Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 8 febbraio 2011 - Ricorso n.12921/04 - Seferovic c. Italia

Traduzione a cura del Ministero della Giustizia Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA SEFEROVIC c. ITALIA
(Ricorso n. 12921/04)
SENTENZA
STRASBURGO - 8 febbraio 2011


Questa sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire modifiche di forma.
Nella causa Seferovic c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Nona Tsotsoria,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 18 gennaio 2011,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 12921/04) presentato contro la Repubblica italiana. La ricorrente, la sig.ra Mediha Seferovic («la ricorrente»), ha adito la Corte il 7 aprile 2004 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. La ricorrente è rappresentata dagli avvocati N. Paoletti e A. Mari del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, F. Crisafulli.
3. La ricorrente sostiene in particolare che la sua detenzione è stata irregolare e che non può ottenere alcun risarcimento a livello interno.
4. Il 30 luglio 2007 il presidente della seconda sezione ha deciso di informare il Governo dei due motivi di ricorso relativi all’articolo 5 della Convenzione. Come permette l’articolo 29 § 1 della Convenzione, ha inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata nel contempo sulla ricevibilità e sul merito.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. La ricorrente è nata nel 1979. Al momento della presentazione del ricorso era residente a Roma. Si tratta di una persona rom originaria della Bosnia-Erzegovina.
6. La ricorrente si era stabilita con la sua famiglia nel campo nomadi detto «Casilino 700» e successivamente in quello chiamato «Casilino 900», nel quale fu censita dal comune di Roma nel 1995. Nella scheda di censimento non si faceva riferimento ad alcun documento di identità. Il marito della ricorrente si faceva garante dell’identità di quest’ultima.
7. Temendo la discriminazione e la persecuzione in caso di ritorno in Bosnia-Erzegovina, il 14 settembre 2000 la ricorrente chiese alle autorità italiane lo status di rifugiata.
8. Dal fascicolo risulta che la domanda non fu trasmessa alla commissione competente per decidere sulla domanda, poiché presentava dei vizi di forma ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 39/1990 e della circolare del Ministro dell’Interno n. 10/1991. In particolare, la domanda non era datata, non conteneva il mandato per l’avvocato presso cui la ricorrente intendeva eleggere domicilio, la sua firma era scritta in lettere maiuscole e non era autenticata dall’avvocato.
9. Il 26 settembre 2003 la ricorrente diede alla luce un figlio. Il 6 novembre 2003 quest’ultimo fu condotto all’ospedale dai genitori e decedette. La ricorrente e il marito furono accompagnati al commissariato di polizia, dove ricevettero un ordine di presentarsi entro tre giorni all’ufficio di polizia giudiziaria, in quanto non disponevano di documenti di identità.
10. La ricorrente si rivolse all’avvocato che la rappresenta dinanzi alla Corte. Questi avvisò la polizia che la ricorrente poteva recarsi al commissariato solo l’11 novembre 2003. Egli chiese anche che la ricorrente non fosse espulsa, malgrado il fatto che la polizia avesse constatato il 6 novembre 2003 che l’interessata non era in possesso di un permesso di soggiorno.
11. L’11 novembre 2003 la ricorrente si recò al commissariato di polizia. Una volta arrivata sul posto, i funzionari di polizia le notificarono un decreto di espulsione, motivato dal fatto che si trovava in Italia in situazione irregolare, nonché un decreto che ordinava che fosse posta nel centro di soggiorno temporaneo e di assistenza di Ponte Galeria («il centro di soggiorno») ai fini della sua espulsione. Nel corso della stessa giornata, la ricorrente fu trasferita al centro di soggiorno. L’avvocato della ricorrente notificò un ricorso contro il ministero dell’interno e la commissione competente in materia di rifugiati.
12. Il 13 novembre 2003 il tribunale di Roma sentì la ricorrente, con l’assistenza di un avvocato e di un interprete, e convalidò il decreto che disponeva la sua collocazione nel centro di soggiorno. Lo stesso giorno, la ricorrente presentò dinanzi al tribunale di Roma un ricorso per contestare la legalità del decreto di espulsione e del decreto di convalida del suo trattenimento al centro di soggiorno.
13. Per quanto riguarda le condizioni di salute della ricorrente, dal fascicolo risulta che, il 17 novembre 2003, essa fu visitata da un medico ginecologo, che riscontrò una vulvo-vaginite. Fu visitata anche da uno psicologo, che ritenne che la ricorrente non presentava né sintomi psicopatologici né disturbi dell’umore. Il 18 novembre 2003 la Croce Rossa del centro di soggiorno certificò che, sulla base degli esami medici effettuati il giorno precedente su richiesta delle autorità, lo stato di salute della ricorrente era compatibile con la detenzione. Il medico del centro di soggiorno certificò il 22 novembre 2003 che lo stato di salute della ricorrente era buono e che essa prendeva quotidianamente del metronidazolo e del clotrimazolo per una vulvo-vaginite e, talvolta, degli antinfiammatori e dei calmanti che lei stessa chiedeva. Il 27 novembre 2003 il direttore della Croce Rossa inviò all’avvocato della ricorrente un certificato in cui indicava che la ricorrente prendeva delle benzodiazepine previo parere del medico di guardia.
14. Il 3 dicembre 2003 il tribunale autorizzò la proroga di trenta giorni della detenzione della ricorrente presso il centro in questione, in quanto la procedura di identificazione della stessa doveva essere completata.
15. Con decisione in data 24 dicembre 2003, depositata in cancelleria l’8 gennaio 2004, il tribunale ordinò la sospensione del decreto di espulsione e la liberazione immediata della ricorrente. Quest’ultima fu liberata il 24 dicembre 2003.
16. Con tale decisione, il tribunale accolse il ricorso della ricorrente e annullò i due decreti impugnati in quanto viziati da illegalità per i motivi seguenti. In primo luogo, il tribunale ritenne che, malgrado i vizi di forma che inficiavano la sua domanda del 14 settembre 2000, la ricorrente aveva chiesto lo status di rifugiata ed aveva eletto domicilio presso uno studio legale. L’amministrazione non aveva comunicato a questo indirizzo la propria decisione di rigetto; per questo motivo la ricorrente aveva creduto in buona fede che la sua domanda fosse sempre pendente e non aveva potuto impugnare la decisione di rigetto. Quando la ricorrente si era recata in questura, le era stato notificato un decreto di espulsione. Il tribunale ritenne che su questo punto vi fosse illegalità. Inoltre, il ritorno in Bosnia-Erzegovina presentava dei rischi per la ricorrente. In ogni caso, la collocazione al centro e il trattenimento nello stesso erano contrari alla legge. Di fatto, conformemente all’articolo 19 della legge sull’immigrazione n. 286 del 1998, l'ordine di espulsione nei confronti della ricorrente avrebbe dovuto essere sospeso fino a sei mesi dopo il parto dell’ultimogenito della ricorrente, ossia fino al 26 marzo 2004, dato che quest’ultima aveva dato alla luce il suo ultimo figlio il 26 settembre 2003, e ciò indipendentemente dal fatto che il neonato fosse deceduto.
17. Il 23 gennaio 2004 la ricorrente presentò dinanzi alla questura di Roma una richiesta di permesso di soggiorno.
18. Il 10 marzo 2006 il tribunale civile di Roma accordò alla ricorrente lo status di rifugiata.

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. Le disposizioni in materia di espulsione e trattenimento di stranieri

19. Le disposizioni nazionali sull’immigrazione applicabili nel caso di specie sono essenzialmente contenute nel decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo unico sull'immigrazione). Ai sensi dell’articolo 13 (espulsione amministrativa), il prefetto ordina l’espulsione di uno straniero quando quest’ultimo:
a) è entrato clandestinamente nel territorio dello Stato;
b) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza un titolo di soggiorno valido
c) è sospettato di dedicarsi ad attività illegali che permettano l’applicazione di misure di prevenzione ai sensi della legge n. 1423 del 1956 o n. 575 del 1965.
Qualsiasi espulsione viene disposta con decreto motivato che deve essere redatto in italiano e in una lingua straniera comprensibile all’interessato o, quando ciò non sia possibile, nella lingua francese, inglese o spagnola. Il decreto deve indicare la possibilità di impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria competente.
Il decreto di espulsione può limitarsi a un’intimazione a lasciare il territorio entro un termine determinato e, una volta scaduto tale termine, lo straniero che si è trattenuto viene accompagnato alla frontiera dalla forza pubblica.
20. L’espulsione è seguita da una decisione di accompagnamento immediato alla frontiera in alcuni casi, in particolare quando l’interessato è sospettato di essere dedito ad attività illegali che permettono l’applicazione di misure di prevenzione, o quando l’interessato è privo di un valido documento attestante la sua identità, purché vi siano delle circostanze obiettive che facciano temere che egli si sottragga all’esecuzione dell’ordine di espulsione.
Quando è impossibile eseguire con immediatezza la decisione di accompagnamento alla frontiera, come ad esempio nel caso in cui sia necessario procedere ad accertamenti supplementari in ordine alla nazionalità o all’identità dello straniero, ovvero nel caso in cui debbano essere acquisiti i documenti di viaggio per quest’ultimo, lo straniero può essere trattenuto nel centro di permanenza temporanea più vicino. La convalida motivata da parte del giudice è necessaria e deve avvenire entro quarantotto ore. La procedura di convalida si svolge in camera di consiglio. Lo straniero può essere sentito; deve essere rappresentato da un avvocato. A seguito della convalida, lo straniero può essere trattenuto per trenta giorni. Tale termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni, su richiesta della polizia, quando è particolarmente difficile verificare l’identità o la nazionalità dello straniero o acquisire i documenti necessari per il viaggio di quest’ultimo (articolo 14).
21. Lo straniero viene normalmente espulso verso lo Stato di origine o, laddove ciò non sia possibile, verso lo Stato di provenienza. Ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo l’espulsione non può mai essere ordinata verso uno Stato in cui l’interessato possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali; l'espulsione non può essere disposta nemmeno verso uno Stato in cui l’interessato possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.
22. Non è consentita l’espulsione (a meno che non siano rientrati in Italia dopo l’espulsione e contrariamente all’interdizione dal territorio) nei confronti degli stranieri appartenenti alle categorie seguenti:
- i minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire i genitori espulsi;
- le persone in possesso della carta di soggiorno (salvo il disposto dell'articolo 9 del decreto legislativo);
- le persone conviventi con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana;
- le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
23. Avverso il decreto di espulsione (articolo 13 del decreto legislativo) può essere presentato ricorso al pretore, entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto o del provvedimento di espulsione. Il termine è di trenta giorni qualora l'espulsione sia eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera. Il ricorso può essere presentato anche per il tramite della rappresentanza diplomatica o consolare italiana nello Stato di destinazione. La decisione del pretore può essere impugnata dinanzi alla Corte di cassazione (articolo 13bis).
24. Ai sensi dell’articolo 11 del regolamento di attuazione del decreto legislativo n. 286 del 1998, quando è stata presentata una domanda di asilo, viene accordato un permesso di soggiorno per tutta la durata della procedura.

B. Le disposizioni in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione

25. L’articolo 314 del codice di procedura penale (CPP) prevede un diritto a una riparazione per la custodia cautelare detta «ingiusta» in due casi distinti: quando, all’esito del procedimento penale sul merito, l’imputato viene prosciolto, o quando viene stabilito con una decisione irrevocabile che la persona sospetta è stata posta o mantenuta in stato di custodia cautelare senza che sussistessero le condizioni previste dagli articoli 273 e 280 del CPP.
26. All’epoca dei fatti, non era prevista alcuna riparazione per una detenzione disposta al di fuori di un procedimento penale e risultata illegale. La Corte di cassazione (si veda la sentenza della sesta sezione n. 1648 del 22 aprile 1997 nella causa Priebke), ha inoltre precisato che il principio di riparazione per l’ingiusta detenzione non si applica alla detenzione ai fini estradizionali.
27. La legge n. 117 del 1988 disciplina l’azione in responsabilità civile dei magistrati. L'articolo 2 § 3 d) della legge prevede che la responsabilità di un magistrato può essere chiamata in causa quando questi ha emesso – con dolo o colpa grave – un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge. Ai sensi dell’articolo 4, l’azione può essere intentata quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento.
28. L’applicabilità diretta dell’articolo 5 § 5 della Convenzione è stata costantemente negata dai giudici italiani. Per esempio, nella sentenza n. 2823 del 20 maggio 1991 (causa Cruciani), la seconda sezione della Corte di cassazione sosteneva, rispetto all’articolo 5 § 5 della Convenzione, che tale disposizione si limitava a prevedere genericamente un diritto a una riparazione, in modo tale che ne derivava soltanto un obbligo per gli Stati di attuarlo con i loro strumenti interni e la non applicabilità diretta della disposizione in questione.

IN DIRITTO

I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 5 § 1 f) DELLA CONVENZIONE

29. La ricorrente sostiene che il periodo trascorso nel centro di permanenza temporanea per stranieri è contrario all’articolo 5 § 1 f) della Convenzione, che recita:
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
(...)
f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione.
(...)»
30. Il Governo contesta questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

31. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Essa rileva peraltro che lo stesso non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

B. Sul merito

32. La ricorrente sostiene che la sua detenzione era irregolare e che si trattava di una misura sproporzionata. Essa sottolinea poi che la sua liberazione è intervenuta solo dopo quarantaquattro giorni di detenzione.
33. Il Governo osserva che la detenzione della ricorrente rientra nella sfera dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione, in quanto si tratta di una privazione della libertà personale ai fini di un’espulsione. Al momento della sua collocazione nel centro di permanenza temporanea, la ricorrente non aveva ottenuto lo status di rifugiata. Lo aveva chiesto per il tramite del marito, ma i vizi di forma che inficiavano la domanda erano tali che quest’ultima non aveva potuto essere presa in considerazione e non aveva avuto effetto. Questo è del resto confermato dal fatto che l’11 novembre 2003, il giorno in cui è stata collocata nel centro di permanenza temporanea, la ricorrente aveva citato in giudizio la commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato. In ogni caso, l’articolo 5 § 1 f) si applica a qualsiasi straniero che si trovi già, materialmente, nel territorio nazionale, ma che non abbia ancora ottenuto un titolo di soggiorno regolare, anche se ha già richiesto un permesso di soggiorno o lo status di rifugiato, e anche se ha già ottenuto un’autorizzazione provvisoria (Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, §§ 64-65, CEDU 2008 ...).
34. La collocazione della ricorrente nel centro di permanenza temporanea è stata convalidata entro 48 ore dall’autorità giudiziaria, conformemente alla legge nazionale. La ricorrente ha potuto presentare ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria per far verificare la legalità della sua privazione della libertà; tale verifica, condotta con diligenza e celerità dal giudice competente, ha portato alla sua liberazione prima dello scadere del termine di trattenimento autorizzato. La detenzione controversa ha avuto una durata globale inferiore al limite previsto dalla legge ed è stata limitata a un mese e tredici giorni. Tale durata si spiega con la necessità di verificare l’identità della ricorrente, la sua nazionalità (la ricorrente non aveva un passaporto), la sua situazione famigliare, il suo legame maritale, nonché di predisporre, se del caso, il mezzo di trasporto e i documenti necessari al suo rimpatrio. Peraltro, il tempo impiegato è stato prezioso ai fini dell’adozione delle decisioni giudiziarie favorevoli alla ricorrente. Anche per quanto attiene alla sua durata, la detenzione della ricorrente è conforme all’articolo 5 § 1 f) della Convenzione (Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996 V; Bogdanovski c. Italia, n. 72177/01, 14 dicembre 2006; Magnac c. Spagna, n. 74480/01, 28 gennaio 2003).
35.Peraltro, le autorità non hanno operato alcun artifizio per attirare la ricorrente in un agguato. Il fatto che la stessa abbia creduto che la convocazione in questura potesse essere legata alla sua domanda di status di rifugiata o alla morte del neonato non mette in causa la responsabilità dello Stato. Sotto questo profilo la presente causa si distingue da Čonka c. Belgio, (n. 51564/99, CEDU 2002 I). Quanto alle condizioni di detenzione della ricorrente, il Governo osserva infine che essa ha beneficiato di un controllo medico e che ha assunto dei calmanti su sua richiesta e previo parere del medico. Inoltre, la ricorrente poteva liberamente telefonare ai suoi famigliari.
36. Il Governo conclude che la detenzione della ricorrente è stata conforme alla Convenzione.
37. La Corte ricorda che, esigendo che una detenzione sia conforme alle «vie legali» e abbia un carattere regolare, l’articolo 5 § 1 della Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l’obbligo di osservarne sia le norme di merito che quelle di procedura. Per di più, esso esige che qualsiasi privazione della libertà sia conforme allo scopo dell’articolo 5: proteggere l’individuo dall’arbitrio (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Scott c. Spagna, 18 dicembre 1996, § 56, Recueil 1996-VI). Pertanto, ogni decisione presa dai giudici interni nella sfera di applicazione dell’articolo 5 deve essere conforme ai requisiti di procedura e di merito fissati da una legge preesistente. Se sono in primo luogo le autorità nazionali, in particolare i tribunali, a dover interpretare e applicare il diritto interno rispetto all’articolo 5 § 1, l'inosservanza del diritto interno comporta una violazione della Convenzione e la Corte può e deve verificare se tale diritto è stato rispettato (Benham c. Regno Unito, 10 giugno 1996, § 41, Recueil 1996-III; Giulia Manzoni c. Italia, 1° luglio 1997, § 21, Recueil 1997-IV; Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 171, CEDU 2004-II).
Un periodo di detenzione è in linea di principio regolare se ha luogo in esecuzione di una decisione giudiziaria. La constatazione successiva di una inosservanza da parte del giudice non può ripercuotersi, nel diritto interno, sulla detenzione subita nell’intervallo. Per questo motivo gli organi della Convenzione si rifiutano sempre di accogliere ricorsi presentati da persone riconosciute colpevoli di reati e che prendono pretesto dal fatto che i giudici di appello hanno constatato che il verdetto di colpevolezza o la pena erano basati su errori di fatto o di diritto (Benham già cit., § 42).
La Corte ricorda infine che la conformità all’articolo 5 § 1 presuppone un legame«tra, da una parte, il motivo addotto per la privazione di libertà autorizzata e, dall’altra, il luogo e il regime di detenzione» (Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio, n. 13178/03, § 102, CEDU 2006-XI). Tale disposizione non esige che la detenzione di una persona contro la quale è in corso una procedura di espulsione sia considerata ragionevolmente necessaria, per esempio per impedirle di commettere un reato o di darsi alla fuga; a questo riguardo, l’articolo 5 par. 1 f) non prevede la stessa protezione rispetto all’articolo 5 par. 1 c) (Chahal già cit., § 112). Per non essere tacciata di arbitrio, l’applicazione di tale misura di detenzione deve dunque essere fatta in buona fede; essa deve anche essere strettamente legata allo scopo che consiste nell’impedire a una persona di introdursi irregolarmente nel territorio nazionale; inoltre, il luogo e le condizioni di detenzione devono essere adeguati; infine, la durata della detenzione non deve eccedere il termine ragionevole necessario per raggiungere lo scopo perseguito (Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, §§ 72-74, CEDU 2008-....).
38. Nella presente causa, la Corte deve esaminare la questione di stabilire se il decreto che dispone la detenzione basato sul decreto di espulsione costituisse una base legale per la privazione della libertà della ricorrente fino all’annullamento di detti decreti. La sola circostanza che tali decreti siano stati successivamente annullati non compromette, in quanto tale, la legalità della detenzione per il periodo precedente. Per determinare se l’articolo 5 § 1 della Convenzione è stato rispettato è opportuno operare una distinzione fondamentale tra i titoli di detenzione manifestamente non validi – ad esempio quelli emessi da un tribunale al di fuori della sua sfera di competenza – e i titoli di detenzione che sono prima facie validi ed efficaci fino al momento in cui vengono annullati da un altro giudice interno (Benham già cit., §§ 43 e 46; Lloyd e altri c. Regno Unito, nn. 29798/96 e segg., §§ 83, 108, 113 e 116, 1° marzo 2005; Khudoyorov c. Russia, n. 6847/02, §§ 128-129, 8 novembre 2005).
39. La Corte osserva anzitutto che la ricorrente è stata collocata nel centro di permanenza temporanea l’11 novembre 2003 e che il provvedimento che disponeva il suo trattenimento è stato convalidato dal giudice competente. Tuttavia, il 24 dicembre 2003, il tribunale di Roma ha dichiarato nulli i decreti di espulsione e di trattenimento in quanto viziati da illegalità. Tra i motivi dell’annullamento vi è il fatto che, conformemente all’articolo 19 della legge sull’immigrazione n. 286 del 1998, la ricorrente non poteva essere oggetto di espulsione poiché aveva dato alla luce il suo ultimogenito il 26 settembre 2003, e ciò indipendentemente dal fatto che il neonato fosse deceduto (paragrafo 16 supra). Pertanto, ai sensi del diritto interno, le autorità non avevano il potere di disporre la detenzione della ricorrente. Inoltre, le autorità nazionali erano a conoscenza del fatto che la ricorrente aveva recentemente partorito (paragrafo 9 supra). Tenuto conto di questi elementi, la Corte considera che la situazione in oggetto si traduce in una irregolarità grave e manifesta ai sensi della sua giurisprudenza (v., a contrario, Hokic e Hrustic c. Italia, n. 3449/05, §§ 23-24, 1 dicembre 2009).
40. In queste circostanze, la Corte conclude che la detenzione della ricorrente ai fini della sua espulsione non sia stata conforme alle vie legali.
41. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione.

II. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 5 § 5 DELLA CONVENZIONE

42. La ricorrente sostiene di non disporre, nel diritto italiano, di alcun mezzo per ottenere riparazione delle violazioni sopra denunciate. Essa invoca gli articoli 5 § 5 e 13 della Convenzione. La Corte ritiene che questo motivo di ricorso debba essere esaminato unicamente sotto il profilo dell’articolo 5 § 5 della Convenzione, che recita:
«(...)
5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione.»
43. Il Governo si oppone a questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

44. La Corte osserva che questo motivo di ricorso è legato a quello sopra esaminato e pertanto deve essere dichiarato anch’esso ricevibile.

B. Sul merito

45. Il Governo sostiene che questo paragrafo non è stato violato poiché non vi sarebbe stata alcuna violazione dell’articolo 5 della Convenzione.
46. La Corte ricorda che il paragrafo 5 dell'articolo 5 viene rispettato quando si può chiedere riparazione per una privazione della libertà operata in condizioni contrarie ai paragrafi 1, 2, 3 o 4 (Wassink c. Paesi Bassi, sentenza del 27 settembre 1990, § 38, serie A n. 185-A). Il diritto alla riparazione di cui al paragrafo 5 presuppone dunque che una violazione di uno di questi altri paragrafi sia stata accertata da un’autorità nazionale o dalle istituzioni della Convenzione (N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, § 49 in fine, CEDU 2002-X).
47. La Corte ha appena constatato che la detenzione della ricorrente è stata irregolare (paragrafo 41 supra) e che la decisione del tribunale di Roma riconosce l’irregolarità della detenzione (paragrafo 16 supra). Di conseguenza, deve essere esaminata la questione di stabilire se la ricorrente disponesse nel diritto italiano di un rimedio, ai sensi dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.
48. Essa rileva che nessuna disposizione permetteva alla ricorrente di presentare una domanda di risarcimento per l’ingiusta detenzione dinanzi alle autorità nazionali (v. paragrafi 22-26).
49. Alla luce di queste considerazioni, la Corte ritiene che vi sia stata anche violazione del paragrafo 5 dell’articolo 5 della Convenzione (si vedano, ad esempio, Pezone c. Italia, n. 42098/98, §§ 51-56, 18 dicembre 2003 e Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, sentenza del 30 agosto 1990, § 46, serie A n.182).

III. SULLE ALTRE VIOLAZIONE ADDOTTE

50. La ricorrente si lamenta, infine, sotto il profilo degli articoli 3 e 8 della Convenzione, che il suo trattenimento ha costituito un trattamento inumano e degradante poiché essa aveva appena perso un figlio, aveva assunto dei farmaci psicotropi, le condizioni di vita nel centro in questione erano precarie e non ha avuto la possibilità di incontrare i suoi figli.
51. Nella misura in cui queste affermazioni sono state dimostrate, la Corte non ha rilevato alcun elemento che dimostri che il trattamento denunciato dalla ricorrente ha raggiunto il livello minimo richiesto dall’articolo 3 della Convenzione (Price c. Regno Unito, n. 33394/96, § 24, CEDU 2001-VII, Mouisel c. Francia, n. 67263/01, § 37, CEDU 2002-IX, Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 120, CEDU 2000-IV).). Nulla nel fascicolo indica peraltro che l’ingerenza nella vita privata e famigliare della ricorrente ha superato quella che deriva inevitabilmente da qualsiasi detenzione. Di conseguenza questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata conformemente all’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

52. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

53. La ricorrente chiede la somma di 45.000 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito.
54. Il Governo considera che la constatazione di violazione costituirebbe una riparazione sufficiente. In via sussidiaria, osserva che la somma richiesta è sproporzionata e che la richiesta non è suffragata da mezzi di prova, rimettendosi al giudizio della Corte.
55. La Corte ritiene che la ricorrente ha subito un torto morale certo. Considerate le circostanze di causa e deliberando equamente come esige l’articolo 41 della Convenzione, essa decide di accordarle la somma di 7.500 EUR per il danno morale.

B. Spese

56. Gli avvocati della ricorrente chiedono 8.000 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte. A sostegno della loro domanda hanno prodotto il tariffario forense italiano.
57. Il Governo sottolinea che la Corte non è vincolata dalle tariffe professionali nazionali e che la somma richiesta è eccessiva, tenuto conto della semplicità della causa. Esso si rimette al giudizio della Corte.
58. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne sono accertati la realtà, la necessità e l’importo ragionevole. Nel caso di specie, la ricorrente non ha prodotto alcun documento giustificativo a sostegno della sua domanda di rimborso. La Corte decide pertanto di rigettarla.
C. Interessi moratori
59. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

1. Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda i motivi di ricorso relativi all’articolo 5 § 1 f) e § 5 della Convenzione e irricevibile per il resto;

2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione;

3. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione;

4. Dichiara
a) che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 7.500 EUR (settemilacinquecento euro) per il danno morale, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;
b) che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;

5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto l’8 febbraio 2011 in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Stanley Naismith
Cancelliere

Françoise Tulkens
Presidente