Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 23 ottobre 2012 - Ricorso n. 19661/05 - Steliana Varban c.Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Ombretta Palumbo, funzionario linguistico.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
Ricorso n. 19661/05
Steliana VARBAN contro Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 23 ottobre 2012 in una camera composta da:
Ineta Ziemele, presidente,
Dragoljub Popović,
Isabelle Berro-Lefèvre,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato, proposto il 23 maggio 2005,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle avanzate in risposta dal ricorrente,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

La ricorrente, sig.ra Steliana Varban, è una cittadina rumena, nata nel 1953 e residente a Bucarest. È stata rappresentata dinanzi alla Corte dagli avv. R. Oncescu e C. Stanescu, del foro di Bucarest.

Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, Francesco Crisafulli.

Il governo rumeno, che è stato informato del ricorso (articoli 36 § 1 della Convenzione e 44 § 1 a) del regolamento), non ha voluto esercitare il suo diritto di intervento nella procedura.

A. Le circostanze del caso di specie

I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

Le versioni dei fatti date dalla ricorrente e dal Governo sono parzialmente divergenti.

1. La versione della ricorrente

Con lettera del 25 marzo 2003, l’ufficio Interpol dell’ispettorato generale di polizia di Roma informò la ricorrente, tramite il ministero degli Interni rumeno, che il 25 marzo 2003 le autorità italiane avevano scoperto il cadavere di una donna, che avrebbe potuto essere sua figlia, Cristina, che viveva in Italia dal 2002. L’ufficio Interpol si atteneva ai risultati delle prime indagini della polizia di Arezzo, che aveva basato i propri sospetti relativamente all’identità del cadavere sul fatto che gli orecchini trovati su quest’ultimo erano stati riconosciuti da una terza persona come appartenenti a Cristina. La ricorrente e il marito – il sig. Sfefan Varban – furono invitati dall’ispettorato di polizia di Roma a recarsi in Italia per effettuare i test del DNA necessari a identificare il cadavere.

Il 6 luglio (ovvero il 9 giugno, secondo il Governo) 2003, la ricorrente e il marito si recarono in Italia, dove si sottoposero ai test del DNA all’ospedale di Roma. Durante il loro trasferimento in Italia, la ricorrente e il marito non furono chiamati a identificare il cadavere, a riconoscere dei gioielli o altri oggetti ritrovati in possesso della vittima, né a fare dichiarazioni sulla figlia e sul suo ambiente di frequentazione. Essi non ricevettero alcuna informazione da parte delle autorità italiane relativamente alle persone che avevano identificato gli orecchini ritrovati sul cadavere o che avevano denunciato la scomparsa della figlia. Furono informati che avrebbero ricevuto il risultato dei test del DNA entro il termine massimo di tre mesi.

Non avendo ricevuto alcuna comunicazione relativamente ai test entro il termine indicato, i ricorrenti cominciarono ad avviare diverse pratiche, contattando soprattutto la stampa, per ottenere informazioni sull’andamento dell’inchiesta.

Il 26 marzo 2004 il ministero degli Affari esteri rumeno trasmise loro una lettera dalla procura di Arezzo indirizzata all’Ambasciata di Romania, con cui venivano informati che i test del DNA avevano confermato che il corpo trovato era quello della figlia.

Con lettera del 25 agosto 2005, giunta all’Ambasciata di Romania in Italia il 5 settembre 2005, la procura informò la ricorrente che il corpo della figlia Cristina si trovava nell’Istituto di medicina legale di Perugia ai fini delle indagini, che la perizia medico-legale aveva confermato che si trattava di un delitto il cui presunto autore era il cittadino italiano P.P., ultimo convivente di Cristina prima della sua scomparsa, che avrebbe nascosto il corpo della vittima. Infine, la procura indicò che il sig. P.P. era stato sottoposto a custodia cautelare l’11 gennaio 2005 e che i parenti della vittima sarebbero stati tenuti al corrente dello svolgimento del procedimento penale, al fine di potere esercitare i loro diritti.

Da allora, la ricorrente non avrebbe ricevuto alcuna informazione sull’inchiesta condotta dalle autorità italiane in seguito al decesso della figlia, il cui corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia.

2. La versione del Governo

Il Governo presenta una diversa ricostruzione dei fatti, basata sugli atti giudiziari del procedimento penale relativo alla morte di Cristina.

Il Governo rileva che il cadavere di Cristina fu ritrovato il 25 marzo 2003. Era rimasto nell’acqua per circa cinque mesi ed era avvolto in un sacco di plastica. Anche prima dei test del DNA si era giunti a una quasi certezza sull’identità della vittima, che lavorava come «entraîneuse» in un night club. Erano state quindi interrogate le persone del suo ambiente, tra cui l’uomo che poi sarebbe diventato il principale sospettato. Furono effettuati numerosi esami scientifici: esame necroscopico, autopsia, perizia sul materiale organico trovato sul cadavere e sul sacco in cui era avvolto, nonché sulle tracce trovate nel veicolo del sospettato. Per circa cinque mesi, la persona sospettata fu sottoposta a intercettazione telefonica e ambientale. Altri interrogatori ebbero luogo sulla base degli elementi raccolti.

Il 9 giugno 2003 la ricorrente e il marito arrivarono in Italia. L’11 giugno 2003 furono prelevati loro dei campioni di saliva, che risultarono estremamente compatibili con il DNA del cadavere.

Il 16 giugno 2003 il nome del principale indagato, il sig. P.P., convivente della vittima, fu iscritto nel registro delle notizie di reato. Il 2 luglio 2003, gli inquirenti ottennero il DNA del sig. P.P. grazie alle tracce lasciate su una sigaretta, ma non fu possibile stabilire con certezza che quel DNA corrispondeva a quello trovato sul cadavere e sugli oggetti vicini.

Il 23 luglio 2003 i carabinieri di Arezzo informarono l’Ambasciata di Romania e l’Interpol che il cadavere ritrovato il 25 marzo 2003 era quello di Cristina Varban.

Nel dicembre 2003 furono interrogati i vicini del sig. P.P. Una di loro dichiarò di aver sentito dei rumori sospetti provenienti dall’appartamento del sig. P.P. il giorno presunto della scomparsa della vittima (27 ottobre 2002). Il giorno dopo i vicini avevano trovato delle tracce rosse sulle scale dell’immobile e il sig. P.P. si era occupato di lavarle.

Con nota del 30 marzo 2004, la procura di Arezzo informò l’Ambasciata di Romania che non era possibile, in quel momento, autorizzare la sepoltura del cadavere di Cristina Varban, ormai identificata, visto che il giudice avrebbe potuto voler ordinare ulteriori verifiche su quest’ultimo, conservato all’Istituto medico-legale. Appena cessate le esigenze legate all’inchiesta, le spoglie sarebbero state immediatamente messe a disposizione della famiglia della vittima.

Nel mese di agosto 2004 i risultati dell’autopsia indicarono che il decesso di Cristina era stato probabilmente causato da un trauma cranico; non era tuttavia possibile escludere la morte per asfissia o annegamento. Il 14 ottobre 2004 il veicolo del sig. P.P. fu sequestrato ed esaminato: vi furono trovate tracce di sangue che, secondo un esame biologico, avevano un’alta probabilità di appartenere a Cristina.

Il 21 dicembre 2004 la procura di Arezzo chiese di sottoporre il sig. P.P. a custodia cautelare; la richiesta fu accolta l’11 gennaio 2005.

Con nota del 25 agosto 2005, la procura di Arezzo comunicò all’Ambasciata di Romania che il cadavere trovato il 25 marzo 2003 era quello di Cristina Varban, che le sue spoglie si trovavano presso l’Istituto di medicina legale, che le perizie avevano confermato che si trattava di un omicidio, che una persona indagata era stata sottoposta a custodia cautelare, che il procedimento era pendente nella fase delle indagini preliminari e che i parenti della vittima sarebbero stati tenuti al corrente della conclusione di queste ultime per poter esercitare i loro diritti nell’ambito del processo. La procura chiese all’Ambasciata di trasmettere queste informazioni alla ricorrente.

Il 28 febbraio 2006 la ricorrente e il marito elessero domicilio in Italia presso una terza persona residente a Roma, che era autorizzata a ricevere la corrispondenza relativa al procedimento penale per l’omicidio di Cristina. Il 15 marzo 2006 la ricorrente ricevette a quell’indirizzo copia della richiesta di rinvio a giudizio e dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare.

Quest’ultima ebbe luogo il 28 marzo 2006. Il sig. P.P. non comparve; la ricorrente e il marito erano presenti e nominarono un avvocato per rappresentarli. L’udienza fu rinviata al 20 aprile 2006. In tale data, tramite i loro due avvocati, la ricorrente e il marito si costituirono parte civile nel procedimento contro il sig. P.P.

Il 9 maggio 2006 il sig. P.P. fu rinviato a giudizio dinanzi alla corte d’assise di Arezzo. Il 21 maggio 2006 decedette. Il giorno dopo l’avvocato della ricorrente fu informato del decesso. Il 26 maggio 2006 la procura di Arezzo autorizzò l’inumazione della salma di Cristina Varban.

Con sentenza del 19 giugno 2006, il cui testo fu depositato in cancelleria il 21 giugno 2006, la corte d’assise di Arezzo pronunciò un non luogo a procedere nei confronti del sig. P.P., vista l’estinzione del reato in seguito alla morte dell’imputato. La sentenza passò in giudicato il 19 settembre 2006.

Il 13 luglio 2006 il sig. D.C., incaricato dalla ricorrente, fu autorizzato a trasportare le spoglie dall’obitorio di Perugia al cimitero di Bucarest.

B. Il diritto interno pertinente

L’articolo 116 delle norme di attuazione del codice di procedura penale si intitola «indagini sulla morte di una persona per la quale sorge sospetto di reato». Il suo primo comma è così formulato:

« Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa  necessario, ordina l’autopsia secondo le modalità previste dall’art. 360 del codice, ovvero fa richiesta di incidente probatorio, dopo aver compiuto le indagini occorrenti per l’identificazione. Trattandosi di persona sconosciuta, ordina che il cadavere sia esposto nel luogo pubblico a ciò designato e, occorrendo, sia fotografato; descrive nel verbale le vesti e gli oggetti rinvenuti con esso, assicurandone la custodia. Nei predetti casi la sepoltura non può essere eseguita senza l’ordine del procuratore della Repubblica»

MOTIVI DI RICORSO

  1. Invocando l’articolo 2 della Convenzione, la ricorrente lamenta la passività delle autorità italiane nel condurre l’inchiesta relativa al decesso della figlia.
  2. Invocando l’articolo 8 della Convenzione, la ricorrente lamenta la mancata restituzione delle spoglie della figlia.
  3. La ricorrente sostiene altresì che vi è stata una violazione del diritto al rispetto delle proprie convinzioni religiose a causa dell’impossibilità di inumare la figlia secondo il rito cristiano-ortodosso.

IN DIRITTO

  1. La ricorrente ritiene che le autorità italiane non abbiano condotto un’inchiesta effettiva sulle circostanze relative al decesso della figlia, e invoca l’articolo 2 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, è così formulato:

«1. Il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge. (...)»

A. Argomenti delle parti

1. La ricorrente

La ricorrente fa notare che l’inchiesta non è stata condotta diligentemente, che lei non è stata né coinvolta dalle autorità italiane nello svolgimento delle indagini né tenuta al corrente del risultato di queste ultime. La ricorrente rileva che, in mancanza di un risultato concreto da parte delle autorità italiane, lei non poteva né avviare le procedure relative alla dichiarazione di scomparsa o di decesso della figlia, né procedere agli atti giuridici relativi ai beni da questa posseduti in Romania.

Nelle sue osservazioni, il Governo ha fatto delle considerazioni azzardate per quanto riguarda il rapporto che legava la ricorrente alla figlia, e ciò a causa della distanza e dell’attività professionale di Cristina. Non è stato chiesto alla ricorrente di contribuire alle indagini in alcun modo, neanche facendo delle dichiarazioni. La ricorrente quindi non è stata «coinvolta» nel procedimento nel senso della giurisprudenza della Corte, di cui il Governo stesso ammette di non aver colto il significato.

2. Il Governo

Il Governo rileva che identificare l’autore di un omicidio quattro o cinque mesi dopo il ritrovamento della vittima non è una cosa semplice e che arrestare qualcuno con l’accusa di omicidio non è una procedura irrilevante che si possa iniziare senza disporre di elementi convincenti. Gli inquirenti hanno utilizzato i mezzi da loro ritenuti efficaci e scartato altri mezzi, quali le domande suggerite dalla ricorrente, in quanto ritenuti superflui, impossibili da mettere in atto o proibiti dalla legge.

Spetta agli inquirenti e ai giudici nazionali determinare, in un determinato caso, quali siano le pratiche investigative utili all’accertamento della verità. La Convenzione non può essere interpretata nel senso di imporre agli inquirenti di formulare domande inutili a persone che, a causa di circostanze oggettive, non possono aiutare a identificare il colpevole, di procedere ad controlli relativi a un’identità già accertata o di compiere altre procedure superflue.

Visto che il cadavere, che era rimasto quattro o cinque mesi nell’acqua, era in stato di decomposizione avanzata, il riconoscimento era impossibile, come indicato nella comunicazione inviata alla polizia rumena che ne ha informato la ricorrente. Il riconoscimento degli oggetti personali della vittima non era di alcun interesse in quanto il test del DNA avrebbe dissipato ogni dubbio relativamente alla sua identità. Le dichiarazioni che la ricorrente avrebbe potuto fare riguardo alla figlia – che viveva in Italia da qualche anno – non erano di alcun interesse e, considerata l’attività professionale di Cristina, la ricorrente avrebbe difficilmente potuto apportare precisazioni sulle sue frequentazioni, «che non erano del tipo di cui si parla volentieri con mamma». L’inchiesta svolta dalle autorità italiane ha portato a identificare un sospetto, ad arrestarlo e a rinviarlo a giudizio con una serie di indizi talmente gravi da giustificare la sua condanna se il decesso non fosse intervenuto a ostacolare il corso della giustizia.

Per quanto riguarda il dovere di informare la famiglia della vittima, il Governo precisa che tale dovere non deve prevalere sulla regola generale del segreto delle indagini: la comunicazione di informazioni non può avvenire se può nuocere all’efficacia dell’inchiesta. Inoltre, l’informazione ha un senso se permette agli interessati di esercitare i diritti e le facoltà riconosciuti loro dalle norme procedurali. «Coinvolgere» i parenti della vittima nel procedimento non può significare né invitarli a giocare ai «detective dilettanti» né imporre loro lo spettacolo di un cadavere in decomposizione.

Nel caso di specie, la ricorrente si è presentata personalmente all’udienza preliminare, ha nominato due avvocati, ha eletto domicilio in Italia presso una persona che ha ricevuto tutte le notifiche e si è costituita parte civile. Tra l’altro, la ricorrente avrebbe potuto nominare un avvocato fin dal suo primo viaggio in Italia il 9 giugno 2003 e «sempre ammesso che avesse qualcosa di utile da comunicare o suggerire o chiedere agli inquirenti, la ricorrente avrebbe potuto partecipare più attivamente all’inchiesta. Con quale utilità, resta da vedere...».

Il Governo aggiunge che è curioso apprendere gli eventuali suggerimenti della ricorrente «relativamente alle migliori tecniche investigative in un caso di omicidio» e che «probabilmente la ricorrente non ha un’idea precisa dell’aspetto generale di un cadavere che è rimasto 4 o 5 mesi nell’acqua», ma che comunque «lo spettacolo non sarebbe stato dei più divertenti».

B. Valutazione della Corte

1. Osservazione preliminare

La Corte ha esaminato le osservazioni presentate dalle parti. La Corte rammenta che, anche se queste ultime hanno il diritto di presentare argomenti al fine di sostenere le proprie tesi e di dimostrare la fragilità delle tesi contrarie, la procedura dinanzi alla Corte deve essere improntata sul reciproco rispetto. Ora, alcune espressioni utilizzate dal Governo danno adito a essere interpretate come tendenti a ridicolizzare la ricorrente e le sue opinioni. Ciò è tanto più disdicevole se si considera che i fatti all’origine del presente ricorso riguardano l’omicidio della figlia dell’interessata, e non possono essere dissociati dall’intensa sofferenza dei parenti di Cristina Varban.

2. Principi generali

La Corte rammenta che l’obbligo di proteggere il diritto alla vita imposto dall’articolo 2, combinato con il dovere generale che spetta allo Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di «riconosc[ere] a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel[la] (…) Convenzione», comporta e impone di condurre un’effettiva forma di inchiesta ufficiale quando il ricorso alla forza ha portato alla morte di una persona (Velcea e Mazare c. Romania, n. 64301/01, § 102, 1° dicembre 2009). L’inchiesta deve aver luogo ogni qualvolta vi sia stata la morte di una persona in seguito al ricorso alla forza, sia che i presunti autori siano agenti dello Stato sia che si tratti di terze persone (Tahsin Acar c. Turchia [GC], n. 26307/95, § 220, CEDU 2004 III). In particolare, l’inchiesta deve essere approfondita, imparziale e attenta (Çakıcı c. Turchia [GC], n. 23657/94, § 86, CEDU 1999 IV).

Tuttavia, quali che siano le modalità dell’inchiesta, le autorità devono agire d’ufficio, non appena la causa venga portata alla loro attenzione, e non possono lasciare ai parenti del defunto l’iniziativa di presentare una formale denuncia o di assumersi la responsabilità di una procedura di inchiesta (si vedano, ad esempio e mutatis mutandis, İlhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 63, CEDU 2000-VII, e Finucane c. Regno Unito, n. 29178/95, § 67, CEDU 2003-VIII).

Inoltre, l’inchiesta condotta deve essere effettiva, il che significa che deve essere adeguata, ossia deve permettere di portare all’identificazione e, eventualmente, alla punizione dei responsabili (Ramsahai e altri c. Olanda [GC], n. 52391/99, § 324, CEDU 2007 ...). Si tratta in questo caso di un obbligo non di risultato, ma di mezzi. Le autorità devono aver preso le misure a loro ragionevolmente accessibili al fine di raccogliere le prove relative al fatto (Tanrıkulu [GC], n. 23763/94, §§ 101-110, CEDU 1999-IV, § 109, e Salman c. Turchia [GC], n. 21986/93, § 106, CEDU 2000-VII).

La natura e il grado dell’esame che risponde al criterio minimo di effettività dell’inchiesta dipendono dalle circostanze del caso di specie e si valutano in base all’insieme dei fatti pertinenti e in considerazione delle realtà pratiche del lavoro investigativo. Non è possibile ridurre la varietà delle situazioni che possono verificarsi a una semplice lista di atti di inchiesta o ad altri criteri semplificati (Güleç c. Turchia, 27 luglio 1998, §§ 79-81, Recueil des arrêts et décisions 1998-IV; Velikova c. Bulgaria, n. 41488/98, § 80, CEDU 2000-VI; e Buldan c. Turchia, n. 28298/95, § 83, 20 aprile 2004).

In questo contesto è implicita un’esigenza di celerità e di ragionevole diligenza. Occorre ammettere che vi possano essere ostacoli o difficoltà che impediscono all’inchiesta di progredire in una particolare situazione. Tuttavia, quando si tratta di indagare sul ricorso alla forza omicida, una risposta rapida delle autorità può generalmente essere ritenuta essenziale per salvaguardare la fiducia dei cittadini nel rispetto del principio di legalità e per evitare ogni parvenza di complicità o di tolleranza relativamente ad atti illegali (McKerr c. Regno Unito, n. 28883/95, § 114, CEDU 2001-III, e Velcea e Mazare, sopra citata, § 106).

Per gli stessi motivi, deve essere garantito un diritto di osservazione adeguato sull’inchiesta o sulle sue conclusioni, in modo da poter chiamare in causa la responsabilità sia nella pratica che nella teoria. Il necessario grado di controllo dei cittadini può variare da una situazione all’altra, ma in ogni caso i parenti della vittima devono essere coinvolti nel procedimento nella misura necessaria alla tutela dei loro legittimi interessi (McKerr, sopra citata, § 148, e Velcea e Mazare, sopra citata, § 107).

3. Applicazione di questi principi al caso di specie

La Corte osserva che, nel caso di specie, appena ritrovato il corpo di Cristina, il 25 marzo 2003, le autorità italiane hanno avviato d’ufficio un’inchiesta penale per accertare le cause del decesso e identificare la vittima. Furono effettuati un’autopsia e un test del DNA, da cui risultò che la morte era stata provocata da un trauma cranico e che il cadavere apparteneva effettivamente alla figlia della ricorrente.

A partire dal momento in cui le autorità italiane sono state quasi certe che fosse stato commesso un crimine violento, esse hanno eseguito esami scientifici ed hanno interrogato più volte le persone dell’ambiente di frequentazione della vittima. Grazie agli elementi così raccolti, è stata identificata e sottoposta a intercettazione una persona sospetta (il sig. P.P.).

In seguito, le autorità si sono adoperate per confrontare il DNA del sig. P.P. con quello trovato sul cadavere e sugli oggetti intorno ad esso ed hanno eseguito test scientifici sulle tracce di sangue presenti all’interno del veicolo della persona sospettata. Sono stati inoltre interrogati i suoi vicini.

Agli occhi della Corte, nulla fa pensare che gli atti investigativi sopra elencati fossero inadatti o palesemente inefficaci. Essi hanno invece permesso agli inquirenti di raccogliere una serie di indizi significativi a carico del principale sospettato, il che ha portato a iscrivere il suo nome nel registro delle persone indagate, a sottoporlo a custodia cautelare e a rinviarlo a giudizio dinanzi alla corte d’assise di Arezzo.

Certo, in seguito al decesso dell’imputato, il processo si concluse con un non luogo a procedere, e non si possono formulare ipotesi sull’esito che avrebbe potuto avere il procedimento in corte d’assise se la giustizia avesse potuto seguire il suo corso. Nello stesso tempo, non si può biasimare lo Stato italiano per un fatto, come la morte del sig. P.P., rispetto al quale esso non ha alcuna responsabilità.

In queste circostanze, la Corte non può concludere che l’inchiesta non sia stata effettiva o che le indagini non siano state approfondite, imparziali e accurate.

Per quanto riguarda la celerità dell’inchiesta, la Corte osserva che l’iscrizione del nome della persona sospettata nel registro degli indagati è avvenuta il 16 luglio 2003, ossia meno di tre mesi dopo il ritrovamento del cadavere (25 marzo 2003). L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa circa un anno e mezzo dopo (11 gennaio 2005) e l’udienza preliminare si è tenuta quattordici mesi dopo, il 28 marzo 2006. È stato necessario soltanto poco più di un mese per pronunciare il rinvio a giudizio (9 maggio 2006).

Viste le difficoltà inerenti al chiarimento dei fatti in un caso che ha visto il ritrovamento di un cadavere in avanzato stato di decomposizione, la Corte ritiene che i tempi in questione non possano essere considerati eccessivi.

Per quanto attiene, infine, alla tutela degli interessi dei familiari della vittima nell’ambito dell’inchiesta penale in questione, la Corte osserva quanto segue. La ricorrente e il marito furono informati della probabilità che Cristina fosse deceduta con una lettera recante la data del giorno del ritrovamento del cadavere (25 marzo 2005); i coniugi furono altresì invitati a recarsi in Italia per effettuare un test del DNA al fine di identificare la vittima, il che avvenne nel giugno 2003. Con lettere del 23 luglio 2003, 30 marzo 2004 e 25 agosto 2005, le autorità italiane hanno informato l’Ambasciata di Romania che il cadavere era quello di Cristina Varban e hanno fornito dei dettagli relativamente al luogo dove era conservato e allo sviluppo delle indagini.

La ricorrente ha poi potuto eleggere domicilio in Italia e ricevere copia della richiesta di rinvio a giudizio e dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare. La ricorrente è comparsa in udienza e, per il tramite di due avvocati di fiducia, ha avuto la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale per omicidio intentato contro il sig. P.P.

In queste circostanze, la Corte ritiene che la ricorrente sia stata coinvolta nel procedimento nella misura necessaria alla tutela dei suoi interessi legittimi.

Alla luce di quanto sopra, la Corte non scorge alcuna parvenza di violazione del dovere di condurre una forma effettiva di inchiesta ufficiale relativamente alle circostanze del decesso di Cristina Varban.

Di conseguenza questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 (a) e 4 della Convenzione.

2. La ricorrente lamenta che il tempo trascorso fino alla restituzione del corpo di Cristina e al rilascio del permesso di inumarlo sono eccessivi.

Invoca l’articolo 8 della Convenzione, che recita:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (…).

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»

A. Argomenti delle parti

1. La ricorrente

La ricorrente sostiene che lo Stato italiano si è rifiutato di rimpatriare la salma di Cristina e di autorizzare la sua sepoltura per «più di quattro anni». Il 30 marzo 2004 – ossia un anno dopo la scoperta del cadavere – la ricorrente ne avrebbe chiesto la restituzione, ma questa sarebbe stata rifiutata dalla procura, il che ha aggravato la sofferenza causata dalla morte prematura di Cristina. La ricorrente si aspettava che, dopo il 30 marzo 2004, le autorità l’avrebbero informata d’ufficio sul momento in cui la salma non fosse stata più necessaria per le indagini.

Le autorità italiane dovevano giustificare e provare che il rifiuto di restituire il corpo alla famiglia aveva una base legale e perseguiva uno scopo legittimo. Una volta effettuati l’autopsia e i test scientifici sul cadavere, nulla giustificava il fatto di trattenerlo, in quanto qualsiasi altro elemento che potesse essere rinvenuto sarebbe stato messo a confronto con i risultati di quei test. Essendo rimasto per molto tempo nell’acqua e trovandosi in uno stato avanzato di decomposizione, un anno dopo il suo ritrovamento il cadavere non era più di alcuna utilità ai fini delle indagini.

Nelle sue osservazioni in risposta giunte in cancelleria il 12 dicembre 2007, la ricorrente lamenta altresì il fatto che le autorità italiane le avrebbero rifiutato il diritto di vedere la figlia per l’ultima volta, con la scusa che si trattava di uno spettacolo pietoso. Il cadavere di Cristina infatti è arrivato in Romania in una bara sigillata, che non poteva più essere aperta.

2. Il Governo

Il Governo sostiene anzitutto che non vi è stata ingerenza nella vita privata della ricorrente. Quest’ultima è stata informata del luogo in cui era conservata la salma della figlia, dell’esigenza di tenerlo ancora a disposizione della giustizia per le necessità procedurali e del fatto che, una volta soddisfatte queste esigenze, sarebbe stata autorizzata l’inumazione, ciò che è puntualmente successo.

Tra l’altro, anche ammettendo che il fatto di trattenere provvisoriamente il cadavere possa essere visto come un’ingerenza, questa era prevista dalla legge (articolo 116 delle norme di attuazione del CPP) e perseguiva uno scopo legittimo. Per quanto riguarda la sua proporzionalità, il Governo non capisce quale avrebbe potuto essere la soluzione intermedia tra seppellire e non seppellire un corpo, tra tenerlo a disposizione della giustizia e restituirlo alla famiglia residente all’estero. Rimanevano delle incertezze – che potevano essere sfruttate dalla difesa – sul piano medico e non si può ritenere che il giusto equilibrio sia stato rotto dal trascorrere del tempo. La difesa avrebbe potuto, in particolare, contestare i risultati dell’autopsia e degli altri esami effettuati, chiedendo un complemento di perizia o una seconda autopsia. L’impossibilità di procedere a tali esami avrebbe potuto pregiudicare i diritti della difesa o rendere impossibile la condanna del colpevole se ci fosse stato un ragionevole dubbio su alcuni dettagli fattuali. Anche se il cadavere era in stato di decomposizione, era possibile trarne elementi utili grazie alle moderne tecniche investigative.

Né la ricorrente – presente alla prima udienza preliminare – né i suoi avvocati – presenti alle altre due – hanno avanzato richieste di restituzione della salma. La nota della procura che indicava che le spoglie di Cristina dovevano essere tenute a disposizione della giustizia non può essere vista come un rifiuto di restituzione, in quanto non era stata presentata alcuna richiesta in proposito. Anche se la procura avrebbe difficilmente potuto accogliere tale richiesta durante le indagini preliminari, probabilmente non vi si sarebbe opposta dopo il rinvio a giudizio. In ogni caso, diverse autorità erano incaricate di decidere su un’eventuale domanda di restituzione, che, anche se respinta, avrebbe potuto essere ripresentata in fasi successive, visto che man mano potevano cambiare le esigenze.

Nelle sue osservazioni in risposta, la ricorrente lamenta per la prima volta il fatto che le sarebbe stato vietato di vedere il cadavere della figlia. Il Governo ritiene che ciò non corrisponda al vero. Il riconoscimento di un cadavere è un atto obbligatorio: le persone interessate sono obbligate a eseguirlo se richiesto dalle autorità. Nel caso di specie, tale riconoscimento non era necessario, visto che non vi era alcun dubbio sull’identità della vittima, e non vi erano quindi motivi per imporlo alla ricorrente e al marito. Tra l’altro, questi ultimi non hanno mai chiesto di esercitare il loro diritto di vedere la salma della figlia. Interrogata in proposito, la procura ha precisato che, davanti a tale richiesta, alla ricorrente sarebbe stato fortemente sconsigliato di sottoporsi allo choc e alla sofferenza che questo avrebbe comportato, visto lo stato pietoso del cadavere; tuttavia, non avrebbe potuto vietare alla ricorrente di vedere il corpo in quanto un divieto di questo tipo non avrebbe avuto una base legale.

B. Valutazione della Corte

La Corte ritiene che non sia necessario esaminare la questione di sapere se la ricorrente abbia chiesto la restituzione del corpo di Cristina. Il Governo stesso, infatti, ammette che difficilmente la procura avrebbe potuto accogliere una tale richiesta durante le indagini preliminari; inoltre, anche ammesso che tale richiesta sia stata presentata e respinta, questo motivo di ricorso è comunque irricevibile per le seguenti ragioni.

Nella causa Panullo e Forte c. Francia (n. 37794/97, §§ 35-37, 30 ottobre 2001), la Corte ha riconosciuto che un ritardo superiore a sette mesi nel rilascio del permesso di inumare la figlia dei ricorrenti costituiva un’ingerenza nel loro diritto al rispetto della loro vita privata e familiare (si veda altresì il richiamo della giurisprudenza pertinente in Hadri-Vionnet c. Svizzera, n. 55525/00, §§ 50-52, 14 febbraio 2008). La Corte non vede alcun motivo per discostarsi da tale conclusione nella presente causa, in cui sono passati tre anni e due mesi tra il ritrovamento del cadavere di Cristina (25 marzo 2003) e l’autorizzazione all’inumazione (26 maggio 2006).

Questa ingerenza era prevista dalla legge, e in particolare dall’articolo 116 delle norme di attuazione del CPP, che sottopone all’autorizzazione preventiva della procura la sepoltura del cadavere di una persona rispetto alla cui morte sorge il sospetto di un crimine. L’ingerenza perseguiva uno scopo legittimo, ossia la prevenzione di reati (si veda mutatis mutandis, Panullo e Forte, sopra citata, § 36) e la tutela dei diritti e delle libertà altrui.

Resta da stabilire se la suddetta ingerenza fosse «necessaria in una società democratica», ai sensi dell’articolo 8 § 2 della Convenzione.

La Corte ritiene che la presente causa si differenzi dalla causa Panullo e Forte (sopra citata, §§ 38-40), nella quale risultava dal fascicolo che dopo l’autopsia nessuna esigenza legata alle indagini imponeva di mantenere il corpo della figlia dei ricorrenti nell’Istituto di medicina legale. Al contrario, nel caso di specie la natura del reato e degli indizi a carico della persona sospettata suggerivano di mantenere il cadavere a disposizione delle autorità.

In proposito, la Corte osserva che il rapporto di autopsia aveva indicato soltanto una «probabile causa» del decesso e che il materiale organico trovato sul cadavere era stato oggetto di un certo numero di test scientifici per collegarlo con il DNA del sospettato. Tuttavia, era probabile che nel corso del procedimento la difesa dell’imputato avrebbe cercato di mettere in dubbio i risultati dell’autopsia e dei suddetti test scientifici. Agli occhi della Corte, quando un esame medico-legale riveste una importanza fondamentale ai fini della determinazione delle circostanze di un decesso, il concetto di processo equo impone, in linea di principio, di permettere alla difesa di chiedere degli esami integrativi e di nominare un perito di sua scelta per eseguirli o comunque per partecipare alla loro esecuzione. Questo è ancora più vero nell’ambito di un procedimento per omicidio doloso, tenuto conto della posta in gioco per l’imputato. Ora, l’Istituto di medicina legale era l’istituzione più appropriata per garantire uno stato di conservazione del cadavere compatibile con l’esecuzione di esami scientifici.

Inoltre, occorre tener conto del fatto che nel caso di specie la famiglia della vittima risiedeva a Bucarest. Pertanto, il rilascio del permesso di inumare avrebbe comportato il trasporto delle spoglie in Romania, il che avrebbe complicato eventuali procedure per riesumare il cadavere ed eseguire test scientifici integrativi.

In queste circostanze, la Corte ritiene che l’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare della ricorrente fosse necessaria in una società democratica per prevenire i reati e garantire il diritto del sig. P.P. a un equo processo.

Del resto, la Corte osserva che, tramite l’Ambasciata di Romania, la ricorrente è stata informata che il cadavere di Cristina era conservato all’Istituto di medicina legale e che l’inumazione non poteva essere autorizzata in ragione delle esigenze legate a un corretto svolgimento dell’inchiesta. Qualche giorno dopo la cessazione di quest’ultima, dovuta alla morte dell’imputato, la procura ha autorizzato l’inumazione. Una persona incaricata dalla ricorrente è stata in seguito autorizzata a trasportare le spoglie dall’obitorio di Perugia al cimitero di Bucarest.

Infine, la Corte non può ammettere le nuove doglianze sollevate dalla ricorrente nelle sue osservazioni di risposta del 12 dicembre 2007. Infatti, anche a voler supporre che queste non siano tardive, è opportuno osservare che dal fascicolo non risulta che la ricorrente abbia chiesto di vedere il corpo della figlia e che tale richiesta sia stata respinta. Tra l’altro, il Governo ha indicato che la procura non voleva e non poteva opporsi a una richiesta di questo tipo.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 (a) e 4 della Convenzione.

3.  La ricorrente ritiene che il suo diritto al rispetto delle proprie convinzioni religiose sia stato violato a causa dell’impossibilità di inumare la figlia secondo il rito cristiano-ortodosso, vista la mancata restituzione della salma di quest’ultima da parte delle autorità italiane.

La Corte ritiene che questo motivo di ricorso debba essere esaminato dal punto di vista dell’articolo 9 della Convenzione, che recita:

«1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e compimento di riti.

2.  La libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero non può essere oggetto di altre limitazioni oltre quelle previste dalla legge, e che costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica o la protezione dei diritti e delle libertà di altri. »

La Corte osserva che nulla ha impedito alla ricorrente di far inumare la figlia secondo il rito cristiano-ortodosso. Il ritardo con cui si è tenuta la cerimonia funebre desiderata dalla ricorrente è stato dovuto al ritardo nel rilascio del permesso di inumare, che la Corte ha ritenuto giustificato dal punto di vista dell’articolo 8 della Convenzione.

Di conseguenza non si pone alcuna questione distinta dal punto di vista dell’articolo 9 della Convenzione e questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 (a) e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Ineta Ziemele
Presidente

Stanley Naismith
Cancelliere