Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell' 11 ottobre 2011 - Ricorso n. 35510/02 - Cretella c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, funzionario linguistico

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
SULLA RICEVIBILITÀ
del ricorso n. 35510/02
presentato da Vittorio CRETELLA contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita l’11 ottobre 2011 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
David Thór Björgvinsson,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato, presentato il 18 agosto 2000,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dal ricorrente,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, sig. Vittorio Cretella, è un cittadino italiano nato nel 1953 e residente a Brusciano (Napoli). È rappresentato dinanzi alla Corte dagli avv. Giovanni Romano e Umberto Russo del foro di Benevento.
Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente E. Spatafora, e dai suoi co-agenti, P. Accardo e S. Coppari.

A. Le circostanze del caso di specie

I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

1. La procedura di fallimento

Il 3 luglio 1987 il ricorrente citò la società S., presso la quale era stato impiegato, dinanzi al pretore di Frattamaggiore (Napoli) allo scopo di ottenere le retribuzioni non pagate e il trattamento di fine rapporto ai quali riteneva di avere diritto.
In data non precisata il pretore di Frattamaggiore trasmise il fascicolo al pretore di Afragola (Napoli), territorialmente competente.
Il 28 aprile 1988 il rappresentante della società convenuta informò il giudice che il tribunale di Napoli, con una sentenza depositata l’11 febbraio 1988, aveva dichiarato il fallimento della società. Il pretore dispose dunque l’interruzione del processo.
Il 9 maggio 1988 il ricorrente presentò una domanda dinanzi al tribunale di Napoli di ammissione al passivo del fallimento per l’importo corrispondente al suo T.F.R. e alle ultime tre mensilità non pagate alle quali riteneva di avere diritto.
Il 29 settembre 1989 il giudice delegato respinse la domanda.
Il 18 settembre 1990 il ricorrente propose opposizione allo stato passivo del fallimento.
Con sentenza depositata il 4 maggio 1994 il tribunale di Napoli accolse la domanda del ricorrente e lo ammise al passivo per la somma di 15.179.050 lire italiane (ITL), pari a circa 7.840 euro (EUR), di cui 4.972.750 ITL per il T.F.R.
Il Governo ha prodotto un documento dell’I.N.P.S. (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) attestante che, il 2 maggio 1996, quest’ultimo aveva liquidato al ricorrente il suo trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda presentata dallo stesso ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982 (si veda la parte «Diritto interno pertinente» infra).
Il ricorrente non ha fornito alcuna informazione relativa al pagamento in questione né al momento della presentazione del ricorso dinanzi alla Corte né in occasione delle osservazioni in risposta a quelle del Governo. Il ricorrente non ha contestato tali informazioni, così come esposte dal Governo convenuto.
Con decreto depositato il 22 febbraio 2000 il tribunale di Napoli dichiarò la chiusura della procedura di fallimento per ripartizione integrale dell’attivo.
Il 3 marzo 2000 il ricorrente ottenne il pagamento delle sue retribuzioni non pagate.

2. Il procedimento intentato conformemente alla legge n. 89 del 24 marzo 2001 («legge Pinto»)

In data non precisata, il ricorrente presentò un ricorso dinanzi alla corte d’appello di Roma conformemente alla «legge Pinto».
Con decisione depositata il 19 febbraio 2002 la corte d’appello condannò il Ministero della Giustizia al pagamento di 4.648,11 EUR più le spese, in favore del ricorrente, in riparazione del danno morale che quest’ultimo aveva subito in ragione della eccessiva durata della procedura.

3. La procedura in esecuzione della decisione resa conformemente alla «legge Pinto»

Il 22 novembre 2002 il ricorrente notificò il titolo esecutivo al Ministero della Giustizia e, il 14 aprile 2003, notificò al ministero una ingiunzione di pagamento. Di fronte all’inerzia del ministero il 23 giugno 2003 il ricorrente avviò una procedura di pignoramento presso terzi dinanzi al tribunale di Roma. Un’udienza fu fissata per il 12 novembre 2003.
Il 26 febbraio 2004 il ricorrente ottenne il pagamento di 5.543,94 EUR.

B. Il diritto interno pertinente

1. Legge n. 297 del 29 maggio 1982

Articolo 2: Fondo di garanzia

«1. È istituito presso l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) il "Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto" con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto [...].
2. Trascorsi quindici giorni dal deposito dello stato passivo […], ovvero dopo la pubblicazione della sentenza, per il caso siano state proposte opposizioni o impugnazioni […] il lavoratore o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del fondo [sopra menzionato], del trattamento di fine rapporto di lavoro [...].»

2. Decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992

Articolo 1: Garanzia dei crediti di lavoro

1. Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento […], il lavoratore […] può ottenere a domanda il pagamento, a carico del Fondo di garanzia istituito e funzionante ai sensi della legge 29 maggio 1982, n. 297, dei crediti di lavoro non corrisposti di cui all'art. 2 [di questo stesso decreto].

Articolo 2: Intervento del fondo di garanzia

1. Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell'art. 1 [di questo stesso decreto] e' relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono la data di inizio [della procedura di fallimento].

MOTIVI DI RICORSO

1. Invocando gli articoli 6 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1, il ricorrente lamenta l’eccessiva durata della procedura e la limitazione del suo diritto al rispetto dei suoi beni in quanto la sentenza del tribunale di Napoli del 9 febbraio 1994 è stata eseguita solo sei anni più tardi.
2. Con lettera in data 18 agosto 2003 il ricorrente solleva un nuovo motivo di ricorso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1 in quanto, in tale data, l’amministrazione non aveva pagato la somma accordata dalla corte d’appello di Roma conformemente alla legge Pinto.

IN DIRITTO

1. Il ricorrente lamenta l’eccessiva durata della procedura e della limitazione del suo diritto al rispetto dei suoi beni a causa della lunghezza della procedura stessa. Invoca a questo titolo gli articoli 6 § 1 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.
2. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, il ricorrente denuncia il ritardo nel pagamento della somma riconosciuta dalla corte d’appello di Roma conformemente alla legge Pinto.
Gli articoli in questione, nelle loro parti pertinenti, recitano:
Articolo 6 § 1 della Convenzione
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…)»

Articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»
Il Governo ha prodotto un documento dell’I.N.P.S. che attesta che, il 2 maggio 1996, quest’ultimo ha liquidato al ricorrente il suo trattamento di fine rapporto conformemente alla domanda da lui presentata ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 297 del 29 maggio 1982.

Per quanto riguarda le mensilità non pagate, il Governo sostiene che il ricorrente ha omesso di chiederne il pagamento ai sensi degli articoli 1 e 2 del decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992. In ogni caso, indica che esse sono state liquidate al ricorrente una volta che la procedura di fallimento è stata chiusa, il 3 marzo 2000.

Questa parte del ricorso dovrebbe dunque essere rigettata per mancanza della qualità di vittima del ricorrente.
In via sussidiaria, il Governo sostiene che la procedura di fallimento è stata particolarmente complessa. Inoltre, il ricorrente non avrebbe beneficiato di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione in quanto i crediti ammessi allo stato passivo del fallimento non sarebbero né certi né definitivi.

Il Governo osserva anche che la corte d’appello di Roma, adita ai sensi della legge «Pinto», ha reso una decisione favorevole al ricorrente e che, in ogni caso, quest’ultimo non ha presentato ricorso per cassazione contro tale decisione.

Infine, secondo il governo convenuto, il ricorrente avrebbe potuto promuovere un procedimento di esecuzione forzata relativamente alla somma che gli era dovuta dal Ministero della Giustizia.
Il ricorrente conferma le sue doglianze senza riferirsi in alcun modo alle informazioni fornite dal Governo per quanto attiene alla somma liquidata dall’I.N.P.S.

Per quanto riguarda le doglianze relative alla durata della procedura e alla allegata mancata liquidazione dei crediti del ricorrente derivanti dalla sua ammissione al passivo del fallimento, la Corte constata che, secondo le informazioni fornite dal Governo, debitamente provate, il 2 maggio 1996, ossia ben prima della data di presentazione del ricorso dinanzi alla Corte (il 18 agosto 2000) nonché del ricorso ai sensi della «legge Pinto» (presentato non prima dell’anno 2002), il ricorrente aveva ottenuto il pagamento del suo trattamento di fine rapporto da parte dell’I.N.P.S. La Corte non vede alcun motivo per discostarsi dalla versione dei fatti presentata dal governo convenuto.

Essa rileva inoltre che il ricorrente non ha fornito alcuna informazione riguardante tale pagamento al momento in cui ha presentato il ricorso dinanzi alla Corte e le proprie osservazioni in risposta a quelle del Governo. Del resto, egli non ha in alcun modo contestato i fatti, così come esposti dal governo convenuto.

La Corte constata dunque che il ricorrente ha omesso di fornire delle informazioni fondamentali sui fatti della causa allo scopo di indurla in errore. Poiché il ricorrente ha commesso un abuso del suo diritto di ricorso, questa parte del ricorso deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione (Basileo e altri c. Italia (dec.), n. 11303/02, 23 agosto 2011).

Quanto al resto dei crediti per i quali il ricorrente è stato ammesso al passivo del fallimento, ossia le ultime tre mensilità non pagate alle quali riteneva di avere diritto, la Corte rileva, così come il Governo, che egli ha omesso di presentare una domanda dinanzi all’I.N.P.S. al fine di ottenerne il pagamento ai sensi del decreto legislativo n. 80 del 27 gennaio 1992. Secondo gli articoli 1 e 2 di questo decreto, il ricorrente avrebbe potuto in effetti chiedere tale pagamento entro quindici giorni dal deposito del provvedimento che decideva sulla sua opposizione al passivo del fallimento, deposito avvenuto il 4 maggio 1994.

Poiché il ricorrente non ha utilizzato la via che gli era aperta al fine di recuperare, nell’immediato, i crediti derivanti dal suo contratto di lavoro, la Corte ritiene che, tenuto conto dei diritti tutelati dalla Convenzione, qualsiasi ritardo nella liquidazione di questi ultimi derivante dalla durata della procedura di fallimento non possa essere imputato al governo convenuto.

Considerate tutte le circostanze del caso di specie, la Corte ritiene dunque che questa parte del ricorso sia manifestamente infondata e debba essere rigettata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Passando ora ad esaminare la doglianza del ricorrente relativa al ritardo nell’ottenimento del risarcimento che gli è stato riconosciuto nell’ambito del procedimento «Pinto», tenuto conto delle circostanze sopra esposte, la Corte osserva che il fatto che la corte d’appello di Roma abbia riconosciuto al ricorrente un risarcimento morale per la durata della procedura non può dare origine a dei diritti per quest’ultimo rispetto alla Convenzione, poiché quest’ultimo ha avuto a disposizione un rimedio per recuperare i suoi crediti entro breve termine, rimedio che ha omesso di utilizzare.

Questa parte del ricorso deve dunque essere rigettata in quanto manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.

Stanley Naismith   
Cancelliere

Françoise Tulkens
Présidente