Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 14 settembre 2023 - Ricorso n.2264/12 - Causa Ainis e altri c. Italia


© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita dalla dott.ssa Silvia Canullo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA AINIS E ALTRI c. ITALIA

(Ricorso n. 2264/12)

SENTENZA

Art. 2 (sostanziale) • Vita • Obblighi positivi • Le autorità interne non hanno protetto adeguatamente e ragionevolmente la vita del congiunto delle ricorrenti, deceduto a seguito di un’intossicazione da sostanze stupefacenti mentre era in custodia della polizia

STRASBURGO

14 settembre 2023

La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni stabilite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Ainis e altri c. Italia,

la Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:

Marko Bošnjak, Presidente,
Alena Poláčková,
Lətif Hüseynov,
Péter Paczolay,
Ivana Jelić,
Erik Wennerström,
Raffaele Sabato, giudici,
e Renata Degener, cancelliere di Sezione,

visto il ricorso (n. 2264/12) proposto contro la Repubblica italiana con il quale, in data 23 dicembre 2011, tre cittadine italiane, la sig.ra Rosalba Ainis (“la prima ricorrente”), la sig.ra Nancy Calogero (“la seconda ricorrente”) e la sig.ra Giuseppa Dammicela (“la terza ricorrente”), hanno adito la Corte ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”);

vista la decisione di comunicare al Governo italiano (“il Governo”) le doglianze relative all’articolo 2 della Convenzione e di dichiarare irricevibile il ricorso per il resto;

viste le osservazioni delle parti;

dopo aver deliberato in camera di consiglio in data 4 luglio 2023,

pronuncia la seguente sentenza adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. Il caso di specie concerne il decesso del congiunto delle ricorrenti, C.C., a seguito di un’intossicazione da sostanza stupefacente mentre era detenuto sotto la custodia della polizia.

IN FATTO

  1. Le ricorrenti sono nate rispettivamente nel 1974, nel 1994 e nel 1946 e risiedono a Milano. Sono la compagna, la figlia e la madre di C.C., deceduto a causa di un’intossicazione acuta da cocaina nei locali della questura di Milano il 10 maggio 2001. Le ricorrenti, cui è stato concesso il gratuito patrocinio dinanzi alla Corte, sono state rappresentate dagli avvocati A. Sgarrella e C. Rubinetti, del foro di Milano.
  2. Il Governo è stato rappresentato dal suo ex agente, la sig.ra E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, la sig.ra P. Accardo.
  1. GLI EVENTI CONNESSI AL DECESSO DI C.C.
  1. In data 10 maggio 2001, alle ore 2:30 del mattino, C.C. fu arrestato perché sospettato di traffico di sostanze stupefacenti mentre stava lasciando il suo appartamento. Anche altre tre persone furono arrestate nel corso della stessa operazione di contrasto al traffico di droga.
  2. Secondo il rapporto di pattuglia redatto dagli agenti operanti, C.C. al momento dell’arresto e in particolare durante la perquisizione del suo appartamento appariva in condizioni psicofisiche alterate, probabilmente dovute all’assunzione di droghe. Era in preda ad attacchi di panico e ad improvvisi sbalzi di umore e compiva tentativi definiti autolesionistici, picchiando il capo contro il muro. Mentre lo scortavano fuori dell’edificio gli agenti lo dovettero sorreggere perché non collaborava e continuava a cadere come un “peso morto”.
  3. Alle ore 3:15, due agenti chiamati di rinforzo arrivarono sulla scena. Secondo il loro rapporto di pattuglia, al loro arrivo C.C., che era ammanettato, fu condotto dagli agenti operanti alla loro automobile di servizio in modo da poterlo condurre in questura. Una volta dentro l’auto, C.C. disse agli agenti di non sentirsi bene e chiese loro di aspettare un poco prima di partire. Gli fu consentito di restare seduto nell’automobile della polizia con la testa e le gambe fuori per un po’ di tempo. Secondo la descrizione fattane era bagnato di sudore, aveva conati di vomito, e un liquido trasparente gli colava dalla bocca. Quando C.C. dichiarò di sentirsi meglio, gli agenti lo ammanettarono e lo condussero in questura. Gli agenti riferirono che, dato quello che definirono lo “stato di salute” di C.C., avevano acceso l’aereazione e avevano guidato lentamente.
  4. Alle ore 3:30 C.C. fu trasferito nella custodia degli agenti addetti alla camera di scurezza della questura. Gli agenti che lo consegnarono specificarono nel rapporto che C.C. era ammanettato al momento della sua consegna.
  5. Secondo il rapporto redatto dall’agente responsabile della camera di sicurezza, C.C. nella cella appariva calmo e addormentato sino alle ore 5:50 quando chiese di poter utilizzare il bagno. Mentre era al gabinetto cominciò ad avere conati di vomito e subito dopo cadde per terra. L’agente di servizio riferì di aver notato che dalla sua bocca gocciolava saliva e dal naso fuoriusciva sangue. L’agente avvisò il capoturno che chiamò immediatamente un’ambulanza.
  6. In una dichiarazione resa al pubblico ministero il 7 febbraio 2002, l’agente responsabile della camera di sicurezza aggiunse particolari al suo racconto degli eventi. Le parti pertinenti di tale dichiarazione sono le seguenti:

“La notte tra il 9 e il 10 maggio 2001 ero in servizio in qualità di responsabile della camera di sicurezza presso la questura di Milano (…) anche altri tre agenti, di cui non ricordo i nomi, erano in servizio (…)

Alle ore 3:30 [del mattino] circa del 10 maggio 2001, gli agenti della pattuglia Volante Sempione (la pattuglia di polizia del quartiere Sempione) consegnarono [C.C.], che io vidi ammanettato e già seduto sulla panchina all’interno del posto di controllo dove di solito registriamo le persone in entrata (…) [C.C.] rimase nella cella, dormendo pacificamente in posizione seduta; alle ore 5:50 circa [C.C.] si svegliò con conati di vomito e chiese il permesso di andare in bagno. A questo punto, dopo avergli liberato una mano, lo scortai personalmente all’ingresso del bagno, che era nel corridoio sulla destra a circa tre metri di distanza; [C.C.] entrò nel bagno e io rimasi fuori, ovviamente tenendo la porta aperta. A questo punto [C.C.] cominciò a vomitare e cadde con la faccia in avanti sul gabinetto alla turca; entrai immediatamente in bagno notai che dalla bocca fuoriusciva la saliva e dal naso colava sangue. Raggiunsi subito un telefono e avvisai il centralino chiedendo l’invio immediato di un’ambulanza. Poco dopo il personale dell’ambulanza giunse nella camera di sicurezza e cominciò a prestare assistenza medica a [C.C.]. Io non era presente mentre si somministravano le prime cure per non essere di intralcio ai paramedici. Successivamente [C.C.] fu portato via in barella, scortato dai miei colleghi della Volante Niguarda (la pattuglia di polizia del quartiere Niguarda) che erano stati inviati di rinforzo dal centralino.

(...)

Non ricordo dettagli specifici riguardo alla persona di [C.C.], al suo comportamento o al suo aspetto; i suoi capelli erano leggermente arruffati. Devo aggiungere che, ovviamente, non gli ho prestato un’attenzione continua in quanto ero occupato a scattare fotografie di altre persone. Ovviamente la stanza conosciuta come posto di controllo non è mai lasciata senza sorveglianza dagli agenti in servizio se sono presenti persone arrestate, perché per prassi uno di noi deve sempre essere presente.”

  1. Alle ore 6:00 gli agenti di polizia chiamati a scortare il personale dell’ambulanza all’ospedale giunsero sulla scena. Dal loro rapporto risulta che quando arrivarono trovarono C. sdraiato sulla schiena nel luogo definito nel rapporto come l’ingresso del bagno. Perdeva sangue dal naso e dalla bocca fuoriusciva saliva. Agli agenti C.C. sembrò cianotico, in preda a difficoltà respiratorie e a una crisi convulsiva.
  2. Alle ore 6:07 il personale dell’ambulanza giunse sulla scena. Secondo il loro rapporto C.C. giaceva sulla schiena nel bagno, in stato di incoscienza. Al controllo le sue funzioni vitali risultarono insufficienti, e secondo la loro descrizione, appariva cianotico e convulsivo, il respiro era debole e il battito cardiaco rallentato. Rilevarono segni di un trauma facciale e tracce di vomito sugli abiti. Lo trasferirono nell’ambulanza e cominciarono la rianimazione cardiopolmonare.
  3. Alle ore 6:11 C.C. giunse all’ospedale Fatebenefratelli dove fu affidato al personale medico, che tentò invano di rianimarlo.
  4. Alle ore 6:16 C. fu ufficialmente dichiarato deceduto all’ospedale Fatebenefratelli di Milano.
  1. VERBALI DI ARRESTO, VERBALI DI PERQUISIZIONE E VERBALI DI SEQUESTRO
  1. Nel quadro dell’operazione di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti condotta nella notte del 10 maggio 2001 furono prodotti verbali di arresto riguardanti tre persone, G.B., M.G. e O.T., che descrivevano soprattutto come essi fossero stati colti in flagranza di reato.
  2. Il fascicolo contiene tre verbali di perquisizione relativi alle perquisizioni degli appartamenti appartenenti a C.C., M.G. e G.B. Risulta che l’appartamento di C.C. era stato perquisito alle ore 3:00 della notte del suo arresto, senza rinvenire nulla degno di nota.
  3. Uno dei verbali di perquisizione riguarda la perquisizione personale di M.G., effettuata alle ore 2:30, dal quale risulta che egli era stato avvisato del suo diritto alla presenza di un difensore o di un’altra persona di sua fiducia durante la perquisizione e che vi aveva rinunciato. Perquisendo le tasche di M.G. gli agenti trovarono dei contanti e una bilancina digitale, avendo notato un rigonfiamento sospetto nella parte anteriore dei suoi pantaloni, nelle “parti intime”, procedettero a un’ulteriore perquisizione che rivelò una bustina di plastica apparentemente contenente pasticche di ecstasy e 142 grammi di cocaina.
  4. Nel fascicolo sono presenti due verbali di sequestro che riguardano C.C. Riferiscono che alle ore 2:45 furono sequestrati dal suo appartamento alcuni oggetti. Nel primo verbale si menzionano 1.686.000 lire in contanti, la chiave di un un’automobile e un telefono cellulare rinvenuto nella tasca del cappotto di C.C. Nel secondo si riferisce che dal suo portafoglio, che si trovava nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, erano stati tratti una carta di credito, due assegni e una banconota ripiegata contenente una sostanza somigliante alla cocaina.
  1. ATTI DI INDAGINE DEL PUBBLICO MINISTERO RIGUARDANTI IL DECESSO DI C.C. FINALIZZATI A UN’EVENTUALE INDAGINE PRELIMINARE
  1. In data 11 maggio 2001, su richiesta del pubblico ministero, fu eseguita un’autopsia sul corpo di C.C. L’autopsia riscontrò un edema cerebrale, un edema polmonare causato da liquido ematico, congestione poliviscerale e petecchie compatibili con un decesso naturale caratterizzato da un breve periodo di respirazione agonica o da morte per asfissia. Lo stomaco conteneva residui liquidi di cibo. In base alle informazioni in suo possesso in quel momento il patologo non fu in grado di individuare l’esatta causa di morte. In pari data furono inviati campioni per l’esame tossicologico.
  2. In data 28 novembre 2001 il pubblico ministero nominò due patologi forensi, in qualità di consulenti medici indipendenti, per riesaminare gli esiti dell’autopsia e dei test tossicologici e accertare la causa di morte.
  3. Con la perizia prodotta il 22 febbraio 2003, i patologi forensi determinarono che la causa del decesso era stata un’intossicazione acuta da cocaina. La presenza della sostanza stupefacente nel liquido gastrico fece concludere che C.C. aveva assunto la dose letale in questione ingerendola in un momento “molto prossimo al suo decesso”. Fu esclusa qualsiasi altra causa di morte. I patologi dichiararono che non vi erano segni di trauma ricollegabili al decesso né segni visibili di preesistenti patologie.
  4. Il pubblico ministero raccolse le dichiarazioni di varie persone presenti durante l’arresto di C.C. sia nel suo appartamento che nell’edificio. Due donne che stavano nell’appartamento dichiararono che gli agenti che avevano arrestato C.C. avevano chiesto loro dell’acqua per l’arrestato che, dissero, non si sentiva bene.
  5. In data 3 aprile 2003 il pubblico ministero determinò che gli elementi raccolti durante l’indagine non avevano evidenziato possibili connessioni tra il decesso di C.C. ed eventi esterni ad opera di terzi tali da poterla indurre a concludere che fosse stato commesso un reato. Il procedimento fu pertanto archiviato senza aprire un’indagine preliminare.
  1. IL PROCEDIMENTO CIVILE PROMOSSO DALLE RICORRENTI
  1. Il procedimento dinanzi al Tribunale distrettuale di Milano
  1. In data 22 giugno 2003 le ricorrenti promossero un’azione risarcitoria contro il Ministero dell’interno per omissione di soccorso e omessa sorveglianza.
  2. In data imprecisata il tribunale incaricò i due patologi forensi che avevano partecipato all’indagine del pubblico ministero del 2001 (si veda il paragrafo 20 supra) di riesaminare la documentazione relativa al decesso di C.C. e di determinare se esso fosse stato causato dall’ingestione di cocaina e quando essa era stata assunta.
  3. Il tribunale riepilogò i fatti pertinenti così come si evincevano soprattutto dai rapporti delle pattuglia di polizia, dalle dichiarazioni rilasciate al pubblico ministero e dalle conclusioni dei due consulenti medici indipendenti nominati nel procedimento. Essi confermarono che C.C. era deceduto a causa di un’intossicazione acuta da cocaina e conclusero che egli doveva aver assunto la sostanza due volte nel corso degli eventi contestati: una prima volta in prossimità del suo arresto e poi di nuovo in un momento molto prossimo al decesso. Sulla base dei dati tossicologici esclusero la possibilità che la prima dose potesse essere collegata al decesso di C.C. La dose letale di cocaina era stata la seconda e l’assunzione poteva essere avvenuta, secondo i consulenti, o immediatamente prima che C.C. chiedesse di utilizzare il bagno o mentre si trovava al gabinetto.
  4. Il tribunale, in primo luogo, sottolineò che al momento dell’arresto C.C. aveva manifestato chiari sintomi di intossicazione da sostanze stupefacenti. Pur ritenendo che la circostanza non comportasse l’obbligo di ricoverare immediatamente C.C., essa avrebbe dovuto mettere in allerta gli agenti inducendoli a sorvegliare C.C. con particolare scrupolo, specialmente in ragione del fatto che gli agenti sapevano che egli era tossicodipendente, era stato arrestato nell’ambito di un’operazione di contrasto al traffico di stupefacenti, era stato trovato in possesso di droga e aveva manifestato un comportamento che indicava la volontà di farsi del male.
  5. Il fatto che C.C. fosse riuscito a ingerire un cospicuo quantitativo di cocaina secondo il tribunale presupponeva che egli fosse già in possesso della sostanza al momento dell’arresto o che l’avesse ricevuta da una terza persona mentre era nella stanza della registrazione in questura.
  6. La prima possibilità suggeriva una mancanza di diligenza nella perquisizione effettuata sulla persona di C.C. al momento dell’arresto. Il tribunale specificò che, secondo il verbale di sequestro redatto dopo il decesso di C.C., gli erano stati sequestrati alcuni oggetti, ma non vi era traccia di un verbale di perquisizione nel fascicolo. Il giudice ritenne che, date le circostanze, la perquisizione della persona di C.C. avrebbe dovuto essere particolarmente scrupolosa. Il tribunale rigettò il rilievo del Ministero convenuto che ipotizzava che C.C. avesse ingerito la cocaina in una bustina che si era poi lacerata nello stomaco, in quanto l’autopsia non aveva trovato tracce di un tale contenitore nella cavità addominale. Inoltre il giudice ritenne che la necessità di ottenere l’autorizzazione del giudice per effettuare un’ispezione personale non esonerasse gli agenti dal dovere di richiederla se lo reputavano necessario.
  7. La seconda possibilità indicava che la sorveglianza nei confronti di C.C. non era stata adeguata. A prescindere dalla circostanza che C.C. avesse già su di sé la sostanza stupefacente o l’avesse avuta da qualcun altro nei locali della questura, secondo il tribunale ciò non cambiava il fatto che C.C. era riuscito a ingerire una dose letale di cocaina mentre era sotto la custodia della polizia, il che implicava che gli agenti della questura che dovevano sorvegliarlo non lo avevano fatto in maniera adeguata. Il giudice sottolineò anche che l’agente di servizio in questura aveva ammesso di non aver prestato particolare attenzione a C.C. perché era occupato in altre attività. Gli aveva rivolto la sua attenzione soltanto quando egli lo aveva chiamato, ma in quel momento C.C. poteva avere appena assunto la dose letale, il che avrebbe spiegato i conati di vomito e la richiesta di andare in bagno. In alternativa era possibile che C.C. avesse ingerito la cocaina mentre era all’interno del gabinetto ma il tribunale lo riteneva meno probabile, perché l’agente di servizio lo sorvegliava a vista attraverso la porta aperta del bagno, come dimostrato dal fatto che lo aveva visto vomitare e poi cadere.
  8. In conclusione, il tribunale di primo grado ritenne il Ministero dell’interno responsabile del decesso di C.C. e accordò un risarcimento di EUR 100.000 a sua madre e di EUR 125.000 a sua figlia. Non accordò alcun risarcimento alla compagna di C.C. perché ritenne che ella non avesse dimostrato la sussistenza di una relazione more uxorio con lui.
  1. Il procedimento dinanzi alla Corte di appello di Milano
  1. In data imprecisata il Ministero dell’interno impugnò la sentenza di primo grado dinanzi alla Corte di appello di Milano. Sostenne che la perquisizione al momento dell’arresto era stata effettuata con diligenza, che non vi era alcuna prova che qualcuno avesse avvicinato C.C. per consegnarli sostanze stupefacenti, che costui doveva avere ingerito la cocaina, che era nascosta in un luogo in cui non poteva essere rinvenuta durante la perquisizione, mettendo brevemente la mano alla bocca in modo da non suscitare sospetti nell’agente di servizio.
  2. Con sentenza del 12 marzo 2008, la Corte di appello si pronunciò a favore del Ministero dell’interno e ribaltò la sentenza di primo grado con motivazioni che possono essere riassunte come segue.
  3. In primo luogo, la Corte affermò che non sussistevano prove del fatto che qualcuno avesse avvicinato C.C. in questura e gli avesse consegnato la cocaina. Pertanto, secondo la Corte, egli doveva avere la droga nascosta da qualche parte sulla sua persona.
  4. La corte ritenne poi che C.C. al momento dell’arresto già manifestasse sintomi di intossicazione da sostanze stupefacenti ma, sulla scorta delle perizie, respinse la tesi delle ricorrenti secondo la quale gli si sarebbero dovute prestare immediate cure mediche.
  5. La corte reputò di cruciale importanza la richiesta di C.C. di utilizzare il bagno, perché era proprio nel bagno che doveva aver tirato fuori la cocaina nascosta da qualche parte su di sé, l’aveva ingerita ed era successivamente deceduto. A sostegno di tale conclusione la corte osservò che C.C. aveva precedenti per traffico di sostanze stupefacenti e non poteva ignorare che se la cocaina fosse stata rinvenuta sulla sua persona egli sarebbe stato perseguito e condannato.
  6. La Corte respinse la tesi delle ricorrenti secondo la quale la seconda, letale, ingestione di cocaina era stata resa possibile dalla negligenza degli agenti che custodivano C.C. Essa reputò che non si potesse ritenere che la circostanza che l’agente di servizio in questura non avesse dedicato tutta la sua attenzione a C.C. rendesse la sorveglianza inadeguata. Sottolineò che C.C. era rimasto ammanettato tutto il tempo e quindi i suoi movimenti erano limitati. Secondo la corte l’unico momento in cui C.C. aveva avuto una certa libertà di movimento era stato quando era in bagno. Ribadì perciò la sua convinzione che quello doveva essere il luogo in cui era avvenuta l’ingestione letale, in quanto C.C. con la mano libera aveva potuto assumere la cocaina precedentemente nascosta da qualche parte sulla sua persona.
  7. La corte trattò anche il rilievo delle ricorrenti che avevano contestato che gli agenti della polizia non avevano chiesto l’autorizzazione al giudice per eseguire un’ispezione personale che avrebbe consentito loro di rinvenire, oltre a quello già sequestrato, l’ulteriore quantitativo nascosto di cocaina. Essa ritenne che tale ispezione fosse superflua alla luce del fatto che gli agenti avevano già sequestrato un quantitativo di cocaina rinvenuto nel portafoglio di C.C. Sottolineò inoltre che una perquisizione personale del tipo invocato dalle ricorrenti era un mezzo eccezionale per l’ottenimento di prove cui si poteva ricorrere soltanto in presenza di forti motivi per ritenere che la persona sospettata nascondesse prove sulla sua persona o all’interno del suo corpo.
  8. La corte concluse inoltre, senza motivare, che, sebbene la causa immediata del decesso di C.C. fosse stata l’ingestione di un cospicuo quantitativo di cocaina in un momento prossimo al decesso, esso era stato provocato anche dall’ingestione di cocaina al momento dell’arresto, e che “la crisi fatale era scoppiata all’improvviso perché aveva trovato terreno fertile in un organismo sottoposto a un grave stress per via della precedente ingestione, o ingestioni, di sostanza stupefacenti”.
  9. La corte concluse pertanto che non poteva ravvisare alcuna responsabilità civile a carico del Ministero dell’interno.
  1. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione
  1. In data imprecisata le ricorrenti impugnarono la sentenza della Corte di appello dinanzi alla Corte di cassazione.
  2. Con sentenza del 17 maggio 2011 la Corte di cassazione confermò la sentenza della Corte di appello. Ribadì che essa non poteva riesaminare la ricostruzione dei fatti stabilita in appello e concluse che la corte di secondo grado era pervenuta alle sue conclusioni in modo logico e ragionato.

IN DIRITTO

  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE
  1. Le ricorrenti hanno lamentato che le autorità non avevano adottato misure adeguate per proteggere la vita del loro congiunto, C.C., che era deceduto a causa di un’intossicazione da sostanze stupefacenti mentre era sotto la custodia della polizia. Le ricorrenti hanno invocato l’articolo 2 della Convenzione che, per quanto pertinente al caso di specie, recita:

“1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. (…)

(...)”

  1. Sulla ricevibilità
  1. La Corte osserva che il ricorso non è manifestamente infondato, né incorre negli altri motivi di irricevibilità elencati dall’articolo 35 della Convenzione. Deve pertanto essere dichiarato ricevibile.
  1. Sul merito
  1. Le osservazioni delle parti

(a) Le ricorrenti

  1. Le ricorrenti hanno sostenuto che una volta che C.C. era stato arrestato e privato della libertà le autorità avevano l’obbligo di proteggere la sua vita, tuttavia non lo avevano fatto. Le ricorrenti hanno dedotto alcune specifiche omissioni da parte delle autorità.
  2. In primo luogo, hanno sostenuto che gli agenti operanti non avevano prestato a C.C. assistenza medica né lo avevano condotto in ospedale nonostante il fatto che egli si sentisse male, fosse in preda ad attacchi di panico e a convulsioni e con ogni probabilità avesse assunto sostanze stupefacenti. Hanno aggiunto che C.C. non aveva ricevuto assistenza medica in nessun momento della sua detenzione nella questura di Milano.
  3. In secondo luogo, hanno sostenuto, in termini lievemente contradditori, che C.C. non era stato perquisito. Hanno sottolineato che non vi era la prova che la persona di C.C. fosse stata perquisita e che anche nel procedimento civile interno il Ministero dell’interno non aveva prodotto tale prova. Hanno evidenziato l’esistenza di una prova di questo tipo, ovvero un verbale di perquisizione, in relazione a un’altra persona arrestata nel corso della stessa operazione di polizia. Secondo le ricorrenti l’affermazione del Governo, basata sulla tesi avanzata dal Ministero dell’interno nel procedimento civile interno secondo la quale C.C. doveva aver nascosto lo stupefacente nelle parti intime del corpo era una semplice congettura. In ogni caso il carattere eccezionale e invasivo di un’ispezione personale mirante a verificare tale ipotesi e la necessità di chiedere un’autorizzazione per eseguirla non implicavano che essa fosse preclusa alle autorità.
  4. Infine, le ricorrenti hanno osservato che una volta che C.C. era stato tratto in arresto in questura, le autorità avevano l’obbligo di sorvegliarlo e non lo avevano fatto in maniera adeguata. Hanno rilevato che lo stesso agente di servizio aveva ammesso di non aver vigilato su C.C. in maniera continuativa.
  5. Le ricorrenti hanno sottolineato, con una considerazione generale, che la ricostruzione degli eventi connessi al decesso di C.C. era fondata esclusivamente sugli elementi contenuti nei verbali e nella documentazione prodotta dalle autorità e inclusi nell’indagine del pubblico ministero, che esse non avevano avuto la possibilità di contestare.

(b) Il Governo

  1. Il Governo ha ribadito che gli obblighi positivi di cui all’articolo 2 della Convenzione devono essere interpretati in modo da non imporre alle autorità oneri impossibili o sproporzionati, tenendo conto delle difficoltà associate alle attività di polizia nelle società moderne, dell’imprevedibilità della condotta umana e delle scelte operative che devono essere compiute in termini di priorità e di risorse. In proposito hanno citato la causa Osman c. Regno Unito (28 ottobre 1998, Reports of Judgments and Decisions 1998‑VIII).
  2. Secondo il Governo non si poteva affermare che le autorità non avessero fatto tutto quello che ci si poteva ragionevolmente aspettare per impedire il concretizzarsi di un rischio immediato e certo per la vita di C.C. il quale, a priori, non poteva essere considerato prevedibile.
  3. Riguardo all’arresto di C.C. il Governo ha osservato che gli agenti operanti avevano adottato delle misure per impedire all’arrestato di compiere atti di autolesionismo e avevano atteso fino a quando non si era sentito meglio per condurlo in questura.
  4. Ha osservato ancora che nel verbale di sequestro redatto dagli agenti operanti era scritto che a C.C. erano stati sequestrati alcuni oggetti, tra cui 1,6 grammi di cocaina tenuti in una banconota ripiegata rinvenuta nel suo portafoglio (si veda il paragrafo 17 supra), il che dimostra che al momento dell’arresto C.C. era stato sottoposto a una perquisizione cui era stato fatto riferimento anche nel procedimento interno in cui era stata descritta come un controllo degli oggetti indossati o portati sulla persona. Inoltre, il Governo ha osservato che secondo le perizie forensi presenti nel fascicolo la seconda ingestione di cocaina, che era risultata fatale per C.C., era avvenuta o poco prima che egli chiedesse di utilizzare il bagno o in quel momento stesso. Ha sostenuto che i trafficanti di sostanze stupefacenti utilizzavano delle tecniche per nascondere piccoli quantitativi di droga sulla propria persona e non era possibile attribuire l’ingestione della seconda dose a omessa sorveglianza. Il Governo ha quindi concluso che le autorità avevano adottato misure che erano ragionevoli date le circostanze e ha sottolineato che, a causa del loro carattere invasivo, si doveva ricorrere alle ispezioni personali soltanto in circostanze eccezionali. A tale riguardo il Governo ha invocato ancora la sentenza della Corte nella causa Osman (sopra citata, § 116) nella quale, tra i punti ritenuti pertinenti dalla Corte, vi era la necessità di garantire che la polizia eserciti il suo potere di repressione e prevenzione con modalità che rispettino pienamente la procedura prevista e le altre garanzie che limitano legittimamente la portata della sua attività di indagine sui reati e di perseguimento dei responsabili, comprese le garanzie contenute negli articoli 5 e 8 della Convenzione.
  1. La valutazione della Corte

(a) Principi generali

  1. La Corte ribadisce che l’articolo 2, che protegge il diritto alla vita, figura tra le più fondamentali disposizioni della Convenzione. La prima frase dell’articolo 2 impone agli Stati contraenti non soltanto di astenersi dal privare della vita “intenzionalmente” o con un “ricorso alla forza” sproporzionato rispetto ai fini legittimi elencati nelle lettere da a) a c) del secondo paragrafo di detta disposizione, ma anche di adottare misure idonee a proteggere la vita delle persone sottoposte alla propria giurisdizione (si vedano, inter alia, C.B. c. Regno Unito, 9 giugno 1998, § 36, Reports of Judgments and Decisions 1998-III, e Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95, § 89, CEDU 2001-III).
  2. La Corte sottolinea inoltre che le persone sotto custodia sono in una posizione di vulnerabilità e le autorità hanno l’obbligo di rendere conto del loro trattamento. La Corte ha ritenuto anche che l’obbligo di tutelare la salute e il benessere delle persone in stato di detenzione comporti evidentemente il dovere di adottare misure ragionevoli per proteggerle da atti di autolesionismo (si vedano Mižigárová c. Slovacchia, 74832/01, § 89, 14 dicembre 2010; Eremiášová e Pechová c. Repubblica ceca, n. 23944/04, § 115, 16 febbraio 2012; e Daraibou c. Croazia, n. 84523/17, § 88, 17 gennaio 2023). Come regola generale il semplice fatto che qualcuno sia deceduto in circostanze sospette mentre era in custodia deve indurre a chiedersi se lo Stato abbia rispettato il suo obbligo di proteggere il diritto alla vita di tale persona (si veda Slimani c. Francia, n. 57671/00, § 27,CEDU 2004-IX (estratti)). Tale obbligo deve essere interpretato in modo che non imponga alle autorità un onere impossibile o sproporzionato, tenendo presenti le difficoltà che si incontrano nel vigilare sulle società moderne, l’imprevedibilità della condotta umana e le scelte operative che devono essere compiute in termini di priorità e di risorse (si vedano, inter alia, Renolde c. Francia, n. 5608/05, § 82, CEDU 2008 (estratti), Shumkova C. Russia, n. 9296/06, § 90, 14 febbraio 2012).
  3. Secondo la Corte, sorge un obbligo positivo laddove sia stato stabilito che le autorità all’epoca dei fatto erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza dell’esistenza di un rischio immediato e reale per la vita di una persona identificata, posto da terzi o dalla persona stessa, e non avevano adottato misure nell’ambito dei loro poteri che si poteva ragionevolmente presumere avrebbero evitato tale rischio (si veda Keenan, sopra citata, § 90, e Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, n. 46477/99, § 55, CEDU 2002‑II; e, mutatis mutandis, Osman, sopra citata, § 116). La Corte ha affermato tuttavia che in alcuni contesti, come per esempio durante la detenzione nei commissariati di polizia, anche quando non era stato stabilito che le autorità erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza dell’esistenza di un tale rischio, esistevano alcune precauzioni basilari che ci si poteva attendere fossero adottate in ogni caso dagli agenti di polizia al fine di minimizzare i potenziali rischi per la salute e il benessere della persona arrestata (si vedano Daraibou, sopra citata, § 84; Fanziyeva c. Russia, n. 41675/08, 48, 18 giugno 2015; Eremiášová e Pechová , sopra citata, § 110; e, mutatis mutandis, Mižigárová, sopra citata, § 89, nonché P.H. c. Slovacchia, n. 37574/19, § 113, 8 settembre 2022).
  4. Per valutare gli elementi probatori la Corte adotta il criterio della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ad ogni modo la prova può derivare anche dalla coesistenza di deduzioni sufficientemente forti, chiare e concordanti o da analoghe presunzioni di fatto non confutate. Qualora gli eventi in questione siano conosciuti integralmente o in gran parte esclusivamente dalle autorità, come nel caso di persone in custodia soggette al loro controllo, sorgono forti presunzioni di fatto riguardo alle lesioni o ai decessi verificatisi nel corso di tale custodia. Si può infatti ritenere che l’onere della prova gravi sulle autorità, che devono fornire una spiegazione soddisfacente e convincente (si vedano, tra molti altri precedenti, Anguelova c. Bulgaria, n. 38361/97,§ 109-11, CEDU 2002-IV).
  5. La Corte ribadisce che, alla luce dell’importanza della tutela accordata dall’articolo 2, essa deve sottoporre le doglianze riguardanti la perdita della vita all’esame più scrupoloso, che tenga conto di tutte le circostanze pertinenti (si veda, tra molti altri precedenti, Kotilainen e altri c. Finlandia, n. 62439/12, 84, 17 settembre 2020).

(b) L’applicazione dei suddetti principi al caso di specie

  1. La Corte anzitutto ritiene che, sebbene non vi siano prove sufficienti per dimostrare che le autorità sapevano, o avrebbero dovuto sapere, dell’esistenza di un rischio reale e immediato che C.C. ingerisse una dose letale di cocaina, dato che egli era stato tratto in arresto in questura, le autorità avessero l’obbligo di adottare precauzioni basilari per minimizzare potenziali rischi alla sua salute e al suo benessere. Oltre a ciò la Corte osserva che nel caso di specie le autorità, quando C.C. era stato tratto in arresto nella questura di Milano, erano in possesso delle seguenti informazioni. In primo luogo, vi erano elementi che indicavano che C.C. non si sentiva bene al momento dell’arresto e che aveva messo in atto comportamenti di natura autolesionistica (si vedano i paragrafi 5, 6 e 21 supra). In secondo luogo, gli agenti operanti avevano riferito che al momento dell’arresto C.C. appariva in condizioni psicofisiche alterate, probabilmente dovute all’assunzione di sostanze stupefacenti (si veda il paragrafo 5supra). In terzo luogo, al momento dell’arresto gli agenti operanti avevano sequestrato un piccolo quantitativo di cocaina (si veda il paragrafo 17 supra). Infine, la Corte prende atto della conclusione del tribunale di primo grado secondo la quale C.C. era noto agli agenti operanti come tossicodipendente (si veda il paragrafo 26 supra). La Corte ritiene che le informazioni appena descritte e note alle autorità dovessero aver loro fornito indicazioni sufficienti per comprendere che C.C. era in una posizione di maggiore vulnerabilità rispetto all’arrestato medio, il che imponeva loro un obbligo di diligenza rafforzato. Di conseguenza la Corte ritiene che, date tali specifiche circostanze, ci si potesse ragionevolmente attendere che, una volta che le autorità avevano determinato di prendere in custodia una persona nelle condizioni di C.C., esse, in considerazione del suo stato, adottassero delle precauzioni basilari supplementari per proteggere la sua salute e la sua integrità fisica.
  2. La Corte procederà all’esame della condotta delle autorità alla luce di tali considerazioni.
  3. La Corte osserva innanzitutto che C.C. nel periodo intercorso tra il suo arresto e il suo decesso non aveva mai ricevuto alcun tipo di assistenza medica, nonostante che secondo le dichiarazioni degli agenti al momento dell’arresto egli non soltanto sembrasse stare male ma manifestasse anche i sintomi di un’intossicazione da stupefacente. La Corte non è persuasa dalla tesi del Governo secondo la quale, data la natura non grave e la breve durata del malessere, non si poteva ritenere irragionevole la decisione delle autorità di non prestare assistenza medica a C.C. La Corte osserva che secondo la descrizione fattane C.C. era probabilmente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, in preda ad attacchi di panico e improvvisi sbalzi d’umore (si veda il paragrafo 5supra). In seguito si era bagnato di sudore, aveva avuto conati di vomito, e un liquido trasparente gli era colato dalla bocca (si veda il paragrafo 6 supra). Alla luce di ciò la Corte non è persuasa del fatto che agenti delle forze dell’ordine, privi di competenze mediche, potessero valutare in maniera attendibile le necessità di assistenza di C.C.
  4. In ordine alle asserite manchevolezze del controllo eseguito sulla persona di C.C. dedotte dalle ricorrenti, la Corte prende atto della dichiarazione del Governo secondo la quale C.C. era stato sottoposto a una perquisizione, citata anche nel procedimento interno e descritta come un controllo dei suoi effetti personali al momento dell’arresto. A sostegno di tale dichiarazione il Governo ha invocato il verbale di sequestro degli agenti operanti (si veda il paragrafo 17 supra) che però non descrive in che modo gli agenti sono giunti al sequestro degli effetti personali di C.C. In proposito la Corte osserva che non vi sono indicazioni sia stato redatto un verbale di perquisizione relativo a C.C. mentre siffatto verbale, come osservato dalle ricorrenti, è presente nel fascicolo in relazione ad un’altra persona arrestata nell’ambito della stessa operazione di polizia (si veda il paragrafo 16 supra). Comunque sia, anche presupponendo che il sequestro degli stupefacenti al momento dell’arresto di C.C. fosse l’esito di un controllo effettuato sulla sua persona, come dichiarato dal Governo, la Corte osserva che, in ogni caso, non vi sono elementi nel fascicolo per ritenere che su C.C. fosse stato eseguito un altro controllo al momento del suo arrivo nella questura di Milano o in qualsiasi altro momento della sua detenzione, durata circa due ore e mezzo. Il Governo non ha presentato alcuna documentazione in grado di modificare tale conclusione.
  5. La Corte prende nota del rilievo del Governo che ritiene che sottoporre C.C. a un’ispezione personale, che esso comunque reputava non giustificata nel caso di specie, avrebbe potuto sollevare questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione in ragione del suo carattere invasivo. La Corte ribadisce che il rispetto della dignità e della libertà umane costituisce l’essenza stessa della Convenzione e che le autorità debbono adempiere ai propri obblighi in maniera compatibile con i diritti e le libertà dell’interessato (si veda Fernandes de Oliveira c. Portogallo [GC], n. 78103/14, 112, 31 gennaio 2019). La Corte ha ritenuto inoltre che le misure che incidono sulla dignità umana e sono adottate senza adeguata giustificazione possano dare origine a questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione, come l’articolo 3 e l’articolo 8 (si veda, mutatis mutandis, Fabris e Parziale c. Italia, n. 41603/13, § 77, 19 marzo 2020). Invero, la Corte ritiene che sarebbe eccessivo esigere che tutte le persone arrestate siano sottoposte, come forma di precauzione basilare adottata di routine, a ispezioni personali per evitare eventi tragici come quello verificatosi nel caso di specie, e concorda sul fatto che un siffatto obbligo potrebbe dare origine a questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione (si veda, per esempio, Van der Ven c. Paesi Bassi,n. 50901/99, §§ 61-62, CEDU 2003-II, in cui prolungate perquisizioni personali di routine senza una giustificazione convincente avevano violato l’articolo 3). Al contempo, tale conclusione non può essere interpretata come se essa dispensasse del tutto le autorità dall’adottare misure per verificare se al momento del suo arrivo nella questura di Milano sulla persona di C.C. fossero presenti oggetti pericolosi o vietati, compresi gli stupefacenti, specialmente in considerazione delle informazioni disponibili (si veda il paragrafo 58 supra) e del fatto che le autorità non avevano fornito assistenza medica a C.C. nonostante il sospetto che fosse sotto l’effetto di droghe. La Corte ritiene che il Governo non abbia presentato argomenti o prove che le consentano di concludere che nel caso di specie suddette misure siano state adottate.
  6. Venendo alla sorveglianza di C. mentre era in custodia e alla questione della sua asserita inadeguatezza, con particolare riguardo alle ammissioni sul suo carattere discontinuo fatte dallo stesso agente di servizio, la Corte osserva anzitutto che gli eventi verificatesi in questura sono conosciuti esclusivamente dalle autorità e che i soli documenti ad essi relativi presenti nel fascicolo sono un rapporto e una dichiarazione redatti dall’agente che era responsabile della camera di sicurezza la notte dei fatti in questione (si vedano i paragrafi 8 e 9 supra). In quest’ultimo documento, una dichiarazione rilasciata al pubblico ministero oltre un anno dopo gli eventi, l’agente aveva dichiarato che non aveva prestato C.C. un’attenzione continua sebbene, aveva aggiunto, per prassi dovesse sempre essere presente un agente (si veda il paragrafo 9 supra). Nel fascicolo non vi sono elementi che chiariscano se tale prassi era effettivamente seguita all’epoca dei fatti contestati. Inoltre, non vi è alcuna indicazione che i tre agenti che secondo il rapporto erano in servizio ma che l’agente dichiarante non era stato in grado di identificare siano stati interrogati dal pubblico ministero.
  7. La Corte è memore del fatto che si devono interpretare gli obblighi positivi in modo tale che non impongano un onere sproporzionato alle autorità e invero non intende suggerire l’idea che un singolo agente avrebbe dovuto dedicare tutta la sua attenzione a C.C. per tutto il tempo della sua detenzione. Ciò detto, tenuto conto degli elementi a conoscenza delle autorità (si veda il paragrafo 58 supra), nonché del fatto che a C.C. non era stata prestata assistenza medica e non erano stati effettuati controlli sulla sua persona al suo arrivo in questura, le autorità avrebbero dovuto sorvegliarlo applicando una vigilanza rafforzata. La Corte ritiene che il Governo non abbia presentato argomenti o prove soddisfacenti e convincenti per controbattere le deduzioni delle ricorrenti corroborate da prove prima facie, secondo le quali C.C. non era stato sorvegliato in modo adeguato mentre era detenuto.
  8. Alla luce di tale quadro, la Corte conclude che il Governo non ha dimostrato in modo convincente che le autorità abbiano offerto a C.C. una protezione adeguata e ragionevole della vita come prescritto dall’articolo 2 della Convenzione. Vi è stata conseguentemente violazione di tale disposizione.
  1. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
  1. L’articolo 41 della Convenzione recita:

“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.”

  1. Danno
  1. La prima ricorrente ha chiesto 142.774,50 euro (EUR) per il danno patrimoniale e EUR 71.387,25 per il danno non patrimoniale. La seconda ricorrente ha chiesto EUR 479.748,98 per il danno patrimoniale e EUR 132.000 per il danno non patrimoniale, e la terza ricorrente ha lasciato la determinazione della somma da accordare alla discrezione della Corte.
  2. Il Governo ha contestato tali somme. In particolare ha sostenuto che la seconda e la terza ricorrente avevano ricevuto un risarcimento dal Tribunale distrettuale di Milano e, benché la sentenza di primo grado fosse stata ribaltata, non lo avevano restituito.
  3. La Corte ritiene che le ricorrenti non abbiano sufficientemente corroborato le richieste di danno patrimoniale e quindi non accorda nulla a tale titolo. Al contempo ritiene che esse debbano aver sofferto un danno non patrimoniale che non può essere risarcito soltanto con la constatazione di violazione. Deliberando in via equitativa, la Corte accorda alle ricorrenti in solido EUR 30.000 per il danno non patrimoniale, oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta.
  1. Spese
  1. Le ricorrenti, cui è stato concesso il gratuito patrocinio nel procedimento dinanzi la Corte, non hanno presentato richieste di spese in relazione a esso.
  2. Per quanto riguarda le spese per il procedimento interno, la prima ricorrente ha presentato fatture relative alle spese legali sostenute nel procedimento dinanzi al Tribunale distrettuale di Milano per un ammontare totale di EUR 16.530,64 e, a nome suo e della seconda ricorrente, fatture per un ammontare totale di EUR 34.971,75 relative alle spese legali connesse al procedimento dinanzi alla Corte di appello di Milano. La terza ricorrente ha presentato fatture per un ammontare totale di EUR 44.180,64 relative alle spese sostenute nel procedimento di primo e di secondo grado.
  3. Il Governo ha ritenuto eccessivi tali importi.
  4. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente ha diritto al rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, tenuto conto della documentazione in suo possesso e dei criteri di cui sopra, la Corte ritiene appropriato accordare alle ricorrenti, in solido, la somma di EUR 10.000 per le spese sostenute nel procedimento interno, oltre l’importo eventualmente da loro dovuto a titolo di imposta su tale cifra.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,

  1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile;
  2. Ritiene, con 6 voti contro 1, che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione;
  3. Ritiene, con 6 voti contro 1,
    1. che lo Stato convenuto debba versare alle ricorrenti, in solido, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
      1. EUR 30.000 (trentamila euro), oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno non patrimoniale;
      2. EUR 10.000 (diecimila euro), oltre l’importo eventualmente dovuto dalle ricorrenti a titolo di imposta, per le spese;
    2. che a decorrere da detto termine e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, maggiorato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione delle ricorrenti per il resto.

Fatta in inglese e notificata per iscritto il 14 settembre 2023, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento della Corte.

Marko Bošnjak
Presidente

Renata Degener
Cancelliere

Conformemente all’articolo 45 § 2 della Convenzione e all’articolo 74 § 2 del Regolamento della Corte, è allegata alla presente sentenza l’opinione separata del giudice Bošnjak.

M.B.
R.D.

OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE BOŠNJAK

  1. Dissento rispettosamente dalla conclusione della maggioranza che nel caso di specie vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione in ragione dell’asserita inadeguata protezione della vita del congiunto delle ricorrenti, C.C., durante la sua detenzione.
  2. Le parti non hanno negato che il decesso di C.C. non fosse la conseguenza di una violenza esercitata dalla polizia o di qualsiasi altro atto compiuto dalle autorità. Il procedimento interno ha stabilito che C.C. era deceduto a causa di un’intossicazione acuta da cocaina, poiché egli ne aveva ingerito una dose letale subito prima del suo decesso, mentre si trovava in bagno. Secondo le conclusioni della Corte di appello di Milano, era stato in quel momento che C.C. aveva potuto utilizzare la mano libera per ingerire la cocaina che era stata nascosta in precedenza da qualche parte sulla sua persona (si veda il paragrafo 36 della sentenza).
  3. Le ricorrenti hanno asserito che il decesso di C.C. era stato causato da una serie di omissioni da parte delle autorità. In primo luogo, invece di trarlo in arresto gli agenti operanti avrebbero dovuto condurlo in ospedale. In ogni caso, C.C., mentre era detenuto, non aveva ricevuto un’adeguata assistenza medica. In secondo luogo, le autorità avrebbero dovuto perquisirlo, il che avrebbe loro consentito di rinvenire e sequestrare lo stupefacente che egli aveva poi ingerito. In terzo luogo, egli non era stato sorvegliato in maniera adeguata dagli agenti di polizia mentre era detenuto.
  4. La maggioranza della Camera, sia pure con qualche cautela, concorda con quanto sopra esposto. Osserva che a C.C. non era stato prestato alcun tipo di assistenza medica e che, al suo arrivo alla questura di Milano, non era stato effettuato alcun controllo sulla sua persona per verificare l’eventuale presenza di sostanze stupefacenti. Infine la maggioranza sottolinea che gli agenti di polizia responsabili non avevano prestato una continua attenzione a C.C., nonostante il fatto che un agente avrebbe dovuto essere sempre presente (si vedano i paragrafi 60-63 della sentenza).
  5. Sebbene gli eventi del caso di specie siano indubbiamente tragici, essi non dovrebbero mettere in secondo piano la necessità di un’approfondita analisi giuridica della doglianza delle ricorrenti. Per quanto mi risulta la Corte deve ancora pronunciarsi sulla questione di sapere quando un’asserita omissione da parte delle autorità statali costituisca inosservanza dell’obbligo positivo dell’alta Parte contraente di proteggere il diritto alla vita e debba quindi dare luogo a una pronuncia di violazione dell’articolo 2 della Convenzione. Osservo con rammarico che la Camera nella presente causa si è lasciata sfuggire l’occasione di chiarire questo punto.
  6. Lo scopo della presente opinione dissenziente non è quello di offrire un insieme pienamente elaborato di principi e una metodologia di esame delle doglianze del tipo presentato nel caso di specie. Desidero tuttavia sottolineare che un lungo e tortuoso percorso giuridico separa la deduzione di omissione dalla conclusione che tale omissione si è effettivamente verificata ed è stata la causa del tragico esito di cui lo Stato convenuto deve essere ritenuto responsabile. Come minimo occorre stabilire a) se le autorità statali avessero il dovere di agire in un determinato modo nelle circostanze in esame, b) se le autorità statali abbiano omesso di agire in modo conforme a tale dovere e c) se, qualora le autorità statali avessero adempiuto a tale dovere, il decesso sarebbe stato evitato.
  7. Tenendo presente tutto ciò, ritengo la posizione della maggioranza poco convincente. In primo luogo, in ordine all’asserita omissione di assistenza medica, osservo che le perizie accettate dalla Corte di appello di Milano respingevano la tesi delle ricorrenti secondo la quale lo stato di salute di C.C. richiedeva un immediato intervento medico (si veda il paragrafo 34 della sentenza). Ritengo perciò che la posizione espressa dalla maggioranza al paragrafo 60 della sentenza sia incompatibile con le conclusioni di fatto dei tribunali interni, disattese senza spiegarne il motivo. Soprattutto, la conclusione della Corte di appello di Milano non corrobora la tesi delle ricorrenti che sussistesse un obbligo di ricoverare C.C. (invece di arrestarlo) o che, come minimo, egli avrebbe dovuto ricevere assistenza medica mentre era in custodia. Anche ammettendo l’esistenza di un obbligo nel caso di specie di fornire assistenza medica durante la detenzione, risulta difficile comprendere in che modo essa per se avrebbe potuto impedire che C.C. ingerisse la dose letale di cocaina che aveva tenuto nascosta e che, secondo le conclusioni dei tribunali interni, aveva assunto mentre si trovava in bagno.
  8. In secondo luogo, per quanto riguarda l’asserita omessa perquisizione, è difficile comprendere a che tipo di perquisizione di riferiscono le ricorrenti e la maggioranza. Tralasciando tale mancanza di chiarezza, risulta che la legge italiana non impone l’obbligo di perquisire le persone arrestate. Inoltre si può ragionevolmente presumere che C.C. sia stato perlomeno perquisito superficialmente, dato che, inter alia, dal suo portafoglio, che si trovava nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, era stata tratta una banconota ripiegata contenente una sostanza somigliante alla cocaina. Tale perquisizione superficiale o “controllo degli oggetti indossati o portati sulla persona” (si veda il paragrafo 52) era ovviamente insufficiente a scoprire la presenza di un’altra dose di cocaina che con ogni probabilità C.C. aveva nascosto in modo tale che si sarebbe potuta rinvenire solo grazie a un’ispezione personale. Tuttavia, secondo la mia interpretazione, la maggioranza ha espressamente (e correttamente) respinto l’idea che esista l’obbligo di sottoporre tutte le persone arrestate, come forma di precauzione basilare adottata di routine, a ispezioni personali per evitare eventi tragici come quello verificatosi nel caso di specie, in quanto tali ispezioni personali potrebbero dare origine a questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione (si veda il paragrafo 62 della sentenza). La maggioranza sottolinea piuttosto che C.C., al suo arrivo alla questura di Milano, non era stato controllato per verificare la presenza di sostanze stupefacenti, ma risulta difficile comprendere come tale “controllo” avrebbe consentito di far scoprire qualcosa di più della perquisizione superficiale eseguita in precedenza immediatamente dopo l’arresto, quando, in ogni caso, era stata rinvenuta una sostanza somigliante alla cocaina. In breve, io non riscontro alcun obbligo giuridico di perquisire C.C. che sarebbe stato violato dalle autorità nel caso di specie.
  9. Infine, la maggioranza dubita che la sorveglianza di C.C. sia stata continua e sottolinea la dichiarazione dell’agente responsabile della camera di sicurezza che aveva affermato che uno di loro (cioè degli agenti) doveva essere sempre presente nel posto di controllo. Benché possa certamente sussistere l’obbligo della presenza nel posto di controllo di un agente che sorveglia la camera di sicurezza tutto il tempo e possa esservi stata un’incompleta osservanza di tale obbligo, fatico a comprendere la rilevanza di tale fatto nel caso di specie. In particolare, secondo la conclusione fattuale della Corte di appello, C.C. con ogni probabilità aveva ingerito la dose letale di cocaina nel bagno e non nella camera di sicurezza, dove aveva entrambe le mani ammanettate. Pertanto, in base al criterio c) indicato al paragrafo 6 della presente opinione dissenziente, è impossibile concludere che, qualora un agente avesse costantemente presidiato il posto di controllo, C.C. non avrebbe potuto ingerire lo stupefacente nascosto e il suo decesso sarebbe stata così evitato.
  10. Sulla base di quanto sopra esposto, pur con tutto il mio più profondo rispetto per le ricorrenti che hanno perduto uno stretto congiunto, non posso concludere che sussistono argomenti convincenti per ritenere lo Stato convenuto responsabile del decesso di C.C.

APPENDICE

Elenco delle ricorrenti:

N.

Nominativo della ricorrente

Anno di nascita

Nazionalità

Luogo di residenza

1.

Rosalba AINIS

1974

italiana

Milano

2.

Nancy CALOGERO

1994

italiana

Milano

3.

Giuseppa DAMMICELA

1946

italiana

Milano