Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 30 agosto 2011 - Ricorso n. 29753/02 - Maurizio Lucchesi e altri c. Italia

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE SULLA RICEVIBILITA’
del ricorso n° 29753/02
presentato da Maurizio LUCCHESI ed altri contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 30 agosto 2011 in una camera composta da:
David Thór Björgvinsson, presidente,
Giorgio Malinverni,
Guido Raimondi, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 30 luglio 2002,
Viste le osservazioni sulla ricevibilità del ricorso presentate il 16 marzo 2004 dal governo convenuto e quelle presentate il 18 maggio 2004 in risposta dai ricorrenti,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO

A. Le circostanze del caso di specie

Il ricorso è stato presentato dai sigg. Maurizio Lucchesi, Flavio Massimo Lucchesi, Fabio Lucchesi e dalla sig.ra Giulia Benaglia Lucchesi, cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1951, 1956, 1949 e 1912. A seguito del decesso della sig.ra Giulia Benaglia Lucchesi, il sig. Fabio Lucchesi ha proseguito il procedimento a suo nome. I ricorrenti, residenti a Milano, Montasio e Brescia, sono rappresentati dinanzi alla Corte dagli avv. E. Senini e P. Rotondo del foro di Brescia. Il governo convenuto è stato rappresentato dai suoi ex agenti, M. Braguglia, agente, e F. Crisafulli, co-agente.
I fatti della causa, così come esposti dai ricorrenti, si possono riassumere come segue.
I ricorrenti sono proprietari di un appartamento a Milano, che avevano dato in locazione a N.G.
Con raccomandata in data 26 giugno 1985 i ricorrenti informarono il locatario della loro intenzione di porre fine alla locazione allo scadere del contratto, ossia il 30 giugno 1987, e lo pregarono di liberare i locali prima di tale data.
Con atto notificato il 26 giugno 1987 i ricorrenti rinnovarono l’avviso di sfratto e citarono l’interessato dinanzi al pretore di Milano.
Con ordinanza resa il 9 luglio 1987 quest’ultimo confermò formalmente la disdetta del contratto di locazione e dispose che i locali dovevano essere liberati entro il termine massimo del 30 giugno 1988. Tale decisione divenne esecutiva il 21 gennaio 1989.
Il 23 giugno 1989 i ricorrenti ingiunsero al locatario di liberare l’appartamento.
Il 12 luglio 1989 gli notificarono l’avviso che l’espulsione sarebbe stata eseguita il 28 luglio 1989 con l’intervento dell’ufficiale giudiziario.
Tra il 28 luglio 1989 e il 5 febbraio 2002 l’ufficiale giudiziario procedette a quarantotto tentativi di sfratto. Tali tentativi si conclusero tutti con un insuccesso in quanto le leggi in materia di sospensione o graduazione dell’esecuzione dei provvedimenti di sfratto non permettono ai ricorrenti di beneficiare dell’assistenza della forza pubblica.
Il 10 aprile 2002 i ricorrenti recuperarono il loro appartamento.
Il 29 marzo 2003 i ricorrenti citarono la Presidenza del Consiglio dei Ministri dinanzi alla corte d’appello di Brescia ai sensi della legge Pinto, sostenendo che vi era stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a causa della durata della procedura di sfratto.
Chiesero le somme di 24.768 euro (EUR) a titolo di riparazione per il danno morale e di 168.000 EUR per il danno materiale. Per quanto riguarda quest’ultimo, affermarono che, secondo il listino della camera di commercio di Milano, nel 2002 il loro appartamento valeva circa 260.000 EUR (tra 1.700 e 2.220 EUR il metro quadrato). Il canone di locazione annuale, compreso tra il 5 e il 7% del valore dell’immobile, avrebbe dovuto essere di 15.000 EUR, mentre i locatari pagavano, negli ultimi anni, un canone di locazione compreso tra 2.500 e 3.000 EUR l’anno. Di conseguenza, il danno materiale ammontava, secondo loro, a 12.000 EUR l’anno. Poiché il termine ragionevole era stato superato di quattordici anni, il danno materiale era di 168.000 EUR.
Con decisione resa in data 28 maggio 2003, il cui testo fu depositato in cancelleria il 18 luglio 2003, la corte d’appello di Brescia accolse in parte la domanda dei ricorrenti. Osservò che essi non avevano dimostrato i danni patrimoniali che sostenevano di avere subito, condannò il Ministero della Giustizia a pagare a ciascun ricorrente, a titolo di equa soddisfazione, 10.000 EUR per il danno morale e 485 EUR per le spese.
Il 10 dicembre 2003 lo Stato presentò ricorso per cassazione e, nel febbraio 2004, i ricorrenti depositarono un ricorso incidentale. Con sentenza depositata in cancelleria il 30 maggio 2006 la Corte di cassazione annullò la decisione di appello in quanto i ricorrenti avrebbero dovuto citare in giudizio il Ministero della Giustizia e non la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

B. Il diritto e la prassi interni pertinenti

Il diritto e la prassi interni pertinenti sono riportati nella decisione Mascolo c. Italia (n. 68792/01, 16 ottobre 2003) e nelle sentenze Mascolo c. Italia (n. 68792/01, §§ 14-44, 16 dicembre 2004) e Lo Tufo c. Italia, (n. 64663/01, §§ 16-48, 21 aprile 2005).

MOTIVI DI RICORSO

  1. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1, i ricorrenti lamentano la prolungata impossibilità di rientrare in possesso del loro appartamento, in assenza di intervento della forza pubblica.
  2. I ricorrenti lamentano anche, ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, l’eccessiva durata della procedura di sfratto.

 

IN DIRITTO

I ricorrenti lamentano la prolungata impossibilità di rientrare in possesso del loro appartamento e adducono una violazione del loro diritto di proprietà, sancito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 che recita:

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

I ricorrenti lamentano inoltre una inosservanza dell’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nella sua parte pertinente, recita:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...)»

Il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Sottolinea che i ricorrenti non hanno presentato ricorso dinanzi alla Corte di cassazione «Pinto», non si sono avvalsi del rimedio previsto dall’articolo 1591 del codice civile e hanno omesso di adire il giudice amministrativo per contestare il rifiuto di accordare loro l’assistenza della forza pubblica.
Per quanto riguarda l’assenza di ricorso per cassazione «Pinto», i ricorrenti sostengono che, alla luce della giurisprudenza Scordino c. Italia ((dec.), n. 36813/97, CEDU 2003 IV), questo tipo di ricorso non costituisce un rimedio effettivo ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione e che, in ogni caso, il rimedio Pinto non si applica al motivo di ricorso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1.
La Corte constata che un procedimento dinanzi alla Corte di cassazione «Pinto» è stato avviato su iniziativa dello Stato, procedimento nell’ambito del quale i ricorrenti hanno depositato un ricorso incidentale. In queste condizioni, non si può rimproverare ai ricorrenti di non aver presentato ricorso per cassazione.
Tuttavia, la Corte osserva che, nella sua sentenza depositata il 30 maggio 2006, la Corte di cassazione «Pinto» ha annullato la decisione della corte d’appello in quanto i ricorrenti avevano per errore citato dinanzi a quest’ultima la Presidenza del Consiglio dei Ministri invece del Ministero della Giustizia.
Nelle cause come quella in esame la Corte rileva, da una parte, che ha ritenuto molte volte che la violazione del diritto di diritto di proprietà era «strettamente legato alla durata del procedimento, di cui costituisce una conseguenza indiretta» e che «era dunque nell’ambito del rimedio «Pinto» che i ricorrenti avrebbero potuto far valere le loro allegazioni relative alle conseguenze economiche della durata eccessiva del procedimento sul loro diritto di proprietà (si veda, tra le altre, Immobiliare Saffi c. Italia (dec.), n. 1693/04, 24 novembre 2005). L’azione fondata sulla «legge Pinto» è pertanto una via di ricorso da utilizzare da parte dei ricorrenti, in questo tipo di causa, per soddisfare all’articolo 35 § 1 della Convenzione non solo per quanto attiene alle allegazioni relative all’articolo 6 § 1 (durata del procedimento e diritto a un tribunale) ma anche per quelle relative all’articolo 1 del Protocollo n. 1 (si veda la decisione Provvedi c. Italia (dec.), n. 66644/01, 2 dicembre 2004).
D’altra parte, secondo la giurisprudenza della Corte, le vie di ricorso interne non si considerano esaurite quando un ricorso è stato dichiarato irricevibile a seguito di una irregolarità formale commessa dai ricorrenti (Pugliese c. Italia n. 2 (dec.), n. 45791/99, 25 marzo 2004). Nel caso di specie la Corte osserva che la domanda dei ricorrenti dinanzi ai giudici Pinto è stata dichiarata irricevibile per vizio di forma.
Di conseguenza, essa ritiene che i ricorrenti non hanno esperito, conformemente all’articolo 35 della Convenzione, tutte le vie di ricorso interne che il diritto italiano metteva a loro disposizione e che il ricorso deve essere rigettato per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Françoise Elens-Passos
Cancelliere aggiunto

David Thor Bjorgvinsson
Presidente