Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 1° febbraio 2011 - Ricorso n. 2344/02 - Dritsas c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata da Martina Scantamburlo e Daniela Riga, funzionari linguistici.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
SULLA RICEVIBILITÀ del ricorso n. 2344/02
presentato da Theodoros DRITSAS contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 1° febbraio 2011 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Danutė Jočienė,
Ireneu Cabral Barreto,
Dragoljub Popović,
Giorgio Malinverni,
Işıl Karakaş,
Guido Raimondi, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 9 dicembre 2001,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

I quarantasei ricorrenti (v. lista allegata) sono tutti cittadini greci. Sono stati rappresentati dinanzi alla Corte dagli avv. A. Christodoulopoulou e I. Kourtovik del foro di Atene.
Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato alternativamente dai suoi agenti I.M. Braguglia, R. Adam e E. Spatafora, e dai suoi co-agenti V. Esposito e F. Crisafulli, nonché dai suoi co-agenti aggiunti, N. Lettieri e P. Accardo.
Con lettera in data 27 settembre 2004 la cancelleria della Corte ha informato il Governo greco della possibilità di presentare delle osservazioni scritte sulla causa, conformemente agli articoli 36 § 1 della Convenzione e 44 del regolamento della Corte. Il Governo greco non ha fatto seguito a tale lettera.

A.    Le circostanze del caso di specie

I fatti di causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.
Il 18 luglio 2001 i ricorrenti, insieme a circa ottocento cittadini greci membri del Comitato greco per la manifestazione a Genova (di seguito «il Comitato»), si imbarcarono a bordo del traghetto Blue Star II a Patrasso per raggiungere Ancona, e poi Genova, allo scopo di prendere parte al contro-summit del G8.
Quanto al seguito degli eventi, le parti hanno fornito due versioni diverse dei fatti, che si possono riassumere come segue.

1.    La versione dei fatti dei ricorrenti

a)    Il respingimento dei ricorrenti dal porto di Ancona

Arrivati al porto di Ancona il 19 luglio 2001, su richiesta della polizia italiana, i ricorrenti si sottoposero al controllo dei documenti di identità, contemporaneamente al restante migliaio di persone facenti parte del loro Comitato.
Salirono poi con altre persone negli ultimi tre dei diciotto pullman che formavano un convoglio nel quale tutti i membri del Comitato si erano distribuiti per raggiungere Genova.
Improvvisamente la polizia fermò i tre pullman in cui avevano preso posto i ricorrenti e li obbligò a fare dietrofront in direzione del traghetto.
I ricorrenti scesero pertanto dai veicoli, chiesero invano alla polizia delle spiegazioni sul loro dirottamento e si rifiutarono di tornare al traghetto. Attesero sulla rampa di accesso del traghetto e chiesero l’intervento del console greco ad Ancona.

La polizia italiana, con l’aiuto di forze speciali, accerchiò allora i ricorrenti e li attaccò colpendoli, trascinandoli per terra affinché salissero sul traghetto. Una volta trascinati fino all’area di quest’ultimo riservata alle automobili – e al riparo dallo sguardo delle equipe televisive che si trovavano sul posto – i ricorrenti furono nuovamente percossi. Molte persone sono state ferite, alcune delle quali gravemente. I ricorrenti hanno prodotto cinque certificati medici da cui risultavano varie ferite e contusioni.
Furono infine costretti a ritornare a Patrasso.

b)    La sospensione degli accordi di Schengen

I ricorrenti affermano che gli accordi di Schengen, volti a sopprimere i controlli alle frontiere degli Stati firmatari, non sono stati sospesi in occasione del G8.

2.    La versione dei fatti del Governo

a)    Il respingimento dei ricorrenti dal porto di Ancona

Nell’ambito di un’inchiesta condotta da vari Governi europei al fine di garantire la sicurezza in occasione del summit di Genova, il 18 luglio 2001 l’ufficiale di polizia italiana di collegamento ad Atene, D., trasmise una nota al servizio dell’Interpol della Direzione centrale della polizia criminale italiana con cui attestava che, secondo le informazioni risultanti dai suoi contatti assidui con la polizia greca, un gruppo temibile di manifestanti, costituito da elementi anarchici di estrema sinistra, era diretto a Genova. L’ufficiale comunicò che tale gruppo si era distribuito in quindici pullman e fornì una lista dei numeri di targa degli stessi. Segnalò poi che tre di tali pullman, di cui indicò i rispettivi numeri di targa, erano occupati dagli elementi più accesi del gruppo.

Con una nota che data del giorno successivo, la D.I.G.O.S. (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali) informò le forze di polizia italiane che circa centocinquanta persone tra le ottocento che si trovavano a bordo del traghetto Blue Star II erano militanti di gruppi anarchici internazionali. Secondo la D.I.G.O.S. tali persone erano considerate degli elementi estremisti potenzialmente pericolosi per la sicurezza interna.
Sulla base delle indicazioni del ministero dell’Interno, alle ore 8.30 del 19 luglio 2001 la Direzione centrale della polizia di prevenzione ordinò alla Direzione dell’immigrazione e della polizia delle frontiere di respingere tali persone e di adottare nei loro confronti dei provvedimenti di respingimento ai sensi dell’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1656 del 30 dicembre 1965 (di seguito «D.P.R. n. 1656/1965»). Il Governo ha fornito copia dei documenti attestanti tale ordine, ossia due note redatte dal direttore della polizia delle frontiere di Ancona il 20 luglio 2001.

Nel frattempo, circa centoquaranta agenti di polizia furono mandati sul posto allo scopo garantire la sicurezza e il rispetto dell’ordine pubblico durante lo sbarco.
Una volta svuotati i pullman (e parcheggiati sul molo), tra le 10.30 e le 12.00 la polizia procedette al controllo dei documenti di identità di tutti gli occupanti del traghetto in locali provvisori (camper) predisposti a tal fine dalla polizia ai piedi del traghetto. Il controllo consisteva nella verifica della corrispondenza tra la foto presente nel documento di identità e la persona che lo presentava. Durante il controllo in questione un cittadino marocchino, in possesso di un passaporto falso, fu oggetto di un provvedimento di respingimento.

Tutti ripresero poi posto nei pullman. Dodici pullman partirono, scortati dalla polizia. Invece i tre pullman in cui aveva preso posto il gruppo di cui facevano parte i ricorrenti furono ricondotti all’interno del traghetto. Il gruppo dei passeggeri scese dunque dai pullman, e poi dal traghetto. In seguito la polizia invitò il gruppo a ritornare nel traghetto. Le persone che facevano parte del gruppo in questione rifiutarono di obbedire e si distesero sulla rampa di accesso del battello in segno di protesta.

A due riprese, rispettivamente alle 14.00 e alle 14.50 circa, la polizia chiese nuovamente alle persone appartenenti al gruppo in questione di esibire il loro documento di identità. Secondo le informazioni fornite dal commissariato di polizia di Ancona, le richieste avevano stavolta lo scopo di raccogliere informazioni relative all’identità delle persone al fine di esaminare la posizione di ciascuna di esse ed emettere, se del caso, dei provvedimenti di respingimento. Le persone richieste si rifiutarono di farlo. Un verbale relativo a questo duplice rifiuto fu redatto lo stesso giorno. La polizia si trovò dunque nell’impossibilità di adottare i provvedimenti di respingimento richiesti. Vari servizi del Governo (il Ministero dell’Interno, la Direzione dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, il direttore e il vice direttore del servizio di polizia presenti sul posto durante i fatti) hanno fornito, univocamente, questa versione dei fatti. Copie dei documenti pertinenti (ivi compreso il verbale) sono state trasmesse alla Corte.

Più tardi, i manifestanti comunicarono al console greco ad Ancona e al commissario di polizia di questa stessa città, che si erano recati sul posto nel frattempo, la loro intenzione di tornare in Grecia «a condizione di poter opporre una resistenza passiva alla polizia al fine di dare più visibilità alla loro azione».

Una ventina di agenti salì allora sulla rampa di accesso e, dopo aver invitato invano i manifestanti a ritornare sul traghetto, li sollevarono e li condussero all’interno dello stesso. Una volta rientrati, questi ultimi iniziarono prima a spingere e a dare calci agli agenti. Infine, lanciarono vari oggetti contro di loro, tra cui degli estintori, delle chiavi inglesi (di cui una di ferro pieno della lunghezza di 50 centimetri e del peso di circa 2 kg.), dei bulloni, delle bottiglie, delle sedie e una sfera d’acciaio. Una parte di questo materiale fu sequestrata. Quattro agenti di polizia rimasero lievemente feriti. Furono riscontrati in particolare un trauma cranico, delle ferite e delle contusioni. Gli agenti feriti furono dunque condotti in ospedale. Il Governo ha fornito alla Corte copia dei relativi certificati medici.

Tenuto conto del crescente stato di tensione, la pressione della polizia si fece più importante, fino al momento in cui tutti i manifestanti furono all’interno del traghetto e fu possibile chiudere il portellone.
In data non precisata il commissario di polizia di Ancona avviò un’inchiesta avente ad oggetto gli atti di violenza perpetrati nei confronti degli agenti di polizia. L’inchiesta fu poi archiviata, in quanto gli autori dei fatti sono rimasti ignoti.

b)    La sospensione degli accordi di Schengen

Con decisione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica del 3 luglio 2001 gli accordi di Schengen sono stati sospesi al fine di limitare l’entrata di individui pericolosi per la sicurezza pubblica. Tale misura, adottata sulla base dell’articolo 2 della Convenzione di applicazione di tali accordi, ha avuto una durata di una settimana (dal 14 al 21 luglio 2001). Il Governo si è trovato nell’impossibilità di produrre copia di tale decisione poiché essa è contenuta in una comunicazione classificata come riservata ai sensi del diritto nazionale.

3.    I documenti prodotti dai ricorrenti

In allegato alle osservazioni in risposta a quelle del Governo, il 24 febbraio 2006 i ricorrenti hanno inviato dei documenti redatti in greco. La traduzione in inglese di questi ultimi, effettuata dai ricorrenti, è stata certificata da un avvocato. Le parti pertinenti di tali documenti, così come tradotte dai ricorrenti, riferiscono quanto segue.

a)    Le testimonianze rese dinanzi alla polizia di Patrasso

i.    Sig. V.K., testimonianza del 29 agosto 2001

«Sono un ufficiale della marina mercantile e lavoro sul Blue Star II (...)
[Il] 19 luglio 2001 (...) alle 11.20 circa iniziammo a sbarcare i passeggeri e gli autoveicoli. Alle 13.05 la procedura di sbarco fu completata (...). Vorrei aggiungere a questo punto che durante lo sbarco dei passeggeri e degli autoveicoli un ampio spiegamento di forze di polizia scortò i 18 pullman del Comitato Greco [per la manifestazione internazionale a Genova] in un’area situata proprio accanto al traghetto dove i pullman furono circondati dalla polizia. (...)

Alle 13.45 circa, la polizia italiana informò il capitano che 3 dei 18 pullman con 132 passeggeri a bordo non erano stati accettati in Italia (...) e senza spiegarne i motivi, scortarono questi passeggeri nuovamente al traghetto con le macchine di pattuglia. I 132 passeggeri si sedettero per protesta sulla parte destra della rampa di accesso dalla quale stavano sbarcando gli autoveicoli e si rifiutarono di tornare indietro. Protestarono in modo tranquillo senza creare nessun problema. (...)

I manifestanti protestarono pacificamente, sedendosi sulla rampa di accesso. Sulla banchina erano state dispiegate le forze di polizia proprio di fronte alla rampa di accesso (...). Alle 18.20 il pilota del porto, la cui presenza è obbligatoria per la partenza del traghetto, si imbarcò sul traghetto senza essere stato chiamato da noi (...)

Alle 18.30 le forze di polizia, senza nessun preavviso e senza il permesso del capitano irruppero sulla rampa di accesso e cercano di spingere i 132 manifestanti all’interno del traghetto sollevandoli di peso. Riuscirono a spingerne circa 15. A questo punto i manifestanti reagirono tirando bottiglie di plastica. I manifestanti continuarono ad essere spinti violentemente verso il garage nonostante la loro reazione. In questo modo la metà dei manifestanti venne spinta all’interno del traghetto. Per quanto riguarda il resto dei manifestanti, la loro resistenza fu più forte. Si distesero sulla rampa di accesso e cercarono di mantenere la loro posizione senza aggredire i poliziotti. Mentre i manifestanti venivano spinti violentemente è possibile che ci siano state delle reazioni violente da parte di entrambe le parti ma non posso confermarlo a causa della generale confusione che si era creata in quel punto preciso del traghetto. Quando tutti i manifestanti furono spinti all’interno del traghetto vidi due di loro tirare un estintore ed un palanchino di ferro che non colpirono nessun poliziotto. (...).

A questo punto, (...) il capitano mi ordinò di chiudere la rampa di accesso e di avviare le operazioni per la partenza del traghetto. Subito dopo la partenza sette persone, i cui nomi sono riportati sul diario di bordo, si presentarono all’infermeria del traghetto dove vennero prestate loro le prime cure. Ho visto che uno di loro era stato lievemente ferito al sopracciglio, un altro aveva dei lividi sulla schiena, una signora era stata ferita alla gamba ed un altro uomo aveva riportato un trauma al braccio ed alle spalle. L’assistenza medica venne prestata da un passeggero (...) che dichiarò di essere un medico (...) [e che ] redasse i certificati medici.»

ii. Sig. G.K., testimonianza del 31 agosto 2001

«(...) Lavoro come capitano del traghetto Blue Star II (...). Quando arrivammo al porto di Ancona, notai la presenza di un ampio spiegamento di forze di polizia sulla banchina n. 16 dove era approdato il traghetto. Notai anche la presenza di imbarcazioni di pattugliamento e di altre forze ausiliarie (...) [P]er la presenza dell’ampio spiegamento di forze di polizia lo sbarco dei veicoli e dei passeggeri fu molto difficile. L’intera operazione fu portata a termine sotto il comando delle autorità italiane. Alle 13.30 il nostro marittimo ci comunicò che potevano iniziare le operazioni di spedizione. (...) Fu ovvio sin dall’inizio che sarebbe stato un compito difficile per la presenza dell’ampio spiegamento di forze di polizia che, in un certo senso, ostacolavano la procedura.

Alle 13.45 circa, venni informato dal nostro marittimo locale che la polizia italiana aveva obbligato 3 pullman (...) ed i loro 132 passeggeri a reimbarcarsi sul traghetto avendo come destinazione il porto di Patrasso. Quando chiesi al nostro marittimo le ragioni che avevano imposto il divieto per tali passeggeri e autoveicoli di entrare nel territorio italiano, non mi diede una spiegazione chiara e mi disse che questa era stata la decisione delle autorità italiane. (...) [I] 3 autoveicoli con a bordo i loro passeggeri si imbarcarono sul traghetto. Dopo l’imbarco degli autoveicoli, i passeggeri, che nel frattempo ne erano scesi, si riunirono sulla rampa di accesso destra del traghetto e la bloccarono. Per questo motivo le operazioni di spedizione continuarono sulla rampa di accesso sinistra persino più lentamente di prima.
La folla si riunì sulla rampa di accesso destra, circa 130 persone iniziarono a protestare contro la decisione della polizia italiana di non permettere loro di entrare nel territorio italiano, e gridarono slogan politici in lingua greca, mostrando le bandiere di colore rosso. Nel frattempo, (...) un gruppo delle Forze Speciali della Polizia italiana si schierò di fronte alla rampa di accesso destra del traghetto proprio di fronte ai manifestanti. Alle 16.30 il console greco, K.S., arrivò al porto. Parlammo e gli feci un resoconto della situazione.

(...) Alle 18.30 circa, (...) notammo un gruppo di circa trenta poliziotti italiani delle Forze Speciali irrompere sul traghetto e dirigersi verso i manifestanti seduti sulla rampa di accesso. I poliziotti iniziarono a spingere violentemente i manifestanti contro la loro volontà nella parte interna del traghetto. I manifestanti reagirono con calma e cercarono solo di rimanere ai loro posti usando le mani per tenersi (...).

Dal posto in cui mi trovavo vidi che venivano tirati un estintore ed un palanchino di ferro verso i poliziotti dalla parte del traghetto dove si trovavano i manifestanti, ma non so se li colpirono. Dal luogo in cui mi trovavo la visibilità era piuttosto scarsa a causa delle persone riunite nel garage del traghetto. Dopo il lancio di questi oggetti, i manifestanti si scontrarono con le forze di polizia che erano già salite sul traghetto ma non sono in grado di definire la portata dello scontro, perché non potevo vedere molto bene  (...). Verso le 18.45 circa, i poliziotti lasciarono il traghetto dopo aver spinto dentro tutti i manifestanti e si schierarono nuovamente al di fuori del traghetto proprio di fronte alla rampa di accesso (...). A bordo venni informato dal primo ufficiale che sette passeggeri-manifestanti si erano presentati all’infermeria del traghetto dichiarando di essere stati feriti e che gli erano state fornite le prime cure con la collaborazione di un medico privato che si trovava a bordo come passeggero [e che ] (...) rilasciò a tutte le persone ferite una certificazione scritta sulle lesioni riportate (...).»

iii. Sig. S.K., testimonianza del 18 settembre 2001

«Sono il Console onorario greco ad Ancona, Italia. [Il]  19 luglio (...) 2001, verso le 14.00 circa, ricevetti una telefonata e venni informato dal signor V. dell’Ambasciata [di] Roma che si era verificato un problema al porto di Ancona e in particolare che le autorità italiane avevano proibito l’entrata nel Paese di tre pullman turistici che trasportavano viaggiatori greci. Per questo motivo, mi chiese di andare al porto, di capire cosa stesse accadendo e di informarlo sull’accaduto. (...) Non appena arrivai [al porto] c’era una grande concentrazione di persone, autoveicoli e forze di polizia italiana che mi diedero l’impressione di un disordine generale. (...) Insieme [al presidente dell’autorità portuale di Ancona] ci dirigemmo verso la parte del porto dove era sbarcato un traghetto greco. La prima cosa che vidi fu che un gruppo di persone si erano impadronite della rampa di accesso destra del traghetto sedendosi su di essa, senza poterne definire esattamente il numero. (...) [N]oi parlammo con il commissario di polizia italiano che indossava abiti civili (...). [Lui ] non sembrò disponibile ad informarci nel dettaglio e disse solo che le autorità erano state informate senza darci ulteriori informazioni. (...) [Egli] si spostava continuamente tra il traghetto e il punto della banchina accanto ad esso dove era stato schierato un ampio spiegamento di forze di polizia italiane. Grosso modo a quel punto vidi un grande pezzo di ghiaccio cadere dalla parte dei poliziotti italiani, e successivamente una bottiglia di vetro ed una sedia di plastica. Alcuni frammenti della bottiglia ferirono un poliziotto italiano ed anche altri di loro si trovarono in pericolo.  Sentii alcuni slogan di insulti provenienti dal ponte superiore, in lingua italiana, contro i poliziotti italiani e vidi che gli venivano tirate delle monete. Successivamente, (...) mi ritirai (...) in una zona proprio vicino a  [la rampa di accesso del traghetto dove] si trovava un gruppo di esponenti di spicco delle autorità italiane e tra di loro vidi il presidente dell’autorità portuale di Ancona ed il senatore M.M. Ad un certo punto (...) chiesi al [commissario di polizia italiano di Ancona] il motivo [per il quale] alle persone che erano sedute sulla rampa di accesso non era permesso di entrare nel territorio italiano. Cominciò a dire che era in contatto con le autorità italiane, senza spiegare chi intendeva esattamente, e che, entro poco, il problema sarebbe [stato] risolto. (...) Nonostante i miei sforzi non riuscii ad essere informato ufficialmente dai poliziotti italiani che erano presenti al porto, o da altri esponenti di spicco delle autorità italiane, delle ragioni per le quali ai cittadini greci che erano seduti sulla rampa di accesso non era permesso entrare nel Paese. (...) Ad un certo punto, (...) vidi il capitano greco scortato da un altro ufficiale del traghetto, dirigersi verso il traghetto e quasi subito il traghetto sollevò la rampa di accesso dei passeggeri. Ci fu una leggera confusione nell’area (...). Un gruppo di poliziotti italiani che si trovava vicino a [la] rampa di accesso sin dall’inizio si diresse verso la rampa di accesso del traghetto (...). In meno di cinque minuti, vidi la rampa di accesso degli autoveicoli del traghetto chiudersi ed il traghetto salpare. (...) Non sono in grado di descrivere in modo particolareggiato cosa accadde esattamente nei circa cinque minuti cruciali tra la chiusura della rampa di accesso dei passeggeri e la chiusura della rampa di accesso degli autoveicoli, tra i poliziotti italiani ed i manifestanti greci. Per quanto riguarda l’esistenza delle persone ferite, venni informato da un passeggero manifestante (...) [che c’erano state] 3 persone (ferite). (...)»

b) I certificati medici

i. I certificati redatti da un medico presente a bordo il 19 luglio 2001

I ricorrenti hanno presentato quattro certificati medici (relativi ai ricorrenti indicati ai nn. 1, 5, 22 e 44 nella lista allegata) attestanti rispettivamente quanto segue:
«[Ricorrente n. 1]: Trauma – possibile lussazione della spalla sinistra e lesione del mignolo destro;
[Ricorrente n. 5]: Trauma del crus;
[Ricorrente n. 22]: Trauma della scapola e del collo;
[Ricorrente n. 44]: Problemi di respirazione conseguenti a una caduta. »

ii. Il certificato relativo al sig. Theodoros Dritsas (ricorrente n. 1 nella lista allegata), datato 28 agosto 2001

«Il sottoscritto medico legale D.M., assistente professore presso il laboratorio di medicina legale e tossicologia della scuola di medicina dell’Università di Atene (...) [ha visitato] oggi, 27 luglio 2001, Theodoros Dritsas (...).

a. Dall’esame oggettivo è risultato quanto segue:

- arto superiore sinistro immobilizzato;
- ematoma sottocutaneo nell’area scapolare sinistra nonché parzialmente nell’area toracica sinistra, di colore giallo verde, delle dimensioni 11 x 16 cm. Nella parte inferiore dell’ematoma compare un livido, delle dimensioni di 5 x 5 cm circa;
- due lividi sottocutanei paralleli al fianco sinistro e alla parte interna anteriore del torace, all’altezza della vertebra lombare, delle dimensioni di 6 x 2 cm circa;
- esteso ematoma nella parte posteriore destra e nella parte superiore della coscia (dimensioni: 19 x 16 cm circa);
Ha una fasciatura sul braccio destro ed una stecca al dito mignolo;
- due ematomi sottocutanei paralleli delle dimensioni di 112 x 1 cm ciascuno, nella parte anteriore della coscia sinistra.
b. Ha presentato il referto di una lastra ed il parere di uno specialista radiologo dell’Ospedale Civico, secondo il quale egli aveva riportato la “frattura della parte periferica della falange del 5º dito. L’indagine radiologica alla parte superiore della scapola sinistra potrebbe rivelare una frattura”. Il 7 agosto 2001, ha presentato un nuovo parere dello stesso specialista nel quale si afferma che “un nuovo controllo della frattura della parte superiore della spalla sinistra non denota cambiamenti evidenti rispetto alla visita precedente” [...].
c. I traumi succitati sembrano essere stati causati da percosse e si caratterizzano come traumi causati da colpi inferti da oggetti pesanti come inteso dall’art. 310 del codice penale. I traumi risalgono ad una data (circa 10 giorni) compatibile con il momento in cui si sarebbero verificati gli eventi.
d. A causa di tali traumi, la persona succitata necessita di 20 giorni di riposo, salvo complicazioni.»

c) I ricorrenti hanno anche prodotto vari comunicati stampa dai quali risulta che i manifestanti sono stati costretti a lasciare il territorio italiano. In uno di tali comunicati si parla di un «attacco brutale» e di una «repressione estremamente violenta» dei manifestanti da parte della polizia italiana.

d) Il 31 agosto 2001 il tenente del traghetto ha redatto un’attestazione che riferisce i fatti seguenti:

«[Il 19 luglio 2001] alle ore 12.02, inizia lo sbarco dei passeggeri dal porto di  Ancona.
Ore 13.48: La polizia italiana ci informa che 132 passeggeri che si trovavano a bordo di 3 pullman non sono stati accettati al porto di Ancona e che pertanto vengono nuovamente imbarcati sul traghetto.
Ore 13.50: I passeggeri di cui sopra occupano la rampa di accesso. Le operazioni di imbarco-carico procedono lentamente attraverso la rampa di accesso sinistra. Presenza di ampio spiegamento di forze di polizia sulla banchina di carico
Ore 15.00: L’imbarco procede, i passeggeri rimangono sulla rampa di accesso destra.
Ore 15.45: Fine delle operazioni di carico – sbarco.
Ore 16.00: La navigazione sta ritardando a causa della presenza di passeggeri sulla rampa di accesso del traghetto.
Ore 18.00: I passeggeri rimangono ancora nello stesso posto;
Ore 18.20: Imbarco del pilota;
Ore 18.30: La polizia italiana spinge violentemente i passeggeri all’interno del traghetto, seguono degli scontri. I seguenti passeggeri sono feriti: [segue una lista di sette persone tra le quali figurano i ricorrenti nn. 1, 5, 22 e 44 di cui alla lista allegata].
Ore 18.45: Vengono prestate le prime cure da parte dell’equipaggio e del Dottor D.G. Gli Ufficiali di Polizia italiani sono allontanati dalla rampa di accesso del traghetto.
Ore 18.50: Chiusura della rampa di accesso. Navigazione.
Ore 19.00: Uscita dal porto di Ancona.»

B.    Il diritto interno pertinente

1. L’articolo 6 del D.P.R. n. 1656/1965 («Norme sulla circolazione e il soggiorno dei cittadini degli Stati membri della C.E.E») dispone:
«Alle disposizioni concernenti l'ingresso o il soggiorno dei cittadini degli altri Stati membri della Comunità economica europea nel territorio della Repubblica, nonché il loro allontanamento dal territorio stesso, può derogarsi solo per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. I provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell'individuo (...)».

2. L’articolo 2 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985, firmata dall’Italia il 25 giugno 1991, recita:
«1. Le frontiere interne possono essere attraversate in qualunque luogo senza che venga effettuato il controllo delle persone.
2. Tuttavia, per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale, una Parte contraente può, previa consultazione delle altre Parti contraenti, decidere che, per un periodo limitato, alle frontiere interne siano effettuati controlli di frontiera nazionali adeguati alla situazione. Se per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale s'impone un'azione immediata, la Parte contraente interessata adotta le misure necessarie e ne informa il più rapidamente possibile le altre Parti contraenti. (...)»

MOTIVI DI RICORSO

  1. Invocando l’articolo 3 della Convenzione, i ricorrenti denunciano di essere stati vittime di trattamenti inumani e degradanti.
  2. Lamentano inoltre di aver subito una privazione della libertà per quattro ore durante le quali la polizia li ha privati della libertà di movimento senza informarli dei motivi di tale limitazione. Essi invocano in questo contesto l’articolo 5 della Convenzione.
  3. I ricorrenti denunciano anche una violazione degli articoli 9 e 10 della Convenzione, in quanto la polizia avrebbe commesso degli atti deplorevoli nei loro confronti a causa delle loro idee politiche, nonché degli articoli 10 e 11 della Convenzione, in quanto non hanno potuto partecipare al contro-summit del G8.
  4. Sul piano dell’articolo 13 della Convenzione, i ricorrenti lamentano il fatto di non aver avuto a disposizione un ricorso effettivo contro l’obbligo forzato di ritornare al traghetto e rientrare in Grecia.
  5. Ritengono di aver subito una discriminazione a causa della loro origine e delle loro convinzioni ideologiche, in violazione dell’articolo 14 della Convenzione.
  6. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, i ricorrenti lamentano di aver subito dei danni materiali durante l’intervento della polizia italiana e di essere stati obbligati a pagare le spese per il loro rimpatrio.
  7. Infine, invocano l’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione che vieta le espulsioni collettive.

IN DIRITTO

1. Invocando l’articolo 3 della Convenzione, i ricorrenti denunciano di essere stati vittime di trattamenti inumani e degradanti e di essere stati trattati come «persone pericolose» in assenza di prove a sostegno di questa tesi.
Tale articolo recita:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

a) La posizione delle parti relativamente all’esaurimento delle vie di ricorso interne

Il Governo osserva prima di tutto che i ricorrenti hanno omesso di esaurire le vie di ricorso che il diritto interno metteva a loro disposizione. Sostiene che essi avrebbero potuto presentare una denuncia per lesioni personali, «subito o una volta rientrati in Grecia», o intentare un’azione di risarcimento dinanzi alle autorità competenti.
I ricorrenti ritengono che, tenuto conto delle condizioni del loro allontanamento, la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne non si applica nel caso di specie. Precisano di essersi trovati nell’impossibilità di presentare un qualsiasi ricorso, in quanto non erano a conoscenza della decisione che disponeva il loro respingimento e, ad ogni modo, quest’ultimo è intervenuto seduta stante. Inoltre, secondo i ricorrenti, anche dopo la loro partenza qualsiasi via di ricorso sarebbe stata inefficace «in quanto le violazioni erano già intervenute e non era più possibile riparare ai danni causati».
I ricorrenti sostengono altresì che il fatto di avviare una causa dinanzi ai giudici italiani dall’estero presenterebbe delle difficoltà sproporzionate e comporterebbe delle spese notevoli, sia dal punto di vista economico che in termini di tempo.
I ricorrenti hanno prodotto e tradotto in inglese una lettera inviata dal console dell’Ambasciata di Grecia a Roma al Ministero della Marina greco datata 3 febbraio 2003. Tale lettera risponde ad una richiesta dello stesso ministero datata 31 gennaio 2003 (di cui i ricorrenti non hanno prodotto copia), e riguarda «le lesioni personali subite dal sig. Dritsas». In tale lettera, il console indica che, nel diritto italiano, una denuncia per lesioni personali può essere presentata solo dalla vittima (e non ex officio) e che l’autorità competente a condurre l’inchiesta è il Procuratore di Ancona, in quanto le autorità greche non hanno potere in materia.

b) La valutazione della Corte

La Corte richiama la propria giurisprudenza secondo la quale il semplice fatto di nutrire dei dubbi sulle prospettive di successo di un determinato ricorso che non è evidentemente destinato all’insuccesso non costituisce un motivo valido per giustificare il fatto di non avvalersi di ricorsi interni (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 71, Recueil des arrêts et décisions 1996 IV).

La Corte osserva che le versioni dei fatti fornite dalle due parti non differiscono per quanto riguarda i tempi e il luogo degli scontri tra manifestanti e forze di polizia. Questi sono avvenuti sullo stesso traghetto, proprio prima che esso ripartisse. L’argomento del Governo secondo il quale i ricorrenti avrebbero potuto presentare subito una denuncia penale non può pertanto essere preso in considerazione.
In compenso, secondo il parere della Corte, una volta rimpatriati i ricorrenti avevano la possibilità di adire le autorità giudiziarie, sia in ambito penale che civile, per sottoporre loro il motivo di ricorso che sollevano ora dinanzi alla Corte nominando, ad esempio, un avvocato che li rappresenti sul posto.

Essa osserva inoltre che, nella lettera del console dell’Ambasciata di Grecia a Roma, di cui copia è stata inviata dai ricorrenti stessi alla Corte, viene menzionata la possibilità che veniva offerta loro nel diritto italiano di presentare una denuncia per lesioni personali dinanzi alle giurisdizioni interne.

Il deposito di una denuncia penale e di un’azione di risarcimento costituivano dunque, nel caso di specie, delle vie di ricorso accessibili e adeguate che i ricorrenti hanno omesso di esaurire. L’eccezione sollevata dal Governo deve pertanto essere accolta e questa parte del ricorso deve essere rigettata per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ai sensi dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

2. I ricorrenti lamentano poi di aver subito una privazione della libertà «per quattro ore» quando la polizia li ha accerchiati nel porto di Ancona e invocano l’articolo 5 della Convenzione, che nelle sue parti pertinenti recita:
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:

a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;

  1. se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge;
  2. se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso;
  3. se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;
  4. se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;
  5. se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione. (...)»

a) La posizione delle parti

Il Governo osserva prima di tutto che questo motivo di ricorso dovrebbe essere rigettato in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, poiché la situazione descritta dai ricorrenti costituisce una limitazione di poche ore della loro libertà motivata da un tentativo di identificazione da parte della polizia. Lungi dal costituire una «privazione della libertà» ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione, tale disposizione non sarebbe dunque applicabile nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Governo ritiene che questo motivo di ricorso sia manifestamente infondato, in quanto la limitazione della libertà dei ricorrenti mirava a impedire che questi ultimi entrassero irregolarmente nel territorio (articolo 5 § 1 f) della Convenzione) e vi commettessero dei reati.
I ricorrenti confermano il loro motivo di ricorso e osservano che non è stata comunicata loro alcuna decisione relativa alla loro privazione della libertà.

b)    La valutazione della Corte

i.    Principi generali

La Corte ricorda anzitutto che, proclamando il «diritto alla libertà», il paragrafo 1 dell’articolo 5 prevede la libertà individuale nella sua accezione classica, ossia la libertà fisica della persona. Tale articolo ha lo scopo di garantire che nessuno ne venga privato in maniera arbitraria e non riguarda le semplici restrizioni alla libertà di circolazione. Ciò si evince sia dall’uso dei termini «privato della sua libertà», «arresto» e «detenzione», che compaiono anche nei paragrafi 2 - 5, sia da un confronto tra l’articolo 5 e le altre disposizioni normative della Convenzione e dei Protocolli. Per determinare se una persona sia stata «privata della sua libertà» ai sensi dell’articolo 5 bisogna partire dalla sua situazione concreta e tenere conto di un insieme di criteri come il genere, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione del provvedimento considerato (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, §§ 58-59, serie A n. 22 e Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, § 92, serie A n. 39).

Più specificamente, per valutare l’applicabilità dell’articolo 5 § 1 della Convenzione, nella loro rispettiva giurisprudenza, la Commissione e la Corte hanno considerato la finalità del provvedimento in contestazione (X. c. Germania, decisione della Commissione del 19 marzo 1981, Décisions et Rapports (D.R.) 24, p. 158 e Guenat c. Svizzera, n. 24722/94, decisione della Commissione del 10 aprile 1995, D.R., vol. 81, p. 130), i luoghi e la durata di esecuzione di quest’ultimo (Engel e altri, già cit., §§ 61-65), la persona o l’autorità che ha emesso tale provvedimento (Nielsen c. Danimarca, 28 novembre 1988, § 73, serie A n. 144) e l’esistenza del consenso della persona che lamenta una sua privazione della libertà (Storck c. Germania, n. 61603/00, § 74, CEDU 2005 V e H.M. c. Svizzera, n. 39187/98, § 47, CEDU 2002 II).
La Corte osserva anche che «tra privazione e restrizione della libertà vi è solo una differenza di grado o di intensità, non di natura o di essenza. La classificazione in una o nell’altra di tali categorie risulta a volte ardua, poiché in alcuni casi marginali si tratta puramente di una questione di valutazione, ma la Corte non può eludere una scelta da cui dipenda l’applicabilità o meno dell’articolo 5» (Guzzardi, già cit., § 93 e Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, § 39, serie A n. 281 A).

ii.    Sull’esistenza di privazione della libertà nel caso di specie

La Corte osserva prima di tutto che i ricorrenti si sono limitati a indicare di essere stati privati della libertà per un periodo di «quattro ore». Secondo la Corte, per stabilire la portata di questo motivo di ricorso, è opportuno ricordare brevemente lo svolgimento dei fatti della causa nelle loro parti pertinenti basandosi in particolare sulle testimonianze e l’attestazione di cui all’esposizione dei fatti al punto n. 3, lettere a) i, ii, iii e d) supra.
Il 19 luglio 2001, verso le ore 13.45, su richiesta della polizia italiana, i tre pullman in cui si trovavano i ricorrenti, appena sbarcati, furono reimbarcati. Usciti spontaneamente dai pullman, i passeggeri occuparono una delle rampe di accesso del traghetto. Verso le 18.30 la polizia intervenne per respingere i manifestanti all’interno del traghetto. Tale operazione si concluse un quarto d’ora più tardi, verso le 18.45. Cinque minuti dopo il traghetto ripartì.
La Corte osserva che i fatti in contestazione si sono svolti nell’arco di circa cinque ore. Non risulta dunque chiaramente dal modo in cui è formulata la doglianza dei ricorrenti quali siano i fatti che, secondo loro, hanno costituito una «privazione della libertà» nei loro confronti, ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione.

In ogni caso, anche volendo considerare i fatti sopra descritti nella loro totalità, la Corte non può fare altro che constatare che si sono svolti nel breve arco di tempo di poche ore.
Inoltre, lungi dall’essere stati rinchiusi in un determinato luogo, i ricorrenti sono stati temporaneamente arrestati alla frontiera al fine di essere allontanati dal territorio italiano. Si deve anche osservare che i ricorrenti erano liberi di lasciare volontariamente l’Italia in qualsiasi momento (v., a contrario e mutatis mutandis, Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 48, Recueil des arrêts et décisions 1996 III).
Esaminando lo scopo dell’operazione di polizia, la Corte constata che esso consisteva, al di là di ogni dubbio, nel garantire la sicurezza interna. Ciò risulta, da una parte, dalle indicazioni fornite dalla D.I.G.O.S. alla polizia italiana, secondo le quali i manifestanti erano dei militanti di gruppi anarchici internazionali «potenzialmente pericolosi» e, dall’altra, dalla sospensione temporanea degli accordi di Schengen, debitamente provata dal Governo, volta a limitare l’entrata nel territorio di individui potenzialmente pericolosi per la sicurezza pubblica.

Per di più, la Corte osserva che i ricorrenti hanno precisato di aver mostrato i loro documenti di identità contemporaneamente al restante migliaio di persone facenti parte del loro Comitato e prima che i tre pullman in cui si trovavano fossero separati dal resto del convoglio. Secondo la versione dei fatti dei ricorrenti e le testimonianze fornite da questi ultimi, nel tempo questo fatto si colloca, al più tardi, prima delle ore 13.45 del 19 luglio 2001. Tuttavia i ricorrenti hanno omesso di contestare le informazioni fornite dal Governo secondo cui, in un secondo tempo, ossia verso le 14.00 e le 14.50 (ossia una volta che il gruppo delle persone potenzialmente pericolose era stato separato dal resto dei manifestanti), gli stessi documenti sono stati chiesti loro due volte invano ai fini della redazione dei provvedimenti di respingimento che li riguardavano. La Corte constata che il Governo ha fornito delle prove a sostegno della sua tesi, ossia il verbale che attesta il doppio rifiuto dei ricorrenti di esibire i loro documenti nonché una copia dell’ordine della Direzione centrale della polizia di prevenzione, indirizzato alla Direzione del servizio dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, di respingere il gruppo di cui facevano parte i ricorrenti redigendo dei provvedimenti di respingimento nei loro confronti ai sensi dell’articolo 6 del D.P.R. n. 1656/1965. Pertanto, la corte non vede alcun motivo per discostarsi da questa versione dei fatti. Essa rileva inoltre che, ai sensi dell’articolo sopra citato, la polizia aveva l’obbligo di raccogliere le informazioni relative all’identità dei ricorrenti ai fini del loro respingimento e che tale obbligo era idoneo a giustificare il fatto di averli fermati.

Tenuto conto di tutti questi elementi, secondo il parere della Corte i fatti denunciati dai ricorrenti nel caso di specie non costituiscono una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione. Quest’ultimo non trova dunque applicazione e il relativo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, secondo l’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

3. I ricorrenti denunciano poi una violazione degli articoli 9 e 10 della Convenzione, nella misura in cui i maltrattamenti denunciati, così come il loro respingimento dal territorio italiano, sarebbero stati compiuti dalla polizia a causa delle loro idee politiche. Essi lamentano anche una violazione degli articoli 10 e 11 della Convenzione, poiché non hanno potuto partecipare al contro-summit del G8 e non hanno potuto manifestare le loro opinioni in tale occasione.

Gli articoli in questione, nelle loro parti pertinenti, recitano:
Articolo 9
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza (...); questo diritto include (...) la libertà di manifestare (...) la propria convinzione (...) collettivamente in pubblico (...).
2. La libertà di manifestare (...) le proprie convinzioni non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.»
Articolo 10
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di (…) comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera (...).
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati (...).»
Articolo 11
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi.
2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati (…). Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato.»
La Corte ritiene anzitutto che il motivo di ricorso relativo all’articolo 9 della Convenzione si debba considerare assimilato a quello relativo all’articolo 10 della Convenzione. Pertanto alla Corte rimane solo da esaminare questa parte del ricorso sotto il profilo degli articoli 10 e 11 della Convenzione.

a) Sull’eccezione preliminare sollevata dal Governo

Il Governo osserva anzitutto che i ricorrenti hanno omesso di esaurire le vie di ricorso che il diritto interno metteva a loro disposizione. Esso ritiene che, per quanto riguarda gli articoli 10 e 11 della Convenzione, avrebbero potuto presentare una richiesta di provvedimento d’urgenza ai sensi dell’articolo 700 del codice di procedura civile, il che «avrebbe potuto garantire loro immediatamente la possibilità di continuare il loro viaggio».
Sulla questione dell’esaurimento delle vie di ricorso interne i ricorrenti fanno riferimento alle considerazioni presentate nell’ambito dell’articolo 3 della Convenzione.

La Corte ricorda che, secondo la sua giurisprudenza costante, l’articolo 35 § 1 della Convenzione impone ai ricorrenti l’obbligo di esaurire i ricorsi normalmente disponibili e sufficienti nell’ordinamento giuridico interno per permettere loro di ottenere riparazione delle violazioni che sostengono di avere subito. Tuttavia, essa sottolinea che deve applicare questa regola tenendo debitamente conto del contesto, con una certa elasticità e senza eccessivo formalismo. Ciò significa in particolare che la Corte deve analizzare in maniera realistica non solo i ricorsi previsti in teoria nel sistema giuridico della Parte contraente interessata, ma anche la situazione personale dei ricorrenti (Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 77, CEDU 1999-V).

Nella presente causa, la Corte osserva che il respingimento dei ricorrenti è avvenuto nell’arco di pochi minuti (tra le 18.30 e le 18.45 circa del 19 luglio 2001), in un contesto di tensione innegabile. La Corte esprime pertanto dei dubbi sulla possibilità concreta per i ricorrenti di avvalersi, nel caso di specie, del provvedimento d’urgenza (articolo 700 del codice di procedura civile) indicato dal governo convenuto.
Tenuto conto di queste considerazioni, la Corte non può dimostrare un formalismo eccessivo: l’eccezione preliminare del Governo non può pertanto essere accolta.

b) Sulla fondatezza dei motivi di ricorso

Secondo il Governo, l’articolo 10 della Convenzione non trova applicazione nel caso di specie, in quanto tale disposizione non tutela il diritto di esprimere le proprie opinioni per mezzo di manifestazioni collettive nella strada. Verrebbe a mancare anche l’ingerenza nel diritto invocato dai ricorrenti: lungi dal vietare l’espressione delle idee politiche dei ricorrenti, le autorità hanno semplicemente impedito che questi ultimi si recassero a Genova, visto il loro rifiuto di dichiarare la propria identità.

I ricorrenti contestano la tesi del Governo e confermano la loro doglianza.
Per quanto riguarda l’articolo 11 della Convenzione, il Governo sostiene che, sulla base delle informazioni raccolte dalle autorità di polizia dei vari Stati interessati, le autorità avevano motivo di supporre che i ricorrenti fossero degli elementi potenzialmente pericolosi che potevano compiere atti di provocazione o di violenza, o commettere reati. L’articolo in questione, che tutela la libertà di riunione «pacifica», non sarebbe applicabile nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Governo è del parere che l’ingerenza denunciata sia proporzionata allo scopo di proteggere la difesa della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, tenuto conto del fatto che, una volta arrivati a destinazione, i ricorrenti sarebbero stati sottratti a qualsiasi possibilità di controllo efficace.

I ricorrenti sostengono che avevano l’intenzione di manifestare pacificamente e osservano che l’ingerenza nella loro libertà di riunione non è stata proporzionata, poiché la loro «pericolosità» non è stata dimostrata.
La Corte ritiene prima di tutto che questa parte del ricorso debba essere esaminata unicamente sotto il profilo dell’articolo 11 della Convenzione, in quanto l’articolo 10 si traduce in una lex generalis rispetto all’articolo 11, lex specialis. In effetti, la tutela delle opinioni personali, garantita dall’articolo 10 della Convenzione, rientra tra gli obiettivi della libertà di riunione pacifica sancita dall’articolo 11 della Convenzione (Ezelin c. Francia, 26 aprile 1991, §§ 35 e 37, serie A n. 202).

Anche a voler supporre che quest’ultimo articolo preveda un obbligo per lo Stato di accogliere degli stranieri affinché esercitino sul suo territorio la loro libertà di riunione (si veda, mutatis mutandis, Women On Waves e altri c. Portogallo, n. 31276/05, §§ 36-44, CEDU 2009 ...), la Corte ricorda che, come risulta dal contenuto dell’articolo 11, la Convenzione tutela solo la libertà di «riunione pacifica». Questa nozione non comprende le manifestazioni i cui organizzatori o partecipanti hanno intenzioni violente (si veda, mutatis mutandis, Stankov e Organisation macédonienne unie Ilinden c. Bulgaria, nn. 29221/95 e 29225/95, § 77, CEDU 2001 IX; G. c. Germania, n. 13079/87, decisione della Commissione del 6 marzo 1989, DR 60, p. 256, e Chrétiens contre le racisme et le fascisme c. Regno Unito, n. 8440/78, 16 luglio 1980, DR 21, p. 138).
Per quanto riguarda l’applicabilità di questo articolo nel caso di specie, la Corte non può trarre dall’indicazione della D.I.G.O.S., che afferma la «pericolosità potenziale» del gruppo di cui facevano parte i ricorrenti, la conclusione che, al di là di ogni dubbio, ciascuno dei quarantasei ricorrenti, partecipando al contro-summit di Genova, era animato, ai fini dell’articolo 11, da intenzioni violente. La Corte ritiene dunque che l’articolo 11 trovi applicazione nel caso di specie.

La Corte rileva inoltre che il respingimento dei ricorrenti ha costituito, evidentemente, una ingerenza nel loro diritto sancito dall’articolo 11. Tale ingerenza era prevista dalla legge, ossia l’articolo 6 del D.P.R. n. 1656/1965 (che prevede la possibilità di derogare alle disposizioni relative all’entrata di cittadini di altri Paesi della C.E.E. nel territorio italiano) nonché la decisione del Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica del 3 luglio 2001 (che sospende gli accordi di Schengen). Il provvedimento in questione perseguiva inoltre un obiettivo legittimo che consisteva nell’allontanamento dal territorio italiano di individui considerati «potenzialmente» pericolosi per la sicurezza pubblica come risulta dalla nota inviata il 18 luglio 2001 dall’ufficiale di polizia italiana di collegamento ad Atene al servizio Interpol della Direzione centrale della polizia criminale italiana, nonché dalla nota della D.I.G.O.S. trasmessa il giorno seguente alle forze di polizia italiane.

Resta dunque da stabilire se, nelle circostanze della presente causa, l’ingerenza in questione abbia costituito una misura che possa essere considerata necessaria in una società democratica.
Su questo punto, la Corte fa riferimento alle considerazioni esposte nel quadro dell’articolo 5 della Convenzione per quanto riguarda l’obiettivo del respingimento dei ricorrenti nel caso di specie, ossia la tutela della sicurezza interna, nonché al fatto che i ricorrenti si sono rifiutati due volte (intorno alle 14.00 e alle 14.50) di esibire i loro documenti di identità come richiesto delle forze di polizia
Tenuto conto delle circostanze particolari della presente causa e delle misure speciali di sicurezza richieste al fine di garantire la sicurezza della manifestazione, la Corte ritiene che il respingimento dei ricorrenti non sembra sproporzionato rispetto allo scopo perseguito, ai sensi dell’articolo 11 § 2 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Bigliazzi c. Italia, ricorso n. 29631/06, dec., 16 dicembre 2008). Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata, conformemente all’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

4. Invocando l’articolo 13 della Convenzione, i ricorrenti lamentano il fatto di non aver avuto a disposizione un ricorso effettivo per denunciare «le modalità del loro respingimento». Tale articolo recita:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali (...).»

Il Governo non ha presentato osservazioni in merito a questo punto.

I ricorrenti confermano la loro doglianza.
La Corte ricorda che, secondo la sua giurisprudenza costante, l’articolo 13 si applica solo quando una persona presenta una «doglianza difendibile» di violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione. Per stabilire se una doglianza sia «difendibile», è opportuno decidere alla luce delle circostanze particolari del caso di specie e delle questioni giuridiche che si pongono (Boyle e Rice c. Regno Unito, 27 aprile 1988, §§ 52 e 55, serie A n. 131). La difendibilità di una doglianza è un criterio diverso dalla sua fondatezza e, in linea di principio, anche dalla sua ricevibilità (Zavoloka c. Lettonia, n. 58447/00, § 38, 7 luglio 2009).

La Corte osserva che i ricorrenti lamentano nel caso di specie di non aver avuto a disposizione un ricorso effettivo per denunciare «le modalità del loro respingimento». Ricorda poi che il motivo di ricorso basato sull’articolo 3 della Convenzione è irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Secondo la Corte i ricorrenti non hanno, nel caso di specie, alcuna doglianza difendibile ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione.
La Corte ritiene che questo motivo di ricorso sia manifestamente infondato e debba essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

5. I ricorrenti ritengono che il loro respingimento, i trattamenti inumani presumibilmente subiti e la privazione della libertà di cui sostengono di essere stati oggetto sarebbero stati compiuti a causa delle loro «origini e convinzioni ideologiche». Invocano l’articolo 14 della Convenzione che recita:
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella (…) Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»
Il Governo, considerando che nessuno degli articoli della Convenzione sia stato violato nel caso di specie, ritiene che l’articolo 14 della Convenzione non sia applicabile. In ogni caso, i ricorrenti non sono stati oggetto di discriminazioni, poiché il fatto che sono stati respinti è legato alla loro pericolosità e non alla loro nazionalità.

I ricorrenti non hanno presentato osservazioni su questo punto.
La Corte osserva che questo motivo di ricorso è legato a quelli relativi agli articoli 3, 5, 10 e 11 della Convenzione dichiarati irricevibili sulla base delle motivazioni sopra esposte.
Osserva inoltre di avere stabilito che, ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione, la discriminazione deriva dal fatto di trattare in modo diverso, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole, delle persone poste in una determinata materia in situazioni paragonabili (Willis c. Royaume-Uni, n. 36042/97, § 48, CEDU 2002-IV, e Zarb Adami c. Malta, n. 17209/02, § 71, CEDU 2006 VIII). Nel caso di specie, la Corte osserva che i ricorrenti contestano in astratto i motivi che avrebbero fondato i fatti denunciati, senza tuttavia comparare la loro situazione a quella di altre persone. Peraltro, nessun elemento del fascicolo permette di sostenere questa doglianza. La Corte, di conseguenza, ritiene che questa parte del ricorso debba essere rigettata in quanto manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

6. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, i ricorrenti lamentano i danni materiali subiti durante l’intervento della polizia italiana e le spese sostenute per il rimpatrio. Le parti pertinenti di tale articolo recitano:
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. (…)
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»
Il Governo ritiene prima di tutto che i ricorrenti avrebbero potuto intentare un’azione civile di risarcimento facendo valere queste doglianze. Sostiene anche che i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova a sostegno delle loro allegazioni e che, in ogni caso, avrebbero dovuto pagarsi il viaggio di ritorno.
I ricorrenti non hanno presentato osservazioni su questo punto.
Come il Governo, la Corte riconosce che i ricorrenti non hanno fornito prove a sostegno delle loro doglianze. In ogni caso, rinvia alle considerazioni fatte nell’ambito dell’articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda l’esaurimento delle vie di ricorso interne e ritiene che un’azione di risarcimento costituisse, nel caso di specie, una via di ricorso accessibile e adeguata che i ricorrenti hanno omesso di esperire. L’eccezione sollevata dal Governo deve pertanto essere accolta e questa parte del ricorso deve essere rigettata per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ai sensi dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

7. I ricorrenti invocano infine l’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione, che recita:
«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate.»
Il Governo considera anzitutto che questa disposizione non trovi applicazione nel caso di specie: i fatti in questione non si riferiscono a una «espulsione» ma a un respingimento dei ricorrenti alla frontiera, in quanto questi ultimi, che erano sul punto di introdursi nel territorio dello Stato, non vi si trovavano ancora. In ogni caso, l’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione non sarebbe stato violato in quanto i ricorrenti, che facevano parte di un gruppo potenzialmente pericoloso, sarebbero volontariamente rientrati in Grecia dopo essersi rifiutati di esibire i loro documenti di identità.
I ricorrenti sostengono che il loro respingimento ha costituito una espulsione collettiva, senza che venisse presa e comunicata loro alcuna decisione ufficiale e individuale. Affermano di «non aver mai rifiutato di sottoporsi al controllo dei loro documenti di identità e di aver esibito i loro passaporti nello stesso momento in cui lo hanno fatto gli altri membri della missione greca». I ricorrenti osservano infine che la loro espulsione ha costituito un atto di intimidazione volto a impedire la partecipazione alla manifestazione dei cittadini greci, che formavano la missione straniera più importante.

La Corte considera prima di tutto che per espulsione collettiva si intende, ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, qualsiasi misura che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e obiettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che formano il gruppo (Andric c. Svezia (dec.), n. 45917/99, 23 febbraio 1999 e Čonka c. Belgio, n. 51564/99, § 59, CEDU 2002 I).

La Corte osserva inoltre che, nel caso di specie, i ricorrenti denunciano l’assenza di provvedimenti individuali adottati nei loro confronti ai fini del loro respingimento.
Riferendosi alle considerazioni esposte nell’ambito dell’esame delle doglianze relative agli articoli 5 e 11 della Convenzione la Corte constata che, ammesso anche che i ricorrenti abbiano esibito i loro documenti di identità alla polizia in un primo momento (ossia prima che i tre pullman in cui si trovavano venissero separati dal convoglio e contemporaneamente al restante migliaio di persone che facevano parte del loro Comitato), i manifestanti del gruppo di cui facevano parte i ricorrenti, tuttavia, non hanno fatto lo stesso in seguito, quando ciò è stato richiesto loro due volte, alle 14.00 e alle 14.50 circa del 19 luglio 2001. I documenti in questione erano stati richiesti in questo caso al fine di redigere delle misure di respingimento, ai sensi dell’articolo 6 del D.P.R. n. 1656/1965, come richiesto dal Ministero dell’Interno alle forze di polizia.

In queste circostanze, è giocoforza constatare che l’assenza di provvedimenti individuali di respingimento nei confronti dei ricorrenti non può in alcun caso essere imputata al governo convenuto.
Questa parte del ricorso deve dunque essere rigettata in quanto manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

8. Nel comunicare il presente ricorso al Governo, il 23 settembre 2004, la Corte ha sollevato d’ufficio una questione volta a stabilire se la dedotta violazione dei diritti garantiti ai ricorrenti dagli articoli 10, 11 e 14 della Convenzione si traducesse in una limitazione legittima dell’attività politica degli stranieri ai sensi dell’articolo 16 della Convenzione, che recita:
«Nessuna delle disposizioni degli articoli 10, 11 e 14 può essere interpretata nel senso di proibire alle Alte Parti contraenti di imporre restrizioni all’attività politica degli stranieri.»
Il Governo sostiene che la disposizione in questione non trova applicazione nel caso di specie, tenuto conto della irricevibilità dei motivi di ricorso relativi agli articoli 10 e 11 della Convenzione. In ogni caso, nessuna legge nazionale limita il diritto di ogni persona, italiana o straniera, di esprimersi in materia politica, che si tratti di fare propaganda, di iscriversi a un partito o di prendere parte a una manifestazione politica.
I ricorrenti osservano che qualsiasi eventuale limitazione di attività politiche esercitate da cittadini dell’Unione europea sarebbe illegittima.

La Corte osserva che, con la sua raccomandazione n. 799 (1977) (discussioni del 17 settembre 1976 e 25 gennaio 1977), l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha chiesto al Comitato dei Ministri di presentare delle proposte volte a escludere le limitazioni, autorizzate ai sensi dell’articolo 16 della Convenzione, all’esercizio da parte degli stranieri delle libertà garantite dagli articoli 10 e 11 della Convenzione quando si tratta di attività politiche. Con decisione del 28 aprile 1981 (CM/Dél/Concl(81)333, Punto 8), il Comitato dei Ministri ha ritenuto che non fosse opportuno modificare l’articolo 16 della Convenzione. Esso ha tuttavia indicato che, nell’ambito del programma di attività intergovernative, vari comitati direttivi avrebbero continuato a scambiarsi delle opinioni sui problemi legati all’esercizio dei diritti politici degli stranieri.

Esaminando il caso di specie la Corte ritiene che, tenuto conto delle conclusioni inerenti ai motivi di ricorso relativi agli articoli 10 e 11 della Convenzione (dato che l’articolo 10 è stato analizzato sotto il profilo dell’articolo 11 e quest’ultimo è stato dichiarato irricevibile), non si pone alcuna questione separata relativamente all’articolo 16 della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, a maggioranza,
Dichiara il ricorso irricevibile.

Stanley Naismith   
Cancelliere

Françoise Tulkens
Presidente

LISTA DEI RICORRENTI

  1. DRITSAS THEODOROS
  2. ADAMOPOULOS ANASTASIOS
  3. AGELOPOULOU ATHINA-ELEFTHERIA
  4. ANAGNOSTOU OLGA
  5. ANTONAKI HELECTRA
  6. BELAVILAS NIKOLAOS
  7. FARMAKIS KONSTANTINOS
  8. FARMAKIS TAXIARHIS
  9. GEORGOPOULOS KONSTANTINOS
  10. GEROU EKATERINI
  11. GIANNOPOULOS NIKOLAOS
  12. GIANNOULI CHRISTINA
  13. HARISIS CHRISOSTOMOS
  14. HARITOPOULOS IOANNIS
  15. HATZIPETROS MICHAEL
  16. KAFKALETOS ANASTASIOS
  17. KAPLANI ANASTASIA
  18. KARAGIANNIS DIMITRIOS
  19. KATERGARI MARIA
  20. KATSAKOS DIMITRIOS
  21. KOLIMENOS KOSTAS
  22. KOMITOPOULOS DIMISTRIOS
  23. KOPANARAS VASILEIOS
  24. KORONAKIS ANASTASIOS
  25. KOUTSOTHEODORIS LAMPROS
  26. KOUTSOTHEODORIS THEODOROS
  27. KOYENIS NIKOLAOS
  28. LAMPROU PANOS
  29. LEONIDOU VASILEIOS
  30. MENEGAKIS NIKOLAOS
  31. NATHANAILIDOU KONSTANTINA
  32. NIKOLEAS DIMITRIOS
  33. PAPADOPOULOS CHRISTOFOROS
  34. PAPADOPOYLOY ANASTASIA
  35. PAPAGIANNAKOS DIMITRIS
  36. PAPAIOANNOU KONSTANTINOS
  37. PENDARAKI MARIA
  38. SAMPANIKOS IOANNIS
  39. STAYROPOULOU VASILIKI
  40. TSIMPOURI CHRISTINA
  41. TSIPRAS ALEXIS
  42. TSOUKNIDAS VISSARION
  43. TSOURAKIS GEORGE
  44. VAMVOURELLI MARIA
  45. VASILIOU DIMISTRIOS
  46. ZIAKA CHRISTINA