Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'8 giugno 2023 - Ricorso n. 46530/09 - Causa Urgesi e altri c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita e rivista dalla sig.ra Rita Carnevali, assistente linguistico, e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE
CAUSA URGESI E ALTRI c. ITALIA
(Ricorso n. 46530/09)

SENTENZA

Art 6 § 1 (civile) • Mancanza di imparzialità della corte d’appello che si è pronunciata nell’ambito di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione • Giudice relatore del collegio che ha deciso sull’applicazione delle misure di prevenzione, che in precedenza ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero nell’ambito di un processo penale in appello • Questioni, sottoposte all’esame di questo giudice in ciascuno dei due procedimenti nei confronti di tutti i ricorrenti, sostanzialmente identiche o, quanto meno, strettamente connesse • Timori degli interessati oggettivamente giustificati • Corte di cassazione che non ha posto rimedio a questa carenza del procedimento

STRASBURGO

8 giugno 2023

DEFINITIVA

08/09/2023

Questa sentenza è divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Urgesi e altri c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:

Marko Bošnjak, presidente,
Péter Paczolay,
Alena Poláčková,
Lətif Hüseynov,
Gilberto Felici,
Erik Wennerström,
Raffaele Sabato, giudici,
e da Renata Degener, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso (n. 46530/09) proposto contro la Repubblica italiana da otto cittadini di questo Stato, i sigg. Roberto Urgesi, Vincenzo Albano, Giuseppe Florio, le sigg.re Lucia Boccuni, Assunta Esposito, Maria Fanelli, il sig. Ciro Florio e la sig.ra Filomena Spinelli («i ricorrenti»), che il 17 agosto 2009 hanno adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),

Vista la decisione di portare a conoscenza del governo italiano («il Governo»), le doglianze riguardanti il diritto a un’udienza pubblica e all’imparzialità dei giudici, e di dichiarare il ricorso irricevibile per il resto,

Viste le osservazioni delle parti,

Viste le dichiarazioni del governo convenuto, che invita la Corte a cancellare il ricorso dal ruolo per quanto riguarda la doglianza fondata sull’articolo 6 della Convenzione relativamente all’assenza di un’udienza pubblica, nonché le risposte dei ricorrenti a queste dichiarazioni,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 16 maggio 2023,

Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. La causa riguarda, dal punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, la pubblicità delle udienze tenute nell’ambito di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione, nonché l’imparzialità della corte d’appello che si è pronunciata nello stesso contesto.

IN FATTO

  1. L’elenco dei ricorrenti, cittadini italiani residenti a Taranto, è riportato nell’allegato. I ricorrenti sono stati rappresentati dall’avv. L. Esposito, del foro di Taranto.
  2. Il Governo è stato rappresentato dai suoi co-agenti, P. Accardo e G. Civinini.
  1. IL PROCEDIMENTO PENALE
  1. Con una sentenza emessa il 18 luglio 2000, il tribunale di Taranto condannò una parte dei ricorrenti, ovvero i sigg. Urgesi, Albano e G. Florio (indicati con i numeri 1-3 nell’elenco allegato), nell’ambito di un processo chiamato caso «Cahors», che riguardava diverse attività delittuose commesse da un’associazione per delinquere che operava in Puglia. I suddetti ricorrenti erano accusati di usura, nonché, per quanto riguarda il sig. Urgesi, di appartenenza a un’associazione per delinquere, e, per quanto riguarda i sigg. Albano e G. Florio, in particolare di appartenenza a un’associazione di tipo mafioso e di estorsione.
  2. Nel corso del procedimento di appello, il sig. Florio concluse una transazione penale, che fu omologata dalla corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto il 3 luglio 2002. Con questa sentenza, la corte d’appello ordinò anche la confisca di alcuni dei beni dell’interessato.
  3. Il processo di appello dei sigg. Albano e Urgesi si svolse in pubblica udienza, e la loro condanna fu confermata da una sentenza emessa dalla suddetta corte d’appello il 21 febbraio 2003. Questa sentenza divenne definitiva a seguito di una sentenza della Corte di cassazione del 14 dicembre 2009.
  4. U.M. ricopriva il ruolo di procuratore nel corso dei suddetti procedimenti di appello. In tale veste, U.M. concluse la transazione con il sig. G. Florio e chiese la conferma delle condanne dei sigg. Albano e Urgesi.
  1. IL PROCEDIMENTO PER L’APPLICAZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE
  1. Il 27 settembre 2000 la procura di Taranto aveva peraltro avviato, contro gli stessi ricorrenti, un procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione previste dalle leggi n. 1423 del 27 dicembre 1956 (la «legge n. 1423/1956») e n. 575 del 31 maggio 1965 (la «legge n. 575/1965»).
  2. Con decreto depositato in cancelleria il 24 giugno 2002, il tribunale di Taranto – Ufficio misure di prevenzione, decise di sottoporre i ricorrenti indicati con i numeri 1-3 alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Ordinò anche la confisca di beni appartenenti a questi ultimi e ai ricorrenti indicati nell’allegato con i numeri 4-8, ossia, a seconda del caso, alle loro mogli, ai loro genitori e ai loro fratelli.
  3. Per quanto riguarda i sigg. Albano e G. Florio, le misure di prevenzione erano fondate essenzialmente su alcuni elementi che indicavano che questi ultimi avevano commesso il reato di appartenenza a un'associazione di tipo mafioso, ai sensi dell'articolo 1 della legge n. 575/1965, e, per quanto riguarda il sig. Urgesi, su elementi che indicavano che quest’ultimo aveva commesso altri reati, in particolare il reato di usura, ai sensi dell'articolo 14 della legge n. 55 del 19 marzo 1990. Il tribunale fece principalmente riferimento alla sentenza emessa in primo grado nella causa «Cahors», citando altre accuse pendenti, e ad alcune precedenti condanne degli interessati.
  4. Quanto ai ricorrenti indicati nell’allegato con i numeri 4-7, la confisca dei loro beni derivava dalla constatazione, operata anche mediante presunzioni, che alcuni beni formalmente registrati a loro nome appartenevano in realtà ai ricorrenti indicati con i numeri 1-3.
  5. In date imprecisate, i ricorrenti interposero appello contro il suddetto decreto.
  6. Il collegio della corte d'appello di Lecce che fu chiamato a pronunciarsi sull'appello era composto da un presidente, dal giudice U.M., che partecipava in qualità di relatore, e da un terzo giudice.
  7. Durante l'udienza dell'11 ottobre 2004, alcune parti del procedimento chiesero a U.M. di astenersi, ai sensi dell'articolo l’articolo 36, comma 1, lett. h), del codice di procedura penale («CPP»), dall’esame della causa, sostenendo che, in precedenza, U.M. aveva esercitato la funzione di sostituto procuratore generale nella causa «Cahors», e che i fatti oggetto del procedimento penale e quelli oggetto del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione erano sostanzialmente identici.
  8. Il 12 ottobre 2004 il giudice U.M. chiese al presidente della Corte d'appello l'autorizzazione ad astenersi, facendo valere, come «gravi ragioni di convenienza» ai sensi della suddetta norma, che la domanda della Procura di applicare delle misure di prevenzione e la decisione del tribunale di confiscare dei beni si fondavano essenzialmente sui fatti oggetto della causa «Cahors», nell'ambito della quale, agendo in qualità di procuratore, aveva invitato la corte d'appello a confermare la sentenza di condanna emessa dal tribunale.
  9. Il 27 ottobre 2004 il presidente della corte d'appello respinse la domanda in quanto le circostanze del caso di specie non rientravano in nessuno dei casi di astensione previsti dalla legge.
  10. Con decreto del 16 novembre 2007, depositato in cancelleria il 26 novembre 2007, la corte d'appello confermò il provvedimento del tribunale di Taranto del 24 giugno 2002. In particolare, essa ritenne che la pericolosità dei primi tre ricorrenti fosse accertata in relazione, principalmente, alle condanne che erano state pronunciate nei loro confronti in primo grado e in appello nella causa «Cahors».
  11. Per quanto riguarda i sigg. Albano e G. Florio, la corte d'appello ritenne, in particolare, che la condizione relativa all'esistenza di indizi riguardanti il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso fosse soddisfatta nel caso di specie. A tale riguardo, la corte d’appello indicò quanto segue:

«[La corte d’appello concluse che sussistevano] seri indizi, ormai probanti, [...] circa la loro partecipazione all’associazione criminale di tipo mafioso diretta dalla famiglia S., partecipazione per la quale gli stessi sono stati accusati nel processo penale n. 8070/95, [detto di] «Cahors», e condannati in primo e secondo grado, di modo che non è necessaria nessun’altra considerazione, sebbene il tribunale abbia anche elencato in dettaglio tutte le altre condanne e accuse pendenti relative a ciascun imputato.»

  1. Per quanto riguarda il sig. Urgesi, la corte d’appello fece riferimento alla condanna pronunciata contro di lui in appello nel processo «Cahors», e dichiarò quanto segue:

«tenuto conto delle condanne penali e delle accuse pendenti [...] nonché di quest'ultima condanna, che è estremamente significativa, si può considerare accertata la pericolosità sociale qualificata di cui all'articolo 14 della legge 55/90».

  1. I ricorrenti presentarono ricorso per cassazione, eccependo a titolo principale la nullità del decreto della corte d'appello in ragione della presenza del giudice U.M. nel collegio giudicante. In subordine, eccepirono l’incostituzionalità delle disposizioni di diritto interno pertinenti, sostenendo che queste ultime non prevedevano, tra le cause di nullità di una sentenza, la mancanza di imparzialità di un giudice che ha esercitato, in precedenza, le funzioni di sostituto procuratore generale in un processo che era a carico delle stesse persone e che riguardava gli stessi fatti della sentenza considerata. Inoltre, i ricorrenti chiesero che la causa fosse esaminata in pubblica udienza.
  2. Con sentenza emessa il 18 febbraio 2009, depositata in cancelleria il 23 marzo 2009, la Corte di cassazione respinse il ricorso. Per quanto riguarda il motivo relativo alla mancanza di imparzialità della corte d'appello, essa considerò, da una parte, che le requisitorie di un procuratore non pregiudicavano in alcun modo l'esito di una causa e, dall'altra, che le valutazioni effettuate rispettivamente nell'ambito del procedimento penale e di quello di prevenzione riguardavano oggetti distinti, vale a dire la responsabilità penale degli imputati per il primo e la loro pericolosità sociale per il secondo, e, di conseguenza, ritenne che non vi fosse alcun problema di incompatibilità tra il ruolo di procuratore nel processo penale e quello di giudice nel procedimento di prevenzione.
  3. Il procedimento relativo all’applicazione delle misure di prevenzione si svolse in camera di consiglio, conformemente al diritto interno vigente all’epoca dei fatti.

IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

  1. DISPOSIZIONI IN MATERIA DI MISURE DI PREVENZIONE
  1. La legge n. 1423/1956, in vigore all'epoca dei fatti, prevedeva che le misure di prevenzione personali, come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, si applicassero nei confronti di «persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità».
  2. L’articolo 1 della legge n. 1423/1956 disponeva, in particolare, che le che suddette misure di prevenzione si applicavano a coloro che presentavano una «pericolosità generica», cioè, principalmente, alle seguenti persone:

«1) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;

2) coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di attività delittuose; [...]

  1. La legge n. 575/1965 ha esteso il campo di applicazione delle misure in questione alle persone sospettate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso («pericolosità qualificata»).
  2. Inoltre, l’articolo 2 ter della legge n. 575/1965, come modificata nel 1982, ha introdotto la misura di prevenzione patrimoniale della confisca dei beni. Nella sua parte pertinente nel caso di specie, la disposizione è così formulata:

«il tribunale, anche d'ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza. (...)».

  1. L’articolo 19 della legge n. 152 del 22 maggio 1975 prevede che le disposizioni relative alle misure di prevenzione contenute nella legge n. 575/1965 si applicano anche alle persone che presentano una «pericolosità semplice». Tuttavia, secondo l’articolo 14 della legge n. 55 del 19 marzo 1990, che è stato modificato più volte prima di essere abrogato nel 2008, l’applicazione delle misure patrimoniali era limitata, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti, alle persone sospettate di aver commesso taluni delitti, fra cui l’usura e l’estorsione.
  2. Ai sensi degli articoli 4 della legge n. 1423/1956 e 3 ter della legge n. 575/1965, le decisioni relative all'applicazione delle misure di prevenzione possono essere impugnate dinanzi alla corte d'appello. Le decisioni della corte d'appello possono, invece, essere impugnate solo in caso di violazione della legge.
  3. Per quanto riguarda lo svolgimento delle udienze, gli articoli 4 della legge n. 1423/1956 e 2 ter della legge n. 575/1965 prevedevano che la decisione dei giudici che si pronunciavano su tali misure fosse presa in camera di consiglio. Tuttavia, con la sentenza n. 93 dell'8 marzo 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali tali disposizioni in quanto non consentivano agli interessati di richiedere che il procedimento si svolgesse, dinanzi al tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell’udienza pubblica.
  4. La legislazione relativa alle misure di prevenzione personali e patrimoniali è stata riunita in un unico testo dal decreto legislativo n. 159 del 6 settembre 2011 («codice antimafia»).
  1. DISPOSIZIONI IN MATERIA DI IMPARZIALITA' DEI TRIBUNALI
  1. Ai sensi dell'articolo 36 CPP, un giudice ha l’obbligo di astenersi, in particolare se si trova in una delle situazioni di incompatibilità previste dall'articolo 34 CPP in ragione di altre funzioni che lo stesso ha esercitato nel corso del medesimo procedimento (articolo 36, comma 1, lett. g), CPP), o nel caso di cui all'articolo 36, comma 1, lett. c), CPP qualora abbia espresso pareri fuori dell'esercizio delle sue funzioni, e, infine, se esistono altre «gravi ragioni di convenienza» (articolo 36, comma 1, lett. h), CPP).
  2. La dichiarazione di astensione deve essere presentata al presidente del tribunale o della corte d'appello competenti nel merito della causa. Il presidente si pronuncia sulla domanda con decreto. Tenuto conto della natura amministrativa e non giurisdizionale della procedura di astensione, il diritto interno non prevede alcun ricorso (si vedano, tra altre, Corte di cassazione, ordinanza n. 734 del 2000 e Corte di cassazione, sentenza n. 33356 del 2008).
  1. Precedente esercizio delle funzioni di giudice
  1. L’espressione nell’ambito di un altro procedimento di pareri sui fatti oggetto del procedimento in esame non costituisce, in linea di principio, un motivo di astensione, in quanto l’articolo 36 CPP riguarda, in particolare, i casi di pareri espressi fuori dell’esercizio delle funzioni e i casi in cui esistono «gravi ragioni di convenienza» (paragrafo 31 supra).
  2. Tuttavia, con sentenza n. 113 del 2000, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’articolo 36, comma 1, lett. h), CPP dovesse essere interpretato nel senso che esso include la situazione nella quale una mancanza di imparzialità deriva dall'esercizio, da parte di un giudice, di funzioni che ha svolto nell'ambito di un altro procedimento.
  3. Inoltre, secondo la Corte di cassazione, in questo caso, il mezzo di diritto appropriato per far valere una mancanza di imparzialità oggettiva è, in linea di principio, la domanda di ricusazione, e non un ricorso per cassazione sul merito (si vedano i riferimenti nella causa Morabito c. Italia (dec.), n. 21743/07, 27 aprile 2010).
  4. La dichiarazione di ricusazione deve essere proposta nell’udienza preliminare, fino a che non siano conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (articolo 38, comma 1, CPP).
  5. Il giudice può essere ricusato da una delle parti, in particolare, nel caso di cui all’articolo 36, comma 1, lett. g), CPP (articolo 37, comma 1, lett. a), CPP) e nel caso di opinioni indebitamente espresse sui fatti oggetto dell’imputazione (articolo 37, comma 1, lett. b), CPP). Di conseguenza, ai sensi delle disposizioni pertinenti del CPP, neanche l’espressione da parte di un giudice, nell’ambito di un altro procedimento, di pareri sui fatti oggetto del procedimento in esame costituisce, in linea di principio, un motivo di ricusazione (si veda, in particolare, Corte di cassazione, sentenza n. 3044 del 1997).
  6. Tuttavia, con sentenza n. 283 del 2000, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 37, comma 1, nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato un giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità penale di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto. Detta sentenza è stata pronunciata in merito a una causa nella quale un giudice aveva, in precedenza, deciso l'applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle stesse persone per le quali era chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale.
  7. Inoltre, nella sentenza n. 1634 del 2015, la Corte di cassazione ha constatato l'esistenza di un conflitto di giurisprudenza sull'applicabilità al procedimento relativo all'applicazione delle misure di prevenzione delle disposizioni in materia di ricusazione. Secondo una prima corrente giurisprudenziale, considerata maggioritaria, dette disposizioni costituiscono delle norme eccezionali previste specificamente per il processo penale, e pertanto, non possono applicarsi alle procedure di prevenzione. La sentenza cita, in base alle decisioni che adottano tale analisi, le sentenze n. 807 del 1989, n. 22960 del 2008, n. 2821 del 2009, n. 15834 del 2009 e n. 35555 del 2013. In relazione alla seconda corrente, sviluppatasi a partire dal 2008, le disposizioni relative alla ricusazione dei giudici sono applicabili anche alla procedura di prevenzione, tenuto conto della natura giurisdizionale di quest'ultima. Nell’ambito di questa linea giurisprudenziale, la Corte di cassazione cita le sentenze n. 3278 del 2009 e n. 32077 del 2014, alle quali possono essere aggiunte le sentenze n. 32492 del 2015 e n. 15979 del 2016, che sono state citate dal Governo nel presente procedimento.
  8. Il conflitto in questione è stato recentemente risolto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 25951, depositata in cancelleria il 6 luglio 2022, con la quale la Suprema Corte si è pronunciata a favore dell'applicabilità, alle procedure di prevenzione, delle disposizioni relative alla ricusazione nei casi in cui un giudice abbia già espresso, nell'ambito di un altro procedimento, di prevenzione o penale, un parere sui fatti e sulle persone in causa. La sentenza si fonda, in particolare, sulla considerazione che la pericolosità di una persona può essere accertata, ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione, soprattutto con riferimento ai pareri espressi in merito alla sua responsabilità penale.
  1. Precedente esercizio delle funzioni di pubblico ministero
  1. L’articolo 34, comma 3, CPP prevede i casi di esercizio successivo delle funzioni di pubblico ministero e di giudice, e dispone che il magistrato che ha esercitato la funzione di pubblico ministero non può partecipare in qualità di giudice nel medesimo procedimento.

IN DIRITTO

  1. SULLA DICHIARAZIONE UNILATERALE RELATIVA ALL’ASSENZA DI UN’UDIENZA PUBBLICA
  1. Il 16 gennaio 2018 il Governo ha formulato una dichiarazione unilaterale relativa alla doglianza basata sull'articolo 6 della Convenzione riguardante l’assenza di pubblicità delle udienze che si sono tenute nell'ambito della procedura di prevenzione. Inoltre, il Governo ha invitato la Corte a cancellare questa parte del ricorso dal ruolo, conformemente all'articolo 37 della Convenzione.
  2. Il 13 febbraio 2018 i ricorrenti hanno informato la Corte che sottoscrivevano i termini della dichiarazione, a condizione che fosse resa pubblica.
  3. Il 27 settembre 2018 il Governo ha trasmesso alla Corte una dichiarazione unilaterale modificata, al fine di accordare ai ricorrenti il rimborso dell'importo dovuto a titolo di imposta per le spese del procedimento. La dichiarazione prevedeva quanto segue:

Il Governo italiano riconosce che i ricorrenti hanno subìto la violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, conformemente ai principi espressi dalla Corte (sentenza del 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, ricorso n. 399/02; sentenza dell'8 luglio 2008, Perre e altri c. Italia, n. 1905/05; sentenza del 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07), per il fatto che, all'epoca in cui si è svolto il procedimento, i ricorrenti non avevano la possibilità di chiedere un'udienza pubblica dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello.

Il Governo italiano, per porre rimedio alla violazione, offre, oltre alla constatazione di violazione, la somma di 600 € per le spese del procedimento, più l'importo eventualmente dovuto dai ricorrenti a titolo di imposta su tale somma.

Questo importo sarà versato entro tre mesi dalla data della notifica della decisione della Corte emessa conformemente all’articolo 37 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se il pagamento non avvenisse entro tale termine, il Governo si impegna a corrispondere, a decorrere dalla scadenza dello stesso e fino al versamento effettivo delle somme in questione, un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali. Con questo versamento la causa si considererà definitivamente conclusa.

Il Governo italiano ritiene che il riconoscimento della violazione e l'offerta dell'importo per le spese del procedimento costituiscano una riparazione adeguata alla luce della sentenza Rizza e Bocellari, conformemente alla decisione del 13 maggio 2014, Frascati c. Italia, n. 5382/08, e del 22 settembre 2016 Pesce c. Italia n. 39272/08.

Inoltre, il Governo italiano ritiene che non sia più giustificato proseguire l'esame del ricorso, in quanto, con la sentenza n. 93 del 12 marzo 2010, la Corte Costituzionale italiana, sulla base dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, come applicato dalla Corte nelle sentenze sopra citate, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni relative al procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali (art. 4 L. n. 1423/1956 e art. 2 ter L. 575/1965), in quanto non riconoscono agli interessati il diritto di chiedere lo svolgimento del procedimento in udienza pubblica.

Di conseguenza, il Governo italiano chiede rispettosamente alla Corte di dichiarare che la prosecuzione dell’esame di questa parte del ricorso non è più giustificata e di cancellare il ricorso dal ruolo conformemente all'articolo 37 della Convenzione.

  1. Il 27 ottobre 2018 i ricorrenti hanno informato la Corte che ritenevano che il Governo non avesse fornito garanzie circa la pubblicità della dichiarazione, e che, di conseguenza, non accettavano i termini di quest’ultima.
  2. La Corte rammenta che l’articolo 37 § 1 c) della Convenzione le consente di cancellare una causa dal ruolo se:

«(...) per ogni (...) motivo di cui [essa] accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata».

Pertanto, in virtù di questa disposizione, la Corte può cancellare dei ricorsi dal ruolo sulla base di una dichiarazione unilaterale del governo convenuto anche se i ricorrenti desiderano che l'esame della loro causa prosegua (si veda, in particolare, la sentenza Tahsin Acar c. Turchia (questione preliminare) [GC], n. 26307/95, §§ 75-77, CEDU 2003-VI).

  1. La Corte ha stabilito, in un certo numero di cause contro l'Italia, la natura e la portata dell'obbligo, per lo Stato convenuto, di riconoscere ai singoli cittadini il diritto di chiedere un'udienza pubblica nell’ambito dei procedimenti relativi all'applicazione di misure di prevenzione (tra altre, Bocellari e Rizza c. Italia, n. 399/02, 13 novembre 2007, Perre e altri c. Italia, n. 1905/05, 8 luglio 2008, Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07, 5 gennaio 2010, Leone c. Italia, n. 30506/07, 2 febbraio 2010 e Capitani e Campanella, n. 24920/07, 17 maggio 2011). Nelle suddette cause, la Corte, quando ha concluso che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, ha ritenuto che la constatazione di violazione costituisse un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subìto dai ricorrenti (Frascati c. Italia (dec.), n. 5382/08, § 20, 13 maggio 2014, e Cacucci e Sabatelli c. Italia (dec.), n. 29797/09, § 12, 25 agosto 2015).
  2. La Corte, tenuto conto della natura delle concessioni contenute nella dichiarazione del Governo, nonché dell'importo proposto per le spese – che considera ragionevole –, ritiene che non sia più giustificato proseguire l'esame della parte del ricorso in questione (articolo 37 § 1 c)).
  3. Inoltre, tenuto conto della riforma legislativa intervenuta a livello interno (paragrafo 29 supra), che rende poco probabile il ripetersi di casi simili e, soprattutto, l'esistenza di una giurisprudenza europea chiara e copiosa sulla questione sollevata da tale doglianza, la Corte conclude che il rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non richiede che essa prosegua l'esame di questa parte del ricorso (articolo 37 § 1 in fine).
  4. Infine, la Corte sottolinea che, qualora il Governo non rispetti i termini della sua dichiarazione unilaterale, questa parte del ricorso potrebbe essere nuovamente iscritta a ruolo ai sensi dell'articolo 37 § 2 della Convenzione (Josipović c. Serbia (dec.), n. 18369/07, 4 marzo 2008).
  5. Tenuto conto di quanto precede, deve essere cancellata dal ruolo la parte del ricorso che riguarda la doglianza basata sull'articolo 6 § 1 della Convenzione, relativa all'assenza di udienza pubblica.
  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENIONE PER QUANTO RIGUARDA L'IMPARZIALITA' DELLA CORTE D'APPELLO
  1. I ricorrenti lamentano una mancanza di imparzialità da parte della corte d’appello che ha deciso sull’applicazione di misure di prevenzione, a causa della presenza al suo interno di un magistrato, U.M., che aveva in precedenza espresso, in qualità di procuratore, un’opinione sulla responsabilità penale di alcuni di essi nell’ambito del processo penale relativo al caso «Cahors». I ricorrenti invocano l’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nei passaggi pertinenti, è così formulato nel caso di specie:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (...) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (...)»

  1. Sulla ricevibilità
  1. Le argomentazioni delle parti
  1. Il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, contestando ai ricorrenti di non avere presentato una domanda di ricusazione in applicazione dell’articolo 37, comma 1, CPP. Afferma che nella sentenza n. 283 emessa nel 2000, la Corte costituzionale ha riconosciuto la possibilità di ricusare un giudice a causa di opinioni espresse da quest’ultimo nell’ambito di un altro procedimento (paragrafo 38 supra), e considera, pertanto, che i ricorrenti avrebbero potuto ottenere la ricusazione del giudice U.M. a causa della sua precedente partecipazione, in qualità di procuratore, al processo penale del caso «Cahors».
  2. Afferma, a tale riguardo, che la ricusazione si applicava nell'ambito dei procedimenti di prevenzione, argomentando che la corte di cassazione ha deliberato in tal senso in tre sentenze – n. 3278 del 2009, n. 32492 del 2015 e n. 15979 del 2016. Per quanto riguarda l’assenza di giurisprudenza relativa a opinioni espresse in precedenza nell’esercizio della funzione di procuratore, e non di giudice, il Governo la spiega con la rarità di una tale situazione.
  3. Il Governo ritiene, infine, che le incertezze giurisprudenziali individuate dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 1634 del 2015 (paragrafo 39 supra) non siano tali da rendere la suddetta via di ricorso non effettiva.
  4. I ricorrenti chiedono che sia rigettata l’eccezione sollevata dal Governo. Citando le sentenze della Corte di cassazione n. 2821 del 2008 e n. 15834 del 2009, sostengono che la giurisprudenza maggioritaria concludeva per l’inapplicabilità delle disposizioni in materia di ricusazione ai procedimenti di prevenzione, e, di conseguenza, affermano che quest’ultima non costituiva un ricorso sufficientemente certo.
  5. I ricorrenti deducono inoltre la particolarità del caso di specie, affermando che la situazione in questione non è prevista nella giurisprudenza citata dal Governo, la quale, a loro parere, riguarda soltanto il caso di magistrati che hanno previamente svolto, nell’ambito del precedente procedimento, le funzioni di giudice, e non di procuratore.
  1. Valutazione della Corte
  1. La Corte rammenta che l’obbligo di esaurire i ricorsi interni impone ai ricorrenti di fare un uso normale dei ricorsi disponibili e sufficienti per permettere loro di ottenere riparazione delle violazioni da essi dedotte. Tali ricorsi devono esistere con un grado sufficiente di certezza sia in teoria che nella pratica, poiché in caso contrario sarebbero privi dell’effettività e dell’accessibilità richieste. Nulla impone di avvalersi di ricorsi che non sono né adeguati né effettivi (Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], nn. 17153/11 e altri 29, § 71-73, 25 marzo 2014).
  2. Per essere ritenuto effettivo, un ricorso deve poter porre rimedio direttamente alla situazione denunciata e presentare prospettive ragionevoli di concludersi con esito positivo (Vučković e altri, sopra citata, § 74, e Gherghina c. Romania [GC] (dec.), n. 42219/07, §§ 85 e 88, 9 luglio 2015). Tuttavia, il semplice fatto di nutrire dei dubbi sulle prospettive di successo di un determinato ricorso che, secondo ogni evidenza, non è destinato ad avere esito negativo, non costituisce un motivo idoneo a giustificare il mancato utilizzo del ricorso in questione (Vučković e altri, sopra citata, § 74, e Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 71, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV).
  3. Per quanto riguarda l’onere della prova, spetta al Governo che eccepisce il mancato esaurimento convincere la Corte che, all’epoca dei fatti, il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che nella pratica. Una volta che ciò è stato dimostrato, spetta al ricorrente stabilire che il ricorso citato dal Governo è stato di fatto utilizzato o che, per un qualsiasi motivo, lo stesso ricorso non era né adeguato né effettivo tenuto conto dei fatti di causa, o che alcune circostanze particolari dispensavano l’interessato dall’esperirlo (Vučković e altri, sopra citata, § 77, e Akdivar e altri, sopra citata, § 68).
  4. La Corte ha anche affermato che la disponibilità del ricorso citato dal Governo, compresa la portata e l’ambito di applicazione dello stesso, deve essere esposta con chiarezza e confermata o completata dalla prassi o dalla giurisprudenza (Gherghina, decisione sopra citata, § 88, e McFarlane c. Irlanda [GC], n. 31333/06, § 117 e 120, 10 settembre 2010). Quest’ultima deve essere consolidata e anteriore alla data di presentazione del ricorso (Dimitar Yanakiev c. Bulgaria (n. 2), n. 50346/07, §§ 53 e 63, 31 marzo 2016, Gherghina, decisione sopra citata, § 88, e Sürmeli c. Germania [GC], n. 75529/01, §§ 110‑112, CEDU 2006-VII).
  5. La Corte rammenta che, in linea di principio, le questioni relative all’imparzialità di un giudice devono essere sollevate nell’ambito di un ricorso per ricusazione (si veda, per esempio, Contrada c. Italia (n. 2), n. 7509/08, § 91, 11 febbraio 2014). Inoltre, essa osserva che il Governo afferma, e i ricorrenti non lo contraddicono, che a partire dalla sentenza n. 283 emessa dalla Corte costituzionale nel 2000, la giurisprudenza stabiliva chiaramente che i giudici potevano essere ricusati a causa della loro partecipazione a un procedimento distinto. Tuttavia, la questione se la via di ricorso in esame potesse essere esercitata anche nell’ambito di un procedimento di prevenzione è oggetto di discussione tra le parti.
  6. La Corte ritiene anzitutto che la questione debba essere esaminata in riferimento al momento in cui i ricorrenti avrebbero dovuto presentare la suddetta domanda di ricusazione, ossia nel 2004 (paragrafo 36 supra).
  7. All’epoca, in virtù della sentenza n. 283 sopra menzionata, la ricusazione riguardava dei giudici chiamati a deliberare sulla responsabilità di un imputato sebbene si fossero già espressi, nell’ambito di un altro procedimento, in merito agli stessi fatti e alle stesse persone. Pertanto, contrariamente a quanto afferma il Governo, la sentenza in questione non indicava affatto che il ricorso potesse essere esercitato nel corso di un procedimento di prevenzione. Infatti, esso riguardava una causa nella quale un giudice si era pronunciato relativamente all’applicazione di misure di prevenzione prima di essere successivamente incaricato di valutare la responsabilità penale degli imputati, ossia su una situazione inversa rispetto a quella in esame nel caso di specie (paragrafo 38 supra).
  8. Inoltre, dalle sentenze citate dalle parti risulta che la questione in esame ha dato luogo a un conflitto giurisprudenziale soltanto a partire dal 2008, in quanto nessuna decisione intervenuta prima di tale data ha considerato che le disposizioni relative alla ricusazione si applicassero ai procedimenti di prevenzione (paragrafo 39 supra).
  9. Tenuto conto dell'onere che incombe al Governo per quanto riguarda la prova dell'effettività e della disponibilità del ricorso da esso citato, la Corte constata che le sentenze che il Governo menziona a sostegno dell'eccezione sollevata sono tutte posteriori al 2004. Di conseguenza, essa osserva che il Governo non ha fornito alcun elemento idoneo a dimostrare che, alla data in cui i ricorrenti avrebbero dovuto presentare la domanda di ricusazione, tale ricorso poteva avere esito positivo anche nell'ambito di procedimenti di prevenzione.
  10. A ciò si aggiunge che, nel caso di specie, il presidente della corte d'appello ha respinto la domanda di astensione presentata dal giudice U.M. in quanto le disposizioni legislative pertinenti erano inapplicabili nel caso di specie (paragrafo 16 supra). Tale affermazione ha certamente rafforzato la convinzione dei ricorrenti che una domanda di ricusazione sarebbe stata evidentemente destinata ad avere esito negativo.
  11. Tenuto conto delle considerazioni sopra esposte, e fatta salva la valutazione della effettività di detto ricorso in riferimento alla giurisprudenza elaborata negli anni successivi, la Corte ritiene che nel 2004 la ricusazione di giudici in applicazione dell'articolo 37, comma 1, CPP nell'ambito di un procedimento di prevenzione non avesse un grado di certezza giuridica sufficiente per poter e dover essere utilizzato ai fini dell'articolo 35 § 1 della Convenzione.
  12. Inoltre, la Corte osserva che il procedimento in questione riguardava l'applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali (si veda il paragrafo 9 supra) e che le parti non contestano l'applicabilità dell'articolo 6 della Convenzione a tale procedimento. A questo proposito, la Corte ha già affermato che ai procedimenti relativi a misure di prevenzione si applica il profilo civile dell'articolo 6, sia che si tratti di una misura di confisca, tenuto conto del suo oggetto «patrimoniale» (Bongiorno e altri, sopra citata, § 34), sia che si tratti di una misura personale come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (De Tommaso c. Italia [GC], n. 43395/09, § 155, 23 febbraio 2017).
  13. La Corte respinge dunque l'eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e, constatando che questa doglianza non è manifestamente infondata né irricevibile per uno degli altri motivi di cui all'articolo 35 della Convenzione, la dichiara ricevibile.
  1. Sul merito
  1. Le argomentazioni delle parti
  1. I ricorrenti lamentano una mancanza di imparzialità da parte della corte d'appello che ha deliberato sull'applicazione di misure di prevenzione nei loro confronti, a causa della partecipazione di U.M., in qualità di giudice relatore, al collegio giudicante. Essi affermano che la sentenza della corte d'appello, da un lato, si basava sugli stessi fatti che avevano dato luogo al processo penale detto «Cahors», nell'ambito del quale U.M. aveva esercitato, in appello, la funzione di procuratore e, dall'altro, che tale sentenza prevedeva la confisca degli stessi beni che erano in questione nel suddetto processo penale. I ricorrenti rammentano, inoltre, che U.M. ha ritenuto opportuno astenersi tenuto conto di queste circostanze, ma che il presidente della corte d'appello ha respinto la domanda da lui formulata in tal senso.
  2. Il Governo sostiene che l'oggetto del procedimento di prevenzione è più ampio di quello del processo penale. A sostegno della sua affermazione, il Governo argomenta che il tribunale di primo grado ha esaminato l'intera «carriera criminale» dei primi tre ricorrenti e che, inoltre, l'applicazione di misure di prevenzione nei loro confronti si è basata su un esame dettagliato del loro patrimonio e delle loro fonti di reddito. Il Governo osserva, inoltre, che i beni che sono stati confiscati in applicazione delle suddette misure erano diversi da quelli che erano stati oggetto di una confisca con decisione del giudice penale.
  3. Il Governo fa riferimento, infine, a una nota del presidente della corte d'appello che afferma, in primo luogo, che, poiché la responsabilità penale di G. Florio è stata oggetto di una transazione penale, U.M. non ha partecipato ad alcun dibattimento che lo riguardava; in secondo luogo, che la funzione di procuratore è stata assicurata da vari magistrati durante il processo penale intentato contro i sigg. Albano e Urgesi; e infine che, poiché gli altri ricorrenti non erano interessati dal procedimento penale, non si poteva porre alcuna questione relativa all'imparzialità della corte d'appello nei loro confronti.
  1. Valutazione della Corte
  1. Principi generali
  1. La Corte rinvia ai principi ben consolidati relativi ai criteri di valutazione dell'imparzialità di un tribunale, riassunti nella sentenza Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo ([GC], nn. 55391/13 e altri 2, §§ 145-149, 6 novembre 2018). Più in particolare, la Corte rammenta che l'imparzialità si definisce normalmente come l'assenza di pregiudizio o di partito preso, e può essere valutata in diversi modi. In effetti, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, ai fini dell'articolo 6 § 1 della Convenzione l'imparzialità deve essere valutata secondo un approccio soggettivo, tenendo conto della convinzione personale e del comportamento del giudice, ossia esaminando se quest'ultimo abbia mostrato una forma di partito preso o di pregiudizio personale nel caso in esame, nonché secondo un approccio oggettivo, che consiste nel determinare se il tribunale offrisse, in particolare attraverso la sua composizione, garanzie sufficienti per escludere qualsiasi dubbio legittimo circa la sua imparzialità (si vedano, per esempio, Kyprianou c. Cipro [GC], n. 73797/01, § 118, CEDU 2005-XIII, e Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 93, CEDU 2009).
  2. La Corte rammenta che, per quanto riguarda l'approccio soggettivo, l'imparzialità personale di un magistrato è presunta fino a prova contraria (si veda, per esempio, Hauschildt c. Danimarca, 24 maggio 1989, § 47, serie A n. 154). Per quanto riguarda l'approccio oggettivo, quando viene applicato relativamente a una giurisdizione collegiale, esso porta a chiedersi se, indipendentemente dall'atteggiamento personale di un determinato membro di quest'ultima, alcuni fatti verificabili permettano di metterne in discussione l'imparzialità. In questa materia, anche le apparenze possono assumere una certa importanza. Ne deriva che, per pronunciarsi sull'esistenza, in un determinato caso, di un motivo legittimo per temere che una giurisdizione manchi di imparzialità, il punto di vista del o degli interessati viene preso in considerazione, ma non ha un ruolo decisivo. L'elemento determinante consiste nello stabilire se i timori di questi ultimi possano sembrare oggettivamente giustificati (Micallef, sopra citata, § 96, e Morel c. Francia, n. 34130/96, § 42, CEDU 2000‑VI).
  3. La valutazione oggettiva riguarda principalmente delle situazioni di ordine funzionale, in cui la condotta personale del giudice non viene messa in discussione, ma in cui, per esempio, l'esercizio da parte della stessa persona di diverse funzioni nell'ambito del processo giudiziario, o dei legami gerarchici o di altro tipo con un'altra parte nella procedura, fanno sorgere dei dubbi oggettivamente giustificati per quanto riguarda l'imparzialità del tribunale (Kyprianou, sopra citata, § 121).
  4. Inoltre, la suddetta valutazione varia a seconda delle circostanze del caso. Il semplice fatto, per un giudice, di avere già preso delle decisioni prima del processo non può essere considerato tale da giustificare, di per sé, dei timori per quanto riguarda la sua imparzialità. Ciò che conta è la portata delle misure adottate dal giudice prima del processo. Analogamente, la conoscenza approfondita del fascicolo da parte del giudice non implica un pregiudizio che impedisce di considerarlo imparziale al momento della sentenza sul merito. Infine, neanche la valutazione preliminare dei dati disponibili può essere considerata tale da pregiudicare la valutazione finale. È importante che tale valutazione sia fatta quando è emessa la sentenza e si basi sugli elementi prodotti e discussi in udienza (Marina c. Romania, n. 50469/14, § 38, 26 maggio 2020, Marguš c. Croazia [GC], n. 4455/10, § 85, CEDU 2014 (estratti), e Morel, sopra citata, § 45).
  5. La Corte deve dunque verificare se, tenuto conto della natura e della portata delle funzioni esercitate dal giudice la cui imparzialità viene messa in discussione, quest'ultimo abbia dimostrato, o sembri legittimamente aver dimostrato, un partito preso per quanto riguarda la decisione da emettere sul merito. Questo avverrebbe, in particolare, se le questioni che tale giudice ha dovuto trattare successivamente sono «le stesse» o «analoghe» (Marina, sopra citata, § 43, Fazlı Aslaner c. Turchia, n. 36073/04, § 32, 4 marzo 2014, Morel, sopra citata, § 47; a contrario, Kleyn e altri c. Paesi Bassi [GC], nn. 39343/98 e altri 3, § 200, CEDU 2003‑VI).
  6. La Corte ha dichiarato, in un certo numero di cause che mettevano in discussione due procedimenti che non avevano esattamente lo stesso oggetto, che le questioni di fatto o di diritto sottoposte all'esame dei giudici erano, nelle fattispecie considerate, così strettamente connesse che i dubbi dei ricorrenti per quanto riguarda l'imparzialità di questi ultimi potevano sembrare oggettivamente giustificati (si vedano, per esempio Stoimenovikj e Miloshevikj c. Macedonia del Nord, n. 59842/14, § 37, 25 marzo 2021, Fazlı Aslaner, sopra citata, § 34, e Indra Slovacchia, n. 46845/99, §§ 51-53, 1° febbraio 2005). Tuttavia, a questo proposito, non basta che i due procedimenti in questione traggano origine dallo stesso contesto fattuale, poiché le questioni che sono chiamati a dirimere possono essere in sostanza diverse (si vedano Pasquini c. San Marino, n. 50956/16, §§ 145‑150, 2 maggio 2019, Sproge c. Lettonia (dec.), n. 7407/06, §§ 34-35, 20 ottobre 2015, Mugliett c. Malta (dec.), n. 46661/12, §§ 29-30, 28 maggio 2013, e Steulet c. Svizzera, n. 31351/06, §§ 40-41, 26 aprile 2011).
  7. La Corte rammenta, inoltre, che il fatto che un ricorrente sia stato giudicato da un magistrato che aveva egli stesso espresso dei dubbi per quanto riguarda la propria imparzialità nel processo può porre un problema dal punto di vista dell'apparenza di equità e imparzialità del procedimento (Paixão Moreira Sá Fernandes c. Portogallo, n. 78108/14, § 87, 25 febbraio 2020, e Rudnichenko c. Ucraina, n. 2775/07, § 118, 11 luglio 2013). Una tale situazione, tuttavia, non basta di per sé per comportare una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, in quanto i dubbi del ricorrente circa l'imparzialità del giudice devono essere oggettivamente giustificati nelle circostanze del caso (Meng c. Germania, n. 1128/17, § 52, 16 febbraio 2021, e Dragojević c. Croazia, n. 68955/11, §§ 120-122, 15 gennaio 2015).
  8. Per quanto riguarda i casi nei quali un giudice ha precedentemente esercitato la funzione di procuratore, la Corte rammenta che sarebbe eccessivo escludere dal collegio qualsiasi ex magistrato della procura in ogni singola causa che sia stata precedentemente esaminata dal pubblico ministero, anche quando il magistrato in questione non ne abbia mai esaminate. Pertanto, il semplice fatto che un giudice sia apparso in precedenza tra i membri della procura non costituisce un motivo per dubitare della sua mancanza di imparzialità (Paunović c. Serbia, n. 54574/07, §§ 41, 3 dicembre 2019, e Jerino’ Giuseppe c. Italia (dec.), n. 27549/02, 2 settembre 2004).
  9. Tuttavia, se a un giudice è assegnata una causa che ha già trattato nell'esercizio delle sue funzioni all'interno della procura, le persone sottoposte al giudizio possono legittimamente temere che egli non offra sufficienti garanzie di imparzialità (Piersack c. Belgio, 1° ottobre 1982, § 30, serie A n. 53).
  10. La Corte rammenta, inoltre, che secondo i principi generali in materia di imparzialità degli organi collegiali, si deve tenere conto di elementi come il numero di magistrati interessati da una presa di posizione, nonché il loro ruolo all'interno del collegio giudicante. A questo proposito, anche se gli organi della Convenzione hanno già respinto doglianze simili tenendo conto dell'esiguo numero di giudici interessati all'interno di un organo collegiale in cui le decisioni sono prese a maggioranza, la Corte ha concluso che vi è stata violazione del diritto a un tribunale imparziale in un certo numero di cause prendendo in considerazione sia l’alto numero di magistrati interessati che le funzioni di presidente o di relatore esercitate da questi ultimi all'interno dell'organo collegiale (Fazlı Aslaner, sopra citata, §§ 37-40). Inoltre, in molti casi, la Corte ha affermato che la circostanza che una mancanza di imparzialità riguardasse soltanto uno dei membri di un organo collegiale non era determinante, in quanto la segretezza delle deliberazioni non permette di conoscere la reale influenza di un giudice all'interno del collegio (Morice c. Francia [GC], n. 29369/10, § 89, CEDU 2015, Karrar c. Belgio, n. 61344/16, § 36, 31 agosto 2021 e la giurisprudenza ivi citata).
  11. Infine, una constatazione di violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione non può essere fondata sulla dedotta mancanza di indipendenza o di imparzialità di un organo giurisdizionale se la decisione emessa è stata sottoposta al controllo successivo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione e che offre le garanzie dell'articolo 6 (Denisov c. Ucraina [GC], n. 76639/11, § 65, 25 settembre 2018), in quanto una giurisdizione superiore può, in tali circostanze, porre rimedio alle lacune del procedimento di primo grado (Kyprianou, sopra citata, § 134).
  1. Applicazione nel caso di specie
  1. Nel caso di specie, i timori dei ricorrenti circa una mancanza di imparzialità della corte d'appello di Lecce sono dovuti al fatto che U.M., giudice relatore del collegio che ha deciso sull'applicazione delle misure di prevenzione, aveva in precedenza svolto il ruolo di procuratore nell'ambito del processo penale di appello nel caso «Cahors».
  2. La Corte osserva anzitutto che i ricorrenti non mettono in discussione l'imparzialità soggettiva dei giudici della corte d'appello. Essa ritiene dunque che sia opportuno esaminare la doglianza unicamente sotto il profilo dell’esigenza di imparzialità oggettiva.
  3. La Corte ritiene che, alla luce dei principi sopra citati, il fatto che la questione dell'imparzialità riguardasse un solo membro di un collegio di tre giudici non sia determinante (si veda Morice, sopra citata, § 89). In ogni caso, e senza pronunciarsi in astratto sull'impatto della partecipazione di un giudice che non svolge alcun ruolo particolare all'interno del collegio, si deve constatare che, nel caso di specie, U.M. esercitava la funzione di giudice relatore, cosicché la sua partecipazione poteva maggiormente mettere in discussione l'imparzialità del collegio stesso (si veda Fazlı Aslaner, sopra citata, § 39). Essa deve dunque verificare se i dubbi dei ricorrenti circa la sua imparzialità fossero oggettivamente giustificati.
  4. Secondo la Corte, un primo elemento di risposta è costituito dal fatto che lo stesso U.M. ha espresso dei dubbi circa la propria imparzialità, presentando una domanda di astensione (paragrafo 15 supra), e una tale richiesta può pregiudicare l'apparenza di imparzialità della corte d'appello.
  5. Inoltre, la Corte constata che i due procedimenti in esame riguardavano in parte le stesse questioni, in parte questioni sufficientemente connesse per giustificare dei timori circa una mancanza di imparzialità.
  6. In particolare, nell'ambito del processo penale relativo al caso «Cahors», la procura – di cui faceva parte U.M. – ha concluso con G. Florio una transazione penale avente ad oggetto la responsabilità di quest'ultimo per quanto riguarda vari reati, tra cui soprattutto quello di associazione di tipo mafioso. La corte d'appello, con una sentenza emessa il 3 luglio 2002, ha omologato la transazione, disponendo comunque la confisca di alcuni beni dell'interessato (paragrafo 5 supra). Per quanto riguarda il sig. Albano, la procura ha chiesto la conferma della sua responsabilità relativamente, tra l'altro, al reato di associazione di tipo mafioso, e la condanna dell'interessato è stata confermata in appello con una sentenza emessa il 21 febbraio 2003 (paragrafo 6 supra).

Ora, l'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di questi due ricorrenti era basata sulla pericolosità «qualificata» prevista dalla legge n. 575/1965, che riguarda, in tal senso, le persone sospettate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso.

La Corte osserva che la corte d'appello, deliberando sulle misure di prevenzione, ha esaminato anzitutto se esistessero seri indizi di partecipazione dei sigg. G. Florio e Albano a un'associazione di tipo mafioso, anche se, nell'ambito del processo penale, U.M. aveva proceduto nei loro confronti per questo stesso reato. La Corte ritiene dunque che le questioni sottoposte alla valutazione di U.M. in ciascuno dei due procedimenti fossero sostanzialmente le stesse per quanto riguarda questi due ricorrenti (paragrafo 78 supra).

  1. Per quanto riguarda il sig. Urgesi, nel processo «Cahors» la procura ha chiesto la conferma della sua responsabilità per i reati di associazione per delinquere e di usura, per i quali egli è stato poi condannato con una sentenza emessa dalla corte d'appello il 21 febbraio 2003 (paragrafo 6 supra).

L'applicazione di misure di prevenzione nei suoi confronti era basata sull'articolo 14 della legge n. 55/1990, che rinvia all'articolo 1 della legge n. 1423/1956. Una delle questioni principali che la corte d'appello era chiamata a esaminare era dunque se, sulla base di elementi fattuali, si poteva ritenere che l'interessato esercitasse abitualmente le attività delittuose indicate nella norma sopra citata – tra le quali vi era il reato di usura – o che lo stesso vivesse abitualmente con i proventi di tali attività (paragrafi 24 e 27 supra).

Tenuto conto del fatto che U.M. ha proceduto nei confronti del sig. Urgesi per il reato di usura nell'ambito del processo penale, e che la sua condanna per tale reato è stata determinante nella decisione di applicare delle misure di prevenzione nei suoi confronti (paragrafo 19 supra), la Corte considera che le questioni sottoposte al magistrato erano strettamente connesse (paragrafo 79 supra).

  1. La Corte prende atto delle osservazioni del Governo per quanto riguarda l'oggetto del procedimento di prevenzione, che secondo quest’ultimo era più ampio di quello del procedimento penale in quanto, alla luce delle considerazioni del tribunale che ha deliberato in primo grado, comprendeva l'intera «carriera criminale» degli imputati, nonché l'esame di questioni patrimoniali, e riguardava beni diversi da quelli che erano stati oggetto di confisca nell'ambito del processo «Cahors».

Tuttavia, la Corte non è convinta da tale argomentazione. Essa rammenta anzitutto che la corte d'appello di Lecce si è fondata in maniera determinante sulle condanne pronunciate in primo grado e in appello nel processo «Cahors» per disporre le misure di prevenzione in questione (paragrafi 18 e 19 supra). Per quanto riguarda gli altri punti discussi nell'ambito del procedimento di prevenzione, la Corte ritiene che questi ultimi non mettano in discussione il carattere determinante della prima questione esaminata dai giudici interni, ossia la valutazione degli indizi esistenti per quanto riguarda la perpetrazione da parte degli interessati dei reati in questione.

  1. La Corte non è nemmeno convinta dalle argomentazioni del Governo secondo le quali, nel processo «Cahors», U.M. avrebbe svolto la funzione di procuratore insieme ad altri magistrati e non avrebbe partecipato ad alcun dibattimento sulla colpevolezza di G. Florio, dato che la condanna di quest'ultimo era derivata da una transazione penale. Essa osserva, infatti, che, nell'ambito di tale transazione, la procura ha proceduto a un esame delle circostanze fattuali della causa e ha ritenuto che il ricorrente fosse penalmente responsabile, cosicché nel caso di specie l'assenza di dibattimento, condotto in pubblica udienza, per quanto riguarda la colpevolezza dell'interessato, non può essere considerata decisiva (si veda, mutatis mutandis, Mucha c. Slovacchia, n. 63703/19, §§ 53-55, 25 novembre 2021). Per quanto riguarda la condivisione della funzione di procuratore con altri membri della procura, il fatto che U.M. abbia svolto un ruolo nell'azione penale contro i ricorrenti è sufficiente per concludere che egli si era espresso in precedenza sulla loro responsabilità penale (si veda Jhangiryan c. Armenia, nn. 44841/08 e 63701/09, § 101, 8 ottobre 2020).
  2. Resta da esaminare la posizione dei ricorrenti indicati nell'allegata tabella con i numeri 4-8, che non erano parte nel procedimento «Cahors», né accusati di un qualsivoglia reato. A tale riguardo, la Corte osserva che i loro beni sono stati confiscati sulla base della constatazione dell'appartenenza di questi ultimi ai primi tre ricorrenti (paragrafo 11 supra). Di conseguenza, la suddetta confisca si basava sulla valutazione fatta in merito agli indizi di commissione da parte dei primi ricorrenti dei reati in questione e, dunque, su questioni sulle quali U.M. si era già espresso nell’ambito del processo «Cahors».
  3. Tenuto conto delle considerazioni sopra esposte, la Corte ritiene che le questioni sottoposte all'esame di U.M. in ciascuno dei due procedimenti fossero, rispetto a tutti i ricorrenti, sostanzialmente le stesse o, quantomeno, strettamente connesse, e che pertanto i timori degli interessati circa una mancanza di imparzialità da parte della corte d'appello di Lecce potessero essere considerati oggettivamente giustificati.
  4. La Corte rammenta, infine, che una giurisdizione di grado superiore o suprema può benissimo aver inteso, in alcuni casi, riparare le lacune del procedimento (si veda Ramljak c. Croazia, n. 5856/13, § 40, 27 giugno 2017, e Kyprianou, sopra citata, § 134). Tuttavia, essa osserva che, nel caso di specie, la Corte di cassazione non ha esaminato il merito della causa, e ha respinto il motivo di ricorso relativo all'imparzialità della corte d'appello (paragrafo 21 supra), e dunque non ha posto rimedio alla mancanza di imparzialità di quest'ultima (si veda Meng, sopra citata, § 64).
  5. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte conclude che la corte d'appello di Lecce che ha deciso l'applicazione delle misure di prevenzione nei confronti dei ricorrenti non era un tribunale imparziale. Pertanto, vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
  1. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
  1. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione:

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

  1. I ricorrenti, sigg. Urgesi, Albano e G. Florio chiedono un risarcimento del danno morale che ritengono di avere subìto a causa dell'applicazione di una misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza nei loro confronti:
  • il sig. Urgesi chiede la somma di 146.000 euro (EUR);
  • il sig. Albano chiede la somma di 116.800 EUR;
  • il sig. G. Florio chiede la somma di 146.000 EUR.
  1.  Gli altri ricorrenti chiedono, in via principale, la riapertura del processo di appello. In subordine, chiedono le somme seguenti per danno materiale:
  • la sig.ra Boccuni chiede la somma di 20.000 EUR, corrispondente al valore dei beni confiscati;
  • la sig.ra Esposito chiede la restituzione dei beni confiscati o, in subordine, la somma di 300.000 EUR;
  • la sig.ra Fanelli chiede la restituzione dei beni confiscati o, in subordine, la somma di 350.000 EUR;
  • il sig. C. Florio chiede la restituzione dei beni confiscati o, in subordine, la somma di 23.600 EUR;
  • la sig.ra Spinelli chiede la restituzione dei beni e delle somme confiscati o, in subordine, la somma di 166.120 EUR.
  1. I ricorrenti non chiedono alcuna somma per le spese.
  2. Il Governo contesta le richieste dei ricorrenti, ritenendo che le somme reclamate siano prive di un qualsivoglia nesso di causalità con la dedotta mancanza di imparzialità. Il Governo afferma, inoltre, che la partecipazione del giudice U.M. al processo «Cahors» non ha comportato concretamente alcun pregiudizio per i ricorrenti.
  3. La Corte osserva che ha concluso che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione a causa della mancanza di imparzialità da parte della corte d'appello di Lecce, derivata dalla partecipazione del giudice U.M. al collegio giudicante che ha deliberato sulle misure di prevenzione a carico dei ricorrenti. Tuttavia, essa non può sapere quale sarebbe stato l'esito di un procedimento conforme all'articolo 6 § 1. Perciò, la Corte non vede un nesso di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale dedotto, e respinge dunque le domande presentate dai ricorrenti in tal senso.
  4. Per quanto riguarda la domanda di riapertura del processo, la Corte rammenta che spetta in primo luogo allo Stato in causa scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, quali mezzi utilizzare nel proprio ordinamento giuridico interno per rispettare l’obbligo previsto dall’articolo 46 della Convenzione alla luce delle circostanze particolari della causa (si veda, tra altre, Öcalan c. Turchia [GC], n. 46221/99, § 210, CEDU 2005-IV). In questo contesto, la Corte rammenta tuttavia di avere già affermato che, quando un privato è stato condannato all’esito di un processo che non ha soddisfatto le esigenze dell’articolo 6 della Convenzione, un nuovo processo, o una riapertura del procedimento su richiesta dell'interessato, costituisce in linea di principio un mezzo idoneo per porre rimedio alla violazione constatata (si veda, per esempio, Maestri e altri c. Italia, nn. 20903/15 e altri 3, § 72, 8 luglio 2021).
  5. Inoltre, la Corte accorda a ciascun ricorrente che ha presentato una domanda in tal senso – ricorrenti indicati nella tabella allegata con i numeri 1-3 – la somma di 2.500 EUR per danno morale, più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE ALL'UNANIMITA'

  1. Prende atto dei termini della dichiarazione del governo convenuto in merito alla doglianza fondata sull'articolo 6 § 1 per quanto riguarda l'assenza di pubblica udienza e le modalità previste per garantire il rispetto degli impegni assunti;
  2. Decide di cancellare questa parte del ricorso dal ruolo conformemente all'articolo 39 della Convenzione;
  3. Dichiara la doglianza fondata sull'articolo 6 § 1 e relativa alla mancanza di imparzialità da parte della corte d'appello di Lecce ricevibile;
  4. Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione;
  5. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare ai sigg. Urgesi, Albano e G. Florio, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 2.500 EUR (duemilacinquecento euro) ciascuno, più l’importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, per danno morale;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  6. Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, e poi comunicata per iscritto l'8 giugno 2023, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Marko Bošnjak
Presidente

Renata Degener
Cancelliere


ALLEGATO

Elenco dei ricorrenti

N.

Nome e Cognome

Anno di nascita

Note

1.

Roberto URGESI

1962

 

2.

Vincenzo ALBANO

1953

 

3.

Giuseppe FLORIO

1965

 

4.

Lucia BOCCUNI

1964

moglie di Roberto Urgesi

5.

Assunta ESPOSITO

1967

moglie di Giuseppe Florio

6.

Maria FANELLI

1953

moglie di Vincenzo Albano

7.

Ciro FLORIO

1967

fratello di Giuseppe Florio

8.

Filomena SPINELLI

1943

madre di Giuseppe Florio