Decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 30 marzo 2010 - Ricorso n. 22142/07 - Cipriani c. Italia

Traduzione a cura del Ministero della Giustizia Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata dall'esperto linguistico Rita Carnevali

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE SULLA RICEVIBILITA’
ricorso n.22142/07
presentato da Benedetto CIPRIANI
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell'uomo (seconda sezione), riunita il 30 marzo 2010 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Nona Tsotsoria, giudici,
e da Sally Dollé, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso summenzionato introdotto il 23 maggio 2007,
dopo averne deliberato, rende la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, il signor Benedetto Cipriani, è un cittadino italiano nato nel 1955 attualmente detenuto negli Stati Uniti. Innanzi alla Corte è rappresentato dagli avvocati A. Gaito e S. Furfaro, rispettivamente del foro di Roma e di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria).
I fatti della causa, come sono stati esposti dal ricorrente, possono essere riassunti nel modo seguente.

A.  La detenzione del ricorrente a fini estradizionali e le assicurazioni diplomatiche fornite dagli Stati Uniti d’America

Il 18 marzo 2004, la Corte suprema di Hartford (Connecticut, Stati Uniti) emise un mandato di arresto a carico del ricorrente, accusato di aver commesso tre omicidi e di far parte di un’associazione per delinquere finalizzata a commettere omicidi. I fatti ascritti erano stati perpetrati nel luglio 2003. In particolare, il ricorrente aveva istigato tre suoi complici ad uccidere il marito della sua amante; l’assassinio ebbe luogo in un garage dove, oltre alla vittima designata avevano trovato la morte altre due persone.

Il 22 aprile 2004, il ricorrente fu arrestato in Italia e sottoposto a detenzione a fini estradizionali.
In una nota del 10 febbraio 2005, redatta su richiesta della corte d'appello di Roma, il ministero della Giustizia degli Stati Uniti d'America precisava che, nello Stato del Connecticut, le pene massime per i crimini di omicidio e di associazione per delinquere finalizzata a commettere omicidi erano, rispettivamente, l’ergastolo (che nel Connecticut significava sessanta anni di reclusione) e venti anni di reclusione. Aggiungeva che il ricorrente non era accusato di un crimine passibile della pena capitale e che, pertanto, la pena di morte non era applicabile neanche teoricamente al suo caso (« Therefore, the death penalty is not even potentially applicable to this case »).

Precisava anche che, secondo la legislazione del Connecticut, la pena di morte era prevista unicamente per il crimine di “capital felony”, di cui il ricorrente non era accusato. Secondo il ministero, in virtù del principio di specialità previsto dall'articolo XVI(1) del Trattato di estradizione concluso tra gli Stati Uniti d'America e l'Italia (di seguito "il trattato di estradizione"), il ricorrente poteva essere giudicato in America soltanto per i crimini per i quali era stata richiesta e concessa l'estradizione. Poiché gli Stati Uniti non avevano richiesto l'estradizione del ricorrente per capital felony, era escluso che, se estradato, il ricorrente venisse accusato di questo crimine.
Inoltre, il ministero sottolineava che, secondo l’articolo VI della Costituzione degli Stati Uniti, i trattati internazionali erano parte integrante della legge suprema della nazione ed erano vincolanti per tutti i tribunali interni. Il principio di specialità vincolava quindi le autorità dello Stato del Connecticut. Come era stato affermato dalla Corte suprema degli Stati Uniti, se uno Stato tentava di giudicare un imputato in violazione di questo principio, l’interessato poteva opporvisi introducendo un ricorso di habeas corpus innanzi ad una Corte federale o statale indipendente.

All’affermazione del ricorrente secondo la quale un’udienza preliminare era prevista soltanto nelle cause in cui l’imputato era passibile della pena di morte, il ministero, basandosi sui pertinenti testi di legge, replicava che in realtà tale udienza era obbligatoria in tutti i casi in cui potevano essere inflitte pene quali la pena di morte o la reclusione criminale a vita.

Riconoscendo che l’aver fatto ricorso ai servizi di sicari era una circostanza aggravante che avrebbe potuto essere tenuta in considerazione in una causa in cui era applicabile la pena capitale, il ministero osservava che la causa del ricorrente non era un “caso di pena di morte” in quanto l’imputato non era stato accusato di capital felony.

Rispetto alla tesi del ricorrente secondo la quale l’accusa dei suoi coimputati per capital felony lo aveva indotto ad opporsi alla sua estradizione, il ministero rispondeva che questa circostanza era priva di importanza per la situazione dell’interessato, per il quale erano da tenere in conto unicamente i crimini di cui era stato accusato.

B.    La procedura di estradizione innanzi alle autorità giudiziarie

Con sentenza del 24 marzo 2005, il cui testo fu depositato in cancelleria il 12 aprile 2005, la corte d’appello di Roma espresse il parere che sussistevano le condizioni legali per accogliere la domanda di estradizione degli Stati Uniti, purché i crimini di cui il ricorrente era accusato non fossero passibili di pena di morte o che quest’ultima non potesse comunque essere inflitta.
La corte d’appello osservò innanzitutto che la domanda di estradizione era ammissibile perché, come previsto dal trattato di estradizione, era accompagnata da una copia del mandato di arresto e da una nota della procura di Hartford che descriveva i fatti, la loro qualificazione giuridica e conteneva il testo delle disposizioni di legge americane pertinenti.

Secondo la Corte d’appello, gli elementi contenuti nelle note delle autorità americane (dichiarazioni di un testimone, confessione e dichiarazioni accusatorie di un coimputato, telefonate il giorno degli omicidi tra il ricorrente ed i presunti assassini, esistenza di un movente plausibile) potevano ragionevolmente far credere che il ricorrente avesse effettivamente commesso i crimini per i quali veniva richiesta la sua estradizione.

La difesa del ricorrente aveva insistito sul rischio di condanna a morte. Tuttavia, la corte d’appello ritenne che una simile eventualità fosse giuridicamente impossibile. Si riferì alle considerazioni contenute nella nota del ministero della Giustizia americano, che essa ritenne corrette e del tutto rassicuranti, ricordando a tale proposito che, imponendo il principio di specialità, il trattato di estrazione menzionava il “crimine”, come qualificato nel mandato di arresto, e non il “fatto”. Non si trattava quindi di accettare le assicurazioni diplomatiche dello Stato richiedente (che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n° 223 del 1996, non erano sufficienti in materia di rischio di messa a morte), ma di giudicare la situazione in base alle disposizioni del trattato di estradizione, che era vincolante per gli Stati firmatari.

Infine, la corte d’appello dichiarò che non vi era nulla che potesse far pensare che le azioni giudiziarie a carico del ricorrente fossero determinate da motivi di razza, di religione o di opinioni politiche.

Il ricorrente propose ricorso per cassazione. In particolare allegò che era “altamente probabile” una modifica dei capi di accusa e che questa avrebbe comportato la possibilità di condannarlo alla pena capitale. Secondo il ricorrente, era difficile comprendere perché l’accusa di capital felony  era stata elevata unicamente a carico dei suoi complici, dal momento che, secondo la tesi dell’accusa, era stato l’istigatore ed il mandante dei delitti.
Il 17 settembre 2005, il ricorrente domandò di partecipare all’udienza in camera di consiglio della Corte di cassazione fissata per il 19 settembre. Questa domanda fu respinta perché tardiva, in quanto le disposizioni pertinenti del codice di procedura penale (CPP), debitamente interpretate, prevedevano che avrebbe dovuto essere introdotta almeno cinque giorni prima della data dell’udienza.

Con sentenza del 19 settembre 2005, il cui testo fu depositato in cancelleria il 29 settembre 2005, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente.

Essa osservò che la Corte costituzionale, nella sua sentenza n° 223 del 1996, aveva dichiarato incostituzionale l’articolo 698 del CPP nella misura in cui prevedeva che una domanda di estradizione poteva essere accolta se lo Stato richiedente forniva “sufficienti assicurazioni” che non sarebbe stata irrogata la pena di morte. In effetti, il divieto della pena di morte aveva nella Costituzione italiana un rilievo tale che soltanto una “garanzia assoluta” poteva essere accettata in proposito. La Corte di cassazione precisò che tale garanzia sussisteva quando l’irrogazione della pena capitale era vietata da una disposizione di legge dello Stato richiedente e che nella fattispecie questa disposizione era il principio di specialità contenuto nel trattato di estradizione, trattato che era stato integrato nel diritto americano e che era vincolante per tutti i tribunali degli Stati Uniti.

C.  La procedura innanzi alla giustizia amministrativa

Con decreto del 12 novembre 2005, il ministro della giustizia accordò al governo degli Stati Uniti l’estradizione del ricorrente subordinandola alla condizione che non venisse inflitta la pena di morte e quanto meno non venisse eseguita in nessun caso.
Il ricorrente impugnò questo provvedimento innanzi al tribunale amministrativo (“il TAR”) del Lazio. Domandò anche la sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo controverso.
Il 2 dicembre 2005, il TAR dispose la sospensione dell’esecuzione del decreto ministeriale.
Con sentenza del 23 giugno 2006, il cui testo fu depositato in cancelleria il 9 ottobre 2006, il TAR del Lazio annullò il decreto ministeriale.
Ricordò innanzitutto che anche un atto di alta amministrazione, quale la decisione di concedere l’estradizione, doveva rispettare la Costituzione. Osservò che nella fattispecie, il decreto ministeriale si fondava sulle assicurazioni date dallo Stato richiedente, che erano basate sul carattere vincolante del principio di specialità inserito nel trattato di estradizione e che andava quindi contro i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sua sentenza n° 223 del 1996.

Il TAR aggiunse che risultava dal fascicolo che i coimputati del ricorrente erano accusati di un crimine (capital felony) passibile della pena di morte e che questo delitto poteva essere perseguito in qualsiasi momento. Rilevò che il diritto interno dello Stato richiedente prevedeva che chiunque avesse partecipato al crimine era considerato direttamente responsabile, allo stesso titolo dell'esecutore materiale. Sottolineò che il principio di specialità inserito nel trattato di estradizione permetteva tuttavia allo Stato richiedente di perseguire la persona estradata "quando gli stessi fatti per i quali era stata concessa l’estradizione costituivano un reato che aveva una qualificazione giuridica diversa, che poteva dar luogo ad una estradizione". Concluse che questo trattato non escludeva rigorosamente una modifica della qualificazione giuridica dei fatti attribuiti al ricorrente e che quindi non poteva essere totalmente esclusa l'eventualità di una condanna a morte.

Il ministro della Giustizia propose appello contro la sentenza del TAR.
Nel frattempo il ricorrente aveva domandato più volte la sua liberazione. Le sue istanze furono respinte dapprima dalla corte d'appello di Roma, poi dalla Corte di cassazione l'8 febbraio e l’8 maggio 2006. In particolare, quest'ultima ritenne che l'introduzione dei ricorsi amministrativi e la sospensione dell'esecuzione del decreto ministeriale avessero sospeso i termini di durata massima della detenzione dell'interessato.
In una data non precisata, il ricorrente domandò nuovamente di essere liberato, sostenendo che la sua estradizione ormai non poteva più aver luogo poiché il TAR aveva annullato il decreto ministeriale. Il 20 marzo 2007, la Corte di cassazione ordinò la liberazione del ricorrente in quanto erano scaduti i termini di durata massima della sua privazione di libertà a fini estradizionali.

Con ordinanza del 29 marzo 2007, emessa su richiesta del ministro della Giustizia, la corte d'appello di Roma sottopose il ricorrente alle seguenti misure cautelari: divieto di lasciare il territorio italiano; obbligo di recarsi in un commissariato di polizia tutti i giorni tra le ore 12.00 e le 13.00; obbligo di non allontanarsi dal comune di Ceccano (Frosinone) e di indicare ai carabinieri di questa città il proprio domicilio e gli altri luoghi dove era possibile raggiungerlo. La corte d'appello ritenne, in particolare, che esistesse un rischio di fuga, tenuto conto della gravità del crimine di cui il ricorrente era accusato (il quale, in caso di condanna, era passibile di una pena severa) e del fatto che l'interessato si era sempre opposto alla sua estradizione.

Il ricorrente propose ricorso per cassazione avverso questa decisione. Domandò di partecipare all'udienza fissata per il 27 giugno 2007. La sua domanda fu respinta. Nel frattempo, il 10 maggio 2007, l'interessato aveva chiesto l’autorizzazione a lasciare il comune di Ceccano per recarsi a Roma per incontrare il suo avvocato; questa istanza era stata rigettata perché nulla impediva al ricorrente di parlare con il suo legale per telefono.
Peraltro, con ordinanza del 13 marzo 2007, il Consiglio di Stato aveva deciso di sospendere l'esecuzione della sentenza del TAR del 23 giugno 2006; allo stesso tempo aveva indicato che, in attesa della decisione sul merito dell'appello, il ricorrente non doveva essere consegnato alle autorità americane.

La data dell'udienza innanzi al Consiglio di Stato, inizialmente fissata per il 13 luglio 2007, fu anticipata al 12 giugno 2007.
Con decisione dello stesso giorno, il cui testo fu depositato in cancelleria il 15 giugno 2007, il Consiglio di Stato accolse l'appello del ministro della Giustizia, annullò la sentenza del TAR del 23 giugno 2006 e respinse il ricorso amministrativo del ricorrente.

Nel far ciò, il Consiglio di Stato ragionò come segue: la procedura di estradizione prevedeva due fasi - una giurisdizionale (davanti alla corte d'appello e alla Corte di cassazione), e l'altra amministrativa (davanti al ministro del Giustizia). La domanda di estradizione non poteva essere accolta senza il parere favorevole delle autorità giudiziarie; tuttavia, anche in presenza di tale parere favorevole, spettava al ministro decidere sulla opportunità di estradare la persona in questione. Di conseguenza l'ultima parola sulla sussistenza delle condizioni legali per accogliere la domanda di estradizione spettava alla corte d'appello e alla Corte di cassazione. Dal momento che il decreto di estradizione era un atto di alta amministrazione, il giudice amministrativo non aveva il potere di esaminare le modalità dell’esercizio, da parte del ministro della Giustizia, della scelta discrezionale di accogliere - o meno – la domanda di estradizione in questione. Solo i decreti arbitrari o manifestamente illogici potevano essere censurati. Inoltre, dal momento che in merito alla sussistenza della “garanzia assoluta” che non sarebbe stata inflitta la pena capitale, il decreto ministeriale basava la sua opinione sulle conclusioni delle autorità giudiziarie, questa valutazione sfuggiva a qualsiasi controllo da parte del giudice amministrativo. Concludere diversamente equivaleva a conferire al ricorso amministrativo la funzione di ricorso di revisione delle decisioni del giudice penale.

Nella fattispecie, il ministro si era basato sul parere del giudice penale che aveva scartato qualsiasi rischio per la vita del ricorrente basandosi sul principio di specialità inserito nel trattato di estradizione e sulla forza di questo trattato nel sistema giuridico degli Stati Uniti d'America.

Peraltro, alcune deroghe al principio di specialità erano contenute anche nella Convenzione europea di estradizione, il cui articolo 14 § 3 dispone: "Se la qualificazione data al fatto incriminato è modificata nel corso della procedura, l'individuo estradato sarà perseguito e giudicato soltanto nella misura in cui gli elementi costitutivi del reato nuovamente qualificato permettono l'estradizione”. Ora, la deroga contenuta nel trattato di estradizione doveva essere interpretata nel senso che era vietato giudicare la persona estradata per fatti diversi da quelli che avevano dato luogo all'estradizione (sentenza della Corte di cassazione no 10274 dell'11 luglio 1991). La nuova qualificazione temuta dal TAR era in realtà impossibile, perché i fatti attribuiti ai presunti esecutori degli omicidi erano diversi da quelli attribuiti al ricorrente. Il trattato di estradizione impediva quindi di condannare a morte il ricorrente dando ai fatti di cui era accusato la qualificazione di capital felony.

D.  La domanda del ricorrente volta ad ottenere misure urgenti

Al momento dell'introduzione del suo ricorso, il 23 maggio 2007, il ricorrente aveva domandato alla Corte di sospendere o di annullare, in virtù dell'articolo 39 del suo regolamento, la decisione di estradarlo verso gli Stati Uniti.
Il 31 maggio 2007, il presidente della seconda sezione della Corte aveva domandato al governo italiano di trasmettere le informazioni riguardanti le assicurazioni fornite dalle autorità degli Stati Uniti sul fatto che, in caso di estradizione, il ricorrente non sarebbe stato perseguito per un delitto punito con la pena di morte.
La risposta del governo italiano pervenne alla Corte il 18 giugno 2007.
Il 19 giugno 2007, il presidente della seconda sezione decise di non indicare al Governo la misura provvisoria richiesta dal ricorrente.
Il 26 giugno 2007, l'interessato segnalò alla Corte l’intenzione di mantenere il suo ricorso.
E.  L’estradizione del ricorrente e la sua condanna negli Stati Uniti
Il 12 luglio 2007, il ricorrente fu arrestato in virtù di un mandato di arresto emesso dalla corte d'appello di Roma su richiesta del ministro della Giustizia. Fu poi estradato verso gli Stati Uniti. Né il ricorrente né i suoi rappresentanti hanno informato la Corte sull'esito della procedura giudiziaria condotta negli Stati uditi.

MOTIVI DI RICORSO

1. Invocando l'articolo 3 della Convenzione e il Protocollo n° 6, il ricorrente allega che la sua estradizione verso gli Stati Uniti lo espone al rischio di una condanna a morte.
2.  Sotto il profilo dell'articolo 6 della Convenzione, lamenta anche la mancanza di equità del procedimento innanzi alla Corte di cassazione.
3.  Sotto il profilo dell'articolo 5 della Convenzione, lamenta inoltre l'imposizione a suo carico di misure cautelari dopo la sua liberazione intervenuta per decorrenza dei termini massimi della sua privazione della libertà a fini estradizionali.
4.  Invocando l'articolo 13 della Convenzione, lamenta infine di non disporre, nel diritto italiano, di alcun ricorso per far valere una violazione dei suoi diritti garantiti dall'articolo 6 della Convenzione e per contestare il rigetto della sua istanza del 10 maggio 2007 con la quale chiedeva di essere autorizzato a lasciare il comune per poter incontrare il suo avvocato.

IN DIRITTO

1.  Il ricorrente sosteneva che, in caso di estradizione, avrebbe rischiato di essere condannato alla pena capitale negli Stati Uniti. Invoca l'articolo 3 della Convenzione e il Protocollo no 6.
L'articolo 3 recita:
« Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. »
Nel suo articolo 1, il Protocollo no 6 è così formulato:
« La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato. »
Il ricorrente ritiene che le assicurazioni date dal governo americano non permettono di scartare totalmente la possibilità che il crimine di cui è accusato sia riqualificato in capital felony. Su questo punto si riferisce al ragionamento seguito dal TAR del Lazio nella sua sentenza del 23 giugno 2006 e considera che la decisione di accogliere la domanda di estradizione costituisce una violazione dei principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sua sentenza no 223 de 1996, in quanto, anziché mirare ad una "garanzia assoluta" di non applicazione della pena di morte, le autorità italiane si sono, secondo lui, accontentate di assicurazioni diplomatiche ritenute "sufficienti". A tale proposito sostiene che la mancanza di certezza sulla pena che rischiava negli Stati Uniti sia incompatibile con il carattere perentorio delle disposizioni del Protocollo n° 6. Rinvia inoltre alla sentenza Öcalan, nella quale la Corte ha dichiarato che una condanna a morte pronunciata al termine di un processo iniquo costituiva un trattamento inumano e degradante (Őcalan c. Turchia [GC], no 46221/99, CEDH 2005 IV).

La Corte ricorda innanzitutto che, secondo la sua giurisprudenza, l'estradizione da parte di uno Stato contraente può sollevare un problema in riferimento all'articolo 3, e quindi coinvolgere la responsabilità dello Stato in causa a titolo della Convenzione, quando vi sono motivi seri e accertati per credere che l'interessato, qualora venga estradato verso il paese di destinazione, correrà un reale rischio di essere sottoposto a trattamenti contrari a questa disposizione (Soering c. Regno Unito, serie A no 161, §§ 89-91, 7 luglio 1989). In questo caso, l'articolo 3 implica l'obbligo di non estradare la persona in questione verso questo paese (vedere, in materia di espulsione, Saadi c. Italia [GC], no 37201/06, § 125, 28 febbraio 2008).
Essa ricorda poi che, allo stesso modo, l'estradizione potrebbe porre un problema in riferimento all'articolo 2 della Convenzione o all'articolo 1 del Protocollo nº 13 se l'interessato rischia di essere condannato alla pena capitale nel paese che ha richiesto l'estradizione (Bader e Kanbor c. Svezia, no 13284/04, § 42, CEDH-2005). Questo vale anche per l'articolo 1 del Protocollo no 6, invocato dal ricorrente (Saoudi c. Spagna (dec.), no 22871/06, 18 settembre 2006).

Così quando vi sono motivi seri ed accertati per credere che l'interessato, qualora venga consegnato allo Stato in questione, correrà un rischio reale di essere sottoposto alla pena di morte, l'articolo 1 del Protocollo no 6 implica l'obbligo di non estradarlo verso questo paese. La Corte riafferma tuttavia che colui che sostiene di essere di fronte a tale rischio deve provare le sue allegazioni con principio di prova (Ismaili c. Germania (dec.), no 58128/00, 15 marzo 2001).

Nel controllare l'esistenza di questo rischio, occorre riferirsi con priorità alle circostanze che lo Stato in causa conosceva o doveva conoscere al momento dell'estradizione (Mamatkoulov e Askarov c. Turchia [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, § 69, CEDH 2005-I).

Nella fattispecie, la Corte rileva che le autorità giudiziarie italiane e il Consiglio di Stato hanno scartato ogni rischio di condanna alla pena capitale essenzialmente in base a tre circostanze, ossia: il ricorrente era accusato di crimini (omicidio e conspiracy to commit murder) per i quali tale pena non era prevista; che una riqualificazione dei fatti ascritti in capital felony era vietata in applicazione del principio di specialità, debitamente interpretato, inserito nel trattato di estradizione; che questo trattato era integrato nel diritto americano e che doveva essere rispettato da tutti i tribunali degli Stati Uniti.

La Corte rileva che questi fatti erano precisi e verificabili e che la loro interpretazione da parte delle autorità italiane non è né manifestamente illogica né viziata da arbitrio. Pertanto, in assenza di qualsiasi elemento che possa convincerla del contrario, la Corte non può invalidare le conclusioni dei giudici interni, che hanno direttamente ascoltato le parti nell'ambito di un esame in contraddittorio della domanda di estradizione (Saoudi, decisione succitata).

Inoltre, il ministero della Giustizia degli Stati Uniti aveva fornito assicurazioni diplomatiche ed aveva precisato che la pena di morte non era "applicabile, neanche in teoria," al caso del ricorrente. Benché non determinanti per accordare l'estradizione nel diritto italiano in seguito alla sentenza della Corte costituzionale no 223 del 1996, simili assicurazioni possono essere tenute in conto dalla Corte nella sua valutazione sull'esistenza di un rischio reale e concreto di violazione dell'articolo 1 del Protocollo no 6 (vedere, mutatis mutandis, Saoudi e Ismaili, decisioni succitate, nonché S.R. c. Svezia (dec.), no 62806/00, 23 aprile 2002). Nulla permette di pensare che nella fattispecie le assicurazioni in questione non fossero serie e affidabili.
Infine, occorre notare che i rappresentanti del ricorrente, innanzi alla Corte, non hanno riferito alcun tentativo, da parte delle autorità americane, di riqualificare i fatti attribuiti al loro cliente in capital felony, né lo hanno informato dello sviluppo della procedura condotta negli Stati Uniti.

Alla luce di quello che precede, la Corte considera che non può essere ravvisata alcuna parvenza di violazione dell'articolo 1 del Protocollo n° 6 in ragione dell'estradizione del ricorrente.
Peraltro, per quanto riguarda l'allegato pericolo di essere sottoposto a trattamenti contrari all'articolo 3 della Convenzione, il ricorrente non ha sostenuto le sue allegazioni con alcun elemento oggettivo.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

2.  Il ricorrente lamenta anche di non aver potuto partecipare all'udienza del 19 settembre 2005 innanzi alla Corte di cassazione. In proposito invoca l'articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti alla fattispecie, recita:
« 1.  Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale (...) il quale sia chiamato farsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (...) »

La Corte osserva che il procedimento innanzi alla Corte di cassazione aveva ad oggetto la questione di stabilire se erano soddisfatte le condizioni legali per accordare l'estradizione domandata dagli Stati Uniti. Ora, secondo costante giurisprudenza della Corte, la procedura di estradizione non comporta una contestazione sui diritti e doveri di carattere civile di un ricorrente né ha attinenza alla fondatezza di un'accusa in materia penale diretta contro di lui ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione  (Raf c. Spagna (dec.), no 53652/00, 21 novembre 2000 ; A.B. c. Polonia (dec.), no 33878/96, 18 ottobre 2001 e Sardinas Albo c. Italia (dec.), no 56271/00, CEDH 2004-I).
Pertanto, l'articolo 6 § 1 della Convenzione non deve essere applicato alla procedura di estradizione in causa (Mamatkoulov e Askarov, succitata, §§ 82 83).
Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve quindi essere rigettato, in applicazione dell'articolo 35 § 4.

3.  Il ricorrente rimprovera inoltre alla corte d'appello di Roma di averlo sottoposto a nuove misure cautelari il 29 marzo 2007, dopo la sua liberazione intervenuta per decorrenza dei termini massimi di detenzione a fini estradizionali.

Invoca l'articolo 5 della Convenzione, che, nelle parti pertinenti, è così formulato:
« 1.  Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
 (...)
f)  se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione (...) »
In particolare, il ricorrente sostiene che l'imposizione di queste misure era arbitraria e che è stata disposta pur mancando una richiesta della procura in tal senso, poiché la corte d'appello, secondo lui si era limitata a dar seguito alle richieste del ministero della Giustizia. Inoltre, prima di emettere l'ordinanza del 29 marzo 2007, i giudici romani non avrebbero preventivamente ascoltato né lui né il suo difensore.
In primo luogo la Corte ricorda che il paragrafo 1 dell'articolo 5, nel proclamare il "diritto alla libertà", si riferisce alla libertà fisica della persona. Pertanto, non riguarda le semplici restrizioni alla libertà di circolazione che, esse, obbediscono all'articolo 2 del Protocollo n° 4. Per stabilire se un individuo si trova ad essere "privato della sua libertà" ai sensi dell'articolo 5, occorre partire dalla sua situazione concreta e prendere in esame un insieme di criteri come il genere, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione della misura considerata. La Corte ricorda anche che tra privazione e restrizione della libertà vi è soltanto una differenza di grado o di intensità, non di natura o di sostanza (Guzzardi c. Italia, serie A no 39, §§ 92-93, 6 novembre 1980).
Nella fattispecie, la Corte osserva che le misure cautelari controverse consistevano per il ricorrente nel divieto di lasciare il territorio italiano, nell'obbligo di recarsi in un commissariato di polizia tutti i giorni fra le ore 12 e le 13 e di non allontanarsi dal comune di Ceccano (Frosinone). Inoltre, l'interessato doveva indicare ai carabinieri di questa stessa città il suo domicilio e gli altri luoghi dove poteva essere raggiunto.
Secondo la Corte, queste misure non hanno comportato una privazione di libertà nel senso dell'articolo 5 § 1 della Convenzione, ma semplici restrizioni alla libertà di circolazione del ricorrente (vedere, mutatis mutandis, Raimondo c. Italia, serie A no 281-A, § 39, 22 febbraio 1994).

Poiché l'articolo 5 non è applicabile, la Corte ritiene che questo motivo di ricorso si presta ad essere esaminato in riferimento all'articolo 2 del Protocollo n° 4, così formulato:
« 1.  Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza.
 (...).

3.  L'esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell'ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui  (...). »
La Corte ricorda la sua giurisprudenza per la quale ogni misura che limita il diritto alla libertà di circolazione deve essere prevista dalla legge, perseguire uno degli scopi legittimi previsti al terzo paragrafo dell'articolo 2 del Protocollo no 4 e mantenere un giusto equilibrio tra l'interesse generale e i diritti dell'individuo (Baumann c. Francia, no 33592/96, § 61, CEDH 2001-V, e Riener c. Bulgaria, no 46343/99, § 109, 23 maggio 2006).
Nella fattispecie, nessuno contesta che le misure controverse avessero una base legale nel diritto italiano. La corte d'appello di Roma ha ritenuto che tali misure fossero necessarie per prevenire il rischio che il ricorrente potesse darsi alla fuga, tenuto conto della gravità del crimine di cui era accusato e della sua costante opposizione ad essere estradato. Queste misure erano quindi necessarie "al mantenimento dell'ordine pubblico" e alla "prevenzione delle infrazioni penali".

La Corte ricorda poi che, per quanto riguarda la proporzionalità delle misure che limitano la libertà di circolazione di una persona, quest'ultime si giustificano così a lungo soltanto se tendono all'obiettivo da esse perseguito (vedere, mutatis mutandis, Napijalo c. Croazia, no 66485/01, §§ 78-82, 13 novembre 2003, e Gochev c. Bulgaria, no 34383/03, § 49, 26 novembre 2009). Peraltro, per quanto inizialmente giustificata, una misura simile può diventare sproporzionata e violare i diritti della persona che vi è sottoposta se si protrae automaticamente per molto tempo (Luordo c. Italia, no 32190/96, § 96, CEDH 2003-IX, Riener succitata, § 121, e Földes e Földesné Hajlik c. Ungheria, no 41463/02, § 35, 31 ottobre 2006).

La Corte osserva, nella fattispecie, che il ricorrente è stato sottoposto alle misure controverse soltanto per poco più di tre mesi, ossia dal 29 marzo al 12 luglio 2007, data della sua estradizione. Questa durata non può essere considerata eccessiva dalla Corte. Inoltre, l'interessato ha avuto la possibilità di ricorrere in cassazione avverso la decisione della corte d'appello di Roma, e quindi ha potuto far riesaminare la legalità delle misure cautelari da un organo giudiziario indipendente ed imparziale (vedere, a contrario, Sissanis c. Romania, no 23468/02, §§ 70-71, 25 gennaio 2007, e Gochev succitata, §§ 50-54).
In queste circostanze, la Corte non rileva alcuna parvenza di violazione dell'articolo 2 del Protocollo no 4.

Ne consegue che questo motivo è manifestamente infondato e deve quindi essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

4.  Il ricorrente allega infine che, nel diritto italiano, non disponeva di nessun ricorso per far valere la allegata violazione dei suoi diritti garantiti dall'articolo 6 della Convenzione e per contestare il rigetto della sua domanda del 10 maggio 2007, con la quale chiedeva di essere autorizzato ad allontanarsi dal comune di Ceccano per incontrare il suo avvocato.
Egli invoca l'articolo 13 della Convenzione, così formulato:
 « Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali. »
La Corte ricorda che l'articolo 13 non può essere interpretato come una norma che richiede un ricorso interno per ogni doglianza, per quanto ingiustificata, che una persona può presentare nell'ambito della Convenzione: deve trattarsi di un motivo di ricorso difendibile riguardo a quest'ultima (Boyle e Rice c. Regno Unito, serie A no 131, § 52, 24 aprile 1988). Nel presente caso, la Corte ha appena concluso che il motivo di ricorso del ricorrente relativo alla clausola «normativa» dell'articolo 6 della Convenzione è incompatibile ratione materiae con le disposizioni di quest’ultima. Per quanto riguarda il rigetto della domanda dell’interessato volta ad ottenere l’autorizzazione a lasciare il comune di Ceccano, essa non vede in cosa tale rigetto potrebbe sollevare un problema dal punto di vista della Convenzione o dei suoi Protocolli. A tale proposito, la Corte ricorda che ha appena concluso che le limitazioni imposte alla libertà di circolazione del ricorrente erano giustificate rispetto al terzo paragrafo dell’articolo 2 del Protocollo n° 4.

Le considerazioni sugli elementi di fatto che hanno portato la Corte a scartare le allegazioni del ricorrente dal punto di vista delle clausole normative invocate la inducono a concludere, dal punto di vista dell’articolo 13, che non si era in presenza di motivi difendibili (vedere, fra molte altre, Al Shari e altri c. Italia (dec.), no 57/03, 5 luglio 2005, Walter c. Italia (dec.), no 18059/06, 11 luglio 2006, e Schiavone c. Italia (dec.), no 65039/01, 13 novembre 2007).

L’articolo 13 non deve quindi essere applicato alla fattispecie.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione nel senso dell’articolo 35 § 3 e che deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 § 4.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.

Sally Dollé
Greffière

Françoise Tulkens 
Présidente