Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 14 settembre 2017 - Ricorso n. 17739/09 - Causa Bozza c.Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale affari giuridici e legali, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA BOZZA c. ITALIA

(Ricorso n. 17739/09)

SENTENZA

STRASBURGO

14 settembre 2017


Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Bozza c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:
Linos-Alexandre Sicilianos, presidente,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi,
Aleš Pejchal,
Krzysztof Wojtyczek,
Tim Eicke,
Jovan Ilievski, giudici,
e da Renata Degener, cancelliere aggiunto di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio l’11 luglio 2017,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 17739/09) presentato contro la Repubblica italiana con cui una cittadina di questo Stato, la sig.ra Ermelinda Bozza («la ricorrente»), ha adito la Corte il 23 marzo 2009 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. M.T. Marra, del foro di Napoli. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, L. Aversano.

3. In particolare, la ricorrente denuncia la violazione del suo diritto ad un processo entro un termine ragionevole sulla base dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

4. Il 5 giugno 2015 il ricorso è stato comunicato al Governo.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. La ricorrente è nata nel 1949 e risiede a Torre del Greco.

6. I fatti di causa, così come sono stati esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.

A. Il procedimento principale

7. Nel gennaio 1990, qualche anno dopo aver chiesto al Ministero dell’Interno di poter beneficiare di una pensione di invalidità, la sig.ra T.G., madre della ricorrente, ottenne il riconoscimento del diritto al versamento mensile della pensione, più una indennità speciale in ragione della cecità parziale da cui era affetta.

8. Il 21 ottobre 1994 la sig.ra T.G. presentò un ricorso dinanzi al pretore di Torre Annunziata facente funzione di giudice del lavoro, al fine di ottenere il riconoscimento della rivalutazione e degli interessi sugli arretrati della sua pensione.

9. Il 27 marzo 1998, dopo tre rinvii dell’udienza, il pretore respinse il ricorso per decadenza dei termini. Il 24 settembre 1998 la sig.ra T.G. decedette.

10. Il 10 marzo 1999 la ricorrente, in nome proprio e in qualità di erede, interpose appello dinanzi al tribunale di Napoli.

11. Il 10 dicembre 2002 questo giudice riconobbe il diritto della ricorrente alla rivalutazione e agli interessi richiesti per un importo di 12.240,26 EUR. La decisione divenne definitiva il 25 gennaio 2004.

12. In mancanza di esecuzione da parte dell’amministrazione, la ricorrente notificò, il 14 giugno 2004, all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – INPS un atto di precetto per un importo di 30.364,38 EUR, corrispondente alla somma di denaro controversa maggiorata di interessi e rivalutazione.

13. Il 25 gennaio 2005 ottenne dal giudice dell’esecuzione di Napoli un pignoramento presso terzi per l’intero importo del suo credito.

B. La procedura «Pinto»

14. Il 25 maggio 2005 la ricorrente adì la corte d’appello «Pinto» di Roma per lamentare la eccessiva durata del procedimento. Per quanto riguarda la ammissibilità della sua domanda, argomentò che, ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 89/2001, la «decisione interna definitiva» da prendere in considerazione era la decisione del giudice dell’esecuzione del 25 gennaio 2005. Di conseguenza, secondo lei, il termine di sei mesi richiesto per proporre la domanda di equa soddisfazione doveva decorrere da questa data.

15. Il 18 maggio 2006 la corte d’appello dichiarò il ricorso inammissibile perché tardivo. Essa considerò che la decisione interna definitiva era quella resa a conclusione del procedimento di merito dinanzi al tribunale di Napoli, passata in giudicato il 25 gennaio 2004.

16. Con ordinanza del 25 settembre 2008, la Corte di cassazione confermò la decisione impugnata e respinse il ricorso della ricorrente.

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

17. Il diritto e la prassi interni pertinenti relativi alla legge n. 89 del 24 marzo 2001, cosiddetta «legge Pinto», sono riportati nella sentenza Cocchiarella c. Italia ([GC], n. 64886/01, § 23-31, CEDU 2006 V). In particolare, il testo dell’articolo 4 della legge, applicabile all’epoca dei fatti controversi, recita come segue:

Articolo 4 – Termine e condizioni di proponibilità

«La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva.»

18. Per quanto riguarda il nesso tra il procedimento di merito e il procedimento di esecuzione, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha evidenziato due tesi opposte, anche in relazione al contenzioso amministrativo.

19. Secondo una giurisprudenza più risalente, il procedimento di merito e il procedimento di esecuzione potevano essere considerati come un tutt’uno. La Corte di cassazione affermava che «la data in cui la decisione che concludeva detto procedimento [era] divenuta definitiva», ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 89/2001, doveva essere la data in cui il diritto rivendicato all’inizio del procedimento di merito trovava la sua realizzazione effettiva alla fine del giudizio di ottemperanza. Questa seconda procedura eventuale – era attivava dall’interessato a causa dell’inerzia dell’amministrazione, quando quest’ultima non si conformava alla decisione divenuta esecutiva (si vedano, fra altre, le sentenze n. 7978/2005, n. 14595/2008 e n. 1019/2009 della Corte di cassazione).

20. Questa giurisprudenza è stata progressivamente abbandonata. La Corte di cassazione ha successivamente affermato (si veda, in particolare, la sentenza n. 1732/2009) che le due fasi dovevano essere considerate autonome, e ciò in ragione delle caratteristiche della procedura amministrativa di esecuzione, in particolare dopo la legge di riforma della giustizia amministrativa (legge n. 205/2000).

21. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute nel 2009, con le sentenze nn. 27348 e 27365, per risolvere il conflitto e armonizzare la giurisprudenza in materia. Nei passaggi principali delle sentenze citate, le Sezioni Unite hanno dichiarato che:

«Non può ritenersi corretto neppure quanto afferma la ricorrente in ordine al fatto che la Corte di Strasburgo, nell'interpretare la CEDU avrebbe elaborato un concetto di "giusto processo", nel quale devono necessariamente considerarsi unitari o come due fasi del "medesimo" processo (L. n. 89 del 2001, art. 4) sui "diritti e obblighi di natura civile", (art. 6 Conv.), il giudizio di cognizione e quello solo eventuale di esecuzione, per considerare unica la loro complessiva durata con la conseguente ammissibilità della domanda di equa riparazione proposta in pendenza del giudizio esecutivo o di ottemperanza ovvero entro sei mesi dal primo atto satisfattivo adottato dal giudice della fase esecutoria da qualificare come decisione che conclude il procedimento, ai sensi dell’art. 4 citato, ovvero come "decisione interna definitiva" di cui all'art. 35 della Convenzione.

Ove si fosse consolidato un siffatto principio ermeneutico in sede sovranazionale, per il necessario conformarsi della giurisprudenza agli obblighi internazionali, cui sono vincolati il legislatore (art.117 Cost.) e ogni giudice degli Stati aderenti [alla Convenzione], questa Corte avrebbe dovuto solo attenersi al diritto vivente, come elaborato dai giudici sovranazionali (sentenze SS.UU. nn. 1138 e 1339 del 2004; tale ultimo principio non si applica solo allorché il diritto giurisprudenziale sovranazionale contrasti con principi o norme della Costituzione].

(...) la Corte europea [dei diritti dell’Uomo] non ha in realtà mai enunciato quanto dedotto in ricorso.

Invero, il principio di effettività di cui all'art. 13 della Convenzione, che impone agli Stati aderenti di prevedere rimedi interni per garantire il ripristino dei diritti violati riconosciuti in essa con azioni giurisdizionali indennitarie e davanti ai giudici nazionali, la cui durata va computata dalla data della domanda fino all'adempimento di quanto disposto dall'adito giudice (…) non comporta però la necessaria considerazione non separata di ogni processo cognitorio con quello successivo di esecuzione o di ottemperanza.

La Corte sovranazionale, in ordine a ricorsi nei quali è stata adita da cittadini degli Stati contraenti che hanno lamentato la non effettività dei rimedi interni di cui sopra, per il ritardo o la mancanza del tempestivo ripristino per equivalente dei diritti riconosciuti dalla Convenzione e violati, considera insieme i tempi del processo di cognizione che decide la controversia sul diritto alla riparazione che si svolge dinanzi alla Corte d'appello e di quello successivo di esecuzione o di ottemperanza determinato dall'inadempimento della P.A. tenuta a pagare l'indennizzo, concluso con il pagamento almeno parziale di questo, come determinato in sede cognitiva, da considerare dies a quo del termine decadenziale per iniziare l'azione da violazione dei diritti di cui alle norme sovranazionali (cfr. CEDU, Grande Camera 31 marzo 2009, Smaldone c. Italia n. 22644/03, Scordino c. Italia, 29 marzo 2006, 36813/97 - esaminato con altri nove ricorsi tutti relativi al rimedio interno della L. n. 89 del 2001 e al nostro paese e per altri Stati, Burdov c. Russia, 7 maggio 2002, n. 59498/95, per l'azione indennitaria di vittime di un grave disastro nucleare).

Le sentenze citate della Corte sovranazionale, con altre in esse richiamate, affermano che, per il principio di effettività, l'esecuzione della sentenza deve essere considerata parte integrante del processo "affinché la lentezza eccessiva del ricorso indennitario non ne comprometta il carattere adeguato", (Scordino c. Italia, 29 marzo 2006, n. 36813/97, § 195) con palese considerazione dei soli giudizi interni di ripristino dei danni da lesione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione; il principio è quindi privo di rilievo generale (...)».

22. Per quanto riguarda il contenzioso civile, la Corte di cassazione ha deciso, in un primo tempo, che il procedimento di merito e il giudizio di ottemperanza dovevano essere considerati separatamente, tenuto conto del loro carattere autonomo e della funzione specifica di ciascuno (si vedano, fra molte altre, le sentenze n. 25529/2006, 25806/2007, 19573/2008, 5536/2010 e n. 8256/2011).

23. Tornando sulla propria giurisprudenza, nel marzo 2014 (sentenza n. 6312/2014) le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono nuovamente espresse in materia. In questo mutato orientamento, la Cassazione si è pronunciata in favore di un approccio globale che consideri il procedimento nel merito e quello, eventuale, di esecuzione, come un unico e solo «processo». La Corte di cassazione ha ritenuto, in particolare, quanto segue:

«(...) occorre prender le mosse dal principio costituzionale di "effettività" della tutela giurisdizionale, di cui all'art. 24 Cost., comma 1, art. 111 Cost., commi 1 e 2, e art. 113 Cost., commi 1 e 2 (...). Il rispetto di tale principio esige che la "tutela giurisdizionale" non si esaurisca nel diritto di accesso al giudice, a tutti garantito, ma comprenda qualsiasi attività processuale prevista dall'ordinamento, anche successiva alla proposizione della domanda, volta a rendere effettiva e concreta, appunto, la tutela giurisdizionale dei diritti (...), ed esige perciò che tali situazioni giuridiche soggettive, fatte valere e definitivamente riconosciute in sede giurisdizionale, siano "realizzate" in favore del suo titolare, secondo adeguati strumenti predisposti dall'ordinamento. (...)

Se, dunque, "la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria" nel sistema delineato dall'art. 24 Cost., comma 1, art. 111 Cost., commi 1 e 2, e art. 113 Cost., commi 1 e 2, per l'affermazione del principio di "effettività" della tutela giurisdizionale, se "l'esecuzione della sentenza resa dal giudice deve (...) essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell'art. 6" della CEDU e se, perciò, "il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa realmente effettivo solo al momento dell'esecuzione", ne consegue necessariamente, sia pure in linea di principio, che - secondo una ricostruzione costituzionalmente e "convenzionalmente" orientata, rispettosa cioè sia delle citate norme costituzionali sia dell'art. 6 § 1 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo - per processo "giusto" (art. 111, primo comma, Cost.) ed "equo" (rubrica dell'art. 6 della CEDU) deve anche intendersi il procedimento giurisdizionale considerato come procedimento unico che, cioè, ha inizio con l'accesso al giudice e fine con l'esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria. (...)

Allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia stata fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria ("fase" processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto ("fase" processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza) - la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6 § 1 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un "unico processo" scandito, appunto, da "fasi" consequenziali e complementari. (...)

In tale prospettiva, (…) si attenuano, fino a scomparire, le "differenze funzionali e strutturali" tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata.»

24. Nello stesso senso, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno confermato e precisato la nuova «lettura globale» nella recente sentenza n. 9142 del 6 maggio 2016. In particolare, la Corte di cassazione si è espressa come segue:

«III. La questione posta dalla sezione semplice attiene in sostanza alla compatibilità tra la struttura del procedimento "Pinto" (…) con i principi di derivazione convenzionale - CEDU - in merito alla qualificazione funzionale della nozione di "decisione definitiva": in particolare costituisce oggetto di scrutinio il verificare se la disciplina statuale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba in generale riferirsi all'esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) o se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo la irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della definitività del giudizio come sopra indicato non trovi un limite nel maturarsi, tra una "fase" e l'altra, del termine semestrale previsto dall'art. 4 della originaria formulazione della l. 89 del 2001.

(...)

VII. La salvezza della specificità - anche storica - delle regole procedimentali adottate dallo Stato, pone il problema che ne occupa in un'ottica di compatibilità interpretativa dei criteri procedimentali nazionali e gli indirizzi eurounitari.
(...)

IX. Ritiene però la Corte [di cassazione] che possa pervenirsi a tale risultato conciliativo. (...)

X. A seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in "fasi": se la parte lascia decorrere un termine rilevante - che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall'art. 4 della l. n. 89 del 2001 - dal momento oltre il quale un procedimento diviene irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata durata (anche) di quel procedimento; se invece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all'esecuzione, allora (…) può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva ingiustificata durata. (...)

XI. Consegue allora che l'art. 4 della l. n. 89 del 2001, nella formulazione anteriore alla modifica del 2012, allorquando stabilisce la decadenza dal diritto all'indennizzo per inosservanza del termine ultrasemestrale, presuppone una valutazione normativa di come si articola il nesso tra cognizione ed esecuzione nella concreta fattispecie, esaminandolo nella prospettiva dell'azione e non già del diritto. (...)

XII. L'indubbiamente nuova prospettiva posta dalla sentenza di queste Sezioni Unite del 2014 [n. 6312/2014 sopra citata], con più stretta aderenza ai principi CEDU - nei termini più sopra messi in rilievo – (…) non può dunque essere intesa in senso assoluto, vale a dire tralasciando la valutazione delle differenze - strutturali e di finalità - che nell'ordinamento nazionale permangono tra il giudizio di cognizione ed il procedimento di esecuzione (…): proprio tenendo a mente queste differenze si può fornire un'esegesi di tale norma (…) tale da consentire un diverso rilievo della collocazione del termine di decadenza al momento del definitivo accertamento del diritto o al momento della definitiva realizzazione dello stesso, in dipendenza della condotta tenuta dalla parte. (...)»

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

25. La ricorrente lamenta l’eccessiva durata del procedimento civile al quale è stata parte, e invoca a questo proposito l’articolo 6 § 1 della Convenzione, le cui parti pertinenti nel caso di specie recitano:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…) che sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile. (...)»

26. La ricorrente sostiene che il rigetto della sua domanda di risarcimento «Pinto», in quanto presentata tardivamente, è in contrasto con la giurisprudenza della Corte, secondo la quale il giudizio di ottemperanza sarebbe parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione. Perciò, secondo la ricorrente, se ci si basa sui principi menzionati nella sentenza Cocchiarella (sopra citata, §§ 87 90), la «decisione interna definitiva», a partire dalla quale calcolare il termine di sei mesi per presentare la domanda di equa soddisfazione ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 89 del 2001, dovrebbe essere l’atto di pignoramento presso terzi emesso dal giudice dell’esecuzione il 25 gennaio 2005.

27. La ricorrente denuncia anche l’impossibilità di avere accesso ai giudici «Pinto» a causa del conflitto tra la giurisprudenza interna e i principi stabiliti dalla Corte in materia di diritto a un tribunale. La stessa invoca a questo titolo gli articoli 1 e 13 della Convenzione, che nelle parti pertinenti al caso di specie recitano:

Articolo 1

«Le Alte Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della (…) Convenzione.»

Articolo 13

«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale (...).»

28. Libera di qualificare giuridicamente i fatti (Aksu c. Turchia [GC], nn. 4149/04 e 41029/04, § 43, CEDU 2012, Halil Yüksel Akıncı c. Turchia, n. 39125/04, § 54, 11 dicembre 2012, e Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 44, Recueil des arrêts et décisions 1998 I), la Corte ritiene doversi esaminare queste doglianze unicamente dal punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione per quanto riguarda il diritto a un processo entro un termine ragionevole.

A. Sulla ricevibilità

1. Sulla qualità di vittima

a) Argomenti delle parti

29. Rinviando alla decisione Fazio c. Italia ((dec.), 18 giugno 2013), il Governo sostiene che la ricorrente, intervenuta de iure ereditario nella procedura il 10 marzo 1999, è stata parte in quest’ultima unicamente tra tale data e il 10 dicembre 2002, data del deposito della decisione del tribunale di Napoli. Il Governo ritiene, di conseguenza, che la stessa non possa essere ritenuta vittima della durata del procedimento considerato nella sua globalità.

30. La ricorrente contesta la tesi del Governo, argomentando che, durante tutta la durata del procedimento interno, ha agito in suo nome e in qualità di erede.

b) Valutazione della Corte

31. La Corte osserva anzitutto che, nonostante l’affermazione del Governo, la decisione Fazio non è pertinente nel caso di specie. In effetti, in quella causa la Corte ha concluso per l’assenza della qualità di vittima dei ricorrenti, non essendosi questi ultimi costituiti, nella loro qualità di eredi, come parti al procedimento. Nella presente causa, invece, la ricorrente ha agito dinanzi ai giudici nazionali in proprio nome e in qualità di erede della madre (paragrafo 7 supra).

32. La Corte rammenta anche la sua giurisprudenza relativa all’intervento dei terzi nei procedimenti civili ai fini del calcolo della durata del procedimento. Secondo tale giurisprudenza, quando un ricorrente è intervenuto nel procedimento nazionale unicamente in suo nome, il periodo da prendere in considerazione decorre a partire da tale data mentre, quando un ricorrente si costituisce parte alla controversia in qualità di erede, può lamentare tutta la durata del procedimento (si vedano, tra altre, Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, § 220, CEDU 2006 V, e Cocchiarella, sopra citata, § 113).

33. Di conseguenza, la Corte rigetta questa eccezione del Governo e ritiene che la ricorrente possa considerarsi «vittima» ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.

2. Sulla tardività del ricorso

a) Argomenti delle parti

34. Il Governo solleva inoltre un’eccezione di tardività del ricorso, ritenendo che la ricorrente lamenti in sostanza soltanto la durata del procedimento nel merito. In effetti, secondo il Governo, la ricorrente, invece di presentare la propria domanda di risarcimento «Pinto» entro sei mesi dalla data della «decisione interna definitiva» ai sensi della «legge Pinto», ossia la sentenza del tribunale di Napoli passata in giudicato il 25 gennaio 2004, avrebbe scelto di presentare il ricorso «Pinto» al termine del giudizio di ottemperanza allo scopo di eludere le norme relative alla decadenza della domanda di equa soddisfazione fissate dall’articolo 4 della stessa legge (paragrafo 17 supra).

35. Per giungere a questa conclusione, il Governo si fonda sulla sua interpretazione della giurisprudenza derivante dalla sentenza Hornsby c. Grecia (19 marzo 1997, Recueil 1997 II). Secondo tale interpretazione, l’obbligo di dare esecuzione alle sentenze e alle decisioni definitive emesse contro lo Stato si applicherebbe unicamente ai sistemi giuridici che, come quello greco all’epoca della sentenza sopra menzionata, non prevedono alcun rimedio per chiedere l’esecuzione di una decisione giurisdizionale definitiva. Ora, il Governo sottolinea che il sistema giuridico italiano prevede, al contrario, un rimedio di questo tipo.

36. Inoltre, il Governo osserva che la ricorrente aveva la possibilità di lamentare la durata eccessiva del procedimento sul merito e, in seguito, in un procedimento successivo, la durata del giudizio di ottemperanza eventualmente eccessiva e contraria all’articolo 6 § 1 della Convenzione.

37. Per quanto riguarda, infine, il mutamento giurisprudenziale operato dalla Corte di cassazione (paragrafo 23 supra), il Governo sottolinea le differenze tra i fatti all’origine della sentenza n. 6312/2014 della Corte di cassazione e la presente causa. Esso precisa che la nuova giurisprudenza della Corte di cassazione, analizzando in maniera globale la procedura, è strettamente limitata al contenzioso disciplinato dalla «legge Pinto» e che questi stessi principi non possono essere applicati ai procedimenti civili ordinari.

38. La parte ricorrente contesta la tesi del Governo, e afferma che la decisione di dichiarare inammissibile la sua domanda di risarcimento «Pinto», è contraria alla giurisprudenza della Corte dal punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. Il contrasto si fonderebbe sull’interpretazione della nozione di «decisione interna definitiva» della «legge Pinto» elaborata dai giudici nazionali. Secondo la ricorrente, tale nozione corrisponde, a livello interno, alla decisione finale relativa al procedimento sul merito. Pertanto, non sarebbe possibile considerare come «decisione interna definitiva» quella emessa dal giudice dell’esecuzione e lamentare la durata del procedimento preso nella sua globalità.

39. Al contrario, la giurisprudenza della Corte considererebbe l’esecuzione come una fase eventuale e necessaria del «processo» nel senso dell’articolo 6, e la procedura si conclude nel momento in cui il diritto in questione trova la sua realizzazione effettiva. A questo proposito, la ricorrente fa riferimento a più sentenze della Corte, tra cui Di Pede c. Italia (26 settembre 1996, Recueil 1996 IV), Scollo c. Italia (28 settembre 1995, serie A n. 315 C) e Cocchiarella (sopra citata).

b) Valutazione della Corte

40. La Corte considera che la presente causa riguardi essenzialmente la questione di stabilire se, nell’ambito procedurale della via di ricorso «Pinto», la decisione del giudice dell’esecuzione del 25 gennaio 2005 possa essere considerata la «decisione interna definitiva» del procedimento principale ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione e, in caso affermativo, è chiamata a decidere se il rigetto della domanda di equa soddisfazione da parte dei giudici «Pinto» abbia costituito una violazione del diritto della ricorrente a un processo entro un termine ragionevole ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. Poiché la questione di stabilire se il ricorso debba essere considerato tardivo è indissolubilmente legata al merito del ricorso, la Corte decide di unire al merito l’eccezione preliminare sollevata dal Governo.

41. Constatando peraltro che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Principi generali

42. Nella sua sentenza storica Hornsby (sopra citata, §§ 40 e segg.; si vedano anche Silva Pontes c. Portogallo, 23 marzo 1994, serie A n. 286 A, Di Pede, sopra citata, e Zappia c. Italia, 26 settembre 1996, Recueil 1996 IV), la Corte ha fissato il principio secondo il quale il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, indipendentemente da quale giudice l’abbia pronunciata, deve essere dunque considerata come facente parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 (si veda anche Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, CEDU 2009).

43. Da questi principi deriva l’obbligo per gli Stati contraenti di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione. La Corte ha anche indicato che la portata di questo obbligo varia in funzione della qualità della parte debitrice. Essa opera infatti una distinzione a seconda della natura della parte debitrice, tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione.

44. Nel primo caso, quando il privato o la persona sono inadempienti, spetta agli Stati contraenti garantire l’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione. Benché non possano essere considerati responsabili per il mancato pagamento di un credito esecutivo dovuto all’insolvenza di un debitore «privato» (si vedano, mutatis mutandis, Sanglier c. Francia, n. 50342/99, § 39, 27 maggio 2003, Ciprova c. Repubblica ceca (dec.), n. 33273/03, 22 marzo 2005, e Cubănit c. Romania (dec.), n. 31510/02, 4 gennaio 2007), gli Stati hanno l’obbligo positivo di mettere in atto un sistema che sia effettivo tanto in pratica quanto in diritto, e che permetta di assicurare l’esecuzione delle decisioni giudiziarie definitive tra persone private (Fouklev c. Ucraina, n. 71186/01, § 84, 7 giugno 2005). Pertanto, gli Stati possono essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato se le autorità pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione (Bogdan Vodă Greek-Catholic Parish c. Romania, n. 26270/04, § 44, 19 novembre 2013, e Sekul c. Croazia (dec.), n. 43569/13, §§ 54-55, 30 giugno 2015).

45. Nel secondo caso, quando viene pronunciata una sentenza contro lo Stato, il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata (Metaxas, sopra citata, § 19). È sufficiente che sia regolarmente notificata all’autorità nazionale interessata (Akachev c. Russia, n. 30616/05, § 21, 12 giugno 2008) o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale (Chvedov c. Russia, n. 69306/01, §§ 29-37, 20 ottobre 2005, e Kosmidis e Kosmidou c. Grecia, n. 32141/04, § 24, 8 novembre 2007). Il suo obbligo di cooperare non deve tuttavia eccedere quanto strettamente necessario all’esecuzione della decisione e, in ogni caso, non esonera l’amministrazione dall’obbligo di agire di propria iniziativa e nei termini previsti (Akachev, sopra citata, § 22, Bourdov, sopra citata, § 35, e Koukalo c. Russia, n. 63995/00, § 49, 3 novembre 2005), in particolare organizzando il proprio sistema giudiziario (si vedano, mutatis mutandis, Comingersoll S.A. c. Portogallo [GC], n. 35382/97, § 24, CEDU 2000 IV, e Frydlender c. Francia [GC], n. 30979/96, § 45, CEDU 2000 VII).

46. Un tempo irragionevolmente lungo di esecuzione di una sentenza vincolante può dunque comportare una violazione della Convenzione (Bourdov, sopra citata, § 73). Il carattere ragionevole di un tale tempo deve essere valutato tenendo conto in particolare della complessità della procedura di esecuzione, del comportamento del ricorrente e delle autorità competenti, nonché dell’importo e della natura della somma accordata dal giudice (Raïlian c. Russia, n. 22000/03, § 31, 15 febbraio 2007).

47. La Corte ha già dichiarato che, quando l’esecuzione non poneva alcun problema particolare, trattandosi del versamento di una somma di denaro, un ritardo di un anno e tre mesi violava a priori il diritto del ricorrente a un tribunale e che, invece, la mancata esecuzione di una sentenza per sei mesi non era di per sé irragionevole (Bourdov (n. 2), sopra citata, §§ 83 e 85).

48. Per quanto riguarda il ricorso risarcitorio destinato a riparare le conseguenze della durata eccessiva di un procedimento, la Corte ha ammesso che una amministrazione potesse avere bisogno di un certo lasso di tempo per procedere a un pagamento e ha fissato in sei mesi, a decorrere dalla data in cui la decisione di risarcimento è divenuta esecutiva, il termine di pagamento (Cocchiarella, sopra citata, § 89).

2. Applicazione dei principi al caso di specie

49. Ritornando alla presente causa, la Corte rammenta che la sentenza del tribunale di Napoli è stata pronunciata il 10 dicembre 2002 e che, in assenza di notifica, è divenuta vincolante ed esecutiva il 25 gennaio 2004. A partire da tale data, l’autorità convenuta sapeva o era tenuta a sapere che doveva versare alla ricorrente la somma dovuta.

50. Secondo la giurisprudenza sopra citata (si vedano i paragrafi 42-45 supra), la ricorrente non era tenuta a intentare una qualsiasi azione di esecuzione, poiché si trattava, nella fattispecie, di una sentenza ottenuta contro lo Stato. La Corte osserva per di più che l’esecuzione di tale sentenza non comportava alcuna difficoltà particolare oltre al semplice versamento di una somma di denaro.

51. In assenza del pagamento spontaneo da parte dell’Amministrazione, la ricorrente ha adito il giudice dell’esecuzione di Napoli che, il 25 gennaio 2005, ha emesso un atto di pignoramento presso terzi in suo favore (paragrafo 13 supra).

52. Pertanto, il diritto rivendicato dalla ricorrente ha trovato la sua realizzazione effettiva in quest’ultima data, e l’atto di pignoramento presso terzi costituiva dunque, nella presente causa, la «decisione interna definitiva» del procedimento principale (si veda, tra altre, Bourdov (n. 2), sopra citata, § 72).

53. Di conseguenza, il procedimento si è svolto tra il 21 ottobre 1994 e il 27 marzo 1998 e poi, a partire dal 10 marzo 1999, per concludersi il 25 gennaio 2005 (paragrafi 8-13 supra).

54. Del resto, la Corte osserva che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno operato nel 2016 un capovolgimento giurisprudenziale in materia (paragrafi 23-24 supra). In particolare, come ha evidenziato il Governo convenuto nelle sue osservazioni (paragrafo 37 supra), i fatti all’origine della sentenza n. 9142/2016 sono simili ai fatti della presente causa.

55. La Corte osserva che, pur non essendo perfettamente allineata ai principi fissati nella sua giurisprudenza (paragrafo 48 supra), questa sentenza si presta a una lettura globale secondo la quale «è possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)».

56. Tuttavia, all’epoca dei fatti controversi, i tribunali interni avevano una interpretazione opposta in materia, relativa alla separazione rigorosa tra il procedimento sul merito e quello di esecuzione (paragrafo 22 supra). Del resto, questa interpretazione è confermata nelle decisioni rese contro la ricorrente dalla corte d’appello di Roma il 18 maggio 2006 e dalla Corte di cassazione il 25 settembre 2008.

57. In conclusione, la Corte rammenta di avere trattato più volte cause che sollevavano questioni analoghe in materia di durata del procedimento, nelle quali ha constatato l’inosservanza dell’esigenza del «termine ragionevole» alla luce dei criteri individuati dalla sua giurisprudenza consolidata in materia (si vedano, tra molti altri precedenti, Cocchiarella, sopra citata, con i riferimenti a Bottazzi c. Italia [GC], n. 34884/97, § 22, CEDU 1999 V, Di Mauro c. Italia [GC], n. 34256/96, §23, CEDU 1999 V, Ferrari c. Italia [GC], n. 33440/96, § 21, 28 luglio 1999 e A.P. c. Italia [GC], n. 35265/97, § 18, 28 luglio 1999).

58. Non vedendo alcun motivo per discostarsi dalle sue precedenti conclusioni, la Corte ritiene che la durata del procedimento sia stata eccessiva e non sia conforme all’esigenza del «termine ragionevole». In conclusione, la Corte rigetta l’eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso e ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione in ragione della durata eccessiva del procedimento.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

59. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

60. La ricorrente chiede la somma di 12.625 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito.

61. Il Governo contesta le richieste della parte ricorrente.

62. La Corte considera doversi accordare alla ricorrente la somma di 3.000 EUR per il danno morale.

B. Spese

63. La ricorrente chiede anche la somma di 3.206,31 EUR per le spese sostenute dinanzi ai giudici nazionali e la somma di 4.553,92 EUR per quelle sostenute dinanzi alla Corte.

64. Il Governo contesta le richieste presentate dalla ricorrente, affermando in particolare che quest’ultima non avrebbe adempiuto all’obbligo, derivante per lei dall’articolo 60 del regolamento, di presentare i necessari documenti giustificativi nelle osservazioni scritte sul merito.

65. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti a sua disposizione e della sua giurisprudenza, la Corte respinge la richiesta relativa alle spese in quanto la ricorrente non ha presentato documenti giustificativi a sostegno della sua domanda. Essa considera invece ragionevole la somma di 1.500 EUR per il procedimento dinanzi alla Corte e la accorda alla ricorrente.

C. Interessi moratori

66. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Unisce al merito. e respinge, l’eccezione sollevata dal Governo per quanto riguarda la tardività del ricorso, e dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara, che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione per quanto riguarda il diritto a un processo entro un termine ragionevole;
  3. Dichiara,
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
      1. 3.000 EUR (tremila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;
      2. 1.500 EUR (millecinquecento euro), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 14 settembre 2017, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Renata Degener
Cancelliere aggiunto

Presidente
Linos-Alexandre Sicilianos

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Wojtyczek.

L.A.S.
R.D.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK

1. Concordo con i miei colleghi nell’affermare che l’articolo 6 della Convenzione è stato violato per quanto riguarda il diritto ad un processo entro un termine ragionevole; ho tuttavia delle riserve quanto alla motivazione della sentenza, come esposta in particolare al paragrafo 57.

2. Nella presente causa, la procedura si è svolta dal 21 ottobre 1994 al 27 marzo 1998, poi è stata ripresa il 10 marzo 1999 per concludersi il 25 gennaio 2005 (paragrafo 53 della sentenza). In queste circostanze, il governo convenuto era tenuto a giustificare la durata del procedimento con motivi pertinenti. Ciò non è stato fatto. Queste circostanze sono sufficienti per concludere che vi è stata una violazione dell’articolo 6 della Convenzione.

3. Al paragrafo 57 della sentenza, la Corte afferma: «In conclusione, la Corte rammenta di avere trattato più volte cause che sollevavano questioni analoghe in materia di durata del procedimento, nelle quali ha constatato l’inosservanza dell’esigenza del «termine ragionevole» alla luce dei criteri individuati dalla sua giurisprudenza consolidata in materia (si vedano, tra molti altri precedenti, Cocchiarella, sopra citata, con i riferimenti a Bottazzi c. Italia [GC], n. 34884/97, § 22, CEDU 1999 V, Di Mauro c. Italia [GC], n. 34256/96, §23, CEDU 1999 V, Ferrari c. Italia [GC], n. 33440/96, § 21, 28 luglio 1999 e A.P. c. Italia [GC], n. 35265/97, § 18, 28 luglio 1999).»

4. Questa affermazione solleva una serie di interrogativi. In primo luogo, se ci si riferisce a «questioni analoghe in materia di durata del procedimento», occorre spiegare in cosa consista tale analogia. Quali sono i criteri pertinenti per stabilire delle analogie tra le cause?
In secondo luogo, la Corte fa riferimento, al paragrafo 57, alla causa Cocchiarella. Nella sentenza resa in tale causa, la Corte ha precisato, nel contesto della valutazione del danno morale, quanto segue: «ai fini della risposta ai governi, la Corte indica prima di tutto che per «cause simili» si intendono due procedure, che si sono protratte per lo stesso numero di anni, con gli stessi gradi di giudizio, con un obiettivo di pari importanza, un comportamento delle parti ricorrenti sostanzialmente identico, nello stesso paese» (paragrafo 138). La motivazione della presente sentenza si riferisce a questi o ad altri criteri?
In terzo luogo, al paragrafo 57 della presente sentenza, la Corte fa menzione «dei criteri elaborati dalla sua giurisprudenza consolidata» e cita una serie di riferimenti. Osservo in questo contesto che, nella causa Cocchiarella, la Corte ha formulato criteri per calcolare la durata totale della procedura in caso di intervento di terzi, ma non per valutare il carattere eccessivo della stessa, limitandosi a fare riferimento alla sua precedente giurisprudenza senza ulteriori spiegazioni. Inoltre, i paragrafi delle altre quattro sentenze citate in riferimento non contengono alcun criterio per accertare una violazione del requisito del «termine ragionevole». In questo contesto, il riferimento alla sentenza Cocchiarella e alle altre quattro sentenze, presentate come fonti di «criteri elaborati dalla giurisprudenza consolidata», appare erronea. Sarebbe pertanto auspicabile ricordare qui i criteri ai quali si fa riferimento o dare i riferimenti di una sentenza che li espone.
In quarto luogo, l’argomento a simile nelle cause aventi ad oggetto la durata del procedimento deve essere utilizzato con molta cautela poiché, in pratica, nonostante alcune apparenze, i procedimenti giudiziari condotti nei casi concreti sono molto diversi, in particolare per quanto riguarda il grado di complessità dei problemi giuridici, l’accertamento dei fatti, il comportamento delle parti e lo svolgimento dei procedimenti. È raro che due cause siano veramente simili. In queste circostanze, l’argumentum a simile, utilizzato senza ulteriori spiegazioni, tende non a rafforzare ma a ridurre considerevolmente la forza di persuasione della motivazione della sentenza della Corte.