

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
 
Nella causa Di Giovanni c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da :
Danutė Jočienė, presidente,
Guido Raimondi,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 28 maggio 2013,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 51160/06) proposto contro la Repubblica italiana con cui una cittadina di tale Stato, la sig.ra A. Di Giovanni («la ricorrente»), ha adito la Corte in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. La ricorrente è rappresentata dall’avv. M. Vetrano del foro di Napoli. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, N. Lettieri.

3. La ricorrente sosteneva di essere stata sanzionata da un organo non indipendente e imparziale, e lamentava una violazione della sua libertà di espressione.

4. Il 2 novembre 2009 il ricorso è stato comunicato al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. La ricorrente è nata nel 1952 ed è residente ad Acerra. È magistrato. All’epoca dei fatti era presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli.

6. Nel gennaio 2003 si svolse in Italia un concorso pubblico per l’assunzione di magistrati (giudici e procuratori). In seguito, fu avviata un’inchiesta penale nei confronti di un membro della commissione di detto concorso, accusato di aver falsificato i risultati allo scopo di favorire un candidato.

7. Il 28 maggio 2003 il quotidiano Libero pubblicò un’intervista rilasciata dalla ricorrente, nella quale quest’ultima dichiarava quanto segue:

«Il lettore comune potrebbe chiedersi perché, se il fine dell'ANM (Associazione Nazionale Magistrati) è quello di salvaguardare l'integrità dei principi sacrosanti della giustizia e dei suoi funzionari, esistono cinque fazioni ideologiche in forte disaccordo su come raggiungere questo scopo. Esse sono strutturate sul modello dei partiti politici: le toghe rosse a Napoli, le toghe verdi a Milano. Assistiamo a una perdita di pluralismo quando l'egemonia di una minoranza trascende l'interesse della maggioranza e si avvale dell'attività associativa per salvaguardare il proprio potere e i propri interessi. In questi ultimi giorni, abbiamo appreso la notizia, di gravità estrema, dell'intervento di un membro della commissione dell'ultimo concorso di accesso alla magistratura a favore del familiare di un noto magistrato napoletano, naturalmente già membro del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) e, ancor più naturalmente, attuale membro autorevole dell'ANM.»

8. Il 4 giugno 2003 quindici membri del Consiglio Superiore della Magistratura (il «CSM») trasmisero al Comitato di presidenza una nota il cui contenuto era il seguente:

«Richiesta di apertura di una pratica. Nel quotidiano Libero del 28 maggio 2003 la dott.ssa Angelica Di Giovanni, presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli, ha dichiarato: In questi ultimi giorni, abbiamo appreso la notizia, di gravità estrema, dell'intervento di un membro della commissione dell'ultimo concorso di accesso alla magistratura a favore del familiare di un noto magistrato napoletano, naturalmente già membro del CSM e, ancor più naturalmente, attuale membro autorevole dell'ANM. Rispetto a tale dichiarazione i consiglieri sottoscritti chiedono che sia aperta una pratica allo scopo di verificare se si tratti di una informazione effettiva e, all’esito delle verifiche, di adottare le misure necessarie.»

9. Il 12 giugno 2003 il quotidiano Libero pubblicò una seconda intervista della ricorrente nella quale quest’ultima precisava le sue precedenti dichiarazioni. L’articolo conteneva i passaggi seguenti:

«Mi dispiace che le dichiarazioni contenute nel recente articolo di Libero abbiano potuto urtare la sensibilità di qualche collega. È evidente che non mi sono espressa chiaramente. Mi riferivo a un nuovo giornalismo, che è cosa diversa rispetto a un dato oggettivo (…). Il riferimento ai probabili soggetti attivo e passivo coinvolti nei fatti era quantomeno generico (in proposito potrei citare tutta una serie di colleghi che possono rientrare nella tipologia indicata) e doveva essere letto nel contesto delle mie dichiarazioni, riguardanti la stigmatizzazione di una possibile convergenza di interessi tra l'ANM e il CSM. La mia iniziativa e le mie dichiarazioni sono volte a mettere in evidenza l'esistenza di probabili centri di potere che rischiano di offuscare l'immagine del giudice autonomo e indipendente che quotidianamente difendiamo nella nostra attività professionale.»

10. A seguito di tali interviste, sulla stampa furono pubblicati altri articoli che associavano la persona di E.F., un magistrato napoletano, ai fatti delittuosi legati al concorso pubblico di gennaio 2003.

11. Il 25 febbraio 2004 il procuratore generale presso la Corte di cassazione avviò un procedimento disciplinare nei confronti della ricorrente ai sensi dell’articolo 18 del regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946, in quanto non aveva osservato i propri obblighi di rispetto e discrezione nei confronti dei membri del CSM e di un collega. In particolare, le dichiarazioni della ricorrente tendevano a confermare presso l’opinione pubblica delle voci infondate relative a E.F., ex membro del CSM e attuale componente dell’Associazione nazionale magistrati (di seguito l’«ANM») e alle sue presunte manovre volte a favorire un famigliare, candidato all’ultimo concorso bandito per l’assunzione di magistrati.

12. Il 23 giugno 2004 la ricorrente, assistita da un avvocato, depositò una memoria difensiva. All’udienza del 10 giugno 2005 fu sentita dalla sezione disciplinare e si difese affermando che, con le sue dichiarazioni, non aveva mai voluto riferirsi al collega E.F. o ad altre persone in particolare, ma che si era limitata a riferire un’informazione nota, che del resto era già stata divulgata dalla stampa, allo scopo di denunciare l’esistenza di una convergenza di interessi tra il CSM e l’ANM.

13. Con decisione in data 10 giugno 2005 la sezione disciplinare del CSM considerò la ricorrente parzialmente colpevole dei fatti a lei ascritti e la sanzionò con un ammonimento. La sezione considerò anzitutto che le critiche della ricorrente relative all’attività e al funzionamento del CSM e dell’ANM costituissero la libera espressione di una convinzione personale, che non poteva in quanto tale essere oggetto di sanzioni. Invece, le affermazioni della ricorrente relative a un suo collega presentavano tutti gli elementi di un illecito disciplinare. Secondo la sezione, i dettagli forniti dalla ricorrente si riferivano senza dubbio alla persona di E.F., unico ex magistrato del CSM e attuale membro autorevole dell’ANM la cui figlia avesse partecipato al concorso per l’assunzione di magistrati in questione. Le dichiarazioni contestate tendevano dunque a confermare presso l’opinione pubblica delle voci, prive di fondamento, riguardanti un collega. La sezione disciplinare affermò che la ricorrente era venuta meno al suo dovere di discrezione inerente alle sue funzioni di magistrato e al suo dovere di lealtà e rispetto nei confronti di un collega. La sezione considerò infine che il fatto che le dichiarazioni in contestazione rientrassero in un contesto più generale permetteva tuttavia di infliggere solo un ammonimento, ossia la sanzione meno grave.

14. Quattro dei sei componenti della sezione disciplinare che hanno esaminato la causa della ricorrente erano stati precedentemente firmatari del documento del 4 giugno 2003 (paragrafo 8 supra).

15. L’interessata, assistita da un avvocato, presentò ricorso per cassazione. Contemporaneamente, eccepì l’incostituzionalità dell’articolo 4 della legge n. 195 del 1958, come modificata dall’articolo 2 della legge n. 44 del 2002 (paragrafo 21 infra), lamentando la mancanza di indipendenza e imparzialità della sezione disciplinare del CSM. La ricorrente affermò che i membri del CSM non erano eletti a titolo personale tra tutti i magistrati che fanno parte del corpo giudiziario, ma scelti in funzione della loro appartenenza alle varie correnti ideologiche presenti in seno all’ANM. Tuttavia, tale sistema elettorale, simile secondo la ricorrente a quello praticato tra i partiti politici, non poteva che nuocere all’indipendenza dei componenti della sezione disciplinare del CSM, naturalmente meglio disposti nei confronti di magistrati appartenenti alla stessa corrente ideologica. Secondo lei, la presenza di membri «laici» (paragrafo 19 infra) non bastava a garantire l’imparzialità e l’indipendenza della sezione, dal momento che questi erano solo due. La ricorrente sottolineò che la sezione che aveva esaminato la sua causa era in gran parte composta da magistrati firmatari della nota del 4 giugno 2003.

16. Il ricorso era accompagnato da una memoria complementare redatta personalmente dall’interessata, contenente in particolare argomenti a sostegno dell’eccezione di incostituzionalità.

17. Con sentenza del 12 giugno 2006 la Corte di cassazione respinse il ricorso della ricorrente. Anzitutto, rifiutò di esaminare la memoria complementare della ricorrente in quanto non presentata da un avvocato patrocinante in cassazione, conformemente alla norma procedurale applicabile in generale ai procedimenti civili dinanzi alla Corte di cassazione.

18. Inoltre, esaminando gli argomenti proposti nel ricorso in via principale firmato dall’avvocato della ricorrente, la Corte di cassazione rigettò l’eccezione di incostituzionalità in quanto manifestamente infondata e respinse il ricorso della ricorrente. La Corte di cassazione ritenne che le modalità di elezione dei membri del CSM, tra i quali venivano nominati i componenti della sezione disciplinare, non implicassero alcun rapporto di dipendenza nei confronti delle parti nella controversia. Da una parte la composizione collegiale della sezione evitava qualsiasi rischio di mancanza di imparzialità nei confronti del magistrato incolpato; dall’altra, l’assenza totale di dipendenza del collegio dal Ministro della Giustizia e dal procuratore generale presso la Corte di cassazione, che sono gli organi competenti ad avviare il procedimento disciplinare, garantiva l’autonomia dei componenti della sezione nell’esercizio delle loro funzioni.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

A. Il Consiglio superiore della magistratura

19. L’articolo 104 § 1 della Costituzione prevede che la magistratura costituisce «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Ai sensi dell’articolo 105, al CSM spettano «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Il CSM è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale presso la Corte di cassazione. Gli altri ventiquattro componenti sono eletti, per due terzi, da tutti i magistrati ordinari «tra gli appartenenti alle varie categorie», e per un terzo dal Parlamento. Questi ultimi componenti del CSM, detti «laici» (ossia esterni al corpo giudiziario), sono scelti tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio. I membri elettivi durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Finché sono in carica, i membri del CSM non possono essere iscritti negli albi professionali né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale (articolo 104 §§ 2, 3, 4, 6 e 7 della Costituzione).

B. Il regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946

20. L’articolo 18 del regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946 (Guarentigie della Magistratura) dispone che il magistrato che «manchi ai suoi doveri» o che «tenga, in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario», è soggetto a sanzioni disciplinari.

C. La composizione della sezione disciplinare del CSM e il procedimento disciplinare

21. L’articolo 4 della legge n. 195 del 1958, modificato dall’articolo 2 della legge n. 44 del 2002, fissa le norme per la composizione della sezione disciplinare del CSM. Quest’ultima si compone di sei membri: il Vice Presidente del CSM, che è scelto tra i membri «laici», e cinque magistrati scelti dal Consiglio tra i propri membri così ripartiti: un membro laico, un magistrato di cassazione e tre giudici ordinari. Il Vice Presidente del CSM è membro di diritto della sezione, mentre gli altri cinque componenti sono eletti a scrutinio segreto a maggioranza qualificata di due terzi dei membri del CSM. Il mandato dei giudici della sezione dura quattro anni.

22. Il procedimento disciplinare era regolato, all’epoca dei fatti, dal regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946, modificato dalla legge n. 195 del 24 marzo 1958. L’azione disciplinare poteva essere promossa dal Ministro della Giustizia per il tramite del Procuratore generale presso la Corte di cassazione o direttamente da quest’ultimo, nella sua qualità di Pubblico Ministero. L’avvio di procedimenti disciplinari era discrezionale.

23. Tale regime è stato riformato dal decreto legislativo n. 109 del 23 febbraio 2006. Ai sensi di tale decreto, il procedimento disciplinare è ancora promosso dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione, di sua iniziativa o su richiesta del ministro della Giustizia; in quest’ultimo caso, tuttavia, il Procuratore generale è ormai tenuto a dare seguito alla richiesta del Ministro.

24. Si osservano, in quanto applicabili, le norme del codice di procedura penale (CPP). L’udienza di discussione è orale e aperta al pubblico. Il magistrato incolpato, assistito da un altro magistrato o da un avvocato, vi partecipa e può depositare documenti, elementi di prova e memorie. La sezione può sentire testimoni e periti, interrogare l’incolpato e ordinare che siano raccolti gli elementi di prova ritenuti utili. Essa delibera dopo aver sentito il magistrato incolpato.

25. La decisione della sezione disciplinare del CSM può essere oggetto di ricorso dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione; quando è passata in giudicato, può essere oggetto di un’istanza di revisione.

26. Le sanzioni disciplinari previste dalla legge sono: a) l’ammonimento; b) la censura; c) la perdita dell’anzianità di servizio; d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semi-direttivo; e) la sospensione temporanea dalle funzioni; f) la cessazione definitiva dalle funzioni di magistrato [rimozione]; g) il trasferimento d’ufficio.

D. La dichiarazione di ricusazione

27. Ai sensi dell’articolo 37 del CPP il giudice può essere ricusato dalle parti se, nell’esercizio delle sue funzioni e prima che sia pronunciata una sentenza, egli ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, come nei casi di cui all’articolo 36 c. 1 a), b), c), d), e), f) e g) del CPP, ossia:

  • se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli;
  • se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge;
  • se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie;
  • se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private;
  • se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata;
  • se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero;
  • se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 [incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento] e 35 [ai sensi del quale nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado].

28. Il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione (articolo 37 c. 2 del CPP).

29. L’articolo 38 cc. 1 e 2 del CPP recita:

«1. La dichiarazione di ricusazione può essere proposta, nell'udienza preliminare, fino a che non siano conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; nel giudizio, fino a che non sia scaduto il termine previsto dall'articolo 491 comma 1 [subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti]; in ogni altro caso, prima del compimento dell'atto da parte del giudice.

2. Qualora la causa di ricusazione sia sorta o sia divenuta nota dopo la scadenza dei termini previsti dal comma 1, la dichiarazione può essere proposta entro tre giorni. Se la causa è sorta o è divenuta nota durante l'udienza, la dichiarazione di ricusazione deve essere in ogni caso proposta prima del termine dell'udienza.»

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

30. La ricorrente lamenta la mancanza di imparzialità e di indipendenza della sezione disciplinare del CSM che si era occupata del suo caso. La medesima contesta la modalità di elezione dei suoi componenti, ritiene che vi sia stata confusione tra giudice e parte lesa e osserva che quattro dei quindici componenti del CSM, che avevano chiesto il 4 giugno 2003 l’apertura di un procedimento disciplinare a suo carico (paragrafo 8 supra), hanno esaminato il suo caso (paragrafo 14 supra).
La ricorrente invoca l’articolo 6 § 1 della Convenzione, che, nelle parti pertinenti, recita:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (...).»

31. Il Governo si oppone a questa tesi.

A. Le eccezioni preliminari del Governo

1. Sulla ricevibilità ratione materiae

a) L’eccezione sollevata dal Governo

32. Il Governo contesta innanzi tutto l’applicabilità dell’articolo 6 della Convenzione al caso di specie e ritiene che la sanzione dell’ammonimento, adottata a carico della ricorrente, la più lieve fra le sanzioni disciplinari previste dalla legge, non abbia in alcun modo limitato il diritto dell’interessata ad esercitare la sua attività professionale e non abbia dunque comportato nessuna conseguenza patrimoniale. Pertanto, il procedimento disciplinare in questione non ha per oggetto una controversia su «diritti e doveri di carattere civile».

33. D’altronde, il contenzioso in questione non riguarderebbe nemmeno il concetto di «accusa in materia penale», tenuto conto in particolare della lievità della sanzione. Il Governo afferma che la sanzione inflitta alla ricorrente non ha implicato alcuna conseguenza finanziaria rilevante e non può quindi costituire una sanzione «penale». Al riguardo, esso contesta le affermazioni della ricorrente secondo le quali la medesima avrebbe subito perdite finanziarie e sarebbe stata penalizzata nella progressione della sua carriera. 

b) La replica della ricorrente

34. La ricorrente afferma che la sua causa rientra nel campo di applicazione dell’articolo 6, sostenendo che la sanzione disciplinare inflittale ha inciso sui suoi diritti civili costituzionalmente garantiti, quale il diritto all’«autodeterminazione nell’esercizio dell’attività professionale». Inoltre, la medesima afferma che l’ammonimento ha avuto considerevoli effetti finanziari, poiché ha influenzato il corso della sua carriera professionale. Al riguardo, la ricorrente sostiene che le sue domande di avanzamento di carriera sono state respinte e che le è stato impedito di candidarsi a funzioni extragiudiziarie, le quali avrebbero potuto essere fonte di redditi elevati.

c) Valutazione della Corte

35. La Corte osserva in primo luogo che il procedimento in questione non riguardava la fondatezza di un’accusa penale nei confronti della ricorrente. Essa deve quindi stabilire se l’articolo 6 della Convenzione trova applicazione sotto il profilo civilistico.

36. Al riguardo, la Corte rammenta innanzi tutto che un contenzioso disciplinare, concernente il diritto di continuare a praticare una professione, può dar luogo a «controversie su diritti (...) di carattere civile» ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione (si vedano, in particolare, König c. Germania, 28 giugno 1978, §§ 87-95, serie A n. 27; Albert e Le Compte c. Belgio, 10 febbraio 1983, §§ 25-29, serie A n. 58 ; Diennet c. Francia, 26 settembre 1995, § 27, serie A n. 325-A; Gautrin e altri c. Francia, 20 maggio 1998, § 33, Recueil des arrêts et décisions 1998-III). Nel caso di specie, il procedimento disciplinare contro la ricorrente avrebbe potuto condurre a varie sanzioni, dal semplice ammonimento alla sospensione o persino alla cessazione dell’attività professionale (paragrafo 26 supra). In queste condizioni, la Corte ritiene che, tenuto conto delle sanzioni che la sezione disciplinare avrebbe potuto adottare, nel caso di specie fossero in discussione i diritti civili della ricorrente.  

37. D’altronde, l’applicabilità dell’articolo 6 della Convenzione non può essere esclusa sulla base dello status di magistrato della ricorrente. Al riguardo, la Corte rammenta che devono ricorrere due presupposti affinché un funzionario pubblico sia sottratto alla tutela prevista dall’articolo 6. In primo luogo, il diritto interno dello Stato interessato deve aver espressamente escluso l’accesso ad un tribunale nel caso della funzione o della categoria di dipendenti in questione. In secondo luogo, detta deroga deve basarsi su motivi oggettivi legati all’interesse dello Stato. Il semplice fatto che l’interessato appartenga ad un settore o ad un servizio che svolga una funzione pubblica non è di per sé determinante (Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia [GC], n. 63235/00, § 62, CEDU 2007-II). Nel caso di specie la ricorrente è stata giudicata da un organo giurisdizionale, la sezione disciplinare del CSM, che aveva piena giurisdizione per definire ogni questione sollevata dalla causa (paragrafo 13 supra). Inoltre, la ricorrente ha avuto la possibilità di impugnare la decisione di quest’organo dinanzi alla Corte di cassazione (paragrafi 15-18 supra).

38. Di conseguenza, l’articolo 6 trova applicazione nel caso di specie sotto il profilo civilistico (si vedano, mutatis mutandis, Tosti c. Italia (dec.), n. 27791/06, 12 maggio 2009, e Bayer c. Germania, n. 8453/04, § 38, 16 luglio 2009; si veda altresì, a contrario, Özpınar c. Turchia, n. 20999/04, § 30, 19 ottobre 2010).

39. Ne consegue che l’eccezione del Governo relativa all’inapplicabilità dell’articolo 6 della Convenzione deve essere rigettata.

2. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne

a) L’eccezione sollevata dal Governo

40.  Il Governo eccepisce altresì il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, sostenendo che la ricorrente avrebbe dovuto chiedere la ricusazione dei componenti della sezione disciplinare in caso di dubbi sull’imparzialità del collegio. Presentando la sua doglianza direttamente alla Corte, la ricorrente ha impedito alle autorità nazionali di esprimersi sulla questione. 

b) La replica della ricorrente

41. La ricorrente chiede il rigetto dell’eccezione sollevata dal Governo. La medesima afferma di non aver chiesto la ricusazione, confidando nel prestigio e nella professionalità dei componenti della sezione.  In seguito la ricorrente ha sostenuto la mancanza di imparzialità della sezione dinanzi alla Corte di cassazione, sollevando altresì un’eccezione di incostituzionalità in relazione alle norme di funzionamento e di composizione della sezione disciplinare del CSM. Infine, la ricorrente afferma che la ricusazione avrebbe potuto rivelarsi controproducente, suscitando nei giudici un pregiudizio negativo nei suoi confronti.

c) Valutazione della Corte

42. La Corte rammenta che, ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita solo dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne. Questa norma è finalizzata a garantire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di porre rimedio alle violazioni dedotte contro i medesimi, prima che i relativi ricorsi vengano proposti dinanzi alla Corte (si vedano, tra le altre, Mifsud c. Francia (dec.) [GC], n. 57220/00, § 15, CEDU 2002 VIII, e Simons c. Belgio (dec.), n. 71407/10, § 23, 28 agosto 2012).

43. Tuttavia l’articolo 35 § 1 della Convenzione prescrive l’esaurimento di quelle vie di ricorso che siano al contempo pertinenti alle violazioni contestate, disponibili e adeguate. Un ricorso è effettivo se è disponibile sia in teoria sia in pratica all’epoca dei fatti, ossia se è accessibile, se può offrire al ricorrente la riparazione delle violazioni e se presenta ragionevoli prospettive di successo. Al riguardo, il semplice fatto di nutrire dei dubbi sulle prospettive di successo di un determinato ricorso, il quale non sia palesemente destinato all’insuccesso, non costituisce una valida ragione per giustificare il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (Brusco c. Italia (dec.), n. 69789/01, CEDU 2001 IX; Sardinas Albo c. Italia (dec.), n. 56271/00, CEDU 2004 I ; Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46, CEDU 2006 II; e Alberto Eugénio da Conceicao c. Portogallo (dec.), n. 74044/11, 29 maggio 2012).

44.  La Corte osserva in primo luogo che al procedimento disciplinare contro i magistrati si applicano, qualora non osti alcuna incompatibilità, le disposizioni del CPP (paragrafo 24 supra), tra le quali le norme in materia di ricusazione (paragrafi 27-29 supra). Essa rileva inoltre che la ricorrente contesta l’imparzialità e l’indipendenza della sezione disciplinare del CSM per tre motivi: a) la modalità di elezione dei suoi componenti; b) il fatto che in questo caso il CSM dovesse giudicare critiche rivolte alla sua stessa attività, circostanza che avrebbe creato una confusione tra giudice e parte lesa; c) il fatto che quattro dei quindici componenti del CSM, che avevano chiesto il 4 giugno 2003 l’apertura del procedimento disciplinare a carico della ricorrente, avessero poi esaminato il suo caso. Per quest’ultimo aspetto, la ricorrente afferma che la nota in questione ha influito sull’apertura del procedimento disciplinare.

45.  Dopo aver dato lettura dei motivi di ricusazione previsti dal diritto italiano, elencati nell’articolo 37 del CPP (paragrafo 27 supra), la Corte ritiene che i timori espressi dalla ricorrente alle lettere a) e b) del paragrafo 44 supra non rientrino in nessuno dei casi di ricusazione codificati. Di conseguenza, l’eventuale istanza di ricusazione motivata dai timori in questione non avrebbe avuto possibilità di essere accolta. L’eccezione preliminare di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne deve quindi essere rigettata, dal momento che riguarda questi due primi timori.

46.  Diverso è il caso del terzo timore espresso alla lettera c) del paragrafo 44 supra. In effetti, la ricorrente avrebbe potuto sostenere che la circostanza che quattro dei sei componenti della sezione disciplinare del CSM fossero firmatari della nota con la quale si chiedeva l’apertura di un procedimento disciplinare a suo carico costituisse sia un’espressione del loro convincimento sui fatti oggetto del procedimento, sia un «interesse nel procedimento», tanto più che la ricorrente aveva sostenuto dinanzi alla Corte che la nota in questione non era un documento neutrale, ma rappresentava una presa di posizione contro di lei. La ricorrente avrebbe potuto presentare argomenti analoghi nell’ambito di un’istanza di ricusazione proposta a livello nazionale, la quale, nelle particolari circostanze del caso di specie, secondo la Corte non sarebbe stata manifestamente destinata all’insuccesso. 

47. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che la ricorrente fosse tenuta a presentare ai giudici nazionali l’istanza di ricusazione, esponendo il timore espresso alla lettera c) del paragrafo 44 supra, cosa che non ha fatto. La Corte accoglie dunque l’eccezione sollevata dal Governo per quanto concerne questo timore e rigetta questa parte della doglianza per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

B.  Sulla fondatezza del motivo di ricorso

1.  Argomenti delle parti

a) La ricorrente

48. La ricorrente lamenta innanzi tutto la mancanza di indipendenza della sezione disciplinare del CSM, dovuta al fatto che questa è composta in maggioranza da magistrati eletti, a suo parere, in funzione della loro appartenenza alle differenti fazioni ideologiche. La ricorrente spiega che i movimenti associativi esistenti all’interno del corpo giudiziario si distribuiscono i seggi disponibili al CSM, condizionando così la scelta dei magistrati elettori al momento del voto. Secondo la ricorrente, questo sistema di designazione, simile a quello in uso per i parlamentari, scelti in funzione della loro appartenenza ai differenti partiti politici, non può che pregiudicare l’indipendenza del CSM, dal momento che i giudici della sezione disciplinare sono naturalmente meglio disposti nei confronti dei colleghi della stessa fazione ideologica (appartenenza correntizia).

49. In secondo luogo, la ricorrente osserva che la sezione disciplinare è stata chiamata a giudicare le sue critiche sull’attività del CSM. Vi sarebbe quindi stata confusione tra il giudice e la parte lesa.

b) Il Governo

50. Il Governo rileva in primo luogo che la composizione e il sistema di funzionamento del CSM è conforme alle linee guida elaborate dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto («Commissione di Venezia») del Consiglio d’Europa in materia di indipendenza del potere giudiziario. Inoltre, la sezione disciplinare del CSM è un tribunale costituito per legge, nella fattispecie la legge n. 195 del 1958, e presenta i requisiti di indipendenza previsti dalla Convenzione, tenuto conto in particolare dei criteri di nomina dei componenti e della durata del loro mandato.

c) Valutazione della Corte

51. La Corte è chiamata a stabilire se la sezione disciplinare del CSM fosse un «tribunale costituito per legge, indipendente e imparziale», al momento dell’esame della causa concernente la ricorrente.

52. Essa rammenta che, con il termine «tribunale», la propria giurisprudenza non intende necessariamente una giurisdizione di tipo classico, integrata nelle strutture giudiziarie ordinarie del paese (Campbell e Fell c. Regno Unito, 28 giugno 1984, § 76, serie A n. 80). Ai fini della Convenzione, un’autorità può essere considerata un «tribunale» nel senso materiale del termine, quando le competa decidere, in base alle norme di diritto, con pienezza di giurisdizione e al termine di una procedura organizzata, in merito a ogni questione di sua competenza (Sramek c. Austria, 22 ottobre 1984, § 36, serie A n. 84; Beaumartin c. Francia, 24 novembre 1994, § 38, serie A n. 296-B). Inoltre, l’attribuzione ad un organo interno alla magistratura della competenza a decidere in merito a illeciti disciplinari non viola in sé la Convenzione. Tuttavia, questa prescrive, quantomeno, uno dei seguenti sistemi: o l’organo di cui sopra soddisfa le esigenze dell’articolo 6 § 1 ovvero non risponde a tali esigenze ma è sottoposto al controllo ulteriore di un organo giudiziario di piena giurisdizione, che offra a sua volta le garanzie previste dal citato articolo (Albert e Le Compte, sopra citata, § 29).

53. Innanzi tutto, la Corte rileva che la sezione disciplinare del CSM è un organo costituito per legge, nella fattispecie dalla legge n. 195 del 1958 (paragrafo 21 supra). La sezione disciplinare ha piena competenza per la valutazione delle controversie, può disporre l’acquisizione degli elementi di prova utili, nonché l’audizione di testimoni e periti; inoltre, il magistrato sottoposto al procedimento, il quale può farsi rappresentare o assistere da un magistrato o un avvocato, ha la possibilità di produrre memorie e di essere ascoltato in pubblica udienza (si veda il paragrafo 24 supra). La Corte osserva inoltre che gli organi disciplinari cui sono sottoposti i magistrati sono soggetti alle norme generali di procedura contenute nel CPP. In queste condizioni, essa ritiene che la sezione disciplinare del CSM costituisca un «organo giudiziario di piena giurisdizione» (si veda, a contrario, Diennet, sopra citata, § 34; si veda altresì, mutatis mutandis, Olujić c. Croazia, n. 22330/05, § 44, 5 febbraio 2009).

54. La Corte deve adesso verificare se il tribunale in questione fosse  «indipendente» e «imparziale» ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. Per stabilire se un tribunale possa essere ritenuto «indipendente» è necessario prendere in considerazione, in particolare, le modalità di designazione e la durata del mandato dei suoi componenti, l’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne e se vi sia o meno una parvenza d’indipendenza. Quanto al requisito d’«imparzialità», esso riveste due aspetti. Occorre innanzitutto che il tribunale non manifesti soggettivamente alcuna presa di posizione né pregiudizio personale. Il tribunale deve essere poi oggettivamente imparziale, vale a dire offrire garanzie sufficienti ad escludere ogni legittimo dubbio al riguardo (Findlay c. Regno Unito, 25 febbraio 1997, § 73, Recueil 1997-I).

55. Inoltre, al fine di pronunciarsi sull’esistenza di una ragione legittima di dubitare dell’indipendenza o dell’imparzialità di un’autorità giudiziaria, il punto di vista dell’interessato deve essere tenuto in considerazione senza tuttavia avere un ruolo decisivo. L’elemento determinante consiste nell’accertare se i timori dell’interessato possano essere oggettivamente giustificati (Findlay, sopra citata, § 73 ; Incal c. Turchia, 9 giugno 1998, § 71, Recueil 1998 IV; e Grieves c. Regno Unito [GC], n. 57067/00, § 69, CEDU 2003 XII).

56. Nella presente causa, dopo aver esaminato le doglianze della ricorrente alla luce dei principi enunciati nella propria giurisprudenza in materia (si vedano, tra le altre, le sentenze Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. Francia [GC], nn. 21279/02 e 36448/02, § 75, CEDU 2007 IV, e Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 95, CEDU 2009), la Corte non ha rilevato alcun elemento che dimostri la parzialità o che metta in dubbio la soggettiva imparzialità dei giudici coinvolti. Essa esaminerà quindi l’oggettiva imparzialità dei medesimi. Inoltre, essendo i concetti di indipendenza e imparzialità strettamente legati, la Corte li esaminerà congiuntamente nella presente causa (Grieves, sopra citata, § 69).

57. La Corte ritiene innanzi tutto che il semplice fatto che i componenti della sezione disciplinare appartengano al corpo giudiziario non possa pregiudicare di per sé il principio di indipendenza. La Corte rileva in seguito che il mandato dei giudici della sezione disciplinare del CSM dura quattro anni; essi non possono essere rimossi per tutta la durata del mandato, non sono legati da rapporti di dipendenza gerarchica o di altro tipo ai loro pari, i quali li hanno eletti a scrutinio segreto. La Corte ritiene che il diritto interno presenti delle garanzie sufficienti in materia di indipendenza dei componenti della sezione disciplinare nell’esercizio delle loro funzioni (si veda, a contrario, Luka c. Romania, n. 34197/02, § 47, 21 luglio 2009). L’eventuale appartenenza all’una o l’altra delle correnti ideologiche esistenti all’interno del corpo giudiziario non può essere confusa con una forma di dipendenza gerarchica. Ne consegue che i timori della ricorrente in merito al sistema di nomina dei componenti della sezione non sono oggettivamente giustificati.

58. D’altronde, la Corte non può sottoscrivere la tesi dell’interessata, secondo la quale vi sarebbe stata, nel caso di specie, confusione tra giudice e parte lesa (paragrafo 30 supra). Al riguardo, essa si limita ad osservare che la sanzione disciplinare inflitta alla ricorrente non riguardava le sue critiche al CSM, considerate come una manifestazione di libertà di espressione, bensì la diffusione presso l’opinione pubblica di voci prive di fondamento concernenti un collega (paragrafo 13 supra). Il collega in questione non era un componente della sezione disciplinare del CSM.

59. A parere della Corte, si evince dalle circostanze sopra esposte che i dubbi della ricorrente circa l’indipendenza e l’imparzialità della sezione disciplinare del CSM non possono essere considerati oggettivamente giustificati.

60. Di conseguenza, nel caso di specie non si ravvisa alcuna parvenza di violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

61. Ne consegue che detto motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE

62. La ricorrente lamenta una violazione della sua libertà di espressione conseguente alla sanzione disciplinare che le è stata inflitta. Essa invoca l'articolo 10 della Convenzione così formulato:

 « 1.  Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera (...).

2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.»

63. Il Governo si oppone a questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

64. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e rileva peraltro che esso non incorre in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

B. Sul merito

1. Argomenti delle parti

a) La ricorrente

65. La ricorrente sostiene che l'apertura di un procedimento disciplinare a suo carico per le dichiarazioni rese alla stampa costituisce un ostacolo alla sua libertà di espressione. Sostiene di essere stata giudicata rispetto a due questioni diverse, una riguardante le sue critiche al funzionamento dell'ANM e sui legami di quest'ultima con il CSM, e l'altra riguardante i suoi commenti su una notizia di attualità già nota al pubblico.

66. Secondo lei, i due capi di incolpazione erano strettamente legati dal momento che i suoi commenti sulle irregolarità commesse nell'ambito del concorso pubblico per l’assunzione di magistrati erano soltanto un modo per denunciare il rischio di conflitto di interessi tra l'ANM e il CSM. La ricorrente sostiene di essersi limitata a esporre dei fatti noti ad un ampio pubblico senza riferirsi ad alcun collega in particolare. Molti altri colleghi avrebbero potuto corrispondere al profilo del magistrato coinvolto nei fatti ai quali aveva fatto riferimento.

67. Concludendo, la ricorrente afferma che la sua condanna ha gravemente violato il diritto ad esprimere liberamente la sua opinione, fatto non tollerabile in uno stato di diritto. Peraltro, la proporzionalità dell'ingerenza non può essere dedotta dalla lievità della sanzione: a suo parere, l'ammonimento ha avuto delle ripercussioni sul suo avanzamento di carriera e sullo sviluppo della sua personalità.

b) Il Governo

68. Il Governo sostiene che la ricorrente è stata scagionata per quanto riguardava le sue dichiarazioni che rientravano in una critica generale del sistema giudiziario italiano ed è stata sanzionata esclusivamente per delle affermazioni calunniose e prive di fondamento contro uno dei suoi colleghi. Contrariamente a quanto la ricorrente sostiene, E.F. era facilmente individuabile dalle dichiarazioni rese al quotidiano Libero il 28 maggio 2003. Per di più questo magistrato era risultato completamente estraneo ai fatti denunciati dalla ricorrente. L'esigenza di tutelare la reputazione altrui e di difendere il prestigio della magistratura è sufficiente secondo il Governo a giustificare la sanzione inflitta, che peraltro non può essere considerata sproporzionata.

2.  Valutazione della Corte

a) Principi generali

69. La Corte ricorda che le tutele dell'articolo 10 si estendono alla sfera professionale in generale e ai funzionari in particolare (Vogt c. Germania, 26 settembre 1995, § 53, serie A n. 323; Wille c. Liechtenstein [GC], n. 28396/95, § 41, CEDU 1999 VII; Fuentes Bobo c. Spagna, n. 39293/98, § 38, 29 febbraio 2000; Guja c. Moldova [GC], n. 14277/04, § 70, CEDU 2008; e Kayasu c. Turchia, nn. 64119/00 e 76292/01, § 77, 13 novembre 2008). Se per lo Stato appare legittimo sottoporre i suoi agenti ad un obbligo di riservatezza, si tratta comunque di individui che, a questo titolo, beneficiano della tutela dell'articolo 10 della Convenzione.

70. È compito della Corte, tenendo conto delle circostanze di ciascuna causa, verificare se sia stato rispettato un giusto equilibrio tra il diritto fondamentale dell'individuo alla libertà di espressione e l'interesse legittimo di uno Stato democratico a vigilare affinché la sua funzione pubblica operi per le finalità enunciate all'articolo 10 § 2. Resta comunque il fatto che, dal momento in cui è in gioco il diritto alla libertà di espressione dei funzionari, i «doveri e le responsabilità» di cui all'articolo 10 § 2 assumono un significato speciale che giustifica un certo margine di apprezzamento lasciato alle autorità dello Stato convenuto per stabilire se l'ingerenza controversa sia o meno proporzionata allo scopo enunciato (Vogt, sopra citata, § 53, e Ahmed e altri c. Regno Unito, 2 settembre 1998, § 61, Recueil 1998-VI).

71. Le questioni che riguardano il funzionamento della giustizia, istituzione essenziale in qualsiasi società democratica, rientrano nell'interesse generale. È tuttavia opportuno tener conto della particolare missione del potere giudiziario nella società. Come garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, la sua azione ha bisogno della fiducia dei cittadini per prosperare. Può anche risultare necessaria una tutela dagli attacchi distruttivi privi di un serio fondamento, soprattutto quando l’obbligo di riservatezza vieta ai magistrati coinvolti di reagire (Prager e Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, § 34, serie A n. 313). L’espressione «autorità del potere giudiziario» riflette soprattutto l'idea che i tribunali costituiscono gli organi appropriati per decidere sulle controversie giuridiche e pronunciarsi sulla colpevolezza o innocenza per quanto riguarda un'accusa in materia penale, che il pubblico li considera come tali e che la loro capacità a svolgere questo compito suscita rispetto e fiducia nei loro confronti (Worm c. Austria, 29 agosto 1997, § 40, Recueil 1997-V). Ne va della fiducia che i tribunali di una società democratica devono suscitare non soltanto nelle parti in giudizio, ma anche nell'opinione pubblica (Koudechkina c. Russia, n. 29492/05, § 86, 26 febbraio 2009; si veda anche, mutatis mutandis, Fey c. Austria, 24 febbraio 1993, § 30, serie A n. 255-A). In particolare, ci si può ragionevolmente attendere che i funzionari dell'ordinamento giudiziario facciano uso della loro libertà di espressione con riserbo ogniqualvolta l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario possano essere chiamati in causa (Wille, sopra citata, § 64).

72. La Corte rammenta che il suo compito non è sostituirsi ai giudici nazionali, ma verificare sotto il profilo dell'articolo 10 le decisioni che questi ultimi hanno emesso in virtù del loro potere discrezionale. Per questo essa deve considerare l'«ingerenza» controversa alla luce di tutta la causa per stabilire se fosse «fondata su bisogni sociali imperativi» e se i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificarla appaiano «pertinenti e sufficienti» (Laranjeira Marques da Silva c. Portogallo, n. 16983/06, § 49, 19 gennaio 2010).

73. Peraltro, anche la natura e la gravità delle pene inflitte sono elementi da prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza (Ceylan c. Turchia [GC], n. 23556/94, § 37, CEDU 1999-IV; Tammer c. Estonia, n. 41205/98, § 69, CEDU 2001-I; Skałka c. Polonia, n. 43425/98, §§ 41-42, 27 maggio 2003; Lešník c. Slovacchia, n. 35640/97, §§ 63-64, CEDU 2003-IV ; e Perna c. Italia [GC], n. 48898/99, § 39, CEDU 2003-V).

b) Applicazione di questi principi al caso di specie

i. Legalità dell'ingerenza e perseguimento di uno scopo legittimo

74. La Corte rileva che la sanzione disciplinare inflitta alla ricorrente costituisce un’ingerenza delle autorità pubbliche nell'esercizio della libertà di espressione riconosciuta dall'articolo 10 della Convenzione. Questa ingerenza era «prevista dalla legge», ossia dall'articolo 18 del regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946 (paragrafo 20 supra). La Corte ritiene inoltre che questa ingerenza perseguisse degli scopi riconosciuti legittimi dalla Convenzione, in questo caso la protezione della «reputazione o dei diritti altrui» e la garanzia della «autorità e imparzialità del potere giudiziario».

ii Proporzionalità dell'ingerenza

75. Per quanto riguarda la questione di stabilire se l'ingerenza fosse «necessaria in una società democratica», la Corte attribuisce una particolare importanza alla funzione svolta dalla ricorrente, al contenuto delle affermazioni controverse e alle circostanze nelle quali queste ultime sono state divulgate.

76. Occorre osservare che, poiché la ricorrente scagionata in relazione alle sue critiche riguardanti il sistema giudiziario in generale (paragrafo 13 supra), l'oggetto della condanna consiste essenzialmente nelle sue dichiarazioni rese alla stampa in merito alle manovre asseritamente compiute da un magistrato per favorire la propria figlia in un concorso pubblico.

77. La ricorrente afferma che le sue dichiarazioni del 28 maggio 2003 non facevano riferimento né a E.F. né ad altri colleghi in particolare ed erano semplicemente volte a commentare un episodio di attualità già noto al pubblico (paragrafo 66 supra). Tuttavia, la Corte ritiene che non sia compito suo stabilire se altre persone potessero essere interessate dalle dichiarazioni della ricorrente o se questa intendesse veramente riferirsi a E.F. A tale proposito, la Corte ritiene che le autorità nazionali fossero in una posizione migliore per rispondere a tale questione.

78. La sezione disciplinare, dopo aver sentito gli argomenti della ricorrente, ha concluso che E.F. era l'unico magistrato che potesse corrispondere alla descrizione da lei fornita e che, con le sue dichiarazioni, aveva confermato voci infondate che circolavano in ambiente giudiziario a proposito delle irregolarità che si erano verificate nell'ultimo concorso pubblico di accesso alla magistratura e sulle quali erano in corso delle indagini (paragrafo 13 supra).

79. Alla luce delle dichiarazioni controverse e tenuto conto del contesto generale nel quale erano state espresse, la Corte non considera irragionevole la conclusione dei giudici nazionali secondo la quale la ricorrente non ha dato prova della discrezione richiesta ad un magistrato. In effetti, tramite le dichiarazioni in causa, la ricorrente ha affermato che la notizia dell'intervento di un membro della commissione del concorso per l’assunzione di magistrati in favore di un familiare di un altro magistrato era di una «gravità estrema». L'interessata non ha considerato i possibili dubbi circa la veridicità dell'informazione, contribuendo così a presentare come fondata all'opinione pubblica una voce che in seguito è risultata essere priva di fondamento.

80. Sottolineando la massima discrezione imposta alle autorità giudiziarie, la Corte rammenta che questa discrezione deve indurle a non utilizzare la stampa, neanche per rispondere alle provocazioni. Così vogliono gli imperativi superiori della giustizia e l’importanza della funzione giudiziaria (si veda, mutatis mutandis, Buscemi c. Italia, n. 29569/95, § 67, CEDU 1999 VI; Kayasu, sopra citata, § 100; e Poyraz c. Turchia, n. 15966/06, § 69, 7 dicembre 2010).

81. Inoltre, le dichiarazioni in questione facevano riferimento a reati gravi che sarebbero stati commessi da un collega magistrato. La ricorrente non contesta che le voci di manovre illecite da parte di E.F. non sono state confermate da alcun elemento oggettivo. La Corte rammenta l'importanza per i magistrati di beneficiare della fiducia del pubblico nell’esercizio delle loro funzioni (Poyraz, sopra citata, § 77).

82. La Corte rammenta altresì che nelle cause analoghe alla presente, nelle quali è necessario, tra l'altro, trovare un equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla libertà di espressione, l'esito del ricorso non può, in linea di principio, variare a seconda che il ricorso sia stato proposto dalla persona oggetto di affermazioni ritenute diffamatorie dalla Corte, sotto il profilo dell'articolo 8 della Convenzione, o dall'autore delle stesse affermazioni, sotto il profilo dell'articolo 10. In effetti, questi diritti meritano a priori pari rispetto (Hachette Filipacchi Associés (ICI PARIS) c. Francia, n. 12268/03, § 41, 23 luglio 2009; Timciuc c. Romania (dec.), n. 28999/03, § 144, 12 ottobre 2010; e Mosley c. Regno Unito, n. 48009/08, § 111, 10 maggio 2011). Pertanto, il margine di apprezzamento dovrebbe in linea di principio essere lo stesso in entrambi i casi. Se la valutazione di questi interessi da parte delle autorità nazionali è fatta nel rispetto dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, occorrono serie ragioni affinché quest'ultima sostituisca il suo parere a quello dei giudici nazionali (MGN Limited c. Regno Unito, n. 39401/04, §§ 150 e 155, 18 gennaio 2011, e Palomo Sánchez e altri c. Spagna [GC], nn. 28955/06, 28957/06, 28959/06). Secondo la Corte nel caso di specie mancano ragioni di questo tipo.

83. In queste condizioni, la Corte è del parere che i motivi invocati dalla sezione disciplinare per giustificare la sanzione fossero al tempo stesso pertinenti e sufficienti. Peraltro questa sanzione era la più lieve tra quelle previste dal diritto nazionale, ossia un ammonimento. Pertanto essa non può essere considerata sproporzionata.

84. La Corte osserva anche che la presente causa si distingue della causa Koudechkina c. Russia (n. 29492/05, §§ 82-102, 26 febbraio 2009), in cui essa aveva concluso per la violazione dell'articolo 10 della Convenzione. In effetti, a differenza della ricorrente, la sig.ra Koudechkina era stata sanzionata per aver espresso, nell'ambito della sua campagna elettorale, delle critiche generali sul funzionamento dei tribunali di Mosca e del sistema giudiziario. I fatti che aveva attribuito a degli individui identificati o identificabili (in particolare, il presidente del tribunale di Mosca) rientravano nella sua diretta esperienza ed erano stati in parte confermati da alcuni testimoni. Inoltre, la sanzione inflitta alla sig.ra Koudechkina aveva comportato per lei la perdita del suo posto e di qualsiasi possibilità di esercitare la funzione di giudice.

85. Pertanto, alla luce della causa nel suo complesso e tenuto conto dell'importanza particolare che attribuisce alla funzione svolta dalla ricorrente, la Corte ritiene che la misura controversa non fosse sproporzionata rispetto allo scopo perseguito e che l'ingerenza potesse essere considerata «necessaria in una società democratica» ai sensi dell'articolo 10 § 2 della Convenzione.

86. Ne consegue che non vi è stata violazione dell'articolo 10 della Convenzione.

III. SULLE ALTRE VIOLAZIONI DEDOTTE

87. La ricorrente lamenta una violazione del suo diritto alla difesa dal momento che non ha potuto difendersi personalmente dinanzi alla Corte di cassazione e invoca l'articolo 6 § 3 c) della Convenzione, che recita:
«  In particolare, ogni accusato ha il diritto:

c) di difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta (...)».

88. Infine la ricorrente sostiene che l'unica possibilità per ricorrere dinanzi alla Corte di cassazione, che non dispone di giurisdizione piena, la priva del suo diritto ad un doppio grado di giudizio. Essa invoca l'articolo 2 del Protocollo n. 7, le cui disposizioni pertinenti sono così formulate.

«Ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale ha il diritto di far esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza o la condanna(...) ».

89. La Corte constata innanzitutto che le disposizioni di questi articoli non sono applicabili al caso di specie in quanto la controversia non attiene in alcun modo alla materia penale. Pertanto questi motivi sono incompatibili ratione materiae con le disposizioni della Convenzione e devono essere rigettati in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

  1. Dichiara, a maggioranza, irricevibile il motivo di ricorso basato sull'articolo 6 § 1 della Convenzione;
  2. Dichiara, all'unanimità, il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo di ricorso basato sull'articolo 10 della Convenzione e irricevibile per il resto.
  3. Dichiara, con cinque voti contro due, che non vi è stata violazione dell'articolo 10 della Convenzione.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 9 luglio 2013, in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Danutė Jočienė
Presidente

Stanley Naismith
Cancelliere

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l'esposizione dell’opinione separata dei giudici Sajó e Pinto de Albuquerque.

D.J.
S.H.N.

OPINIONE DISSENZIENTE COMUNE AI GIUDICI SAJO E PINTO DE ALBUQUERQUE

La causa Di Giovanni pone un problema fondamentale in uno Stato di diritto: quello della libertà di espressione dei giudici e dei limiti della stessa. Siamo giunti alla conclusione che lo Stato convenuto ha violato l’articolo 10 della Convenzione.

I giudici nazionali hanno ritenuto che le dichiarazioni della ricorrente riportate il 28 maggio 2003 dal quotidiano Libero si traducano in una violazione del dovere di riservatezza cha fa capo a tutti i magistrati. In particolare, le è stato contestato il fatto che la notizia secondo la quale un membro della commissione del concorso per magistrati era intervenuto in favore di un famigliare di un altro magistrato era di una «gravità estrema». È vero che la ricorrente non ha espresso riserve sulla veridicità dell’informazione contribuendo in tal modo a presentare come veritiera una voce che si è poi rivelata priva di fondamento.

Tuttavia, non si può ignorare il fatto che essa non ha indicato per nome il magistrato in causa e che, quindici giorni dopo la pubblicazione delle sue prime dichiarazioni, ha rilasciato una seconda intervista in cui si diceva dispiaciuta che le sue affermazioni avessero potuto «urtare la sensibilità di alcuni colleghi» e ha ammesso di non essersi «espressa chiaramente». Ha dunque precisato che le sue dichiarazioni erano intese unicamente a evidenziare una possibile sovrapposizione di interessi tra l’Associazione nazionale magistrati (ANM) e il CSM, e dunque la «possibile esistenza di centri di potere riconoscibili e definibili» che rischiava di pregiudicare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. In questo senso, le sue dichiarazioni riguardavano questioni di interesse pubblico.

È anche doveroso sottolineare che le affermazioni fatte dalla ricorrente nella sua prima intervista non hanno condotto all’apertura di un procedimento penale. Se da tali dichiarazioni non poteva derivare alcuna responsabilità penale per diffamazione, non sembra ragionevole che possano essere state applicate sanzioni disciplinari, e questo per due motivi. Da una parte, il giudice presumibilmente interessato dalle dichiarazioni della ricorrente non ha intentato un’azione civile né sporto una querela penale o disciplinare. Da una parte, il procedimento penale per diffamazione era comunque destinato ad avere esito negativo dal momento che la ricorrente non aveva citato alcun nome nella prima intervista.

A nostro parere, con le sue seconde dichiarazioni la ricorrente, in sostanza, ha precisato che non si riferiva ad alcun comportamento individuale e non formulava alcuna accusa diretta di manovre illegali contro uno o più colleghi. Inoltre, questa seconda intervista è stata pubblicata quindici giorni dopo la prima, sullo stesso giornale e con la stessa visibilità. La richiesta di avviare un procedimento disciplinare avrebbe potuto essere interpretata nel senso che, se l’intervista fosse stata effettivamente rilasciata nei termini riportati nel quotidiano Libero, poteva essere presa in considerazione una responsabilità disciplinare.

Per stabilire se un’eventuale restrizione «fosse necessaria nel caso di specie, bisogna determinare se il ricorrente abbia beneficiato di garanzie procedurali adeguate». Tali garanzie riguardano non solo la fase amministrativa, ma anche quella, successiva, del controllo giurisdizionale del procedimento amministrativo e, in particolare, l’efficacia di tale controllo .1

La sezione disciplinare del CSM non ha tenuto conto in maniera adeguata di tale considerazione. Quattro dei sei membri della sezione avevano firmato la richiesta di apertura pratica nei confronti della ricorrente.2 Per di più, lo stesso giudice relatore della decisione resa dalla sezione il 10 giugno 2005 faceva parte dei giudici firmatari della nota in questione. Peraltro, la nota era stata firmata, in ordine sparso, da quindici membri del CSM, ossia una maggioranza, il che dimostra che si trattava di una reazione del CSM in quanto corpo e non solo di una iniziativa individuale di alcuni dei suoi componenti. Attribuiamo importanza anche al fatto che la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso della ricorrente senza pronunciarsi su tale questione, che era stata tuttavia sollevata dall’interessata nell’ambito della sua eccezione di incostituzionalità.

Al riguardo, conviene notare che la Corte di cassazione non ha esaminato gli argomenti proposti dalla ricorrente nella sua memoria complementare in quanto quest’ultima non era firmata da un avvocato abilitato a patrocinare dinanzi ad essa. In tal modo, l’alta giurisdizione non sembra aver tenuto conto del fatto che la ricorrente era un magistrato esperto, presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli, e dunque in grado di elaborare argomenti tecnici per la sua difesa. Osserviamo pertanto che i giudici nazionali non si sono dimostrati disponibili a sentire e prendere in considerazione gli argomenti tecnici della parte convenuta in un procedimento disciplinare.3 Una tale omissione è tanto più inaccettabile se si considera che, secondo le norme vigenti all’epoca, la ricorrente aveva il diritto sia di difendersi personalmente che di nominare un difensore di fiducia, come ha riconosciuto la Corte Costituzionale nella sua sentenza n. 497 del 13 novembre 2000.

In effetti, la Corte di cassazione non ha nemmeno controllato la realtà dei fatti ascritti alla ricorrente, in particolare dell’accusa, sempre respinta dalla stessa, secondo la quale nella sua prima intervista si riferiva al magistrato Ettore Ferrara. A questa questione sollevata dall’interessata nel suo ricorso, l’alta giurisdizione ha risposto che si trattava di una questione di fatto che, in quanto tale, era già stata oggetto di decisione definitiva da parte dell’organo a quo. 4

Ricordiamo che la Carta europea sullo statuto dei giudici prevede che le decisioni che infliggono una sanzione devono essere prese da un’autorità esecutiva, da un giudice o da un’istanza composta almeno per la metà da giudici eletti e sancisce chiaramente il diritto di impugnazione (nella versione inglese, «appeal») dinanzi a un’istanza superiore di natura giurisdizionale avverso tali decisioni («[l]a decisione di un’autorità esecutiva, di un giudice o di un’istanza indicata al presente punto che pronuncia una sanzione può essere impugnata dinanzi ad un’istanza superiore di natura giurisdizionale», paragrafo 5.1 della Carta). Tale ricorso può riguardare i fatti o il diritto, la qualificazione giuridica dei fatti o la determinazione della misura sanzionatoria.

La stessa garanzia è prevista nella raccomandazione n. R (94) 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sull’indipendenza, l’efficienza e il ruolo dei giudici, al punto 3 del principio VI : «Quando devono essere adottate le misure di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo, gli Stati devono valutare la possibilità di istituire, in conformità ad una legge, un organo speciale competente per l'applicazione delle sanzioni e delle misure disciplinari, quando esse non siano prese in esame da un tribunale, e le cui decisioni dovranno essere controllate da un organo giudiziario superiore, o che sia esso stesso un organo giudiziario superiore. La legge dovrà prevedere delle procedure idonee a garantire che il giudice messo in causa fruisca almeno di tutte le garanzie dell'equo processo previste dalla Convenzione, ad esempio della possibilità che il caso sia discusso entro un termine ragionevole e del diritto di rispondere ad ogni accusa formulata nei suoi confronti.»

Tale garanzia appare anche nel Rapporto sull’indipendenza del sistema giudiziario, Parte I: l’indipendenza dei giudici della Commissione di Venezia, in cui la Commissione afferma che: «Per quanto riguarda i procedimenti disciplinari la Commissione, nel suo rapporto sulle nomine giudiziarie, si dice favorevole a che tali procedimenti siano di competenza di consigli della magistratura o di organi disciplinari. Inoltre, la Commissione ha sempre sostenuto che doveva essere possibile impugnare le decisioni degli organi disciplinari.» 5

Infine, nel paragrafo 72 del suo Parere n. 3 all’attenzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sui principi e norme che regolano gli imperativi professionali applicabili ai giudici, con particolare riguardo alla deontologia, ai comportamenti incompatibili e all’imparzialità, il Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) si è espresso in questi termini: «Il CCJE è del parere che in ogni Paese i procedimenti disciplinari dovrebbero prevedere la possibilità di impugnare la decisione pronunciata dal primo organo disciplinare (che si tratti di un’autorità, di un tribunale o di una corte) dinanzi ad una corte.»

Per di più, si deve ricordare che il CSM e la Corte di cassazione hanno sanzionato la ricorrente sulla base di una disposizione di legge molto criticabile che era estremamente imprecisa sulla repressione degli illeciti disciplinari , ossia il vecchio articolo 18 del Regio Decreto Legislativo n. 511 del 31 maggio 1946,6 che nel frattempo è stato sostituito, nell’ambito della riforma introdotta dal Decreto Legislativo n. 109 del 23 febbraio 2006, da altre disposizioni – gli articoli 2, 3 e 4 di detto Decreto Legislativo – volte a descrivere in maniera esauriente le condotte illecite.

A nostro parere, il controllo giurisdizionale dell’applicazione della misura in contestazione non è dunque stato adeguato nel caso di specie.7 In un certo senso, il procedimento stesso è divenuto la fonte della restrizione illegittima dei diritti della difesa e della libertà di espressione della ricorrente. Sarebbe stato necessario che la Corte di cassazione adottasse l’approccio esemplare «massimalista» della Corte costituzionale, secondo il la quale «con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell’indipendenza». 8

Infine, non possiamo accettare i limiti categorici che la camera impone alla libertà di espressione dei giudici, i quali, secondo lei, non dovrebbero avvalersi della stampa, nemmeno per rispondere alle provocazioni (paragrafo 80). Questa restrizione assoluta non tiene conto del fatto che diversi casi possono giustificare un intervento pubblico del giudice. Se gli imperativi superiori della giustizia impongono al giudice discrezione e riserva, essi non arrivano certo a obbligarlo al silenzio quando è oggetto di attacchi pubblici. Come qualsiasi altro professionista, il giudice ha il diritto di difendersi quando sono a rischio il suo onore e la sua reputazione professionale e, se l’attacco avviene sulla pubblica piazza, anche la difesa può sicuramente aver luogo sulla pubblica piazza.

Le autorità nazionali hanno contravvenuto alle esigenze procedurali dell’articolo 10. In tal modo, non hanno tenuto conto di queste considerazioni e i motivi dalle stesse addotti per giustificare l’ingerenza appaiono dunque inevitabilmente insufficienti .9 Pertanto, la sanzione disciplinare in contestazione non costituiva una misura necessaria in una società democratica ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione.

1 Lombardi Vallauri (n. 39128/05, § 46, 20 ottobre 2009), Saygılı e Seyman c. Turchia (n. 51041/99, §§ 24-25, 27 giugno 2006), Nur Radyo Ve Televizyon Yayinciligi A.Ş. c. Turchia (n. 2) (n. 42284/05, § 49, 12 ottobre 2010), Steel e Morris c. Regno Unito (n. 68416/01, § 95, CEDH 2005 II), Kudeshkina c. Russia (n. 29492/05, §§ 83 et 97, 26 febbraio 2009) e Mentes c. Turchia (n. 2) (n. 33347/04, § 50, 25 gennaio 2011).

2 Gubler c. Francia, n. 69742/01, §§ 28 e 29, 27 luglio 2006.

3 Olujic c. Croazia, n. 22330/05, § 78, 25 febbraio 2009.

4 Sentenza della Corte di Cassazione, pagina 10: insindacabilmente accertata dalla sezione disciplinare.

5 CDL-AD(2010)004, § 43.

6 La risposta del CSM del 15 febbraio 2010 rileva una totale atipicità delle fattispecie di rilievo disciplinare.

7 Si vedano, mutatis mutandis, Pellegrini c. Italia (n. 30882/96, CEDU 2001 VIII) e Lombardi Vallauri (sopra citata, § 71).

8 Si veda la sentenza n. 497/2000 della Corte Costituzionale: con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell’indipendenza.

9Association Ekin c. Francia, n. 39288/98, § 5, CEDU 2001 VIII.