Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 6 marzo 2012 - Ricorso n.23563/07 - Gagliano Giorgi c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, funzionario linguistico

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA GAGLIANO GIORGI c. ITALIA
(Ricorso n. 23563/07)
SENTENZA
STRASBURGO
6 marzo 2012

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Gagliano Giorgi c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
Işıl Karakaş,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato, presentato il 31 maggio 2007,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 14 febbraio 2012,
Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

IN FATTO

1. Il ricorrente, sig. Mario Gagliano Giorgi, è un cittadino italiano, nato nel 1949 e residente a Milano. Ha adito la Corte il 31 maggio 2007. È rappresentato dinanzi alla Corte dagli avv. B. Nascimbene e M.S. Mori del foro di Milano. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, N. Lettieri.

I.LE CIRCONSTANZE DEL CASO DI SPECIE

2. I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

A .Il procedimento principale

3. Il ricorrente era ispettore presso l’Ufficio Stranieri della Questura di Milano.

4. Con decreto del 5 settembre 1988, notificato il giorno precedente, la procura del tribunale di Milano informò il ricorrente che aveva avviato un’azione penale nei suoi confronti per concussione (articoli 317 e 81 del codice penale) e ordinò la perquisizione del domicilio, dell’automobile e dell’ufficio del ricorrente, perquisizione che ebbe luogo il 6 settembre 1988.

5. Il 9 settembre 1988 fu sequestrato il computer del ricorrente.

6. Il 20 marzo 1989 il giudice istruttore («il giudice») del tribunale di Milano ordinò nuovamente delle perquisizioni che ebbero luogo il giorno successivo. Il 20 marzo 1989 il giudice emise un mandato di arresto nei confronti del ricorrente per concussione (articoli 317 e 81 del codice penale) e falso (articolo 479 dello stesso codice). Il ricorrente era accusato di avere costretto o spinto vari cittadini stranieri che necessitavano di titoli di soggiorno a versargli delle somme di denaro allo scopo di ottenere i titoli dall’Ufficio Stranieri. Era accusato inoltre di aver alterato il verbale di alcune dichiarazioni fatte da un cittadino straniero che aveva denunciato tale pratica. Il giudice ordinò anche l’arresto di altre sei persone implicate negli stessi fatti.

7. Il 21 marzo 1989 il Questore di Milano sospese il ricorrente dalle sue funzioni.

8. In data non precisata il ricorrente formulò una prima domanda di scarcerazione, che fu respinta dal giudice il 28 marzo 1989 in quanto vi era il rischio di inquinamento delle prove da parte del ricorrente.

9. In data non precisata il ricorrente contestò il mandato d’arresto dinanzi al tribunale del riesame di Milano. Il 30 marzo 1989 il tribunale respinse il ricorso del ricorrente.

10. In data non precisata il ricorrente presentò una nuova domanda di scarcerazione dinanzi al giudice. Con ordinanza depositata il 21 aprile 1989, quest’ultimo rigettò la domanda in considerazione del rischio di inquinamento delle prove. L’ordinanza del giudice fu confermata, il 29 maggio 1989, dal tribunale del riesame.

11. Con ordinanza depositata il 21 giugno 1989 il giudice, a seguito di una terza domanda del ricorrente, ne ordinò la scarcerazione in quanto, poiché la procura aveva raccolto prove in quantità sufficiente, non sussisteva più il rischio di inquinamento delle stesse.

12. Con ordinanza depositata il 25 gennaio 1990 il giudice dispose il rinvio a giudizio del ricorrente dinanzi al tribunale di Milano per concussione e falso (RG. n. 185/90). Altre sette persone furono rinviate a giudizio.

13. Dopo sei udienze, tenute tra l’8 e il 23 maggio 1990, di istruzione e di discussione, con sentenza resa il 25 maggio 1990, depositata in cancelleria il 22 giugno 1990, il tribunale condannò il ricorrente per concussione e falso a quattro anni e sei mesi di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

14. Il 26 maggio 1990 il ricorrente interpose appello avverso tale sentenza dinanzi alla corte d’appello di Milano (RG n. 4630/90), chiedendo il rinnovo dell’istruzione e del dibattimento, la propria assoluzione o la derubricazione dei fatti contestati in corruzione.

15. Il 5 luglio 1990, dinanzi al pretore di Monza, il ricorrente elesse domicilio, ai fini del procedimento dinanzi alla corte d’appello di Milano, nel comune di S. Zenone al Lambro (Milano), presso la sig.ra V.S.

16. Il 7 aprile 1993 il presidente della corte d’appello di Milano fece notificare la citazione a comparire all’udienza del 18 maggio 1993 a uno degli avvocati del ricorrente.

17. Delle sette udienze fissate tra il 18 maggio e il 29 novembre 1993, una fu rinviata d’ufficio, una in quanto la Questura di Milano non aveva prodotto i documenti richiesti dalla corte, una riguardò la dichiarazione di contumacia del ricorrente, una le domande di istruzione probatoria e la produzione di documenti da parte degli avvocati degli imputati, una il deposito di documenti da parte della Questura, una l’audizione di testimoni, una la presentazione delle conclusioni.

18. Con sentenza in data 29 novembre 1993, depositata in cancelleria il 22 dicembre 1993, la corte d’appello confermò la responsabilità del ricorrente solo per quanto riguarda alcuni degli episodi di concussione ascrittigli e, pertanto, portò a tre anni e otto mesi la pena complessiva stabilita nei suoi confronti per tale reato e per quello di falso.

19. Il 24 dicembre 1993 il ricorrente presentò ricorso per cassazione chiedendo in via principale l’annullamento della sentenza della corte d’appello in quanto la citazione a comparire all’udienza del 18 maggio 1993 era stata notificata al domicilio del suo avvocato e non al domicilio da lui eletto il 5 luglio 1990. In subordine, chiese nuovamente la derubricazione in corruzione dei fatti ascrittigli.

20. Con sentenza del 29 settembre 1994, depositata in cancelleria il 1° dicembre 1994, la Corte di cassazione annullò la sentenza della corte d’appello e rinviò la causa ad un’altra sezione di quest’ultima a causa, tra l’altro, della nullità della citazione a comparire.

21. Nel frattempo, il 10 marzo 1994, il Questore di Milano revocò la sospensione del ricorrente dalle sue funzioni. Quest’ultimo fu trasferito alla Questura di Torino.

22. L’udienza di discussione della causa dinanzi alla corte d’appello di Milano (RG n. 2637/94) fu fissata al 29 gennaio 1996. In data non precisata la corte d’appello dichiarò la contumacia del ricorrente.

23. Con sentenza in data 1° marzo 1996, depositata in cancelleria il 30 aprile 1996, la corte d’appello, dopo aver derubricato i fatti in «corruzione», dichiarò che il reato era estinto per prescrizione. Condannò il ricorrente, con il beneficio della condizionale, per il reato di falso, alla pena principale di un anno di reclusione e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un anno.

24. In data non precisata, anteriore al mese di luglio 1996, il ricorrente presentò un nuovo ricorso per cassazione. Affermò che la cancelleria della corte d’appello, notificando la citazione a comparire al suo domicilio eletto, ossia l’abitazione della sig.ra V.S., aveva erroneamente inviato la raccomandata all’attenzione di quest’ultima e non all’attenzione del ricorrente.

25. Con sentenza in data 7 ottobre 1997, depositata in cancelleria il 18 ottobre 1997, la Corte di cassazione accolse la domanda del ricorrente e rinviò la causa a un’altra sezione della corte d’appello.

26. In data non precisata, la cancelleria della corte d’appello notificò la citazione a comparire all’udienza del 26 marzo 1998 (RG n. 4288/97) a uno degli avvocati del ricorrente.

27. In tale data, la corte d’appello dichiarò nulla la citazione e ordinò la notifica della citazione all’udienza dell’11 giugno 1998 da parte della polizia giudiziaria presso la sig.ra V.S. e presso la Questura di Torino, in cui il ricorrente, nel frattempo, aveva preso servizio.

28. All’esito dell’udienza dell’11 giugno 1998, con sentenza resa lo stesso giorno, depositata in cancelleria il 24 giugno 1998, la corte d’appello dichiarò che il capo d’accusa di corruzione era prescritto e condannò il ricorrente alla pena di un anno di reclusione per falso e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un anno. Confermò il beneficio della sospensione dell’esecuzione della pena.

29. Il 2 ottobre 1998 il ricorrente presentò ricorso per cassazione. Affermò che la notifica della citazione a comparire all’udienza dell’11 giugno 1998 effettuata presso la sig.ra V.S. non conteneva l’indicazione corretta dell’autorità giudiziaria e che quella effettuata dalla Questura di Torino non era regolare in quanto era stata consegnata al suo superiore gerarchico.

30. Con sentenza del 14 aprile 1999, depositata in cancelleria il 29 aprile 1999, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente in quanto, secondo la giurisprudenza della stessa corte, la consegna a un superiore gerarchico comporta una presunzione di conoscenza da parte del destinatario della notifica, la quale è perciò regolare.

B. Il primo ricorso presentato dinanzi alla Corte

31. Il 12 ottobre 1999 il ricorrente adì la Corte con un ricorso (n. 52228/99) riguardante l’equità del procedimento intentato nei suoi confronti.

32. L’8 novembre 2002 la Corte, deliberando conformemente all’articolo 28 della Convenzione, dichiarò il ricorso manifestamente infondato.

C. Il procedimento «Pinto»

33. Il 16 ottobre 2001 il ricorrente adì la corte d’appello di Brescia ai sensi della legge «Pinto», chiedendo 60.000.000 lire italiane [30.987 euro] per il danno morale e materiale che riteneva di avere subito a causa della durata del procedimento principale.

34. Con decisione depositata il 21 febbraio 2002 la corte d’appello concluse per la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione unicamente per quanto riguarda la fase che va dal deposito della sentenza del tribunale di Milano (22 giugno 1990) alla pronuncia della prima sentenza in appello (29 novembre 1993), ritenendo che le altre fasi del procedimento non avessero subito alcun rallentamento, tenuto conto del numero di giudici che avevano dovuto deliberare sulla causa. Essa non accordò alcun indennizzo, in quanto il ricorrente non aveva dimostrato di aver subito un danno materiale o morale e, ad ogni modo, essendo stato condannato all’esito del procedimento principale, non aveva potuto subire alcun danno morale legato alla durata di quest’ultimo.

35. Il 24 aprile 2002 il ricorrente presentò ricorso per cassazione. Con sentenza depositata il 24 ottobre 2003, la Corte di cassazione cassò la decisione impugnata, ritenendo che l’esito sfavorevole di un processo non esclude di per sé l’esistenza di un danno morale derivante dalla sua durata e che, peraltro, i danni subiti a causa della durata di un procedimento devono essere dimostrati dall’interessato. Rinviò la causa dinanzi alla corte d’appello di Brescia.

36. Il 20 aprile 2004 il ricorrente adì quest’ultima adducendo, tra l’altro, che dopo il deposito della sentenza del 24 ottobre 2003 le sezioni unite della Corte di cassazione avevano pronunciato quattro sentenze che escludevano la necessità di dimostrare il danno morale (nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004).

37. Con decisione del 7 luglio 2004, depositata il 21 luglio 2004, la corte d’appello rigettò il ricorso, in quanto i principi derivanti dalle sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione non erano direttamente applicabili nel procedimento di rinvio e il ricorrente non aveva dimostrato il danno morale come era invece tenuto a fare. La corte d’appello rilevò peraltro che il ricorrente aveva interesse al protrarsi del procedimento finale per ottenere la prescrizione dei reati ascrittigli.

38. Il 15 novembre 2004 il ricorrente presentò ricorso per cassazione. Con sentenza depositata il 6 dicembre 2006, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente e lo condannò a pagare la somma di 3.000 euro per le spese processuali.

D. Il secondo ricorso presentato dinanzi alla Corte

39. Nel frattempo, il 10 novembre 2004, il ricorrente aveva nuovamente adito la Corte (ricorso n. 40739/04), lamentando l’eccessiva durata del procedimento «Pinto» e la mancanza di effettività di tale rimedio.

40. L’11 gennaio 2005 la Corte, in applicazione dell’articolo 28 della Convenzione, dichiarò il ricorso irricevibile nella sua globalità. Con lettera del 17 gennaio, il ricorrente fu informato che «tenuto conto di tutti gli elementi in suo possesso, e nella misura in cui era competente per conoscere delle allegazioni formulate, la Corte non ha rilevato alcuna violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli».

II.IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. La legge «Pinto»

41. Il diritto e la prassi interni pertinenti relativi alla legge n. 89 del 24 marzo 2001, detta «legge Pinto», sono riportati nella sentenza Cocchiarella c. Italia ([GC], n. 64886/01, §§ 23-31, CEDU 2006 V).

B. La rinuncia alla prescrizione in materia penale

42. L’articolo 157 c. 7 del codice penale, come modificato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 275/1990, recita:

Articolo 157 c. 7
«La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato.»

MOTIVI DI RICORSO

43. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamenta l’eccessiva durata del procedimento principale e la mancata riparazione nell’ambito del procedimento «Pinto». Contesta in particolare che la corte d’appello di Brescia, nelle sue decisioni del 21 febbraio 2002 e 7 luglio 2004, ha limitato a due anni la durata del procedimento principale che supera il termine «ragionevole» e non ha accordato risarcimenti in quanto egli non aveva dimostrato il danno morale subito il che sarebbe, invece, in re ipsa.

44. Invocando gli articoli 1, 13 e 46, lamenta il carattere non effettivo del rimedio «Pinto», in quanto la decisione della corte d’appello di Brescia del 7 luglio 2004 e la sentenza della Corte di cassazione del 6 dicembre 2006 non hanno applicato i criteri di indennizzo stabiliti dalla Corte e seguiti nelle sentenze rese dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nel 2004.

45. Sulla base dell’articolo 6 § 1, lamenta l’eccessiva durata del procedimento «Pinto».

46. Invocando gli articoli 1, 13 e 46, lamenta il carattere non effettivo del rimedio «Pinto», a causa della durata del relativo procedimento.

IN DIRITTO

I. MOTIVI DI RICORSO RELATIVI ALL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

47. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamenta l’eccessiva durata del procedimento principale e la mancata riparazione nell’ambito del procedimento «Pinto», nonché l’eccessiva durata di quest’ultimo.

48. Il Governo si oppone a questa tesi.

49. L’articolo 6 della Convenzione, nelle sue parti pertinenti, recita:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…), il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata (...)»

A. Sulla durata del procedimento principale e l’assenza di riparazione nell’ambito del procedimento «Pinto»

50. La Corte osserva che il ricorrente deduce una violazione dell’articolo 6 della Convenzione in quanto non ha ottenuto alcun indennizzo per un procedimento che è durato sei anni e sette mesi per tre gradi di giudizio.

Assenza di pregiudizio importante

51. Nelle sue osservazioni del 20 maggio 2010 il Governo deduce l’assenza di un pregiudizio importante per il ricorrente. Fa riferimento al testo dell’articolo 35 § 3 b) della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 14, secondo il quale la Corte può dichiarare un ricorso irricevibile se «il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno».

52. Il Governo afferma, in particolare, che il protrarsi del procedimento in contestazione ha permesso al ricorrente di beneficiare di una riduzione di pena a seguito dell’estinzione del reato di corruzione per prescrizione. Il Governo sostiene, inoltre, che il ricorrente avrebbe dimostrato un atteggiamento ostruzionista durante il processo allo scopo di fare scadere i termini di prescrizione.

53. La parte ricorrente rigetta gli argomenti del Governo per quanto riguarda la propria condotta durante il processo e nega qualsiasi presunto beneficio derivante dalla dichiarazione di prescrizione in questione. Sostiene in particolare che, poiché la sentenza di appello del 1° marzo 1996 ha già accordato al ricorrente il beneficio della sospensione condizionale, tale dichiarazione non avrebbe comportato alcuna modifica sostanziale della pena inflitta a quest’ultimo.

54. La Corte ricorda che il nuovo criterio dell’assenza del pregiudizio importante è stato concepito per permetterle di trattare rapidamente i ricorsi di carattere futile per concentrarsi sulla sua missione fondamentale, ossia garantire a livello europeo la tutela giuridica dei diritti sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli (Stefanescu c. Romania (dec.), n. 11774/04, 12 aprile 2011, § 35).

55. Derivata dal principio de minimis non curat praetor, la nuova condizione di ricevibilità rinvia all’idea che la violazione di un diritto, qualunque sia la sua realtà da un punto di vista strettamente giuridico, deve raggiungere una soglia minima di gravità per giustificare un esame da parte di una giurisdizione internazionale (Korolev c. Russia (dec), n. 25551/05, 1 luglio 2010). La valutazione di questa soglia è, per sua natura, relativa e dipende dalle circostanze del caso di specie (Korolev, sopra citata e, mutatis mutandis, Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, § 100, serie A n. 161). Tale valutazione deve tenere conto sia della percezione soggettiva del ricorrente che della posta in gioco oggettiva della controversia.

56. Visti i criteri derivanti dalla sua giurisprudenza in materia, la Corte ritiene che, per verificare se la violazione di un diritto raggiunge la soglia minima di gravità, è opportuno tenere conto in particolare degli elementi seguenti: la natura del diritto presumibilmente violato, la gravità dell’incidenza della violazione dedotta nell’esercizio di un diritto e/o le eventuali conseguenze della violazione sulla situazione personale del ricorrente (Giusti c. Italia, n. 13175/03, § 34, 18 ottobre 2011).

57. Nella fattispecie la Corte constata che, a causa della durata del procedimento in contestazione, l’11 giugno 1998 la corte d’appello ha dichiarato l’estinzione del capo di accusa di corruzione per prescrizione. Questo ha evidentemente comportato una diminuzione della pena nei confronti del ricorrente, tanto più che al reato prescritto era associata la pena più grave tra i due ascritti all’interessato, sebbene gli elementi del fascicolo non permettano di valutare l’importanza esatta di tale riduzione né di chiarire ulteriormente il legame esistente tra la violazione del termine ragionevole e quest’ultima. La Corte osserva anche che il ricorrente ha deciso di non rinunciare alla prescrizione, possibilità che gli era offerta nel diritto italiano (si veda Diritto interno pertinente, § 42 supra). In queste circostanze, la Corte è del parere che la riduzione della pena in questione ha quantomeno compensato o particolarmente ridotto i pregiudizi che derivano normalmente dalla durata eccessiva del procedimento. Del resto, la Corte non vede bene la pertinenza delle osservazioni della parte ricorrente relative al fatto che la sentenza del 1° marzo 1996 aveva accordato all’imputato il beneficio della sospensione condizionale (v. § 23 supra). Essa osserva a questo riguardo che con questa stessa sentenza la Corte d’appello di Milano aveva infatti già dichiarato l’estinzione del reato di corruzione per prescrizione.

58. Pertanto, la Corte ritiene che il ricorrente non abbia subito un «pregiudizio importante» rispetto al proprio diritto a un processo entro un termine ragionevole.

59. Quanto alla questione di stabilire se il rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga l’esame del ricorso nel merito, la Corte ricorda che tale nozione rinvia alle condizioni già definite per l’applicazione degli articoli 37 § 1 e 38 § 1 (nella sua versione anteriore al Protocollo n. 14) della Convenzione. Gli organi della Convenzione hanno interpretato costantemente tali disposizioni nel senso che esse esigono il proseguimento dell’esame di una causa malgrado la conclusione di una definizione amichevole o l’esistenza di una causa di cancellazione dal ruolo. In compenso, è già stato giudicato che tale esame non era obbligatorio quando esiste una giurisprudenza chiara e copiosa sulla questione relativa alla Convenzione che si pone nella causa sottoposta alla Corte (si vedano, tra le altre, Van Houten c. Paesi Bassi (cancellazione), n. 25149/03, CEDU 2005-IX, e Kavak c. Turchia (dec.), n. 34719/04 e 37472/05, 19 maggio 2009).

60. Nella fattispecie, la Corte ritiene che nessun obbligo relativo all’ordine pubblico europeo a cui partecipano la Convenzione e i suoi Protocolli giustifichi il proseguimento dell’esame del motivo di ricorso.

61. In effetti, tale motivo di ricorso pone la questione del diritto al termine ragionevole in materia penale, in particolare quella della durata del procedimento principale nell’ambito del rimedio introdotto dalla legge «Pinto», che sono state oggetto di una giurisprudenza copiosa da parte della Corte (si vedano, tra le altre, Cocchiarella c. Italia [GC], sopra citata, Simaldone c. Italia, n. 22644/03, 31 marzo 2009 e Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, CEDU 2000 IV).

62. In queste condizioni, la Corte ritiene che il rispetto dei diritti dell’uomo non esiga il proseguimento dell’esame di questo motivo di ricorso.

63. Infine, per quanto riguarda la terza condizione posta dal nuovo criterio di ricevibilità, che esige che la causa sia stata «debitamente esaminata» da un tribunale interno, la Corte ricorda che essa è volta a garantire che ogni causa sarà oggetto di un esame giurisdizionale sia sul piano nazionale che sul piano europeo. Questa causa riflette anche il principio di sussidiarietà, così come risulta in particolare dall’articolo 13 della Convenzione, che esige che dei ricorsi effettivi contro le violazioni siano disponibili a livello nazionale (Korolev, sopra citata). Combinata alla clausola di salvaguardia precedente, essa garantisce che non sono in gioco dinanzi alla Corte delle questioni serie di applicazione o interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, o delle questioni importanti relative al diritto nazionale (si veda il Rapport explicatif au Protocole n. 14, § 83).

64. Nella fattispecie, la Corte constata che la questione relativa alla durata del procedimento penale è stata esaminata due volte dal giudice di appello e dal giudice di cassazione competenti ai sensi della legge «Pinto», in quanto il ricorrente ha sottoposto a quest’ultimo i motivi di ricorso relativi al rifiuto della corte d’appello di accordargli un indennizzo pecuniario.

65. In queste condizioni, la Corte ritiene che la causa sia stata debitamente esaminata da un tribunale interno, in quanto nessuna questione seria relativa all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione o al diritto nazionale è stata lasciata senza risposta.

66. Poiché sussistono le condizioni previste dal nuovo criterio di ricevibilità, la Corte ritiene che questo motivo deve essere dichiarato irricevibile in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 b) e 4 della Convenzione.

B. Sulla durata del procedimento «Pinto»

67. La Corte osserva che il ricorrente lamenta una violazione dell’articolo 6 della Convenzione a causa della durata presumibilmente eccessiva del procedimento «Pinto».

68. Il Governo non ha formulato osservazioni su questo punto.

1. I principi applicabili

69. Quanto al termine che può essere considerato ragionevole ai sensi dell’articolo 6 § 1, la Corte ricorda che i criteri applicabili non possono essere quelli adottati per valutare la durata dei procedimenti ordinari, considerata la natura della via di ricorso «Pinto» e il fatto che tali cause non rivestono normalmente alcuna complessità. Nell’ambito di un ricorso risarcitorio volto a riparare le conseguenze della durata eccessiva dei procedimenti, una diligenza particolare si impone agli Stati affinché la violazione venga accertata e sanata nel più breve tempo possibile (Belperio e Ciarmoli c. Italia, n. 7932/04, § 42, 21 dicembre 2010).

70. Per quanto riguarda la fase giudiziaria del procedimento, nella causa Vaney c. Francia (n. 53946/00, § 53, 30 novembre 2004) in cui il ricorrente lamentava l’eccessiva durata di un procedimento penale nonché la durata eccessiva di un ricorso per responsabilità dello Stato per la lentezza di tale procedimento, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione anche con riguardo alla durata del secondo procedimento.

71. Nella causa Cocchiarella (sopra citata, § 99), la Corte ha indicato che il termine di quattro mesi previsto dalla legge «Pinto» rispetta l’esigenza di celerità richiesta ai fini di un ricorso effettivo. Tuttavia, ha accettato che dei periodi nove mesi per un grado di giudizio e di quattordici mesi per due gradi di giudizio potevano sembrare ragionevoli pur oltrepassando il termine previsto dalla legge «Pinto» (Riccardi Pizzati c. Italia [GC], n. 62361/00, § 98, 29 marzo 2006, Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n. 2) [GC], n. 65102/01, § 97, 29 marzo 2006).

72. Più di recente, nella causa Belperio e Ciarmoli (sopra citata, § 48), la Corte ha considerato irragionevole un procedimento «Pinto» durato due anni e otto mesi per un grado di giudizio, ivi compresa la fase dell’esecuzione. Inoltre, nel momento in cui il Governo è stato informato del ricorso, il 9 giugno 2009, la Corte ha fissato in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione) il termine entro il quale un procedimento Pinto complessivamente considerato doveva concludersi per essere considerato ragionevole.

73. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che, per soddisfare le esigenze del «termine ragionevole» ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, la durata di un procedimento «Pinto» dinanzi alla corte di appello competente e alla Corte di cassazione, compresa la fase di esecuzione della decisione, non dovrebbe, in linea di principio e salvo circostanze eccezionali, essere superiore a due anni e sei mesi.

2. L’applicazione al caso di specie

74. La Corte osserva che il procedimento «Pinto», iniziato il 16 ottobre 2001, si è concluso il 6 dicembre 2006 ed è dunque durato cinque anni e un mese (da portare a quattro anni e due mesi tenuto conto dei ritardi imputabili al ricorrente) per due gradi di giudizio. La Corte osserva anche che, poiché il ricorrente non ha ottenuto alcun indennizzo, il procedimento «Pinto» non ha avuto alcuna fase di esecuzione.

75. Anche a voler supporre che il procedimento in questione rivestisse una particolare complessità a causa dei numerosi rinvii nel corso del procedimento principale, ossia tre dinanzi alla corte d’appello e altrettanti dinanzi alla Corte di cassazione, la Corte sottolinea che la sua durata ha ampiamente superato il termine sopra indicato di due anni e sei mesi, tanto più che non vi è stata alcuna fase di esecuzione.

76. Pertanto, la Corte ritiene che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1, dal punto di vista del diritto a un processo entro un termine ragionevole.

II. MOTIVO DI RICORSO RELATIVO ALLA MANCANZA DI EFFETTIVITÀ DEL RIMEDIO PINTO A CAUSA, DA UNA PARTE, DELLA NON APPLICAZIONE, DA PARTE DELLE GIURISDIZIONI INTERNE, DEI CRITERI DI INDENNIZZO PREVISTI DALLA CORTE E, DALL’ALTRA, DELLA DURATA DEL PROCEDIMENTO «PINTO» (ARTICOLI 1, 13 e 46 DELLA CONVENZIONE)

77. La Corte ritiene che questi motivi debbano essere analizzati soltanto dal punto di vista dell’articolo 13, che recita:

«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»

78. La Corte ricorda, da una parte, che l’articolo 13 non può essere interpretato nel senso di esigere un ricorso interno per ogni motivo di ricorso che un individuo può presentare sul piano della Convenzione, per quanto ingiustificato esso sia: deve trattarsi di un motivo difendibile rispetto alla Convenzione stessa (Boyle e Rice c. Regno Unito, serie A n. 131, § 52, 24 aprile 1988). Nella presente causa, la Corte ha appena concluso che i motivi di ricorso del ricorrente relativi alla durata del procedimento principale e all’assenza di riparazione nell’ambito del procedimento «Pinto» sono irricevibili per assenza di pregiudizio importante (si veda § 66 supra). Queste stesse considerazioni la portano a concludere, dal punto di vista dell’articolo 13, che non si era in presenza di motivi difendibili (si vedano, tra molte altre, Al Shari e altri c. Italia (dec.), n. 57/03, 5 luglio 2005, Walter c. Italia (dec.), n. 18059/06, 11 luglio 2006, e Schiavone c. Italia (dec.), n. 65039/01, 13 novembre 2007). L’articolo 13 non trova dunque applicazione nel caso di specie.

79. D’altra parte, la Corte ricorda che, secondo la giurisprudenza Delle Cave e Corrado (n. 14626/03, §§ 43-46, 5 giugno 2007) e Simaldone (sopra citata, § 83), né l’insufficienza dell’indennizzo «Pinto» né la circostanza che la legge «Pinto» non permette di risarcire il ricorrente per la durata globale del procedimento ma prende in considerazione soltanto il pregiudizio che si può riferire al periodo eccedente il termine ragionevole, rimettono in discussione, per il momento, l’effettività di questa via di ricorso.

80. Pur sottolineando che non si può escludere che la lentezza eccessiva del ricorso risarcitorio ne comprometta l’adeguatezza (Cocchiarella, già citata, § 86), la Corte considera che la durata del procedimento constatata nel caso di specie, pur comportando al violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, non è sufficientemente importante per rimettere in questione l’effettività del rimedio «Pinto», considerata anche l’esistenza di una fase supplementare di rinvio.

81. È opportuno, nella fattispecie, dichiarare questo motivo di ricorso irricevibile in quanto manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

III.SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

82. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

83. Il ricorrente chiede la somma di 30.987,41 euro per il danno materiale e morale. Sostiene che la sua situazione giudiziaria ha comportato un mancato guadagno (lucrum cessans) importante in termini di stipendi non percepiti a causa della sua sospensione dal servizio e del pregiudizio causato alla sua carriera. Inoltre, tale situazione ha gravemente pregiudicato la sua vita di relazione professionale e famigliare.

84. Il Governo ritiene che le richieste del ricorrente sono sproporzionate.

85. Quanto al danno materiale, la Corte ritiene che il ricorrente non ha in alcun modo dimostrato l’esistenza di un legame diretto tra la violazione constatata, ossia la durata eccessiva del rimedio «Pinto» e il mancato guadagno presumibilmente sofferto. Pertanto, è opportuno non accordare alcuna somma nel caso di specie.

86. Quanto al danno morale dovuto alla durata del procedimento «Pinto», la Corte ricorda che è una giurisdizione internazionale che ha il compito principale di assicurare il rispetto dei diritti dell’uomo sanciti nella Convenzione e nei suoi Protocolli piuttosto che di compensare, minuziosamente e in maniera esaustiva, i danni subiti dai ricorrenti. Contrariamente ai giudici nazionali, la Corte ha il ruolo privilegiato di adottare delle sentenze pubbliche che stabiliscano norme in materia di diritti dell’uomo applicabili in tutta l’Europa (si veda, mutatis mutandis, Goncharova e altri, e altri 68 «pensionati privilegiati» c. Russia, nn. 23113/08 e altri ricorsi, §§ 22-24, 15 ottobre 2009).

87. Essa osserva che, nel caso di specie, il ricorrente è stato vittima dell’incapacità delle autorità italiane di garantire lo svolgimento del procedimento «Pinto» in un tempo compatibile con gli obblighi derivanti dall’adesione dello Stato convenuto alla Convenzione.

88. La Corte osserva che più di 2.000 ricorsi che riguardano principalmente o unicamente questo stesso problema sono pendenti contro l’Italia e che il numero di questo tipo di ricorsi è in costante aumento dal 2008. Essa ritiene che, in situazioni che coinvolgono un numero significativo di vittime che si trovano in una situazione simile, si impone un approccio globale.

89. Alla luce di quanto precede e deliberando equamente, la Corte considera opportuno accordare una somma forfetaria di 500 euro al ricorrente per il danno morale da lui subito a causa della durata eccessiva del procedimento «Pinto» che essa ha appena constatato.

B. Spese

90. La parte ricorrente chiede anche il rimborso delle spese sostenute dinanzi ai giudici nazionali e dinanzi alla Corte, che quantifica in 15.600 euro.

91. Il Governo considera eccessiva e ingiustificata la somma richiesta per le spese.

92. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Alla luce di quanto precede, il sollecito di pagamento rivolto al ricorrente dal suo avvocato e prodotto dalla parte ricorrente non può essere considerato un documento di natura tale da giustificare la richiesta di una somma per le spese. Pertanto, la Corte rigetta la domanda.

C. Interessi moratori

93. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ

  1. Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo relativo alla eccessiva durata del procedimento «Pinto» e irricevibile per il resto;
  2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a causa della eccessiva durata del procedimento «Pinto»;
  3. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 500 euro (cinquecento euro) per danno morale, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;
    2. che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 6 marzo 2012, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Françoise Tulkens
Presidente

Françoise Elens-Passos
Cancelliere aggiunto