Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 22 giugno 2023 - Ricorso n. 10794/12 - Causa Germano c. Italia


© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita dalla dott.ssa Silvia Canullo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA GIULIANO GERMANO c. ITALIA

(Ricorso n. 10794/12)

SENTENZA

Art. 8 • Vita privata e familiare • Ammonimento inflitto al ricorrente nel quadro di un procedimento finalizzato alla prevenzione del delitto di atti persecutori in assenza di adeguata protezione legale contro gli abusi • Assenza di termine per gli effetti dell’ammonimento e del diritto di ottenere il riesame o la revoca dello stesso • Il ricorrente escluso in maniera significativa dal processo decisionale in assenza di comprovate ragioni d’urgenza • Inadeguato controllo giurisdizionale da parte delle autorità giudiziarie del fondamento fattuale e della legittimità, necessità e proporzionalità della misura • Assenza di motivi pertinenti e sufficienti • Garanzie procedurali inadeguate

STRASBURGO

22 giugno 2023

La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni stabilite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Giuliano Germano c. Italia,

la Corte europea dei diritti dell’uomo (Prima sezione), riunita in una Camera composta da:

Marko Bošnjak, Presidente,
Krzysztof Wojtyczek,
Alena Poláčková,
Ivana Jelić,
Gilberto Felici,
Erik Wennerström,
Raffaele Sabato, giudici
e da Renata Degener, cancelliere di sezione,

visto il ricorso (n. 10794/12) proposto contro la Repubblica italiana con il quale, in data 5 gennaio 2012, un cittadino italiano, il sig. Giuliano Germano (“il ricorrente”), ha adito la Corte ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”);

vista la decisione di comunicare al Governo italiano (“il Governo”) le doglianze relative agli articoli 6 e 8 della Convenzione e di dichiarare irricevibile il resto del ricorso;

viste le osservazioni delle parti;

dopo aver deliberato in camera di consiglio in data 23 maggio 2023,

pronuncia la seguente sentenza adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. Il ricorso solleva questioni ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Riguarda le affermazioni secondo le quali la disposizione interna che disciplina l’ammonimento inflitto dal questore al ricorrente in un procedimento finalizzato a prevenire il delitto di atti persecutori (cosiddetto stalking) non soddisfa il requisito della “qualità della legge” ai fini di tale disposizione. Riguarda inoltre la questione di sapere se nel procedimento interno che ha condotto all’irrogazione della misura nei confronti del ricorrente gli sia stato consentito di partecipare al processo decisionale in misura sufficiente a garantirgli la prevista tutela dei suoi interessi, se i motivi addotti dalle autorità interne per giustificare il provvedimento contestato fossero pertinenti e sufficienti e se la misura fosse stata sottoposta a un adeguato controllo giurisdizionale ad opera dei tribunali interni competenti.

IN FATTO

  1. Il ricorrente, il sig. Giuliano Germano, è un cittadino italiano, nato nel 1956 e residente a Savona. È stato rappresentato dinanzi alla Corte dall’avvocato R. Sturlese, del foro di La Spezia.
  2. Il Governo è stato rappresentato dal suo agente, il sig. L. D’Ascia, avvocato dello Stato.
  3. I fatti della causa si possono riassumere come segue.
  4. Nel 2009 la relazione tra il ricorrente e sua moglie ebbe termine, e il 3 maggio 2009 ella lasciò il domicilio familiare insieme alla loro figlia.
  5. In data 6 maggio ella sporse querela contro il ricorrente per i maltrattamenti che asseritamente le erano stati inflitti la notte che aveva lasciato il domicilio familiare, Il procedimento instaurato nei confronti del ricorrente fu interrotto il 22 maggio 2015 perché sua moglie aveva ritirato la querela.
  6. In data 13 novembre 2009 la moglie del ricorrente presentò al questore di Savona una richiesta affinché emettesse il provvedimento di ammonimento previsto dall’articolo 8 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori (“decreto-legge n. 11/2009”) convertito nella legge 23 aprile 2009, n. 38 (“legge n. 38/2009”; si veda il paragrafo 26 infra). La richiesta esponeva in dettaglio diversi episodi in cui il ricorrente asseritamente aveva esercitato violenza fisica e verbale sulla moglie sia in costanza di convivenza che dopo che ella aveva lasciato il domicilio familiare. La moglie del ricorrente denunciò inoltre alcune chiamate telefoniche che ella, la babysitter della loro figlia e alcuni amici comuni avevano ricevuto dal ricorrente, asseritamente miranti a controllare la sua vita personale e a isolarla e intimidirla.
  7. Il competente Commissariato di polizia aprì un’indagine e raccolse le deposizioni di diciassette persone informate dei fatti scelte tra coloro che erano stati citati nella richiesta della moglie del ricorrente, Tra tali persone, un’amica della moglie del ricorrente confermò che episodi di violenza verbale inflitta dal ricorrente alla moglie avevano avuto luogo in sua presenza; un altro dichiarò che gli era stato riferito un episodio di aggressione fisica; un altro ancora riferì che il ricorrente gli aveva telefonato diverse volte allo scopo di ottenere informazioni sulla vita della moglie dopo che ella aveva lasciato il domicilio familiare. Le altre quattordici deposizioni non confermarono la versione dei fatti della moglie del ricorrente ed esclusero espressamente che il ricorrente l’avesse insultata in loro presenza o avesse cercato di isolarla.
  8. Con ordinanza n. 20406 del 27 novembre 2009 il questore di Savona emise il provvedimento di ammonimento che fu notificato di persona al ricorrente in data 28 novembre 2009 nel commissariato di polizia di Savona.
  9. Le motivazioni dell’ammonimento esposte nel processo verbale recitano:

 “In ordine alla richiesta presentata il 13 novembre 2009 (…) che chiede espressamente l’emissione di un provvedimento di ammonimento nei confronti di Germano Giuliano (…) indicato quale responsabile del delitto di atti persecutori commesso nei confronti [della persona che ha richiesto l’ammonimento], sebbene ella abbia deciso di non sporgere querela;

Tenuto conto che, come indicato nella richiesta, Germano Giuliano, coniuge della persona che ha richiesto l’ammonimento e dal quale ella si sta attualmente separando, negli ultimi tre anni, ma con episodi più frequenti a decorrere da maggio dell’anno corrente, ha [commesso i seguenti] ripetuti atti: insulti proferiti alla presenza di altre persone, chiamate telefoniche effettuate sull’utenza privata o del lavoro della persona che ha richiesto l’ammonimento e di altre persone vicine agli ex coniugi, invio di SMS, richieste continue e ripetute formulate anche con un atteggiamento potenzialmente minaccioso, miranti a controllare con toni insistenti, ossessivi e intimidatori i movimenti [della moglie] e, più in generale, la sua abituale vita quotidiana [che] hanno causato alla persona che ha richiesto l’ammonimento uno stato perdurante e grave di ansia, paura e timore per la propria incolumità;

Considerato che tutte le indagini svolte dalla polizia e gli ulteriori documenti raccolti, tutti a verbale, a prescindere dal contesto in cui hanno avuto luogo gli atti del sig. Germano, ovvero in pendenza della separazione giudiziale dei coniugi, e dagli episodi relativi all’affidamento della figlia di anni sette, e nonostante l’irrilevanza di alcuni degli episodi, rivelano una situazione di particolare gravità, sufficientemente e oggettivamente corroborata, costituita da episodi dimostrati, compreso uno di aggressione fisica, che sono anche oggetto di un procedimento penale pendente e non possono pertanto essere menzionati, ma non possono neanche essere sottovalutati quando si valutano le circostanze complessive dei fatti denunciati, e che sono oggettivamente in grado di provocare nella moglie del sig. Germano perlomeno uno stato di sofferenza psicologica e quindi di far ritenere la sua richiesta fondata;

[È stata rilevata] la necessità e l’urgenza [della misura] per prevenire la messa in atto di ulteriori condotte persecutorie (…)”.

  1. Il contenuto dell’ammonimento al ricorrente, così come indicato nel processo verbale a lui consegnato, è il seguente:

 “Il sig. Germano Giuliano [è] invitato a tenere una condotta conforme alla legge e avvisato che, qualora dovesse reiterare le condotte che hanno dato luogo all’emissione della presente ordinanza, sarà rinviato dinanzi alla competente autorità giudiziaria ai sensi dell’articolo 612-bis [del codice penale], anche in assenza di querela da parte della persona che ha richiesto l’ammonimento, in conformità alla [procedura] stabilita ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 convertito nella legge 23 aprile 2009, n. 38(…) per instaurare un procedimento penale per il medesimo delitto nei confronti della persona che è stata ‘ammonita’.

Si informa inoltre il sig. Germano Giuliano che la pena fino a un massimo di quattro anni di reclusione prevista per il delitto di cui all’articolo 612-bis [del codice penale] ‘è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito’ ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 (…)”.

  1. In data 14 gennaio 2010 il ricorrente impugnò la misura dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, (“TAR”) della Liguria, lamentando, in particolare, l’asserita violazione del suo diritto a partecipare al procedimento amministrativo garantito, dall’articolo 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241 (legge n. 241/1990, si veda il paragrafo 24 infra), poiché non gli era stato comunicato l’avvio del procedimento amministrativo e non gli era stato consentito di esprimere il suo punto di vista, l’asserita carenza di motivazione del provvedimento, l’asserita inadeguatezza delle indagini svolte dalla polizia e l’asserita insussistenza delle condizioni prescritte dall’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 per infliggere l’ammonimento. Il ricorrente sollevò inoltre la questione della costituzionalità dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 sostenendo che, alla luce della violazione dei principi di contraddittorio, difesa e parità delle armi, esso era contrario agli articoli 3, 24, 97, 111 e 113 della Costituzione italiana. Infine, il ricorrente chiese il risarcimento del danno asseritamente subito a causa della misura che gli era stata applicata.
  2. Il ricorrente chiese inoltre la sospensione provvisoria dell’ordinanza in pendenza del procedimento dinanzi al TAR. Il 4 febbraio 2010 il TAR respinse tale richiesta osservando che non sussisteva il rischio di un danno irreparabile ai diritti e agli interessi del ricorrente.
  3. Con sentenza n. 8145 del 30 settembre 2010, il TAR ritenne che fossero stati violati il diritto di partecipazione e il diritto di difesa del ricorrente, garantiti dall’articolo 7 della legge n. 241/1990 e accolse quindi il suo ricorso, annullando l’ammonimento che gli era stato inflitto.
  4. Il TAR osservò che il provvedimento in questione, che incideva gravemente e direttamente sul diritto all’immagine personale del soggetto ammonito, non poteva essere adottato sulla semplice base delle informazioni e delle prove fornite dalla persona che aveva richiesto l’ammonimento. Tali elementi dovevano essere messi a confronto con le informazioni e le prove fornite dalla persona colpita dal provvedimento in un procedimento che doveva trovare il suo fondamento in un’indagine adeguata e sufficiente che consentisse alla persona colpita dalla misura di esprimere il suo punto di vista. Secondo il TAR era giustificata un’eccezione al diritto di partecipazione dell’interessato in casi di stretta urgenza e necessità, che dovevano essere adeguatamente dimostrati e giustificati nella motivazione dell’ordinanza. Il TAR osservò inoltre che l’ammonimento non era un atto amministrativo vincolato, in quanto presupponeva una complessa valutazione delle circostanze fattuali pertinenti. La restrizione del diritto di partecipazione dell’interessato non era pertanto giustificata.
  5. Infine, il TAR rigettò in quanto inammissibile la richiesta di risarcimento del ricorrente, osservando che egli non aveva fornito prove in grado di dimostrare che aveva subito un danno per effetto dell’ammonimento inflittogli.
  6. In data 3 gennaio 2011, il Ministero dell’interno impugnò la sentenza dinanzi al Consiglio di Stato. Nel ricorso esso osservò che la sentenza di primo grado non aveva tenuto conto dell’urgenza che contraddistingueva i procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking, aggiungendo che la partecipazione del ricorrente al procedimento amministrativo non ne avrebbe modificato l’esito, giacché il questore aveva ritenuto fondata la richiesta della moglie del ricorrente.
  7. Il ministero chiese inoltre la sospensione della sentenza impugnata. In data 11 febbraio 2011 il Consiglio di Stato accolse la richiesta. Osservò che, alla luce della finalità preventiva dell’ammonimento, sussisteva un grave rischio che la moglie del ricorrente subisse un danno irreparabile.
  8. Con sentenza n. 4365 del 19 luglio 2011 il Consiglio di Stato accolse il ricorso del ministero, annullò la sentenza di primo grado e confermò il provvedimento di ammonimento. Riconobbe che la misura produceva gravi conseguenze sulla sfera personale del ricorrente perché comportava la possibilità di essere perseguito per il delitto di atti persecutori anche in assenza di querela della persona offesa, nonché l’applicazione automatica di una circostanza aggravante in caso di condanna per tale delitto.
  9. Il Consiglio di Stato, però, sottolineò la finalità dell’ammonimento, ovvero prevenire un danno potenzialmente grave e irreparabile alla presunta vittima degli atti persecutori. Secondo tale organo, i procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking erano per loro natura caratterizzati dalla necessità di una risposta celere e immediata. Alla luce di ciò ritenne che la mancata comunicazione al ricorrente dell’avvio del procedimento amministrativo dinanzi al questore e il fatto che non fosse stato ascoltato prima dell’adozione della misura non avessero violato il suo diritto di partecipazione poiché egli avrebbe potuto ottenere il riesame integrale della decisione, in autotutela, rivolgendo una richiesta in tale senso direttamente al questore, o anche adire il prefetto con un ricorso gerarchico, ai sensi delle pertinenti disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica, 24 novembre 1971 n. 1199 (“D.P.R. n. 1199/1971” si veda il paragrafo 23 infra).
  10. Il Consiglio di Stato osservò inoltre che il provvedimento di ammonimento non era carente di motivazione e non era fondato su indagini insufficienti, poiché il questore aveva dichiarato che le indagini svolte dalla polizia avevano dimostrato che il ricorrente aveva tenuto una condotta ingiuriosa e intimidatoria nei confronti di sua moglie.
  11. Infine, il Consiglio di Stato osservò che il mancato ascolto del ricorrente prima dell’emissione del provvedimento di ammonimento era dovuto alla necessità di evitare la potenziale escalation degli atti di violenza contro sua moglie.

IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI PERTINENTI

I. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

A. Il decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi)
 

  1. Il decreto n. 1199/1971 disciplina il ricorso che può essere proposto avverso atti e decisioni amministrativi dinanzi all’organo sovraordinato. Le pertinenti disposizioni recitano:

Articolo 1: Ricorso

“Contro gli atti amministrativi non definitivi è ammesso ricorso in unica istanza all'organo sovraordinato, per motivi di legittimità e di merito, da parte di chi vi abbia interesse.

(...)

La comunicazione degli atti soggetti a ricorso ai sensi del presente articolo deve recare l'indicazione del termine e dell'organo cui il ricorso deve essere presentato.”

Articolo 5: Decisione

“L'organo decidente, se riconosce che il ricorso non poteva essere proposto, lo dichiara inammissibile. Se ravvisa una irregolarità sanabile, assegna al ricorrente un termine per la regolarizzazione e, se questi non vi provvede, dichiara il ricorso improcedibile. Se riconosce infondato il ricorso, lo respinge. Se lo accoglie per incompetenza, annulla l'atto e rimette l'affare all'organo competente. Se lo accoglie per altri motivi di legittimità o per motivi di merito, annulla o riforma l'atto salvo, ove occorra, il rinvio dell'affare all'organo che lo ha emanato.

La decisione deve essere motivata e deve essere emessa e comunicata all'organo o all'ente che ha emanato l'atto impugnato, al ricorrente e agli altri interessati, ai quali sia stato comunicato il ricorso, in via amministrativa o mediante notificazione o mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.”

Articolo 6: Silenzio

“Decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al Presidente della Repubblica.”

  1. La legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi)
    1. La legge n. 241/1990 disciplina il procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai documenti amministrativi, le pertinenti disposizioni recitano:

Articolo 3: Motivazione del provvedimento

“1. Ogni provvedimento amministrativo (…) deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.

  1. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.

(...)

  1. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere.”

Articolo 7: Comunicazione di avvio del procedimento

“1. Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento.

  1. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari.”

 

  1. Il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in legge il 23 aprile 2009 (legge n. 38/2009)
    1. Il decreto-legge n. 11/2009 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori (stalking). L’articolo 7 ha introdotto una nuova disposizione nel codice penale (l’articolo 612‑bis), che istituisce il reato di stalking. L’ articolo 612‑bis, in vigore all’epoca dei fatti di cui trattasi nel presente ricorso, recitava:

 “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.”

  1. L’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 ha introdotto la misura dell’ammonimento che deve essere emessa nei procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking dal questore. Esso recita:

“1. Fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all'articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all'autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.

  1. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l'ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore adotta i provvedimenti in materia di armi e munizioni.
  2. La pena per il delitto di cui all'articolo 612-bis del codice penale è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo.
  3. Si procede d'ufficio per il delitto previsto dall'articolo 612-bis del codice penale quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo.”

II. LA GIURISPRUDENZA INTERNA PERTINENTE

A. Giurisprudenza sulla natura del provvedimento e sulle condizioni alle quali può essere emesso l’ammonimento di cui all’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009

  1. La pertinente giurisprudenza interna ha chiarito che l’ammonimento inflitto ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 svolge una “funzione preventiva e dissuasiva” in quanto mira a prevenire la reiterazione delle condotte penalizzate dall’articolo 612-bis del codice penale che cagionano un danno irreparabile alla persona offesa (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn. 4365 del 19 luglio 2011 e 4077 del 25 giugno 2020; si veda altresì la sentenza della Corte di Cassazione n. 17350 del 19 agosto 2020). Alla luce di tale funzione il questore non è tenuto a valutare le responsabilità penali del presunto stalker ma ad accertare la probabilità che le condotte in questione abbiano avuto luogo e ad analizzare l’esistenza di un potenziale pericolo per il futuro (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 4077 del 25 giugno 2020).
  2. Da un punto di vista fattuale, l’inflizione della misura esige l’accertamento delle stesse condotte che costituiscono il reato previsto dall’articolo 612-bis del codice penale (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn. 2599 del 7 settembre 2015 e 4077 del 25 giugno 2020). In particolare nella sentenza n. 2045 del 21 aprile 2020, la terza sezione del Consiglio di Stato ha sottolineato che l’ammonimento può essere emesso soltanto qualora abbiano avuto luogo condotte reiterate che possono essere qualificate come “minacce o molestie” che producono conseguenze negative sullo stato fisico, psicologico ed esistenziale della persona offesa, limitandone l’autodeterminazione.
  3. L’articolo 612-bis del codice penale è infatti composto da tre elementi costitutivi: (i) condotte reiterate di minaccia o di molestia; (ii) la provocazione nella persona offesa di uno stato di ansia o di paura per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto, o dell’alterazione delle proprie abitudini di vita; (iii) l’esistenza di un nesso causale tra il primo e il secondo elemento. La Corte costituzionale ha chiarito l’interpretazione del reato di stalking con la sentenza n. 172 dell’11 giugno 2014 nella quale ha ritenuto che la disposizione non difettasse di chiarezza e prevedibilità, in quanto era una specificazione dei reati di minaccia e di molestia, previsti sin dalla formulazione originaria, dagli articoli 612 e 660 del codice penale.
  4. La differenza tra l’accertamento di una situazione che conduce all’inflizione di un ammonimento oppure all’esercizio dell’azione penale per il reato di stalking sta, da un lato, nel fatto che la persona offesa abbia o meno proposto querela, e, dall’altro nell’onere della prova applicato. La giurisprudenza ha chiarito che per l’inflizione di un ammonimento non è necessaria la prova concludente della commissione del reato (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 4077 del 25 giugno 2020). La misura richiede la sussistenza di prove indiziarie del fatto che una condotta penalizzata dall’articolo 612-bis abbia avuto luogo e che essa, in base a una valutazione prognostica, possa ripetersi in futuro (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn.1085 del 15 febbraio 2019 e 4077 del 25 giugno 2020).
  5. Il Consiglio di Stato ha ritenuto inoltre che la misura non possa essere fondata soltanto sulla versione dei fatti della persona che l’ha richiesta. L’autorità di polizia deve svolgere indagini adeguate al fine di valutare la fondatezza della richiesta (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 4077 del 25 giugno 2020).
  6. Ha chiarito anche che, in conformità all’articolo 3 della legge n. 241/1990 (si veda il paragrafo 24 supra), la sussistenza di tali prove indiziarie deve essere adeguatamente dimostrata e indicata nel processo verbale dell’ammonimento (inter alia, Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 1085 del 15 febbraio 2019). La motivazione indicata nel processo verbale deve consentire la valutazione della legittimità dell’esercizio dei poteri amministrativi al fine di evitare l’irrogazione di misure basate su semplici sospetti non dimostrati (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn. 2108 del 29 marzo 2019 e 7883 del 10 dicembre 2020).

B. Giurisprudenza sugli obblighi derivanti dall’ammonimento

  1. Con sentenza n. 17350 del 19 agosto 2020, la Corte di Cassazione (Quinta Sezione) ha chiarito che l’ammonimento invita il destinatario ad astenersi da condotte che rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 612-bis del codice penale.
  2. Secondo la Corte di Cassazione, l’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 è finalizzato a delimitare la portata della discrezionalità conferita al questore, ovvero a chiarire le condizioni per l’adozione del provvedimento facendo riferimento al delitto di atti persecutori (si veda il paragrafo 28 supra).
  3. Ad ogni modo, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’ammonimento non impone al destinatario della misura nuovi obblighi giuridici, in quanto si limita a rammentargli di tenere una condotta rispettosa dell’articolo 612-bis del codice penale. Lo avvisa inoltre delle conseguenze “rafforzate” ex lege che comporterebbe la reiterazione della condotta contestata, ovvero il perseguimento del reato di cui trattasi in assenza di querela della persona offesa, e l’applicazione di una circostanza aggravante in caso di condanna.
  4. Alla luce di tali osservazioni la Corte di Cassazione ha concluso che l’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 non difetta di chiarezza e prevedibilità.

C. Giurisprudenza sul diritto a partecipare ai procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking di cui all’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009

  1. Nelle prime cause riguardanti i provvedimenti di ammonimento, le autorità giudiziarie interne avevano ritenuto che si trattasse di misure amministrative che incidevano direttamente sugli interessi delle persone coinvolte sin dal momento della loro adozione. Di conseguenza restavano soggetti al rispetto del diritto di partecipazione al procedimento e del principio del contraddittorio sancito dalla legge n. 241/1990, nonché alla valutazione obbligatoria da parte del questore degli elementi forniti dalla persona colpita nell’esercizio del suo diritto di difesa (TAR della Liguria, Seconda Sezione, sentenze nn. 31 del 12 gennaio 2010 e 208 del 15 aprile 2010). Analogamente, con sentenza n. 5676 del 21 ottobre 2011, la Terza Sezione del Consiglio di Stato aveva osservato che l’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 prevedeva espressamente che il questore, prima di emettere un ammonimento, dovesse ascoltare le persone informate dei fatti, compreso il destinatario del provvedimento.
  2. La giurisprudenza successiva ha sviluppato due approcci contrastanti. L’approccio maggioritario, seguendo la giurisprudenza citata nel precedente paragrafo, ritiene che la funzione preventiva dell’ammonimento non giustifichi, per se, la deroga al diritto dell’interessato di essere ascoltato nel procedimento. Per contro la giurisprudenza minoritaria ritiene che, alla luce della funzione preventiva dell’ammonimento, il questore disponga di piena discrezionalità nel valutare se comunicare al destinatario l’avvio del procedimento e se sia il caso di ascoltarlo prima dell’adozione del provvedimento.
  3. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, il procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking deve essere condotto in conformità al principio del contraddittorio in modo da consentire al destinatario della misura di esprimere il suo punto di vista (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn. 5676 del 21 ottobre 2011, 4187 del 9 luglio 2018 e 1085 del 15 febbraio 2019). Una deroga al diritto di partecipazione del destinatario è ammissibile soltanto in eccezionali circostanze d’urgenza, che devono essere valutate dal questore (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 6038 del 9 dicembre 2014). Tali specifiche ragioni, ovvero il rischio imminente di danno grave, devono essere debitamente indicate nella motivazione dell’ammonimento (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 2108 del 29 marzo 2019).
  4. L’approccio minoritario, per contro, ritiene che i procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking sono per loro stessa natura caratterizzati dalla necessità di prevenire il rischio di danno irreparabile alla persona che ha richiesto l’ammonimento. Di conseguenza rientra nei poteri discrezionali del questore valutare se sia il caso di ascoltare il destinatario della misura. Secondo tale approccio il mancato ascolto del destinatario dell’ammonimento in assenza di comprovate ragioni d’urgenza non può essere invocato quale motivo di annullamento del provvedimento (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenze nn. 2419 del 6 giugno 2016 e 4241 del 13 ottobre 2016).

D. Giurisprudenza sulla natura del controllo giurisdizionale dell’ammonimento

  1. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, i tribunali amministrativi hanno il potere di valutare se il provvedimento sia fondato su un’adeguata base fattuale, sia adeguatamente motivato e sia giustificato nelle circostanze di ciascuna causa. Per esempio, nella sentenza n. 5676 del 21 ottobre 2011, sopra citata, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’ammonimento fosse carente di motivazione, in quanto non vi era stata alcuna valutazione degli elementi forniti dal soggetto ammonito, che erano stati semplicemente annotati nel testo. Nel merito, il Consiglio di Stato ha osservato che non sussistevano comprovati elementi fattuali che giustificassero l’irrogazione della misura (si vedano anche le sentenze nn. 5259 del 6 giugno 2018 e 5445 del 21 aprile 2020, nelle quali la Terza Sezione del Consiglio di Stato aveva valutato e accertato i fatti alla luce degli elementi di prova disponibili al fine di stabilire se l’inflizione dell’ammonimento fosse giustificata date le specifiche circostanze delle cause).

E. Giurisprudenza sul riesame e la revoca dei provvedimenti amministrativi in materia di sicurezza pubblica

  1. Il quadro giuridico applicabile non stabilisce un termine per gli effetti dell’ammonimento né una procedura di riesame periodico. Secondo i principi generali applicabili ai provvedimenti amministrativi, il destinatario può chiedere all’autorità amministrativa di riesaminare il provvedimento ma quest’ultima dispone di piena discrezionalità nel decidere se esercitare i suoi poteri di riesame. L’autorità amministrativa, pertanto, non è giuridicamente obbligata a procedere al riesame o a revocare la misura soltanto in ragione del decorso del tempo (Consiglio di Stato, Sesta Sezione, sentenza n. 3634 del 9 luglio 2013). Il richiedente ha diritto di impugnare il rigetto della richiesta di riesame, o il silenzio dell’autorità amministrativa dinanzi al competente tribunale amministrativo (Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza n. 4565 del 19 luglio 2011, che è la sentenza lamentata nella presente causa).
  2. Quando è presentata una richiesta di riesame, il tempo decorso dall’irrogazione del provvedimento è uno degli elementi presi in considerazione dall’autorità amministrativa (per esempio, TAR di Bolzano, sentenza n. 262 del 24 giugno 2015). Ai sensi della giurisprudenza disponibile, però, l’ammonimento emesso nel procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking è un provvedimento “istantaneo”, non soggetto a richiesta di riesame o di revoca. Di conseguenza l’interessato non ha diritto di impugnare dinanzi ai tribunali amministrativi il rigetto implicito o esplicito della richiesta di riesame o revoca presentata al questore (ibid.; si veda anche TAR di Genova, sentenza n. 826 del 22 luglio 2022). Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la revoca della misura da parte dell’autorità amministrativa non precluderebbe i suoi effetti giuridici nel procedimento penale, ovvero la possibilità di perseguire il destinatario del provvedimento in caso di reiterazione di condotte di stalking anche in assenza di querela, e l’irrogazione di una pena più severa in caso di condanna (si veda Corte di Cassazione, Quinta Sezione, sentenza n. 34474 del 16 settembre 2021).
  3. Secondo alcuni recenti sviluppi riguardanti un altro provvedimento di pubblica sicurezza, il potere di riesame conferito all’autorità amministrativa deve essere interpretato alla luce dei principi costituzionali di buona amministrazione, ragionevolezza e proporzionalità. Nella sentenza n. 508 del 20 febbraio 2019, la Seconda Sezione del TAR della Sicilia ha ritenuto che, qualora una misura di pubblica sicurezza colpisca una persona e il quadro giuridico non stabilisca un termine per i suoi effetti, debba essere accordato a tale persona il diritto di ottenere il riesame della giustificazione del provvedimento. Qualora il mutamento delle circostanze pertinenti e il decorso del tempo non lo giustifichino più, il provvedimento deve essere revocato in quanto non risponde ad alcun interesse pubblico (si veda anche TAR della Campania, Quinta Sezione, sentenza n. 2859 del 21 maggio 2015). In tali casi i tribunali amministrativi competenti possono annullare l’implicito rigetto della richiesta di riesame contenuto nel silenzio dell’autorità amministrativa cui essa era stata presentata e ordinare a quest’ultima di esercitare il suo potere e adottare una decisione motivata in ordine alla richiesta.

III. DIRITTO E STRUMENTI INTERNAZIONALI

A. Strumenti relativi ai diritti della persona nelle procedure amministrative

  1. Comitato dei ministri risoluzione 77 (31) sulla protezione della persona in relazione agli atti delle autorità amministrative
  1. Tale risoluzione, adottata dal Comitato dei ministri il 28 settembre 1977, ha stabilito i principi che si applicano alla tutela delle persone fisiche e giuridiche nelle procedure amministrative in relazione alle misure o decisioni individuali adottate nell’esercizio dell’autorità pubblica, che siano di natura tale da incidere direttamente sui loro diritti, libertà o interessi.
  2. L’articolo 1 della risoluzione, concernente il diritto di essere ascoltato, recita:

 “1. La persona interessata, in relazione agli atti amministrativi la cui natura è tale che essi possono pregiudicare i suoi diritti, le sue libertà o i suoi interessi, può presentare fatti e rilievi e, ove opportuno, chiedere prove, di cui l’autorità amministrativa terrà conto.

2. Ove opportuno, la persona interessata è informata a tempo debito e in modo adeguato alla situazione dei diritti indicati nel precedente paragrafo.”

  1. Secondo l’appendice, l’attuazione dei principi fissati dalla risoluzione deve tenere conto dei requisiti della buona ed efficiente amministrazione, nonché degli interessi dei terzi e degli interessi pubblici più importanti. I citati interessi, pertanto, possono giustificare la modifica o l’esclusione dei principi stabiliti dalla risoluzione, in casi particolari o in settori specifici della pubblica amministrazione. Tuttavia tali modifiche o deroghe devono essere conformi allo scopo fondamentale della risoluzione che consiste nel conseguimento del maggior grado possibile di equità.
  2. L’articolo IV, che concerne la motivazione degli atti amministrativi, recita:

 “Qualora un atto amministrativo sia di natura tale da pregiudicare i suoi diritti, le sue libertà o i suoi interessi, la persona interessata è informata delle ragioni su cui esso è basato indicando tali ragioni nell’atto o comunicandole alla persona interessata, su sua richiesta, in forma scritta entro un termine ragionevole.”

  1. Raccomandazione CM/Rec(2007)7 del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla buona amministrazione
  1. Tale raccomandazione, adottata dal Comitato dei ministri il 20 giugno 2007, stabilisce i principi e le norme che dovrebbero essere applicati dalle autorità pubbliche nei rapporti con i privati al fine di garantire una buona amministrazione (articolo 1).
  2. L’articolo 8, che introduce il principio della partecipazione, recita:

 “Salvo i casi in cui occorra adottare provvedimenti urgenti, le autorità pubbliche offrono ai privati la possibilità di partecipare, con mezzi idonei, alla predisposizione e all’attuazione delle decisioni amministrative che incidono sui loro diritti o sui loro interessi.”

  1. L’articolo 14, che sancisce il diritto del privato di essere ascoltato in relazione alle decisioni individuali, recita:

 “Qualora un’autorità pubblica intenda adottare una decisione individuale che incide direttamente e negativamente sui diritti dei privati, e sempre che non sia stata loro offerta la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, tali privati, a meno che non sia palesemente superfluo, avranno la possibilità di esprimere il loro punto di vista entro un termine ragionevole, con le modalità stabilite dal diritto nazionale e, ove necessario, con l’assistenza di una persona di loro scelta.”

  1. L’articolo 17 § 2, concernente la forma degli atti amministrativi, sancisce l’obbligo di indicare la motivazione del provvedimento:

 “Per ogni decisione individuale adottata è fornita un’adeguata motivazione che indica le basi giuridiche e fattuali su cui è fondata la decisione, almeno nei casi in cui essa incide sui diritti individuali.”

  1. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
  1. Le parti pertinenti dell’articolo 41 della Carta recitano:

 “1. Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione.

  1. Tale diritto comprende in particolare:

– il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio;”

  1. La Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha ritenuto che il diritto al contraddittorio garantisca a chiunque la possibilità di manifestare efficacemente il suo punto di vista durante il procedimento amministrativo e prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi (le pertinenti sentenze della CGUE sono citate nella sentenza della Corte relativa alla causa Karácsony e altri c. Ungheria [GC], nn. 42461/13 e 44357/13, § 55, 17 maggio 2016.

B. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la Convenzione di Istanbul)

  1. La Convenzione di Istanbul è stata ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013 n. 77. Le pertinenti disposizioni recitano:

Articolo 34 – Atti persecutori (Stalking)

“Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionalmente e ripetutamente minaccioso nei confronti di un'altra persona, portandola a temere per la propria incolumità.”

Articolo 50 – Risposta immediata, prevenzione e protezione

“1. Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, offrendo una protezione adeguata e immediata alle vittime.

  1. Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge operino in modo tempestivo e adeguato in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compreso utilizzando misure operative di prevenzione e la raccolta delle prove.”

Articolo 51 – Valutazione e gestione dei rischi

“1. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno.

  1. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la valutazione di cui al paragrafo 1 prenda in considerazione, in tutte le fasi dell’indagine e dell’applicazione delle misure di protezione, il fatto che l'autore di atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione possieda, o abbia accesso ad armi da fuoco.”

Articolo 53 – Ordinanze di ingiunzione o di protezione

“1. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di protezione possano essere ottenute dalle vittime di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione.

  1. Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di protezione di cui al paragrafo 1 siano:
  • concesse per una protezione immediata e senza oneri amministrativi o finanziari eccessivi per la vittima;
  • emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca;
  • ove necessario, decise ex parte con effetto immediato;
  • disponibili indipendentemente, o contestualmente ad altri procedimenti giudiziari;
  • possano essere introdotte nei procedimenti giudiziari successivi.
  1. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violazione delle ordinanze di ingiunzione o di protezione emesse ai sensi del paragrafo 1 sia oggetto di sanzioni penali o di altre sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive.”
     
  1. I pertinenti passi del rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul relativi all’articolo 53 2 recitano:

“270. Il paragrafo 2 contiene una serie di indicazioni applicabili alle ordinanze di ingiunzione e protezione. Il primo trattino esige che tali ordinanze offrano protezione immediata e siano accessibili senza eccessivi oneri finanziari o amministrativi per la vittima. In altri termini ogni ordinanza deve avere effetto immediatamente dopo la sua emissione e deve essere accessibile senza necessità di un lungo procedimento giudiziario. Le eventuali spese processuali imposte al richiedente, presumibilmente la vittima, non devono costituire un onere finanziario eccessivo tale da impedirgli di presentare la richiesta. Al contempo le procedure previste per chiedere un’ordinanza di ingiunzione o protezione non devono presentare difficoltà insormontabili per la vittima.

  1. Il secondo trattino esige che l’ordinanza sia emessa per un periodo specificato o determinato, o fino a modifica o revoca. Ciò discende dal principio della certezza del diritto che impone che la durata di un provvedimento giuridico debba essere chiaramente definita. Essa inoltre cessa i suoi effetti qualora sia modificata o revocata dal giudice o da un’altra autorità competente.
  2. Il terzo trattino impone alle Parti di garantire che, in determinati casi, tali ordinanze possano essere emesse, ove necessario, ex parte con effetto immediato. Ciò significa che un giudice o un’altra autorità competente deve avere il potere di emettere un’ordinanza di ingiunzione o di protezione temporanea sulla base della richiesta di una parte soltanto. Va osservato che, in conformità agli obblighi generali di cui all’articolo 49 (2) della presente Convenzione, l’emissione di tali ordinanze non deve recare pregiudizio ai diritti di difesa e ai requisiti di equità e imparzialità del processo conformemente all’articolo 6 CEDU. Ciò significa, in particolare, che la persona destinataria dell’ordinanza deve avere il diritto di impugnarla dinanzi alle autorità competenti in conformità alle appropriate procedure interne.”

IN DIRITTO

    I. OSSERVAZIONI PRELIMINARI

  1. Il ricorrente ha lamentato, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, l’ingerenza asseritamente illegittima nel suo diritto al rispetto della vita privata, familiare e professionale. Ha lamentato inoltre, ai sensi dell’articolo 6 1 e dell’articolo 8 della Convenzione, la violazione dei suoi diritti di partecipazione e difesa, l’assenza di motivi pertinenti e sufficienti che giustificassero l’ammonimento e di un adeguato controllo giurisdizionale di tale misura.
  2. La Corte osserva innanzitutto che secondo costante giurisprudenza, benché l’articolo 8 della Convenzione non contenga espliciti requisiti procedurali, il processo decisionale che conduce a misure di ingerenza deve essere equo e tale da garantire il debito rispetto degli interessi della persona tutelati dall’articolo 8 (si veda tra gli altri precedenti, S. c. Ucraina, n. 2091/13, § 70, 11 luglio 2017). Pertanto, poiché conformemente al principio jura novit curia, la Corte è libera di qualificare giuridicamente i fatti della causa (si veda Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, § 114, 20 marzo 2018), essa ritiene opportuno esaminare le doglianze del ricorrente soltanto ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione.

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE

  1. Il ricorrente ha lamentato l’asserita violazione del suo diritto al rispetto della vita privata, familiare e professionale di cui all’articolo 8 della Convenzione. Ha sostenuto, in particolare, che la base giuridica della misura applicatagli non era compatibile con i requisiti di qualità della legge previsti dalla Convenzione; che gli obblighi impostigli erano eccessivamente ampi e generici e che il quadro giuridico applicabile non gli forniva le necessarie garanzie contro l’arbitrarietà; che non gli era stata offerta la possibilità di proteggere adeguatamente i suoi interessi durante il procedimento; che non sussistevano motivi sufficienti che giustificassero la misura e che i competenti tribunali interni non li avevano esaminati in maniera approfondita. L’articolo 8, per quanto pertinente, recita:

“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...)

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”
 

A. Sulla ricevibilità

  1. L’esaurimento delle vie di ricorso interne

a. Le osservazioni delle parti
 

  1. Il Governo ha osservato che il ricorrente non aveva correttamente esaurito le vie di ricorso interne in quanto egli avrebbe potuto proporre ricorso dinanzi a un organo amministrativo sovraordinato. Conformemente all’articolo 1 comma 1 del decreto n. 1199/1971 (si veda il paragrafo 23 supra), il ricorrente avrebbe potuto contestare la valutazione delle prove raccolte dalla polizia e ottenere dal prefetto un riesame integrale della legittimità formale e sostanziale dell’ammonimento. Secondo il Governo un simile rimedio non sarebbe stato eccessivamente oneroso poiché era di carattere amministrativo e non richiedeva l’assistenza di un avvocato o un’esatta descrizione dei motivi del ricorso.
  2. Il ricorrente ha ribadito che egli aveva esaurito le vie di ricorso previste dall’ordinamento giuridico italiano poiché aveva impugnato l’ammonimento dinanzi al TAR competente. Ha osservato inoltre che la sentenza di primo grado era stata annullata dal Consiglio di Stato, le cui sentenze erano inappellabili.
     
    1. La valutazione della Corte
      1. Principi generali
         
  3. La Corte ribadisce che l’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne impone al ricorrente un utilizzo normale dei ricorsi esperibili e sufficienti applicabili alle doglianze ai sensi della Convenzione. L’esistenza di tali ricorsi deve essere sufficientemente certa non soltanto in teoria bensì anche in pratica, diversamente essi difetterebbero della necessaria accessibilità ed effettività (si vedano Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 66, Reports of Judgments and Decisions 1996-IV, e Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], nn. 17153/11 e altri 29, § 71, 25 marzo 2014). Per essere effettivo il ricorso deve poter rimediare direttamente alla situazione contestata e deve offrire ragionevoli prospettive di successo (si vedano Balogh c. Ungheria, n. 47940/99, § 30, 20 luglio 2004, e Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46, CEDU 2006-II).
  4. Non sussiste tuttavia l’obbligo di ricorrere a vie di ricorso inadeguate o ineffettive (si vedano Akdivar e altri, sopra citata, § 67, e Vučković e altri, sopra citata § 73).
  5. Per quanto riguarda l’onere della prova, spetta al Governo che asserisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne convincere la Corte che il ricorso era effettivo, esperibile in teoria e in pratica all’epoca dei fatti. Una volta soddisfatto tale onere, spetta al ricorrente dimostrare che era stato effettivamente esperito il ricorso proposto dal Governo, o che esso, date le particolari circostanze della causa, era per qualche motivo inadeguato e ineffettivo, o che sussistevano circostanze speciali che esoneravano il ricorrente da tale obbligo (si vedano, tra molti altri precedenti, Akdivar e altri, sopra citata, § 68; Demopoulos e altri c. Turchia (dec.) [GC], nn. 46113/99 e altri 7, § 69, CEDU 2010; McFarlane c. Irlanda [GC], n. 31333/06, § 107, 10 settembre 2010; e Vučković e altri, sopra citata, § 77).
  6. La Corte ribadisce inoltre la costante giurisprudenza degli organi della Convenzione, secondo la quale il ricorso a un organo superiore che non garantisce a colui che lo propone il diritto personale all’esercizio da parte dello Stato dei suoi poteri di controllo non può essere considerato un via di ricorso effettiva ai fini dell’articolo 35 della Convenzione (si vedano Gibas c. Polonia, n. 24559/94, decisione della Commissione del 6 settembre 1995, Decisions and Reports 82, pp. 76 e 82; Horvat c. Croazia, n. 51585/99, § 47, CEDU 2001‑VIII; Belevitskiy c. Russia, n. 72967/01, § 59, 1° marzo 2007, e Petrella c. Italia, n.24340/07, §§ 28-29, 18 marzo 2021).
  7. Infine, la Corte ribadisce che non si può obbligare il ricorrente che abbia esperito un ricorso all’apparenza effettivo e sufficiente ad esperirne altri che pur essendo disponibili non hanno verosimilmente più probabilità di successo (si vedano Aquilina c. Malta [GC], n. 25642/94, § 39, CEDU 1999‑III, e Nada c. Svizzera [GC], n. 10593/08, § 142, CEDU 2012). In tale contesto, qualora siano disponibili diverse vie di ricorso, al ricorrente non è chiesto di utilizzarne più di una, che di norma è egli stesso a scegliere (si veda Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 58, CEDU 2009).

ii. Applicazione dei suddetti principi al caso di specie

  1. In ordine alla via di ricorso suggerita dal Governo, ovvero un ricorso dinanzi al prefetto, occorre osservare che, conformemente all’articolo 6 del decreto n. 1199/1971 (si veda il paragrafo 23 supra), decorso il termine di novanta giorni, qualora l’organo amministrativo non abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto. Ai sensi della medesima disposizione, in caso di rigetto esplicito o implicito del ricorso dinanzi all’organo sovraordinato è possibile ricorrere dinanzi all'autorità giurisdizionale competente o presentare un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
  2. Sebbene non vi sia motivo per la Corte di dubitare che, ai sensi della citata disposizione interna, in caso di rigetto implicito o esplicito del ricorso presentato dinanzi al prefetto, si possa impugnare il provvedimento dinanzi al TAR competente, occorre osservare che in risposta all’eccezione del Governo, il ricorrente ha ribadito di essere ricorso direttamente al TAR e che la decisione del Consiglio di Stato che aveva annullato la sentenza di primo grado non era ulteriormente appellabile (si veda il paragrafo 61 supra). La Corte deve prendere atto anche del fatto che il Governo non ha contestato la replica del ricorrente su tale punto.
  3. La Corte ritiene che il ricorso esperito dal ricorrente era, almeno in teoria, effettivo, ed effettivamente all’epoca in cui il ricorrente aveva promosso il procedimento dinanzi al TAR, sia i tribunali amministrativi di primo grado che il Consiglio di Stato (si veda il paragrafo 37 supra) avevano accolto doglianze analoghe a quelle sollevate dal ricorrente. Il Governo ha sostenuto che i tribunali amministrativi potevano svolgere un controllo adeguato dei provvedimenti di ammonimento (si vedano le sentenze citate al paragrafo 41 supra), riconoscendo in tal modo che il ricorrente aveva esperito una via di ricorso che, almeno in teoria, era effettiva.
  4. Alla luce di quanto suesposto, la Corte conclude che il ricorrente aveva esperito una delle vie di ricorso offerte dall’ordinamento giuridico interno e che essa, nonostante l’esito, era effettiva. Conseguentemente, poiché non si può pretendere che il ricorrente utilizzi più di una delle diverse vie di ricorso a disposizione (si veda Toplak e Mrak c. Slovenia, nn. 34591/19 e 42545/19, § 99, 26 ottobre 2021), l’eccezione del Governo deve essere rigettata.
  1. Sulla questione di sapere se sia applicabile l’articolo 8 e se via sia stata ingerenza

(a) Le osservazioni delle parti

  1. Il Governo ha osservato che l’ammonimento inflitto al ricorrente non aveva avuto conseguenze immediate sul soggetto ammonito e non aveva inciso sulla sua vita personale perché si limitava a invitarlo a osservare le leggi in vigore. Ha sostenuto inoltre che il ricorrente non aveva dimostrato che il provvedimento aveva inciso sulla vita familiare con sua figlia, in quanto i suoi diritti genitoriali non erano stati limitati, o sulla sua vita professionale in quanto egli era tuttora membro dell’ordine degli avvocati. Alla luce di ciò il Governo riteneva che l’ammonimento inflitto nel procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking fosse una “misura in bonam partem”, favorevole al soggetto ammonito, in quanto evitava un’azione penale immediata nei suoi confronti. Infine, esso ha osservato che l’ammonimento non aveva avuto conseguenze sulla vita del ricorrente in generale. Secondo il Governo l’ammonimento non era stato messo in atto in quanto il ricorrente non era stato perseguito penalmente e quindi non aveva subito gli effetti potenzialmente lesivi di tale provvedimento.
  2. Il ricorrente ha sostenuto che l’articolo 8 della Convenzione era applicabile e che vi era stata ingerenza, in quanto la misura poteva incidere considerevolmente sulla sua vita privata, ovvero, in particolare, sulle sue relazioni sociali con gli amici in comune con la moglie, e sulla sua vita familiare, ovvero sulla possibilità di avere contatti con la figlia. Ha sostenuto inoltre che in quanto avvocato che esercitava la professione rischiava sanzioni disciplinari dall’ordine degli avvocati. Ha sottolineato che, data l’assenza di un termine al provvedimento e la modalità con cui gli era stato notificato (dalla divisione anticrimine del commissariato locale di polizia), l’ammonimento aveva avuto un forte impatto sulla sua reputazione personale e professionale.

(b) La valutazione della Corte

  1. Principi generali

(α) Vita privata

  1. La Corte ribadisce che il concetto di “vita privata” è ampio e non suscettibile di definizione esaustiva (si veda Sidabras e Džiautas c. Lituania, nn. 55480/00 e 59330/00, § 43, CEDU 2004‑VIII). Riconosce inoltre che sarebbe eccessivamente restrittivo limitare la nozione di “vita privata” a una “cerchia intima”, in cui il singolo può vivere la sua vita personale come crede escludendo quindi totalmente il mondo esterno non compreso in tale cerchia, (si veda Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, § 29, serie A n. 251‑B).
  2. L’articolo 8 garantisce quindi il diritto alla “vita privata” in senso ampio, comprendente il diritto a condurre una “vita sociale privata”, ovvero la possibilità per il singolo di sviluppare la sua identità sociale. A tale riguardo il diritto in questione sancisce la possibilità di avvicinare altre persone al fine di stabilire e sviluppare rapporti con esse (si veda Bărbulescu c. Romania [GC], n. 61496/08, § 71, 5 settembre 2017). L’articolo 8, pertanto, tutela anche il diritto allo sviluppo personale e quello a instaurare e sviluppare rapporti interpersonali e con il mondo esterno (si veda Denisov c. Ucraina [GC], n. 76639/11, § 95, 25 settembre 2018).
  3. La Corte ha inoltre ritenuto che la reputazione di una persona faccia parte della sua identità personale e della sua integrità psicologica e rientri pertanto nel campo di applicazione della sua “vita privata” (si veda Pfeifer c. Austria, n. 12556/03, § 35, 15 novembre 2007). Perché entri in gioco l’articolo 8 l’attacco all’onore personale e alla reputazione deve raggiungere un certo livello di gravità, e deve essere effettuato in modo tale da arrecare pregiudizio al godimento personale del diritto al rispetto della vita privata (si veda c. Norvegia, n. 28070/06, § 64, 9 aprile 2009).

(β) Vita familiare

  1. La Corte ribadisce che dal concetto di famiglia sul quale si fonda l’articolo 8 discende che il figlio nato dall’unione creata dai coniugi con un matrimonio legittimo e autentico, fa parte, ipso jure, di tale relazione; pertanto dal momento della sua nascita e in ragione di essa esiste tra lui e i genitori un legame che costituisce “vita familiare” anche qualora i genitori non coabitino (si veda Berrehab c. Paesi Bassi, 21 giugno 1988, § 21, serie A n. 138). La coabitazione non è una condizione sine qua non della “vita familiare” tra genitori e figli minori (si veda Naltakyan c. Russia, n.54366/08, § 151, 20 aprile 2021).
  • Applicazione dei suddetti principi al caso di specie
  1. La Corte ritiene che l’ammonimento emesso nel quadro del procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking potesse incidere sulla vita familiare e sulla vita sociale privata del ricorrente nonché sulla sua reputazione.
  2. In primo luogo, la Corte osserva che il ricorrente era stato diffidato dal reiterare le condotte che avevano provocato l’adozione del provvedimento, come per esempio inviare messaggi alla moglie, con la quale condivideva l’affidamento della figlia, ed effettuare chiamate telefoniche agli amici comuni. L’ammonimento, pertanto, era stato formulato in maniera tale da limitare, almeno in linea di principio, le sue possibilità di contatto con la figlia e le sue relazioni con gli amici (si veda il paragrafo 10 supra). In particolare, data la formulazione generica riportata nel processo verbale dell’ammonimento e la necessità di modulare attentamente il contenuto e la natura delle comunicazioni e dei contatti con la moglie per non violare gli obblighi derivanti dal provvedimento, il ricorrente rischiava di incorrere in una limitazione delle possibilità di organizzare incontri con la figlia e trascorrere del tempo con lei e quindi di esercitare la sua potestà genitoriale come era nell’interesse superiore della minore e necessario per garantire il suo diritto alla bigenitorialità. Di conseguenza la Corte ritiene che l’ammonimento potesse incidere negativamente sul godimento della vita familiare e della vita sociale privata del ricorrente (si veda, mutatis mutandis, Sanchez Cardenas c. Norvegia, n. 12148/03, § 33, 4 ottobre 2007).
  3. In secondo luogo, dato che la misura era stata adottata in relazione a condotte che rientravano nella definizione di “stalking” e l’ammonimento di cui trattasi stabiliva che il ricorrente molestava e intimidiva la moglie, la Corte ritiene che il provvedimento potesse avere un effetto stigmatizzante sul ricorrente e compromettere la sua reputazione (si vedano, mutatis mutandis, Mikolajová c. Slovacchia, n. 4479/03, § 57, 18 gennaio 2011, e Vicent Del Campo c. Spagna, n. 25527/13, 40, 6 novembre 2018). In particolare, la Corte ritiene che il semplice fatto di essere convocato di persona da un organo della pubblica sicurezza ed essere informato che quest’ultimo ritiene che la condotta del soggetto convocato rientri nella definizione di un delitto tanto grave quale quello di atti persecutori e di essere invitato “a tenere una condotta conforme alla legge” può avere un forte impatto sulla reputazione di tale persona. La Corte osserva inoltre che il Consiglio di Stato, benché abbia confermato l’ammonimento inflitto al ricorrente, ha riconosciuto che il provvedimento produceva gravi effetti sulla sfera personale dell’interessato, in quanto comportava la possibilità di essere perseguito per il reato di stalking anche in assenza di querela della persona offesa e l’applicazione automatica di una circostanza aggravante in caso di condanna (si veda il paragrafo 19 supra). Di conseguenza, e alla luce delle conclusioni dell’ulteriore giurisprudenza interna esaminata che affermano che l’ammonimento incide direttamente sugli interessi delle persone coinvolte sin dal momento della sua adozione (si veda il paragrafo 37 supra), la Corte non è persuasa dall’argomento del Governo secondo il quale l’ammonimento era una “misura in bonam partem”, favorevole al destinatario.
  4. Alla luce di quanto suesposto e tenuto conto del contenuto degli obblighi imposti al ricorrente (si veda il paragrafo 11 supra), la Corte non può accogliere la tesi del Governo secondo la quale l’irrogazione della misura in questione non ha avuto effetti sul diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e familiare perché, come minimo, ha avuto un effetto dissuasivo sull’esercizio di tali diritti (si vedano, mutatis mutandis, Karastelev e altri c. Russia, n. 16435/10, § 71, 6 ottobre 2020, e A.S.c. Francia [GC], n. 43835/11, §§ 57 e 110, CEDU 2014 (estratti)).
  5. Di conseguenza la Corte conclude che i fatti che sono alla base delle doglianze del ricorrente rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione sia sotto il profilo della vita familiare che sotto il profilo della vita privata, che pertanto esso è applicabile alla questione in esame, e che vi è stata ingerenza nei diritti del ricorrente garantiti da tale disposizione.

3. Conclusione generale sulla ricevibilità

  1. La Corte osserva che il ricorso non è manifestamente infondato né incorre negli altri motivi di irricevibilità elencati dall’articolo 35 della Convenzione. Deve pertanto essere dichiarato ricevibile.

B. Sul merito

1. Le osservazioni delle parti

  1. Il ricorrente ha sostenuto che la base giuridica del provvedimento non era compatibile con i requisiti di qualità della legge previsti dalla Convenzione, poiché l’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 non gli aveva consentito di comprendere quali condotte potevano provocare l’emissione di un ammonimento, e quali obblighi incombevano su di lui una volta che era stato emesso. Ha osservato inoltre che gli sviluppi giurisprudenziali invocati dal Governo per dimostrare il chiarimento per via giurisprudenziale della disposizione interna applicabile non erano pertinenti ai fini della presente causa. Secondo il ricorrente un provvedimento che rimaneva in vigore per un termine indeterminato e senza che fosse possibile ottenerne la revoca era incompatibile con i principi sanciti dalla Convenzione.
  2. Il ricorrente ha inoltre sostenuto l’assenza di motivi pertinenti e sufficienti che giustificassero la misura, poiché essa era stata adottata senza fare riferimento agli elementi di prova disponibili e nonostante i risultati delle indagini svolte dalla polizia. Ha sostenuto ancora che non gli era stato consentito di tutelare adeguatamente i suoi interessi in conformità al principio del contraddittorio, poiché non gli era stato comunicato l’avvio del procedimento amministrativo, e le autorità giudiziarie competenti non avevano svolto un controllo adeguato delle ragioni di urgenza che giustificavano tale eccezione, né avevano valutato se il provvedimento, alla luce delle concrete circostanze del caso, fosse giustificato.
  3. Il Governo ha sostenuto che la misura era sia prevista dalla legge che necessaria in una società democratica.
  4. Secondo il Governo, l’articolo 8 del decreto-legge n. 11 del 2009 era accessibile e sufficientemente chiaro, in quanto specificava le condizioni alle quali poteva essere adottato il provvedimento e gli obblighi incombenti sul soggetto ammonito. Ha osservato, in particolare, che con sentenza n. 4077 del 25 giugno 2020 il Consiglio di Stato aveva chiarito che l’ammonimento poteva essere emesso quando aveva avuto luogo la condotta vietata dall’articolo 612-bis del codice penale. Ha aggiunto che tale condotta era chiara e prevedibile come aveva specificato la Corte costituzionale nella sentenza n. 172 dell’11 giugno 2014 e che gli obblighi imposti al soggetto ammonito erano sufficientemente chiari e prevedibili, in quanto si limitavano a ribadire l’obbligo di non commettere il reato di stalking (si veda la sentenza 17350 del 19 agosto 2020 della Corte di Cassazione).
  5. Quanto alla necessità della misura, il Governo ha sostenuto che sebbene il ricorrente non avesse partecipato al procedimento amministrativo dinanzi al questore, egli avrebbe potuto chiedere a quest’ultimo di svolgere un riesame del provvedimento o avrebbe potuto ricorrere dinanzi a un organo amministrativo sovraordinato, il che avrebbe consentito un riesame integrale della misura. Ha osservato inoltre che in caso di rigetto del ricorso, il ricorrente avrebbe potuto ricorrere dinanzi al competente tribunale amministrativo. Secondo il Governo il controllo esercitato dai tribunali amministrativi era perfettamente conforme ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte.
  6. Ha sostenuto anche che la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking era giustificata dall’estrema urgenza della situazione.
  7. Infine il Governo ha sostenuto che date le sue finalità, ovvero la prevenzione di un reato e la tutela della salute della moglie del ricorrente, la misura era proporzionata. Ha ammesso che essa era priva di termine, ma ha ritenuto che il ricorrente non avesse sofferto alcun pregiudizio per questo motivo. Ha ammesso inoltre che il quadro giuridico applicabile non conferiva al ricorrente il diritto di ottenere il riesame e la revoca della misura, in quanto il potere di riesame degli organi amministrativi era del tutto discrezionale, ma ha negato che fossero sorte conseguenze pregiudizievoli per il soggetto ammonito. Ha osservato inoltre che alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali cominciavano a riconoscere il diritto di ottenere il riesame o la revoca dei provvedimenti (TAR della Sicilia, seconda sezione, sentenza n. 508 del 20 febbraio 2019).

2. La valutazione della Corte

(a) Principi generali

  1. La Corte ribadisce che la finalità fondamentale dell’articolo 8 è la protezione del singolo dagli atti arbitrari delle autorità pubbliche (si veda, per esempio, Jansen c. Norvegia, n. 2822/16, 88, 6 settembre 2018), e che un’ingerenza nel diritto di un ricorrente al rispetto della vita privata e familiare dà luogo a una violazione dell’articolo 8 della Convenzione a meno che non possa essere giustificata ai sensi del paragrafo 2 in quanto è “prevista dalla legge”, persegue uno o più dei fini legittimi ivi elencati, ed è “necessaria in una società democratica” per conseguire il fine o i fini in questione (si veda Paradiso e Campanelli c. Italia [GC], n. 25358/12, § 167, 24 gennaio 2017).

(i) Base giuridica

  1. Secondo la costante giurisprudenza della Corte l'espressione “prevista dalla legge” esige non soltanto che la misura contestata abbia una base nel diritto interno, ma si riferisce anche alla qualità della legge in questione, prescrivendo che debba essere accessibile alle persone interessate, che i suoi effetti debbano essere prevedibili e che sia compatibile con la Stato di diritto (si vedano DeTommaso Italia [GC], n. 43395/09, § 107, 23 febbraio 2017, e Brazzi c. Italia, n. 57278/11, § 39, 27 settembre 2018). La Corte sottolinea inoltre che il concetto di “legge” deve essere inteso nel suo senso “sostanziale” e non “formale”. Pertanto comprende tutti gli elementi che costituiscono il diritto scritto, comprese le decisioni giudiziarie che lo interpretano (si veda Cumhuriyet Halk Partisi c. Turchia, n. 19920/13, § 93, 26 aprile 2016).
  2. La frase implica così che la legislazione interna debba essere sufficientemente prevedibile nella sua terminologia da fornire alle persone un’indicazione adeguata delle circostanze e delle condizioni alle quali le autorità hanno diritto di ricorrere a misure che incidono sui loro diritti ai sensi della Convenzione (si veda Fernández Martínez Spagna [GC], n. 56030/07, § 117, CEDU 2014 (estratti)), sebbene non ci si debba attendere una certezza assoluta (si veda Slivenko c.Lettonia [GC], n. 48321/99, § 107, CEDU 2003‑X).
  3. Affinché la legislazione interna soddisfi tali requisiti essa deve anche offrire un certo grado di protezione dalle ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche nei diritti garantiti dalla Convenzione. Nelle questioni che incidono sui diritti fondamentali sarebbe contrario allo Stato di diritto, uno dei principi basilari delle società democratiche sancito dalla Convenzione, che la discrezionalità normativa concessa al potere esecutivo fosse espressa in termini di potere illimitato. Conseguentemente la legge deve indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale discrezionalità e le modalità del suo esercizio (si veda Ivashchenko c. Russia, n. 61064/10, § 73, 13 febbraio 2018, e le cause ivi citate).
  4. Le garanzie procedurali a disposizione del singolo sono particolarmente rilevanti al fine di determinare se lo Stato convenuto, nello stabilire il quadro normativo, sia rimasto entro il suo margine di discrezionalità. In particolare, la Corte deve esaminare se il processo decisionale che ha condotto a una misura di ingerenza sia stato equo e si sia svolto in modo tale da accordare il debito rispetto agli interessi del singolo tutelati dall’articolo 8 della Convenzione (si veda Connors c. Regno Unito, n. 66746/01, § 83, 27 maggio 2004). Ciò che è richiesto come garanzia dipende, almeno in qualche misura, dalla natura e dalla portata dell’ingerenza in questione (si veda Oleksandr Volkov c. Ucraina, n. 21722/11, § 170, CEDU 2013).
  5. In diversi contesti riguardanti l’articolo 8 della Convenzione la Corte ha sottolineato che i concetti di legittimità e di Stato di diritto nelle società democratiche esigono anche che i provvedimenti che incidono sui diritti umani siano soggette a una qualche forma di procedimento in contraddittorio dinanzi ad un organo indipendente competente a riesaminare tempestivamente i motivi della decisione e le prove pertinenti (si veda Ivashchenko, sopra citata, 74, e le cause ivi citate). I tribunali interni non sarebbero in grado di indicare i “motivi pertinenti e sufficienti” dell’ingerenza senza una qualche forma di procedimento in contraddittorio nel quale poter ponderare gli argomenti presentati dall’autorità interna e quelli dell’interessato (si veda, mutatis mutandis, Taganrog LRO e altri c. Russia, nn. 32401/10 e altri 19, §203, 7 giugno 2022).

(ii) Fine legittimo e necessità in una società democratica

  1. Per determinare se le misure contestate siano “necessarie in una società democratica”, la Corte deve esaminare se, alla luce della causa nel suo insieme, i motivi addotti per giustificarle siano pertinenti e sufficienti (si veda Pişkin c. Turchia, n. 33399/18, § 212, 15 dicembre 2020). La nozione di necessità implica inoltre che l’ingerenza corrisponda a una pressante esigenza sociale e sia proporzionale al legittimo fine perseguito (si veda Tortladze c. Georgia, n. 42371/08, § 58, 18 marzo 2021). Si deve tenere conto del giusto equilibrio che occorre conseguire tra i concorrenti interessi della persona e della collettività nel suo insieme, e a tale scopo hanno una certa rilevanza i fini di cui al secondo paragrafo dell’articolo 8 (si veda Polat c. Austria, n. 12886/16, § 106, 20 luglio 2021).
  2. Benché spetti alle autorità nazionali la valutazione iniziale della necessità, la valutazione finale della pertinenza e sufficienza dei motivi citati a sostegno dell’ingerenza rimane soggetta al controllo di conformità ai requisiti della Convenzione da parte della Corte (si vedano Ghailan e altri c. Spagna, n. 36366/14, § 62, 23 marzo 2021, e Naumenko e SIA Rix Shipping c. Lettonia, n. 50805/14, 50, 23 giugno 2022).
  3. La Corte ribadisce inoltre che, benché l’articolo 8 non contenga requisiti procedurali espliciti, la Corte non può valutare adeguatamente se i motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificare le proprie decisioni siano “sufficienti” ai fini dell’articolo 8 § 2 senza al contempo determinare se il processo decisionale considerato nel suo insieme abbia assicurato al ricorrente la necessaria tutela dei suoi interessi garantita da tale articolo (si vedano Lazoriva c. Ucraina, n. 6878/14, § 62-63, 17 aprile 2018, e Fernández Martínez, sopra citata, § 147).

(b) Applicazione dei suddetti principi al caso di specie

(i) Sulla questione di sapere se la misura fosse prevista dalla legge

  1. Nel caso di specie le parti concordano sul fatto che l’ammonimento aveva il suo fondamento nel diritto nazionale, ovvero nell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009, e che esso era accessibile. Il ricorrente, però, ha sostenuto che tale disposizione non gli aveva consentito di prevedere quali condotte avrebbero provocato l’irrogazione della misura, che gli obblighi impostigli non erano chiari ed erano molto estesi, che non aveva potuto tutelare i suoi interessi poiché non gli era stato consentito di partecipare al procedimento amministrativo dinanzi al questore e che il Consiglio di Stato non aveva adeguatamente esaminato la legittimità del provvedimento, che, per giunta, rimaneva in vigore per un termine indeterminato, mentre il quadro giuridico applicabile non prevedeva il diritto di ottenerne il riesame o la revoca.
  2. La Corte osserva che la base giuridica della misura nei confronti del ricorrente era costituita dalla classificazione dei suoi atti come “potenzialmente” costitutivi del reato di stalking e dal rischio della loro reiterazione da parte sua, e che il fine dichiarato della misura adottata era la prevenzione della commissione di tale reato (si vedano i paragrafi 27-28 supra). Di conseguenza, per quanto concerne la base giuridica la presente causa solleva tre diverse questioni, ovvero: (i) se il diritto interno circoscriva adeguatamente la portata della discrezionalità conferita al questore quando adotta la misura; (ii) se gli obblighi imposti al ricorrente a causa dell’ammonimento siano stati formulati con precisione sufficiente a consentirgli di regolare la sua condotta futura; e (iii) se la legislazione italiana offra un certo grado di protezione dalle ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche nel diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e familiare.

(α) Sulla questione di sapere se l’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 circoscriva adeguatamente la discrezionalità conferita al questore

  1. La Corte deve in primo luogo esaminare se la base giuridica abbia determinato le condizioni che conferivano al questore il diritto di infliggere l’ammonimento. In proposito la Corte ribadisce che la portata del concetto di prevedibilità dipende in notevole misura dal contenuto dello strumento in questione, dal campo che esso è inteso a contemplare e dal numero e dalla qualità di coloro cui è destinato (si vedano Georgouleas e Nestoras c. Grecia, nn. 44612/13 e 45831/13, § 65, 28 maggio 2020, e Milanković c. Croazia, n. 33351/20, 62, 20 gennaio 2022).
  2. Alla luce di quanto sopra, la Corte osserva che l’ammonimento emesso nei procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking è stato introdotto dal decreto-legge n. 11/2009, destinato a contrastare la violenza sessuale e il delitto di atti persecutori. Mentre l’articolo 7 di tale decreto-legge ha introdotto il reato di stalking nell’ordinamento giuridico italiano, l’articolo 8, al primo comma, stabilisce che fin quando non è stata proposta querela per il delitto di atti persecutori previsto dall’articolo 612-bis del codice penale, la presunta persona offesa può esporre i fatti al questore. Ai sensi del secondo comma della disposizione, può essere emesso un ammonimento purché il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ritenga fondata l’istanza (si veda il paragrafo 26 supra). L’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009, pertanto, fa chiaramente riferimento all’articolo 7 del medesimo decreto. Conseguentemente la Corte osserva che le autorità interne interpretano la disposizione applicabile nel senso che è possibile istituire un procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking ed emettere un ammonimento in relazione alle condotte che rientrano nella definizione del delitto di atti persecutori previsto dall’articolo 612-bis del codice penale (si veda il paragrafo 30 supra).
  3. Poiché il ricorrente non ha contestato la chiarezza e la prevedibilità dell’articolo 612-bis del codice penale in quanto tale, né ha fornito elementi in grado di suscitare dubbi in tal senso (si veda, a tale proposito, la sentenza n.172 dell’11 giugno 2014 della Corte costituzionale citata al paragrafo 29 supra), la Corte conclude che il testo dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009, considerato nel suo contesto e alla luce della sua finalità, è formulato con un grado di chiarezza sufficiente a circoscrivere la portata della discrezionalità conferita al questore e dunque a prevenire l’arbitrarietà.
  4. La Corte osserva che tale conclusione è stata ripetutamente corroborata dalla successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato (si veda il paragrafo 28 supra) e della Corte di Cassazione (si veda il paragrafo 33 supra), che ha individuato le condizioni per l’applicazione della misura in base al riferimento fatto nel testo dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009 al delitto di atti persecutori. La giurisprudenza ha chiarito che la differenza tra l’azione penale nei confronti di un presunto stalker e l’inflizione di un ammonimento, dal punto di vista procedurale, sta nella presentazione o meno di una querela da parte della persona offesa e nel diverso onere della prova applicato. Per emettere un ammonimento non è necessaria la prova concludente della commissione del reato; è richiesta la sussistenza di seri motivi per ritenere, sulla base di prove indiziarie caratterizzate da un adeguato grado di attendibilità, che abbia avuto luogo una condotta vietata dall’articolo 612-bis del codice penale e che essa possa ripetersi in futuro (si veda il paragrafo 30 supra).

(β)  Sulla questione di sapere se l’ammonimento era stato formulato con precisione sufficiente a consentire al ricorrente di regolare la sua condotta futura

  1. La Corte esaminerà ora la questione di sapere se gli obblighi imposti al ricorrente a seguito dell’inflizione dell’ammonimento fossero abbastanza chiari da consentirgli di regolare la sua condotta futura. A tale proposito la Corte osserva che gli obblighi imposti al ricorrente possono sembrare formulati in termini molto generali e il loro contenuto può apparire vago e indeterminato. In particolare il provvedimento invitava il ricorrente a “tenere una condotta conforme alla legge” e a non reiterare le condotte che avevano dato luogo all’irrogazione della misura (si veda il paragrafo 11 supra).
  2. La Corte, però, non può concludere che l’espressione “tenere una condotta conforme alla legge” nel caso di specie fosse un riferimento indefinito a tutto l’ordinamento giuridico italiano che non forniva nessun altro chiarimento sulle norme specifiche che, se non rispettate, avrebbero comportato l’applicazione delle conseguenze giuridiche dell’inosservanza dell’ammonimento (si veda, per contro, De Tommaso, sopra citata, 122).
  3. Poiché l’ammonimento era espressamente finalizzato alla prevenzione del reato di stalking (si veda il paragrafo 27 supra), la Corte ritiene che il ricorrente avrebbe potuto prevedere quali condotte erano vietate, ovvero quelle penalizzate dall’articolo 612-bis del codice penale. Inoltre, come già osservato, il ricorrente era stato diffidato dal reiterare le condotte che avevano provocato l’adozione del provvedimento che, secondo la formulazione dell’ammonimento, comprendevano una serie di condotte poste in essere “con un atteggiamento potenzialmente minaccioso, miranti a controllare con toni insistenti, ossessivi e intimidatori i movimenti [della moglie] e, più in generale, la sua abituale vita quotidiana”, in grado di causare “alla persona che ha richiesto l’ammonimento uno stato perdurante e grave di ansia, paura e timore per la propria incolumità (si veda il paragrafo 10 supra).
  4. La Corte ritiene pertanto, sulla base della formulazione dell’ammonimento, che il ricorrente sapesse o avrebbe dovuto sapere che le condotte vietate dal provvedimento corrispondevano al reato di stalking e in particolare ad atti di “minaccia e molestia” reiterati in modo tale da provocare nella moglie uno stato perdurante e grave di ansia, paura e timore per la propria incolumità.
  5. La Corte riconosce inoltre che la giurisprudenza successiva, in particolare la sentenza n. 17350 del 19 agosto 2020 della Corte di Cassazione, ha confermato che l’espressione “tenere una condotta conforme alla legge” deve essere intesa come un riferimento alle condotte penalizzate dall’articolo 612-bis del codice penale (si vedano i paragrafi 33-35 supra).

(γ) Sulla questione di sapere se il quadro giuridico applicabile fornisca adeguate garanzie contro l’arbitrarietà

  1. La Corte ribadisce che occorre valutare la sussistenza di adeguate garanzie procedurali tenendo conto, in una certa misura e come minimo tra altri fattori, della natura e della portata dell’ingerenza in questione (si vedano Ivashchenko, sopra citata, 74, e Oleksandr Volkov, sopra citata, §170).
  2. Con riguardo alle doglianze del ricorrente, la Corte esaminerà se il quadro giuridico applicabile consentisse al ricorrente di partecipare al processo decisionale, considerato nel suo insieme, in misura sufficiente a offrirgli l’indispensabile tutela dei suoi interessi (si veda, mutatis mutandis, Maslák c. Slovacchia (n. 2), n. 38321/17, § 159, 31 marzo 2022), se il provvedimento fosse soggetto a un controllo giurisdizionale adeguato (si vedano, mutatis mutandis, Pişkin, sopra citata, § 209, e Karastelev e altri, sopra citata, §§ 94-97, e le cause ivi citate), e se la base giuridica disciplinasse la durata della misura (si vedano, mutatis mutandis, Enea c. Italia [GC], n. 74912/01, § 143, CEDU 2009, e Falzarano c. Italia (dec.), n. 73357/14, 19, 15 giugno 2021).
  3. In ordine al diritto di partecipazione del singolo, la Corte ribadisce che il diritto di essere ascoltato appare sempre più come una norma procedurale fondamentale degli Stati democratici, a prescindere dalle procedure giudiziarie, come dimostra, inter alia, l’articolo 41 § 2 lettera a) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con riferimento alle decisioni individuali adottate dalle istituzioni, dagli organi, dagli uffici e dalle agenzie dell’Unione europea (si vedano Karácsony e altri c. Ungheria [GC], nn. 42461/13 e 44357/13, § 156, 17 maggio 2016, e il paragrafo 53 supra). Essa osserva inoltre che l’importanza del diritto di essere ascoltato nelle procedure amministrative che incidono negativamente sugli interessi individuali è stata sottolineata dal Comitato dei ministri nella risoluzione 77 (31) sulla protezione della persona in relazione agli atti delle autorità amministrative (si veda il paragrafo 46 supra), e nella raccomandazione CM/Rec(2007)7 sulla buona amministrazione (si veda il paragrafo 51 supra).
  4. La Corte osserva che la risoluzione 77 (31) prevede che il diritto di essere ascoltato possa essere modificato o escluso al fine di tutelare il principio della buona ed efficiente amministrazione e gli interessi dei terzi (si veda il paragrafo 47 supra). Dal canto suo, l’appendice alla raccomandazione CM/Rec(2007)7 stabilisce che ai privati deve essere offerta la possibilità di partecipare alla predisposizione e all’attuazione delle decisioni amministrative che incidono sui loro diritti o sui loro interessi, “salvo i casi in cui occorra adottare provvedimenti urgenti” (si veda il paragrafo 50 supra). L’articolo 14 dell’appendice aggiunge che, qualora la persona non abbia partecipato alla procedura, il diritto di essere ascoltato deve essere garantito entro un termine ragionevole (si veda il paragrafo 51 supra).
  5. La Corte ritiene pertanto che la maniera e le modalità di attuazione del diritto di essere ascoltato debbano essere adattate alle caratteristiche inerenti e alle finalità della procedura in questione e del provvedimento da adottare. Nel caso di specie, la misura in esame era finalizzata a prevenire la reiterazione di condotte che costituiscono il reato di stalking ed essa rientra pertanto nel campo di applicazione dell’articolo 53 della Convenzione di Istanbul concernente le “ordinanze di ingiunzione o protezione” nel contesto della violenza domestica, il cui secondo paragrafo stabilisce che tali misure “ove necessario, [siano] decise ex parte con effetto immediato” (si veda il paragrafo 55 supra). A tale proposito la Corte osserva che il paragrafo 272 del rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul chiarisce che, ai sensi della suddetta disposizione, “in determinati casi” e “ove necessario” tali misure possono essere emesse sulla base della richiesta di una parte soltanto, con effetto immediato ma temporaneo. La Convenzione di Istanbul, pertanto, pur prevedendo la possibilità di adottare la misura di cui trattasi senza prima ascoltare il destinatario, riconosce che tale possibilità deve essere fondata sulla necessità evidenziata dalle circostanze del caso specifico.
  6. In ordine al quadro giuridico interno in esame nella presente causa, la Corte osserva che, secondo la pertinente giurisprudenza interna, il diritto di essere ascoltato è fondato sull’articolo 7 comma 1 della legge n. 241/1990, che sancisce il diritto generale degli interessati a ricevere comunicazione dell’avvio di un procedimento amministrativo; ai sensi della medesima disposizione, si può derogare a tale diritto qualora sussistano “particolari esigenze di celerità del procedimento” (si veda il paragrafo 24 supra). Inoltre, l’articolo 8, comma 2, del decreto-legge n. 11/2009, che disciplina i procedimenti finalizzati alla prevenzione del reato di stalking, prevede espressamente che il questore, prima di emettere il provvedimento, debba sentire le persone informate dei fatti (si veda il paragrafo 26 supra). La Corte osserva inoltre che dopo i primissimi casi in cui la misura in questione era stata sottoposta al controllo giurisdizionale dei tribunali amministrativi di primo grado e del Consiglio di Stato (si vedano le sentenze citate al paragrafo 37 supra), era stato chiarito che l’ammonimento è un provvedimento amministrativo che, in quanto tale, è soggetto al rispetto del diritto di partecipazione sancito dalla legge n. 241/1990, ovvero del diritto di essere ascoltato prima dell’adozione della misura, tranne che in casi di eccezionale urgenza, che devono essere adeguatamente dimostrati e motivati. Infine, la Corte osserva che tale interpretazione è attualmente seguita dalla gran parte della giurisprudenza attualmente disponibile, che ha precisato anche che i motivi di eccezionale urgenza che asseritamente giustificano una deroga al diritto di essere ascoltato sono soggetti al controllo giurisdizionale dei competenti tribunali amministrativi (si veda il paragrafo 39 supra).
  7. La Corte ritiene che il quadro giuridico interno così come interpretato dai tribunali interni consegua un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti in quanto assicura il conseguimento della finalità di protezione perseguita dal provvedimento senza interferire eccessivamente nelle possibilità dell’interessato di tutelare adeguatamente i propri interessi, e infatti la Corte, pur ribadendo l’importanza del diritto di essere ascoltato (si vedano i paragrafi 112-13 supra), osserva che nel procedimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking di cui trattasi nella presente causa, l’efficacia dell’ammonimento, ovvero il conseguimento della finalità di proteggere il diritto all’integrità fisica e psicologica della persona che richiede l’adozione del provvedimento, spesso dipende dalla celerità del processo decisionale (si vedano, mutatis mutandis, Cumhuriyet Vakfı e altri c. Turchia, n. 28255/07, § 71, 8 ottobre 2013, e Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 86, CEDU 2009). La Corte pertanto ammette che in caso di urgenza, debitamente indicata nelle motivazioni contenute nel processo verbale dell’ammonimento e soggetta a controllo giurisdizionale da parte dei tribunali amministrativi competenti, il questore possa decidere che è possibile derogare al diritto di essere ascoltato (si vedano, mutatis mutandis, Tortladze, sopra citata, § 66, e Kuzminas c. Russia, n. 69810/11, 24, 21 dicembre 2021).
  8. Alla luce di quanto suesposto, la Corte ritiene che il quadro giuridico interno consenta alla persona colpita dalla misura di partecipare al processo decisionale in misura tale che, alla luce della natura e della portata dell’ingerenza in questione e delle sue finalità, risulta sufficiente a offrirle l’indispensabile tutela dei suoi interessi.
  9. Quanto alla sussistenza di un controllo giurisdizionale effettivo, la Corte osserva che il questore deve indicare nel processo verbale dell’ammonimento le basi giuridiche e fattuali che giustificano la misura (si veda il paragrafo 32 supra). Dopo aver attentamente esaminato la giurisprudenza in materia fornita dal Governo (si veda il paragrafo 41 supra), la Corte è persuasa che i tribunali amministrativi competenti dispongano del potere di esercitare un adeguato controllo giurisdizionale di tali basi. Possono, in particolare, valutare se le autorità di polizia abbiano svolto indagini sufficienti, se la determinazione dei fatti sia compatibile con le indagini svolte e se, di conseguenza, essi conducano alla conclusione che la richiesta della presunta parte offesa è fondata. Poiché i tribunali amministrativi sono competenti a riesaminare i motivi del provvedimento indicati nel processo verbale dell’ammonimento e le prove pertinenti, la Corte è persuasa che tale valutazione costituisca un controllo giurisdizionale adeguato ai sensi della sua giurisprudenza.
  10. In ordine al termine del provvedimento, la Corte osserva che il Governo ha ammesso (si veda il paragrafo 89 supra) che esso rimane in vigore per un periodo di tempo indeterminato e che l’interessato non ha diritto di ottenerne il riesame o la rivalutazione periodica al fine della sua revoca, che può essere concessa a discrezione dell’autorità che l’ha adottato (si veda il paragrafo 42 supra). Benché il Governo abbia fornito una decisione interna di primo grado nella quale era stato ritenuto che l’interessato avrebbe dovuto avere il diritto di ottenere il riesame e la revoca di una misura analoga a quella di cui alla presente causa (si veda il paragrafo 44 supra), in altre cause i tribunali amministrativi interni hanno ritenuto che l’ammonimento in questione nel caso di specie fosse un provvedimento “istantaneo”, non soggetto a riesame o revoca (si veda il paragrafo 43 supra). La Corte osserva pertanto che, perlomeno all’epoca dei fatti che hanno condotto al presente ricorso, il quadro giuridico applicabile difettava di alcune garanzie contro l’arbitrarietà, e che nelle circostanze attuali è perlomeno dubbio che sia possibile ottenere il riesame o la revoca della misura.
  11. La Corte ritiene che il fatto che il quadro giuridico interno non stabilisca un termine agli effetti delle misure che incidono sui diritti tutelati dalla Convenzione o il diritto di ottenere il loro riesame o la loro revoca nel caso non siano più giustificate, sia problematico dal punto di vista delle garanzie contro l’arbitrarietà richieste dal principio di legalità. L’articolo 53 2 della Convenzione di Istanbul prevede che le ordinanze di ingiunzione o protezione nei casi di violenza domestica debbano essere “emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca” (si veda il paragrafo 55 supra) e il paragrafo 271 del rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul chiarisce che tale condizione è imposta dal principio della certezza del diritto (si veda il paragrafo 56 supra). Tuttavia, tenuto conto delle conclusioni della Corte sulla necessità e la proporzionalità della misura nelle specifiche circostanze del caso di specie (si veda il paragrafo 144 infra), non è necessario esaminare se tale fattore da solo porti alla conclusione che l’ingerenza in questione non era “prevista dalla legge” ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. La Corte ribadisce inoltre che in ogni caso l’elemento di incertezza presente nella legge e la notevole discrezionalità che conferisce alle autorità da questo punto di vista sono considerazioni importanti di cui occorre tenere conto nel determinare se la misura lamentata abbia conseguito un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti (si vedano , mutatis mutandis, Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, §§ 109‑10, CEDU 2000‑I, Alentseva c. Russia, n. 31788/06, § 65, 17 novembre 2016, e, mutatis mutandis, Béla Németh c. Ungheria, n. 73303/14, § 40, 17 dicembre 2020, e Zelenchuk e Tsytsyura c. Ucraina, nn. 846/16 e 1075/16, § 106, 22 maggio 2018, nonché il paragrafo 134 infra).
  12. Conseguentemente la Corte proseguirà la sua valutazione sulla base dell’assunto che la misura fosse “prevista dalla legge” ai sensi dell’articolo 8 2 della Convenzione.

(iii) Sulla questione di sapere se la misura perseguisse un fine legittimo

  1. Le parti non hanno contestato che l’ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata e familiare perseguisse diversi fini legittimi ai sensi dell’articolo 8 2 della Convenzione, ovvero la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e la protezione dei diritti e delle libertà altrui (si veda M.S. c. Italia, n. 32715/19, § 121, 7 luglio 2022).
  2. La Corte osserva inoltre che l’Italia, al fine di conseguire i fini legittimi sopra indicati, ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, e che scopo della misura è, tra gli altri, l’osservanza degli obblighi ivi stabiliti (si veda il paragrafo 55 supra).

(iiii) Sulla questione di sapere se la misura fosse necessaria in una società democratica e proporzionata

  1. A questo proposito, tenuto conto delle doglianze del ricorrente, la Corte esaminerà (i) se il ricorrente abbia partecipato al processo decisionale in misura sufficiente a offrirgli l’indispensabile tutela dei suoi interessi (si veda Lazoriva, sopra citata, § 62-63), (ii) se i motivi addotti dalle autorità interne per giustificare la misura fossero pertinenti e sufficienti (si veda Pişkin, sopra citata, § 212), e (iii) se la misura sia stata sottoposta a un adeguato controllo giurisdizionale (si veda Fernández Martínez, sopra citata, § 147).

(α) Sulla questione di sapere se il ricorrente abbia sufficientemente partecipato al processo decisionale che ha condotto all’irrogazione della misura

  1. La Corte ribadisce che il diritto di essere ascoltato è un’importante garanzia procedurale che deve essere applicata a seconda della natura e della finalità della misura da adottare (si vedano i paragrafi 112-13 supra), la quale nel caso di specie consiste nella prevenzione della reiterazione di condotte persecutorie, in conformità agli obblighi sanciti dalla Convenzione di Istanbul (si vedano i paragrafi 55-56 e 115 supra). Conseguentemente, la Corte ribadisce che nei casi che sollevano questioni di violenza domestica gli Stati hanno l’obbligo positivo ai sensi degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione di adottare misure operative preventive per tutelare le vittime o le potenziali vittime da reali e immediati rischi per la vita e da violazioni della propria integrità fisica e psicologica (si vedano, tra molti altri, Kurt c. Austria [GC], n. 62903/15, §§ 177-89, 15 giugno 2021, Volodina c. Russia (n. 2), n. 40419/19, §§ 47-49, 14 settembre 2021, Malagić c. Croazia, n. 29417/17, § 57, 17 novembre 2022).
  2. In tali cause la Corte ha sottolineato che le autorità, nel decidere quali misure operative adottare, devono inevitabilmente bilanciare con attenzione, sia a livello di prassi generale che a livello individuale, i diritti concorrenti in gioco e gli altri vincoli pertinenti. La Corte nei casi di violenza domestica ha sottolineato l’assoluta necessità di tutelare il diritto umano alla vita e all’integrità fisica e psicologica delle vittime. Al contempo, sussiste la necessità di assicurare che la polizia eserciti i suoi poteri di controllo e prevenzione dei reati con modalità che rispettino pienamente la procedura prevista e le altre garanzie che limitano legittimamente le sue possibilità d’azione, comprese le garanzie contenute, per quanto pertinente ai fini della presente causa, nell’articolo 8 della Convenzione (si veda Kurt, sopra citata, § 182).
  3. La Corte deve inoltre tenere conto del fatto che l’ammonimento è immediatamente esecutivo e che la sua impugnazione dinanzi al tribunale amministrativo competente non comporta la sua sospensione automatica (si veda per contro, mutatis mutandis, Dyagilev c. Russia, n. 49972/16, § 77, 10 marzo 2020).
  4. La Corte osserva che nel caso di specie il ricorrente non è stato ascoltato dal questore prima dell’emissione dell’ammonimento (si veda il paragrafo 9 supra). Di conseguenza non ha avuto la possibilità di presentare rilievi a sostegno della sua posizione. L’ammonimento è stato invece concesso soltanto sulla base dei rilievi e degli elementi di prova presentati da colei che aveva richiesto il provvedimento. A tale proposito la Corte ribadisce che secondo la sua giurisprudenza le autorità, quando ricevono una denuncia di violenza domestica, hanno il dovere di svolgere una valutazione “autonoma” e “proattiva” del rischio (si veda Kurt, sopra citata, § 169), e ritiene che una decisione sulle misure da adottare debba prendere in considerazione tutte le prove in possesso delle autorità.
  5. La Corte osserva anche che il processo verbale dell’ammonimento emesso dal questore non indicava le pressanti circostanze che asseritamente imponevano una misura urgente. Si limitava ad affermare l’esistenza della “necessità e urgenza” di prevenire ulteriori condotte persecutorie nei confronti della moglie del ricorrente (si veda il paragrafo 10 supra). Il TAR aveva annullato il provvedimento per questo motivo (si vedano i paragrafi 14-15 supra). Il Consiglio di Stato, per contro, aveva annullato la sentenza di primo grado sulla base del presupposto che l’ammonimento, in quanto misura preventiva, era ipso facto caratterizzato dalla necessità di intervenire con urgenza per prevenire conseguenze gravi e irreparabili per la vittima di atti persecutori e che quindi il questore non era tenuto ad addurre motivi (si vedano i paragrafi 19-20 supra). Di conseguenza non si può affermare che esso abbia svolto un esame indipendente dell’eventuale rischio imminente per l’incolumità della moglie del ricorrente o degli altri motivi che giustificavano il mancato ascolto del ricorrente; ne consegue che né il questore né i tribunali amministrativi hanno fornito una giustificazione della deroga al diritto del ricorrente di essere ascoltato nel procedimento amministrativo dinanzi al questore.
  6. La Corte osserva che il Governo nel presente procedimento ha fornito alcuni motivi, sostenendo che essi già sussistevano, date le particolari circostanze del caso di specie, come dimostrato dal fatto che l’ammonimento era stato emesso due settimane dopo la presentazione della richiesta da parte della moglie del ricorrente. La Corte però non è persuasa di tali motivi: infatti nel corso di quelle due settimane gli organi di polizia avevano raccolto le deposizioni di diciassette diverse persone nominate nella richiesta della moglie del ricorrente (si veda il paragrafo 8 supra) e la Corte non vede il motivo per il quale le autorità interne non avrebbero potuto ascoltare anche il ricorrente.
  7. La Corte osserva inoltre che l’approccio seguito dal Consiglio di Stato nel caso di specie è in contrasto con la giurisprudenza dell’epoca dei tribunali amministrativi di primo grado e del Consiglio di Stato (si veda il paragrafo 37 supra), e con l’approccio attualmente seguito dalla maggior parte della giurisprudenza interna (si veda il paragrafo 39 supra), secondo la quale i motivi di necessità e urgenza devono essere adeguatamente dimostrati alla luce delle circostanze di ciascun specifico caso e essere soggetti al controllo giurisdizionale dei tribunali amministrativi.

(β) Sulla questione di sapere se le autorità interne abbiano fornito motivi pertinenti e sufficienti per la misura

  1. La Corte ribadisce che spetta innanzitutto alle autorità nazionali valutare e fornire i motivi che giustificano un’ingerenza nei diritti tutelati dalla Convenzione (si veda il paragrafo 97 supra). La fondamentale importanza dell’obbligo di indicare la motivazione degli atti amministrativi che incidono sugli interessi individuali è stata sottolineata, inter alia, dall’articolo IV della risoluzione 77 (31) del Comitato dei ministri sulla protezione della persona in relazione agli atti delle autorità amministrative (si veda il paragrafo 48 supra) e dall’articolo 17 § 2 della raccomandazione CM/Rec(2007)7 del Comitato dei ministri sulla buona amministrazione (si veda il paragrafo 52 supra). Nell’esercitare la sua giurisdizione di controllo la Corte deve esaminare se tali motivi siano “pertinenti e sufficienti” e a tal fine deve sincerarsi che le autorità nazionali abbiano applicato criteri conformi ai principi sanciti dalla Convenzione e anche che abbiano fondato le loro decisione su una valutazione condivisibile dei fatti pertinenti (si veda Taganrog LRO e altri, sopra citata, § 150).
  2. Nell’esercitare la sua giurisdizione di controllo la Corte tiene conto anche del fatto che alle autorità nazionali è accordato un certo margine di discrezionalità, la cui portata dipende da fattori quali la natura e l’importanza degli interessi in gioco e la gravità dell’ingerenza (si veda Naumenko e SIA Rix Shipping, sopra citata, 51).
  3. Pur ribadendo l’importanza dello scopo perseguito dall’ammonimento in questione, la Corte ritiene che nel caso di specie diversi fattori depongano a favore di un esame rigoroso. In primo luogo, la misura produce conseguenze gravi, in quanto comporta la possibilità di azione penale per il reato di stalking anche in assenza di querela della parte offesa e l’applicazione automatica di una circostanza aggravante in caso di condanna (si veda il paragrafo 26 supra). In secondo luogo, benché la Corte abbia concluso che la misura era conforme al principio di legalità, nel valutarne la proporzionalità deve tenere conto del fatto che gli obblighi imposti al ricorrente erano formulati in termini molto generici (si vedano i paragrafi 11 e 105 supra), che la misura rimane in vigore per un termine indeterminato e che, almeno al momento dell’emissione dell’ammonimento, non sussisteva il diritto di ottenere un riesame o una rivalutazione periodica della misura finalizzata alla sua revoca (si veda il paragrafo 120 supra). In terzo luogo, la misura è stata adottata senza prima consentire al ricorrente di presentare i suoi rilievi (si veda il paragrafo 128 supra).
  4. A tale proposito la Corte osserva che il processo verbale dell’ammonimento emesso dal questore era carente di motivazione, in quanto si limitava ad affermare che alla luce delle indagini svolte dalla polizia gli episodi riferiti dalla moglie del ricorrente, nonostante l’irrilevanza di alcuni di essi, risultavano dimostrati (si veda il paragrafo 10 supra). La Corte non può fare a meno di notare che i fatti pertinenti, oltre a essere citati “come indicati dalla persona che ha richiesto l’ammonimento”, erano stati descritti in termini estremamente generici (si veda il paragrafo 10 supra). Il processo verbale dell’ammonimento citava, per esempio, “insulti proferiti alla presenza di altre persone” senza chiarire quali insulti erano stati utilizzati e chi era presente; “chiamate telefoniche effettuate sull’utenza privata o del lavoro della persona che ha richiesto l’ammonimento e di altre persone” senza indicare il contenuto di tali chiamate; e lo “invio di SMS [e] richieste continue e ripetute” anche in questo caso senza indicare il contenuto e il contesto di tali messaggi. La Corte ritiene anche che la descrizione di tali condotte come messe in atto con un “atteggiamento potenzialmente minaccioso” sia assai vaga.
  5. La Corte osserva inoltre che nel processo verbale dell’ammonimento non vi è alcun riferimento al fatto che la gran maggioranza delle persone informate dei fatti non aveva confermato la versione dei fatti della moglie del ricorrente, né alcuna valutazione dei fatti derivante dalle indagini svolte dalla polizia. Il processo verbale menziona anche “gli ulteriori documenti raccolti” senza affatto indicare quali fossero tali documenti e quali conclusioni ne sono state tratte. Il ragionamento, come si può desumere processo verbale dell’ammonimento, prende l’avvio dai fatti come ipotizzati dalla moglie del ricorrente, e li ritiene dimostrati senza indicare le indagini svolte e senza esaminare in che modo il loro esito confermi l’ipotesi originale. Un simile ragionamento, pertanto, non consente alla Corte di esaminare in che modo l’autorità amministrativa abbia valutato le prove raccolte con le indagini.
  6. La Corte è consapevole del fatto che la misura in questione nel caso di specie è una ammonimento “orale” e che il processo verbale consegnato al suo destinatario (si veda il paragrafo 26 supra) è la documentazione delle indagini svolte dalla polizia e una sintesi della valutazione del questore che, in caso di urgenza, deve essere redatto in tempi molto brevi. Ciò tuttavia non può esonerare le autorità interne dall’obbligo di fornire motivi pertinenti e sufficienti a giustificazione delle misure che costituiscono un’ingerenza nei diritti tutelati dall’articolo 8 della Convenzione (si veda il paragrafo 132 supra), anche alla luce della necessità di garantire un pieno controllo giurisdizionale di tali motivi. Ad ogni modo, nel caso di specie le autorità interne non hanno indicato le ragioni di urgenza (si veda il paragrafo 129 supra).

 (γ) Sulla questione di sapere se la misura fosse soggetta a un adeguato controllo giurisdizionale

  1. La Corte ribadisce che le misure che incidono sui diritti umani devono essere soggette a qualche forma di procedimento in contraddittorio dinanzi a un organo indipendente competente a riesaminare i motivi della decisione e le prove pertinenti. Il singolo deve poter contestare le asserzioni del potere esecutivo. In assenza di tali garanzie, la polizia o un’altra autorità dello stato potrebbe interferire arbitrariamente nei diritti tutelati dalla Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Liu c. Russia (n.2), n. 29157/09, 87, 26 luglio 2011). Nel caso di specie un controllo giurisdizionale approfondito era ancora più necessario visto che il questore non aveva fornito motivi pertinenti e sufficienti per la decisione adottata (si vedano i paragrafi 135-36 supra).
  2. A tale proposito la Corte osserva che il ricorrente aveva lamentato la misura inflittagli dinanzi ai tribunali interni competenti. La Corte ritiene però che nel caso di specie non siano state accordate al ricorrente adeguate garanzie procedurali, poiché i tribunali interni non avevano fornito motivi pertinenti e sufficienti in ordine alla questione di sapere se gli atti a lui imputati potessero davvero giustificare l’irrogazione della misura.
  3. A tale riguardo la Corte osserva che il TAR aveva annullato il provvedimento per vizi procedurali (si veda il paragrafo 14 supra) e pertanto non aveva esaminato le doglianze del ricorrente relative alla giustificazione della misura alla luce delle prove disponibili, né si era pronunciato sulla legittimità sostanziale dell’ammonimento.
  4. Il Consiglio di Stato, dal canto suo, si era limitato a concludere che il questore aveva “attentamente indicato” le indagini svolte dagli organi di polizia grazie alle quali era stato possibile corroborare le dichiarazioni della moglie del ricorrente concernenti la condotta intimidatoria tenuta da quest’ultimo nei suoi confronti (si veda il paragrafo 21 supra). La Corte non può ritenere che ciò costituisca il “controllo adeguato” previsto dalla sua giurisprudenza (si veda, mutatis mutandis, Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo, nn. 55391/13 e altri 2, §§ 177-86, 6 novembre 2018). A dispetto delle specifiche doglianze sollevate dal ricorrente dinanzi ai tribunali interni, nella sentenza del Consiglio di Stato e nell’ammonimento cui essa si riferisce non vi è alcun riferimento alla descrizione dei fatti delle diciassette persone informate dei fatti che erano state ascoltate, né agli “ulteriori documenti raccolti” che presumibilmente confermavano la versione dei fatti della moglie del ricorrente. Di conseguenza, non è possibile determinare, leggendo la motivazione della sentenza o l’ammonimento cui essa si riferisce, quali fossero le circostanze di fatto e di diritto che giustificavano la misura. Il Consiglio di Stato non ha svolto un controllo indipendente dell’eventuale esistenza di una ragionevole base di fatto per la misura, in quanto non ha esaminato prove che confermassero o confutassero le asserzioni del ricorrente. In particolare non ha esaminato un aspetto cruciale della causa, ovvero se il questore fosse riuscito a dimostrare l’esistenza di fatti specifici che servissero da fondamento alla conclusione che il ricorrente costituiva un pericolo per la moglie. Tali elementi inducono la Corte a concludere che il Consiglio di Stato si è limitato a un esame puramente formale della decisione di infliggere l’ammonimento.
  5. Le sentenze citate dal Governo dimostrano che i tribunali amministrativi hanno la possibilità di esaminare la base fattuale e la legittimità del provvedimento (si veda il paragrafo 41 supra). La Corte osserva, tuttavia, che tale esame non è stato svolto in maniera adeguata nel caso di specie, in cui il Consiglio di Stato si è limitato a ritenere che l’ammonimento fosse legittimo alla luce dei motivi addotti dal questore senza procedere alla valutazione delle prove disponibili.
  6. Di conseguenza la Corte conclude che le autorità giudiziarie non hanno esercitato un adeguato controllo giurisdizionale del fondamento fattuale nonché della legittimità, necessità e proporzionalità della misura.

 (δ) Conclusioni

  1. Alla luce di quanto sopra, la Corte conclude che il ricorrente è stato escluso dal processo decisionale in misura significativa in assenza di comprovate ragioni d’urgenza, che le autorità interne non hanno fornito motivi pertinenti e sufficienti a giustificazione della misura e che, alla luce della modalità del riesame svolto dal Consiglio di Stato, le garanzie fornite al ricorrente erano limitate. In definitiva, le autorità non hanno accordato al ricorrente una protezione legale adeguata contro gli abusi, alla quale egli aveva diritto secondo il principio dello Stato di diritto vigente nelle società democratiche. Non si può dunque ritenere che l’ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e familiare fosse “necessaria in una società democratica” ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 8 della Convenzione.
  2. Conseguentemente vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

APPLICAZIONE DELL'ART 41 DELLA CONVENZIONE

  1. L’articolo 41 della Convenzione recita:

“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.”

A. Danno

  1. Il ricorrente ha chiesto 30.000 euro (EUR) per il danno non patrimoniale.
  2. Il Governo non ha presentato osservazioni in risposta alla richiesta del ricorrente, ma la Corte la ritiene eccessiva.
  3. La Corte, su base equitativa, accorda al ricorrente EUR 9.600 per il danno non patrimoniale, oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta.

B. Spese

  1. Il ricorrente ha chiesto anche EUR 6.589,50 per le spese sostenute dinanzi al TAR, EUR 5.428 per le spese sostenute dinanzi al Consiglio di Stato, ed EUR 9.920 per quelle sostenute dinanzi alla Corte.
  2. Il Governo non ha presentato osservazioni in risposta alle richieste del ricorrente.
  3. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente ha diritto al rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole (si veda, per esempio, Iatridis c. Grecia (equa soddisfazione) [GC], n. 31107/96, § 54, CEDU 2000-XI); vale a dire che il ricorrente deve averle corrisposte o essere tenute a corrisponderle in base a un obbligo giuridico o contrattuale e che esse dovevano essere inevitabili per prevenire le violazioni riscontrate od ottenere riparazione. La Corte esige conti dettagliati e fatture abbastanza particolareggiate da consentirle di determinare in che misura i suddetti requisiti siano stati soddisfatti (si veda Ališić e altri c. Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Serbia, Slovenia ed ex Repubblica jugoslava di Macedonia[GC], n. 60642/08, § 158, CEDU 2014). Il semplice riferimento alle tariffe fissate dagli ordini degli avvocati locali, per esempio, è insufficiente a tal fine. Nel caso di specie, la Corte osserva che il ricorrente non ha presentato alcuna documentazione (fatture o ricevute) delle spese sostenute, o a dimostrazione del fatto che egli è giuridicamente o contrattualmente tenuto a corrisponderle. La richiesta di spese, pertanto, deve essere rigettata in quanto non documentata.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÁ,

  1. Dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione;
  3. Ritiene
    1. che lo Stato convenuto debba versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, EUR 9.600 (novemila seicento euro), oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno non patrimoniale;
    2. che a decorrere da detto termine e fino al versamento tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, maggiorato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta per il resto la domanda di equa soddisfazione del ricorrente.

Fatta in inglese e notificata per iscritto il 22 giugno 2023, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento della Corte.

Marko Bošnjak
Presidente

Renata Degener
Cancelliere

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del Regolamento della Corte, l’opinione separata del giudice Sabato.

M.B.
R.D.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE SABATO

I. INTRODUZIONE : PARECCHI PASSI INDIETRO NELLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI NEL CONTESTO DELLA VIOLENZA DI GENERE

  1. Posso condividere soltanto una conclusione (che indicherò infra ai paragrafi 51-52 della presente opinione) delle molte formulate dalla maggioranza nella presente causa. Ciò mi ha consentito di sostenere la constatazione di violazione da parte dello Stato convenuto dell’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”). Mi rammarico di non potere condividere le altre conclusioni dei miei esimi colleghi della maggioranza che, a mio parere, segnano non uno, ma parecchi passi indietro nella tutela dei diritti umani nel contesto della violenza di genere.
  2. Poiché la mia posizione e quelle della maggioranza divergono in ambiti di applicazione della Convenzione di estrema importanza in quanto concernono alcuni aspetti fondamentali delle modalità e dei mezzi con cui gli Stati devono prevenire e combattere la violenza di genere, sostenere e tutelare le vittime, obbligare i responsabili a rispondere dei loro atti pur nel rispetto dei diritti procedurali degli accusati, mi corre l’obbligo di indicare piuttosto in dettaglio i motivi del mio dissenso, sia pure in un’opinione concordante. Infatti, se alcuni dei principi asseriti dalla maggioranza dovessero acquistare la calda patina del precedente indiscusso, temo che verrebbe compromesso, almeno parzialmente, il ruolo della Convenzione quale potente strumento di protezione dei singoli[1] dall’epidemia globale di violenza di genere che integra armoniosamente dal punto di vista giuridico specifici strumenti internazionali quali la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la Convenzione di Istanbul)[2].
  3. Allo scopo di chiarire le questioni in gioco, tratterò (nella parte II della presente opinione) alcuni fatti che, secondo me, sono stati liquidati troppo in fretta dalla maggioranza. La comprensione dei fatti permette di afferrare più facilmente quale normativa occorra applicare, nonché i concetti utilizzati sia dalla maggioranza che da me. In particolare, poiché io dirò di più sul contenuto della dichiarazione rilasciata dalla “moglie del ricorrente” alla polizia che indica il ricorrente quale presunto stalker, e sul contenuto delle deposizioni raccolte dalla polizia, i riferimenti a concetti giuridici quali prova testimoniale, urgenza del provvedimento, motivazione adeguata, eccetera appariranno sotto una nuova luce.
  4. Successivamente (nella parte III, suddivisa in diversi capitoli) indicherò i (diversi) punti di disaccordo tra le conclusioni della maggioranza e le mie, nonché (l’unico) punto d’accordo. Infine formulerò delle conclusioni (parte IV).

II. I FATTI E LA LORO VALUTAZIONE

A. Il racconto della vittima (e la vittima conta!)

  1. La maggioranza, al paragrafo 7 della sentenza riferisce che “in data 13 novembre 2009 la moglie del ricorrente”, sig.ra C.S. [3], aveva presentato al questore di Savona una richiesta affinché emettesse il provvedimento di ammonimento previsto dall’articolo 8 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori (“decreto-legge n. 11/2009”) convertito nella legge 23 aprile 2009, n. 38 (“legge n. 38/2009”, si vedano i paragrafi 25-26 della sentenza).
  2. Il paragrafo 7 della sentenza nelle due frasi successive contiene un riassunto accurato, ma a mio parere troppo stringato, della richiesta della presunta vittima. Il racconto della donna era contenuto in una richiesta di 8 pagine indirizzata alla polizia; il Governo nelle sue prime osservazioni (pp.4-5) lo riepiloga in una pagina e mezza; e altrettanto farò io nel mio riassunto. È un esercizio necessario: nell’ambito della violenza contro le donne che “spesso si presenta all’interno di rapporti personali o di circuiti chiusi” (si veda Opuz c. Turchia, § 132, 9 giugno 2009), la vittima, che è sempre anche un importante testimone, e spesso l’unico, non dovrebbe mai subire la sottovalutazione del suo racconto. Le vittime contano (sebbene, purtroppo, nella sentenza della maggioranza la sig.ra C.S. non è stata “contata” come testimone, si veda il paragrafo 17 della presente opinione).[4]
  3. Poiché sto per accingermi al pericoloso esercizio di rileggere, in seno a un tribunale internazionale, le prove in possesso delle autorità interne, devo chiarire che indulgo a tale esercizio soltanto perché la maggioranza vi si è dedicata per prima (contando e confrontando le persone informate dei fatti, non tenendo conto, in sostanza, del racconto della sig.ra C.S., ritenendo che non vi fosse urgenza, eccetera, si veda infra). Dato il ruolo sussidiario della Corte, si dovrebbe sindacare la valutazione interna delle prove soltanto qualora risulti evidente la sua arbitrarietà. La maggioranza ha ritenuto che sussistesse tale arbitrarietà mentre io, in linea di massima, non lo credo (come ho detto, riscontro soltanto un vizio procedurale). Tuttavia qualora occorra sindacare la valutazione delle prove in una causa riguardante la violenza contro le donne, allora ritengo che la Corte debba, come punto di partenza, considerare seriamente la voce della presunta vittima. Come ripeto, le vittime contano.
  4. Leggendo la richiesta della vittima in data 13 novembre 2009, si apprende che la sig.ra C.S., nata nel 1971, optometrista che gestiva un proprio negozio di ottica, e il sig. Giuliano Germano, nato nel 1956, avvocato, si erano sposati nel 1998 e avevano avuto una figlia nel 2002.
  5. La sig.ra C.S. lamentava che suo marito aveva tenuto “condotte ripetutamente moleste, come indicato infra“ che l’avevano “costretta a modificare radicalmente le [sue] abitudini quotidiane, generando un fondato timore per la [sua] incolumità personale e provocando per questo motivo uno stato perdurante e grave di ansia e terrore”.
  6. Il documento di 8 pagine presentato dalla sig.ra C.S. riferiva, tra gli altri punti:
    1. “il comportamento opprimente e ossessivo (…) determinato dalla gelosia eccessiva e ingiustificata” del marito che lo aveva indotto “specialmente negli ultimi anni a sottopor[la] a frequenti controlli e illecite indagini”;
    2. a decorrere dal 2006 (tre anni prima della richiesta alla polizia) il comportamento del ricorrente aveva cominciato a “trasformarsi in autentica violenza” contro la sua persona, in particolare in quell’anno egli le aveva inflitto “percosse e lesioni”, come attestato dall’intervento della polizia nel domicilio e dal referto del pronto soccorso ospedaliero; dopo un mese in cui la sig.ra C.S. aveva trovato rifugio presso i genitori, il marito l’aveva convinta a non rivolgersi ulteriormente alla polizia, richiesta che ella aveva accettato per via del fatto che la loro figlia aveva soltanto quattro anni;
    3. nel 2008 (l’anno precedente alla richiesta alla polizia) il marito l’aveva colpita con un pugno al petto, mentre nel 2009 (quando era stata presentata la richiesta alla polizia), il ricorrente, in un stabilimento balneare di fronte ha numerosi testimoni, l’aveva ingiuriata verbalmente e afferrata per il collo, l’aggressione era continuata la sera e sino al mattino successivo, quando era stata di nuovo medicata, come nel 2006, in un pronto soccorso ospedaliero; la sig.ra C.S. aveva deciso di denunciare tale episodio, rispetto al quale pendeva un procedimento penale;
    4. nel 2009 la sig.ra C.S. aveva promosso un procedimento di separazione giudiziale; sebbene il tribunale della famiglia le avesse accordato il diritto di affidamento della figlia, il sig. Germano aveva continuato a proferire minacce ed esercitare illecite pressioni durante gli incontri;
    5. la sig.ra C.S. aveva appreso che anche un'altra donna, che in precedenza aveva avuto una relazione con il sig. Germano, aveva denunciato aggressioni fisiche asseritamente da lui commesse;
    6. nei sette mesi precedenti alla richiesta alla polizia, la condotta del sig. Germano aveva assunto caratteristiche “chiaramente persecutorie” in quanto:

- in data 8 maggio 2009, mentre la donna era con sua figlia e con una delle sue amiche, la sig.ra L.V., il sig. Germano era comparso ai piedi dell’edificio ove ella abitava, gridando e sbraitando e ingiungendole dalla strada di fargli vedere sua figlia; gli insulti (alcuni dei quali specificamente citati nella richiesta alla polizia) erano proseguiti quando la minore, accompagnata dalla sig.ra L.V., era scesa al pianterreno per incontrare il padre; un mese più tardi il sig. Germano aveva minacciato L.V., ingiungendole di non riferire l’accaduto, l’aveva poi minacciata ancora per telefono;

- alle ore 5.30 della stessa mattina, il provider di posta elettronica aveva segnalato alla sig.ra C.S. un tentativo sospetto di accesso alla sua casella di posta, il sig. Germano conosceva una precedente password;

- Nello stesso mese, ovvero nel maggio 2009, il sig. Germano durante un intero pomeriggio aveva effettuato numerose chiamate telefoniche alla baby-sitter della figlia, interrompendo ogni volta la chiamata; tale episodio era stato seguito da una telefonata del sig. Germano alla sig.ra C.S. in cui egli l’aveva accusata di aver ordinato alla baby-sitter di non rispondere al telefono; disse che avrebbe chiesto al giudice del procedimento di separazione di verificare i corrispondenti tabulati telefonici dimostrando la pertinenza di tale fatto per i suoi rilievi;

- In data 9 maggio 2009, la sig.ra C.S. aveva cenato con due coppie: il mattino successivo il sig. Germano aveva telefonato a una persona di ciascuna coppia, chiedendo delle conoscenze di sua moglie;

- Successivamente il sig. Germano aveva cercato di sapere se la sig.ra C.S. avesse effettivamente frequentato un corso di optometria cui si era iscritta;

- In data 19 maggio 2009, il sig. Germano aveva atteso la sig.ra C.S. all’uscita di un centro estetico, e, dopo averla insultata, l’aveva strattonata e seguita mentre si allontanava, desistendo soltanto quando ella aveva minacciato di chiamare la polizia;

- In data 23 maggio 2009, la sig.ra C.S. aveva avuto la certezza di essere stata pedinata quel giorno, perché quando aveva lasciato il suo negozio di ottica dove era rimasta sua figlia con la baby-sitter, il sig. Germano aveva telefonato a quest’ultima per chiederle dove era diretta sua moglie;

- In data 3 giugno 2009, di nuovo, il sig. Germano era stato visto stazionare di fronte al negozio di ottica, dietro a delle colonne dalle quali osservava la sig.ra C.S.;

- in data 29 maggio 2009, mentre una dipendente, la sig.ra S.G., si trovava nel negozio, il sig. Germano le aveva telefonato chiedendo informazioni, e alludendo al fatto che la sig.ra C.S. era certamente lì dentro con il suo amante; a causa delle costanti pressioni che subiva da parte del sig. Germano, la sig.ra S.G., aveva dichiarato di voler lasciare il lavoro in negozio;

- in data 11 maggio 2009, la sig.ra C.S. aveva ricevuto 15 telefonate dal sig. Germano nel corso delle quali egli “[l]’aveva costantemente minacciata di cancellar[le] il sorriso dalla faccia” e aveva annunciato che “stava intraprendendo passi legali per rovinar[la]” e per fare in modo “di non versare neanche un euro per la figlia o [per lei]”;

- A settembre 2009, a seguito di un’accesa discussione tra i coniugi riguardante la figlia (che era presente), il sig. Germano aveva cominciato a urlare, scagliandosi contro la sig.ra C.S., mettendole le mani al collo come per strangolarla, e infine trascinando via la figlia in lacrime, che non voleva dormire a casa del padre;

- la ragazzina successivamente aveva detto alla madre che non voleva più andare a casa del padre “perché diceva cose terribili sulla [madre] e [la] insultava”;

- in data 13 ottobre 2009, il sig. Germano aveva informato la sig.ra C.S., con un SMS, che le avrebbe fatto consegnare 12 borse contenenti i suoi effetti personali e 3 borse contenenti i vestiti invernali della figlia per liberare l’ex domicilio familiare; le borse erano state scaricate in pieno giorno di fronte al negozio di ottica da alcuni dipendenti di un’impresa di pompe funebri che le avevano prelevate da un carro funebre di quelli utilizzati per il trasporto dei defunti al cimitero; tale uso abnorme di un carro funebre era stato denunciato dalla sig.ra C.S. alle autorità competenti;

- sempre in data 13 ottobre 2009, la sig.ra C.S. aveva ricevuto diverse telefonate da parte del sig. Germano effettuate a un numero che ella aveva tenuto riservato, il che dimostrava che egli si intrometteva nella sua vita privata;

- In data 5 novembre 2009, mentre apriva il negozio, la sig.ra C.S. aveva trovato degli escrementi depositati sulla soglia, contemporaneamente aveva visto il sig. Germano e la sua fidanzata del momento sul marciapiede che ridevano entrambi.

  1. Nella sua richiesta alla polizia la sig.ra C.S. aveva inoltre dichiarato che risultava evidente che il sig. Germano aveva minacciato una serie di persone per indurle a non avere contatti con lei, e in particolare per convincerle a non fornire a lei e ai tribunali informazioni di carattere finanziario che potevano essere utili nel procedimento di separazione: per esempio, l’elettricista, I., aveva rifiutato di eseguire un lavoro che ella gli aveva chiesto in quanto aveva paura del sig. Germano; C.M. aveva rifiutato di fornire un documento che attestava l’acquisto di elettrodomestici effettuato presso il suo negozio; D.G. aveva rifiutato di rilasciare una dichiarazione riguardo a lavori di tappezzeria eseguiti nell’ex domicilio familiare; F.F. aveva rifiutato di fornire le fotografie da lui scattate di alcune opere d’arte di proprietà dei coniugi. Tutti questi fornitori di servizi avevano detto alla sig.ra C.S. di temere ritorsioni.
  2. Nel suo racconto la sig.ra C.S. aveva anche citato la sig.ra V.V., cui il sig. Germano aveva detto che voleva rendere la vita impossibile alla moglie rovinandola economicamente.
  3. In data 7 novembre 2009, il sig. Germano aveva chiesto, tramite SMS, alla moglie di vedere la loro giovanissima figlia, che in quel momento si trovava fuori città con i nonni materni. Ciò aveva spinto il sig. Germano a contattare la polizia, e degli agenti si erano recati al negozio di ottica per indagare su una possibile sottrazione della minore. Secondo la vittima si trattava di un’intimidazione del tutto gratuita perché il padre sapeva dove era la figlia.
  4. La donna concludeva la richiesta indicando i nominativi di coloro che aveva informato della situazione.
  5. Mi asterrò dal commentare la richiesta nel merito ma, a mio giudizio, sebbene quando messe di fronte a suddetto resoconto le autorità interne avevano riassunto i fatti “come indicati dalla persona che ha richiesto l’ammonimento” (si veda il paragrafo 135 della sentenza) con un linguaggio (riportato nel terzo capoverso del paragrafo 10 della sentenza) che la maggioranza ha ritenuto “carente di motivazione”, ciò non giustifica la conclusione della maggioranza secondo la quale l’ammonimento era stato formulato “in termini estremamente generici” (paragrafo 10 supra), soprattutto se si tiene conto del fatto che “tutte le indagini (…) e (…) i documenti erano a verbale (terzo capoverso del paragrafo 10 della sentenza) ed erano perciò incontestabilmente accessibili al sig. Germano (che, di conseguenza ha potuto produrli e commentarli dinanzi ai tribunali interni e a questa Corte). In contrasto con la maggioranza, che ha adottato un approccio astratto e formalistico, la polizia, facendo riferimento agli episodi dettagliatamente descritti nel racconto della sig.ra C.S, che riteneva dimostrati, aveva fornito un’adeguata motivazione per l’ammonimento.

B. Le deposizioni delle persone informate dei fatti: testes ponderantur, non numerantur

  1. Dopo aver chiarito quanto dichiarato dalla vittima, la prima e più importante testimone, l’esercizio che ho sopra commentato anche riferendomi ai suoi limiti deve proseguire in relazione alle altre persone informate dei fatti.
  2. Al paragrafo 8 della sentenza la maggioranza conferma che la polizia aveva preso sul serio il racconto della donna: aveva “aperto un’indagine” e in due settimane aveva raccolto “le deposizioni di diciassette persone informate dei fatti scelte tra coloro che erano stati citati nella richiesta della moglie del ricorrente”. Nello stesso paragrafo, con una valutazione che commenterò soltanto brevemente infra, la maggioranza, nel contesto di un tribunale internazionale, si dedica a un esercizio tipico dei tribunali interni ovvero a ponderare e confrontare le deposizioni delle persone informate dei fatti. Così, secondo la maggioranza “quattordici deposizioni non [avevano] conferma[to] la versione dei fatti della moglie del ricorrente” (sottolineatura aggiunta); soltanto una testimone (ma “un’amica della moglie del ricorrente”, un’espressione di solito mirante a sminuire la credibilità) “aveva conferm[ato] (…) episodi” di semplice “violenza verbale (…) in sua presenza”; mentre un altro testimone aveva semplicemente dichiarato “che gli era stato riferito un episodio di aggressione fisica”. L’ultimo testimone si era limitato a riferire che il ricorrente “gli aveva telefonato diverse volte allo scopo di ottenere informazioni sulla vita della moglie”. Così, secondo la maggioranza, la motivazione dell’ammonimento era carente anche riguardo alla valutazione delle prove, perché “non vi è (…) riferimento al fatto che la gran maggioranza delle persone informate dei fatti non aveva confermato la versione dei fatti della moglie del ricorrente” (si veda il paragrafo 136 della sentenza), Insomma la partita termina 14 a 3 o anche 15 a 2 a seconda di come si conta; la diciottesima persona (la sig.ra C.S, la vittima), come ho detto, non è inserita nel conteggio finale. La vittima dovrebbe contare ed essere contata.
  3. Qualora trascuriamo il fatto che le prove debbano essere pesate più che contate (testes ponderantur, non numerantur), date le circostanze si può ritenere, con tutto il dovuto rispetto, che anche i numeri stessi indicati dalla maggioranza non tornino, come il mio esercizio dimostrerà. Benché le deposizioni siano riassunte in due frasi nel summenzionato passo della sentenza della maggioranza (le frasi finali del paragrafo 8) esse sono riportate molto più chiaramente nelle due pagine e mezzo (pp. 5-6) delle prime osservazioni del Governo. Di seguito il mio riassunto:
    1. C.M., un rivenditore di elettrodomestici (come detto sopra) aveva negato di aver subito pressioni e aveva dichiarato che non aveva potuto certificare gli acquisti perché erano avvenuti diverso tempo prima;
    2. U.D., un amico di entrambi coniugi, aveva dichiarato che il procedimento di separazione era molto conflittuale e aveva riconosciuto che il sig. Germano aveva avuto accessi di ira che, ad ogni modo, non riteneva diffamatori;
    3. L.V., un’amica della sig.ra C.S. (sopra menzionata e, secondo la maggioranza, l’unica persona informata dei fatti che aveva confermato la sua “versione”), aveva effettivamente confermato l’episodio di violenza verbale accaduto alla sua presenza; oltre quanto rilevato nella sentenza, ella aveva riferito che era presente anche la figlia e aveva aggiunto che il sig. Germano le aveva intimato di non testimoniare nel procedimento di separazione a favore della moglie “altrimenti [gli]ela avrebbe fatta pagare”; non aveva confermato di aver ricevuto ulteriori minacce per telefono ma aveva dichiarato di aver ricevuto lettere anonime;
    4. La telefonata di minaccia ricevuta da L.V. era stata confermata da E.O., la madre di L.V., che aveva assistito alla scena;
    5. M.G.E. e D.E., avevano confermato, in termini generali, il carattere conflittuale del procedimento di separazione;
    6. V.V. aveva dichiarato che il sig. Germano le aveva detto che voleva condurre la moglie al punto di dire “basta”; invero, si era vantato del fatto che non aveva dovuto sostenere spese legali, mentre la sig.ra C.S. doveva pagare gli avvocati che l’assistevano; quando V.V. in una conversazione con il sig. Germano aveva accennato al fatto che era lui ad essere nel torto perché aveva picchiato sua moglie, egli aveva replicato “dovrà dimostrarlo”; analogamente quando ella lo aveva rimproverato per aver tenuto tutta la mobilia pagata dalla moglie, si era allontanato dicendo “dovrà dimostrarlo”;
    7. R.P., un agente immobiliare, aveva negato di aver subito pressioni da parte del sig. Germano e aveva dichiarato che aveva consigliato alla sig.ra C.S. di non prendere in affitto un appartamento gestito dalla sua agenzia, semplicemente perché avrebbe provato imbarazzo per il fatto che il sig. Germano, un suo amico, avrebbe saputo che avevano avuto contatti;
    8. D.A. aveva confermato di aver eseguito lavori di tappezzeria che erano stati pagati dalla sig.ra C.S., ma aveva negato di aver rifiutato di emettere delle ricevute di pagamento a causa di pressioni, poiché semplicemente non ricordava più i dettagli;
    9. F.F., il summenzionato fotografo, aveva confermato di aver rifiutato di fornire alla sig.ra C.S. una ristampa del servizio fotografico relativo ai quadri e alle opere d’arte presenti nell’appartamento della coppia; ma ciò era avvenuto soltanto perché il servizio era stato richiesto dal sig. Germano e non da lei;
    10. P.R.D.R., proprietario di un’agenzia di pompe funebri, aveva dichiarato che i suoi dipendenti avevano trasportato gratuitamente dei pacchi per via della sua amicizia con il sig. Germano; il veicolo utilizzato, però, non era il carro funebre adoperato per trasportare le bare, bensì il veicolo di accompagnamento utilizzato per trasportare i fiori ai funerali;
    11. M.G.A. aveva confermato che il giorno dopo che era uscita a cena con la sig.ra C.S. aveva ricevuto una telefonata dal sig. Germano che voleva sapere se la moglie avesse una relazione con qualcuno; aveva anche riferito la discussione nata quando ella lo aveva rimproverato per aver picchiato la moglie;
    12. A.M. aveva dichiarato di non sapere nulla dell’episodio sul quale era stato chiamato a testimoniare;
    13. F.B. aveva confermato che il giorno dopo che era uscito a cena con la sig.ra C.S. aveva ricevuto una telefonata dal sig. Germano che voleva sapere con chi era la donna;
    14. S.G., la baby-sitter della figlia, aveva confermato di aver ricevuto molte telefonate dal sig. Germano che voleva sapere dove stava e cosa faceva la moglie, in particolare, quando una volta S.G. gli aveva detto che la sig.ra C. S. era assente per difendere la sua privacy, egli al telefono aveva replicato “ok, allora oggi è con il suo amante”; S.G. aveva riferito che, per effetto delle pressioni, aveva dovuto rinunciare al suo lavoro di baby-sitter e aveva aggiunto che una volta aveva trovato la ragazzina in lacrime, che le aveva detto che i genitori durante il weekend avevano litigato e il padre aveva picchiato la madre, che era andata via di casa;
    15. I.L., un elettricista aveva ammesso che aveva respinto la richiesta della sig.ra C.S. affinché svolgesse dei lavori elettrici perché non voleva rimanere “coinvolto nella lite” tra i coniugi, ma non aveva subito pressioni da parte del sig. Germano;
    16. R.R., cognato della sig.ra C.S., aveva dichiarato di non aver mai assistito di persona a scene di maltrattamento o violenza, ma che esse gli erano state raccontate da sua cognata.
  4. Ritengo che tale riassunto parli da sé. Per questo motivo, proprio come ho dovuto specificare la mia diversa posizione rispetto alla maggioranza che non aveva dato il giusto credito al racconto della presunta vittima, riassunto nelle due frasi finali del paragrafo 7 della sentenza della maggioranza, ritengo di non poter condividere il suo giudizio secondo il quale “quattordici deposizioni non [avevano] conferma[to] la versione dei fatti della moglie del ricorrente”, soltanto una testimone (ma “un’amica della moglie del ricorrente”) “aveva conferm[ato] (…) episodi” di semplice “violenza verbale (…) in sua presenza”; mentre un altro testimone aveva semplicemente dichiarato “che gli era stato riferito un episodio di aggressione fisica” e l’ultimo testimone si era limitato a riferire che il ricorrente “gli aveva telefonato diverse volte allo scopo di ottenere informazioni sulla vita della moglie”. In verità ci sono molti, molti altri elementi che non ritengo sia mio compito esaminare in dettaglio.

C. Eventuale esistenza di documenti

  1. La maggioranza, sia pure con l’approccio riduttivo sul quale ho attirato l’attenzione, ha ragione a dire che nel processo verbale dell’ammonimento si fa riferimento non soltanto alle “indagini svolte dalla polizia” ma anche agli “ulteriori documenti raccolti, tutti a verbale” (si veda il paragrafo 10) “senza affatto indicare quali fossero tali documenti e quali conclusioni ne sono state tratte” (si veda il paragrafo 136). Il nostro fascicolo contiene soltanto le deposizioni delle persone informate dei fatti. Tuttavia se si considerano i limiti della Corte riguardo all’assunzione delle prove, che sono basate sulle osservazioni del ricorrente e del Governo, si potrebbe facilmente concludere che, specialmente in un caso di presunti atti persecutori, la totalità degli elementi di cui dispone la Corte non abbia importanza; consapevole del suo ruolo sussidiario, essa deve soltanto verificare la non arbitrarietà della valutazione delle prove effettuata della autorità interne.
  2. In un contesto in cui, sebbene nel suo ricorso dinanzi al TAR (pp. 2-3) definisca i fatti “infondati”, il ricorrente “si esime dal confutare la massa fluviale di accuse” formulate dalla sig.ra C.S. e si concentra soltanto sugli aspetti giuridici, ritengo che la Corte avrebbe potuto riconoscere senza difficoltà che le autorità interne avevano controllato e documentato con copie e/o screenshot tutti gli elementi fattuali specificati dalla sig.ra C.S. nella sua richiesta. Tale specificità degli elementi, in prima battuta, merita credito e il fatto che il sig. Germano non ci si voglia soffermare ha una certa importanza: precedenti interventi della polizia, visite al pronto soccorso ospedaliero, SMS indicati con il numero e la data e conservati nel telefono della sig.ra C.S., nonché elementi attinenti al procedimento penale pendente erano probabilmente in possesso delle autorità nazionali.

III. LA VALUTAZIONE DELLA LEGITTIMITÁ E DELLA NECESSITÁ/PROPORZIONALITÁ

A. Una digressione sulla natura della misura lamentata

  1. Dopo aver integrato gli aspetti fattuali della causa con ulteriori particolari, posso adesso esaminare la valutazione della legittimità e della necessità/proporzionalità ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione svolta dalla maggioranza (faccio riferimento soltanto a questi due elementi dal momento che è evidente la sussistenza di un fine legittimo, si veda il paragrafo 123 della sentenza). Prima però ritengo utile dedicare una breve digressione alla natura della misura lamentata.
  2. Lo “ammonimento” previsto dalla legislazione italiana sopra citata rientra palesemente nel:
    1. contesto generale delle iniziative finalizzate ad adempiere all’articolo 34 della Convenzione di Istanbul che sotto il titolo “atti persecutori” obbliga le Parti ad adottare “le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionalmente e ripetutamente minaccioso nei confronti di un'altra persona, portandola a temere per la propria incolumità”;
    2. contesto più specifico disciplinato dall’articolo 53 della Convenzione di Istanbul, che prevede l’obbligo di garantire che la legislazione nazionale introduca “ordinanze di ingiunzione” e/o “di protezione” a favore delle vittime di tutte le forme di violenza comprese nel campo di applicazione della Convenzione e quindi anche nel caso di atti persecutori.
  3. In verità, quando l’Italia aveva promulgato la sua legislazione, che come chiarisce la sentenza (si vedano i paragrafi 25-26) risale al 2009, la Convenzione di Istanbul non era ancora stata redatta. Ma il nocciolo dei problemi connessi allo stalking era già ben noto. A livello dell’Unione europea (UE) erano stati condotti alcuni importanti studi su questo fenomeno criminale e sociale, a partire dal 2003 con il gruppo multidisciplinare chiamato “Gruppo di Modena”[5], alle cui ricerche si sono chiaramente ispirati alcuni articoli della Convenzione di Istanbul. Uno studio ufficiale dell’UE è stato portato a termine nel 2010.
  4. Con una scelta legislativa che si rivelerà in seguito conforme all’articolo 55 della Convenzione di Istanbul (che non vieta il perseguimento ex parte del delitto di atti persecutori affinché tali atti siano penalizzati ai sensi dell’articolo 34 di tale Convenzione) lo Stato convenuto ha ritenuto opportuno creare una via di uscita dal tracciato di diritto penale per coloro che commettono il reato per la prima volta, collocando le donne al centro dell’attenzione[6]. Nel caso di condotte moleste “minori” (ovvero quelle non suscettibili di essere penalizzate per se ai sensi di altre norme interne) e di coloro che commettono il reato per la prima volta, l’azione penale è stata subordinata a condizioni. Secondo la prassi generale, la vittima deve essere debitamente informata del suo diritto di ottenere l’azione penale e di presentare una querela. Qualora la vittima scelga di non sollecitare l’azione penale e non sia in questione nessun altro reato che richieda un’azione ex officio, la vittima dispone dell’alternativa di presentare una richiesta al questore, nel quadro del diritto amministrativo, affinché sia emesso un ammonimento “orale” (nella sentenza è utilizzata l’espressione “police caution” così come il linguaggio inglese[7]), dopo aver ascoltato la vittima (ovvero la parte richiedente) e le persone che hanno titolo a rilasciare una deposizione (si veda il paragrafo 26 della sentenza).
  5. Tale ammonimento è soltanto una di una serie di misure di prevenzione previste dalla legislazione del 2009 che ha introdotto anche provvedimenti cautelari, divieti di comunicazione, eccetera, che sono di competenza dei tribunali e non della polizia. In questa “panoplia” di strumenti interni, lo “ammonimento si colloca sul gradino più basso della scala di valutazione del rischio.
  6. Data la natura di tale misura (il cui chiarimento giustifica la mia digressione) concordo con la maggioranza (si veda il paragrafo 114 della sentenza) nel ritenere che si debba intendere che lo “ammonimento” italiano sia specificamente disciplinato dall’articolo 53 della Convenzione di Istanbul che stabilisce l’obbligo di garantire che la legislazione nazionale preveda ordinanze di “ingiunzione” e/o “protezione” a favore delle vittime di stalking. Sebbene il titolo di tale articolo menzioni alla lettera le “ordinanze di ingiunzione o di protezione”, il paragrafo 268 del rapporto esplicativo chiarisce che gli estensori della Convenzione avevano deciso di utilizzare tale espressione come “categoria onnicomprensiva”, che comprende esplicitamente le “ingiunzioni” (in francese, “ordonnances d’injonction”).[8]
  7. Avendo tratto tale inferenza dalla caratterizzazione dell’ammonimento come ordinanza di ingiunzione ai sensi dell’articolo 53 della Convenzione di Istanbul, seguono una serie di conseguenze che io ritengo la maggioranza abbia malauguratamente trascurato. Tratterò tali aspetti separatamente, in quanto essi rappresentano una sorta di fil rouge che collega i punti del mio dissenso all’approccio della maggioranza.

B. La durata indeterminata della misura

  1. Nel valutare il requisito della legittimità, la maggioranza ha espresso una riserva, ma non ha formulato conclusioni sulla questione di sapere se il fatto che l’ammonimento sia emesso per un periodo indeterminato in assenza del “diritto del singolo” di ottenere “un riesame o una rivalutazione periodica” e in ogni caso in presenza di un “elemento di incertezza (…) della legge e (…) [di] notevole discrezionalità” conferita alle autorità, sia conforme al diritto dal punto di vista dell’introduzione di garanzie contro l’arbitrarietà (si vedano i paragrafi 119-120 della sentenza). Così, sebbene la maggioranza prosegua sulla base dell’assunto che la misura fosse legittima (si veda il paragrafo 121), tale aspetto è riproposto sotto il profilo della proporzionalità e sotto questo profilo, per tale motivo, è riscontrata la sussistenza di una base per la violazione (si veda il paragrafo 134).
  2. Francamente non comprendo su quali principi della Convenzione è eventualmente fondato tale esito; nella sentenza non sono neanche citati i precedenti a sostegno della conclusione che un’ingiunzione deve necessariamente avere una durata limitata ed essere soggetta a riesame periodico.
  3. Inoltre, l’articolo 53 § 2, secondo trattino, della Convenzione di Istanbul contrasta chiaramente con tale conclusione della maggioranza. Il rapporto esplicativo, al paragrafo 271, chiarisce che gli Stati non hanno l’obbligo di fissare la durata della misura in quanto e perfettamente accettabile che essa resti in vigore “fino alla [sua] modifica”:

 “Il secondo trattino esige che l’ordinanza sia emessa per un periodo specificato o determinato di tempo o fino a modifica o revoca”; “cessa i suoi effetti qualora sia modificata o revocata dal giudice o da un’altra autorità competente”.

  1. I suddetti riferimenti sono presenti anche nel paragrafo 120 della sentenza ma, incomprensibilmente, pur osservando che le misure possono essere valide “fino alla loro modifica” il testo è oscuro, come se fossero pertinenti soltanto le parti che si riferiscono alla necessità di un termine della misura (si veda il riferimento al principio della certezza del diritto, che è pertinente soltanto rispetto alle misure di durata incerta, ma non a quelle valide “fino alla loro modifica”).
  2. La sentenza procede poi ad esaminare, sulla base di un numero limitato di riferimenti alla giurisprudenza interna, le conseguenze tratte dai tribunali italiani dal carattere “istantaneo” dell’ammonimento (si veda il paragrafo 119), che non consentirebbe la modifica o la revoca; ma si potrebbero formulare altre considerazioni per stabilire se nell’ordinamento italiano sia possibile la “revoca” (per esempio, qualora sia successivamente accertata l’illegittimità del provvedimento).
  3. A mio parere ciò che conta è che non vi sono formulazioni nella giurisprudenza (o nella Convenzione di Istanbul) che vietino che l’ordinanza di ingiunzione (specialmente qualora sia accompagnata dal diritto al controllo giurisdizionale) sia stabile nel tempo.

C. Il diritto di essere ascoltato e l’urgenza della misura

  1. La maggioranza, nel valutare la legittimità nell’ambito del riesame della Corte delle esistenti garanzie contro l’arbitrarietà, ritiene che il quadro interno così come a suo parere è generalmente interpretato dai tribunali interni (però su basi diverse da quelle considerate dal Consiglio di Stato, ovvero dal tribunale amministrativo superiore, nel caso di specie) consegua un giusto equilibrio per quanto riguarda il diritto dell’autore del fatto di essere ascoltato prima dell’emissione dell’ammonimento (cui secondo la maggioranza si può derogare soltanto in caso di “urgenza”, stabilita caso per caso, “debitamente indicata nelle motivazioni contenute nel processo verbale dell’ammonimento e soggetta a controllo giurisdizionale”, si veda il paragrafo 116 della sentenza; in base a tale criterio la maggioranza procede poi a riscontrare motivi di violazione sotto il profilo della valutazione della proporzionalità, si vedano i paragrafi 125-131 della sentenza).
  2. In verità, nel caso di specie il Consiglio di Stato ha chiaramente indicato che l’ammonimento aveva una funzione “cautelare e preventiva” (p. 4 della sentenza del Consiglio di Stato) e che quando è necessario un “intervento immediato”, la partecipazione dell’interessato può essere posticipata alla fase dell’impugnazione dinanzi a organi superiori o ai tribunali (pp. 6-7 della medesima sentenza).
  3. Nell’esporre il proprio intendimento del diritto interno la maggioranza ha ritenuto di doversi occupare della giurisprudenza successiva (in un numero limitato di casi) dello stesso Consiglio di Stato che garantiva ai presunti autori del reato più ampi diritti di partecipazione. Così, a mio modesto parere, la maggioranza ha elaborato una propria interpretazione del diritto interno in contrasto con quanto ritenuto dal Consiglio di Stato nel caso di specie e ne ha poi tratto la conseguenza che la sua interpretazione fosse l’unica conforme alla Convenzione.
  4. La sentenza della Corte avrebbe dovuto invece concentrarsi sul principio giuridico applicato nel caso di specie, che avrebbe dovuto essere verificato con riferimento alla Convenzione. Le eventuali garanzie supplementari, anche qualora si tralasci la dimensione temporale dei più recenti sviluppo giurisprudenziali e il fatto che essi non costituiscano una giurisprudenza consolidata, sono tutt’al più importanti ai sensi dell’articolo 53 della Convenzione.
  5. Se si verifica il principio affermato dal Consiglio di Stato nella nostra causa, esso pure si rivela perfettamente conforme alla Convenzione.
  6. A tale proposito la prima considerazione che intendo formulare riguarda ancora il contesto della violenza di genere, che secondo me è stato trascurato dalla maggioranza. Ascoltare di prassi il presunto autore del fatto prima di emettere l’ordinanza può essere un’ingenuità, perché apre la strada a un escalation di violenza, a pressioni sui testimoni e così via. Considero un esempio della distanza che separa la maggioranza dal contesto degli atti persecutori e della violenza domestica in generale il passo in cui essa dichiara che “non vede il motivo”, dato che in “due settimane gli organi di polizia avevano raccolto le deposizioni di diciassette diverse persone”, “per il quale (…) non avrebbero potuto ascoltare anche il ricorrente (si veda il paragrafo 130 della sentenza). D’altro canto, il concetto stesso di “ingiunzione” allude a una partecipazione ex post facto del presunto autore del reato.
  7. Una seconda considerazione riguarda ancora una volta il fondamento sul quale la maggioranza (in contrasto con il concetto che la Convenzione non riconosce un diritto generale e assoluto ad essere “preventivamente” ascoltato nelle questioni amministrative) ha costruito la sua conclusione: non trovo giurisprudenza pertinente nei paragrafi 112 e 113 né le diverse fonti giuridiche internazionali ivi citate confermano tale diritto assoluto. Il concetto è che la parte interessata da un procedimento amministrativo deve avere la possibilità di presentare rilievi, ed è incontestato che ciò sia accaduto nel caso di specie; ciò, però, può avvenire “dopo” l’emissione del provvedimento di ammonimento, assicurando pienamente le garanzie di difesa (in Italia in due gradi di giudizio).
  8. Un terzo aspetto riguarda l’utilizzo fatto dalla maggioranza dell’articolo 53 § 2, terzo trattino, della Convenzione di Istanbul. Il paragrafo 272 del rapporto esplicativo sottolinea con molta chiarezza che:

“Il terzo trattino impone alle Parti di garantire che, in determinati casi, tali ordinanze possano essere emesse, ove necessario, ex parte con effetto immediato. Ciò significa che un giudice o un’altra autorità competente deve avere il potere di emettere un’ordinanza di ingiunzione o di protezione temporanea[9] sulla base della richiesta di una parte soltanto. Va osservato che, in conformità agli obblighi generali di cui all’articolo 49 (2) della presente Convenzione, l’emissione di tali ordinanze non deve recare pregiudizio ai diritti di difesa e ai requisiti di equità e imparzialità del processo conformemente all’articolo 6 CEDU. Ciò significa, in particolare, che la persona destinataria dell’ordinanza deve avere il diritto di impugnarla dinanzi alle autorità competenti in conformità conformemente alle appropriate procedure interne.”

  1. Non riscontro nel suddetto linguaggio alcun riferimento all’urgenza in quanto tale, bensì a casi “ove [è] necessario” emettere ingiunzioni ex parte. Tale necessità, nel contesto della violenza di genere, può essere anche costituita dall’esigenza di proteggere la vittima. Come prevede l’acquis di Istanbul, la persona indicata come autore del reato naturalmente gode del diritto di ricorso. Nel frattempo, però, si evitano, nella misura del possibile eventuali rischi.
  2. La maggioranza invece, dopo aver citato la suddetta norma della Convenzione di Istanbul (si veda il paragrafo 114), trae conclusioni (si veda il paragrafo 116) che vanno ben oltre. Introduce la “urgenza, debitamente indicata nelle motivazioni contenute nel processo verbale dell’ammonimento e soggetta a controllo giurisdizionale” come l’unica possibilità di deroga al diritto dell’autore del reato di essere “preventivamente” ascoltato. Io al contrario ritengo, che nel contesto della violenza contro le donne, può mancare l’urgenza in quanto tale, ma cionondimeno, in linea con una possibilità che deve restare nel margine di discrezionalità dello Stato, può essere necessaria una misura “a sorpresa”. Affermare il contrario significa sottovalutare i rischi comportati dalla violenza domestica.
  3. Supporrò adesso per un momento che l’urgenza sia, come afferma la maggioranza, l’unico caso che consente una deroga all’obbligo di “rivelare” preventivamente le accuse di stalking all’autore del reato. In tal caso, non vedo perché “l’urgenza” non possa, una volta per tutte, essere ritenuta a livello giuridico interno applicabile a una categoria di ordinanze le cui caratteristiche da sole e in astratto giustificano un approccio generale. In altre parole, se una certa ordinanza può essere emessa se, e solo se, è in gioco una condotta persecutoria, perché l’urgenza non può sussistere ipso iure et facto?
  4. Questo è ciò che ha affermato il Consiglio di Stato nel caso di specie. Ma anche i sociologi, i criminologi, i movimenti delle donne e la Corte dicono lo stesso: “le autorità devono dare una risposta immediata alle denunce di violenza domestica” (si vedano Kurt, sopra citata, § 165, e Talpis c. Italia, n. 41237/14, § 114, 2 marzo 2017).
  5. Esiste un nesso specifico tra l’obbligo di risposta immediata e le misure di ingiunzione preventive, come l’ammonimento italiano. Così, l’articolo 50 della Convenzione di Istanbul è intitolato “Risposta immediata, prevenzione e protezione” e ai sensi dell’articolo 53 § 2, primo trattino, le ordinanze di ingiunzione devono essere “concesse per una protezione immediata”. Il paragrafo 270 del rapporto esplicativo sottolinea che il suddetto trattino “esige che tali ordinanze offrano protezione immediata (…). In altri termini ogni ordinanza deve avere effetto immediatamente dopo la sua emissione e deve essere accessibile senza necessità di un lungo procedimento giudiziario” (sottolineatura aggiunta). Inoltre, come ho già detto, il paragrafo 272 di suddetto rapporto afferma molto chiaramente che “il terzo trattino impone alle Parti di garantire che, in determinati casi, tali ordinanze possano essere emesse, ove necessario, ex parte con effetto immediato“.
  6. In definitiva, la Convenzione di Istanbul ammette esplicitamente che anche una semplice richiesta “ex parte” è sufficiente per un’ingiunzione (in assenza di indagini) e che i diritti di difesa possono essere garantiti in una fase successiva. Logicamente ciò vale ancora di più nel contesto italiano, in cui l’ammonimento è considerato una misura urgente di per sé, ma la sua emissione è preceduta da indagini e i diritti di difesa sono pienamente garantiti dalle successive possibilità di impugnazione[10].

D. La motivazione contenuta nel processo verbale dell’ammonimento e le motivazioni delle sentenze giudiziarie che hanno svolto il controllo giurisdizionale

  1. La maggioranza ha chiarito bene il carattere orale dello “ammonimento” e il fatto che nel quadro italiano una qualche motivazione compatibile con il carattere urgente del provvedimento è indicata nel processo verbale, una copia del quale è consegnata alla parte (si veda il paragrafo 137 della sentenza). Secondo la lettura che ne dà, però, la maggioranza ritiene che nel caso di specie il processo verbale non abbia fornito adeguate motivazioni (si veda il paragrafo 135 della sentenza).
  2. Io ritengo altrimenti, e ho avuto la possibilità di esprimere il mio dissenso supra quando ho commentato i fatti della causa (non è dunque necessario che ripeta qui le mie osservazioni). Ho proposto una lettura alquanto differente, ritenendo che il processo verbale fosse di per sé adeguatamente motivato, e che le maggiori specificazioni pretese dalla maggioranza nel paragrafo 135 siano davvero eccessive. Ciò è ancor più vero una volta che si riconosca, come faccio io oltre alla Convenzione di Istanbul, che segue una procedura in contraddittorio completa in cui l’esibizione delle deposizioni citate (e, soprattutto, della richiesta della vittime/testimone) consente al presunto autore del fatto di comprendere pienamente i riferimenti che il processo verbale deve necessariamente fare ad altri documenti.
  3. Concordo invece con la maggioranza sul fatto che “i tribunali interni non avevano fornito motivi pertinenti e sufficienti in ordine alla questione di sapere se gli atti imputati [al ricorrente]” giustificassero la misura, poiché il Consiglio di Stato (non vi erano ragionamenti pertinenti su questo punto nella sentenza del TAR in quanto essa aveva annullato la misura in primo grado) si era limitato a “concludere che il questore aveva ‘attentamente indicato’” tutte le indagini grazie alle quali era stato possibile corroborare il racconto dei fatti della sig.ra C.S. (si vedano i paragrafi 21 e 139-141 della sentenza). Mentre la giurisprudenza interna si è sviluppata nella direzione di consentire ai tribunali amministrativi, rispetto a questo tipo di misure, la valutazione della base fattuale oltre che della legittimità del provvedimento (si vedano i paragrafi 41 e 142 della sentenza), io ritengo che ciò costituisca effettivamente un vizio procedurale in quanto le motivazioni fornite dal Consiglio di Stato dimostrano in effetti che è stato svolto “un esame puramente formale” dei fatti (si veda il paragrafo 141 della sentenza).
  4. Poiché ritengo che tale assenza di controllo giurisdizionale indipendente relativo alla carenza di motivazione avrebbe ben potuto, preso isolatamente, indurre a valutare che l’ingerenza, nel complesso, era proporzionata, date le molte altre garanzie concesse, ritengo tuttavia opportuno adottare una posizione ferma circa la necessità di un controllo giurisdizionale completo, avendo io riconosciuto, a differenza della maggioranza, che il diritto di partecipazione del presunto autore del fatto può essere limitato alla fase dell’impugnazione giudiziaria del procedimento di ammonimento finalizzato alla prevenzione del reato di stalking. La matematica insegna che in una trasposizione si può spostare un termine da un lato all’altro di un’equazione, ma occorre mutare il segno. Così le garanzie che io ho sottratto alla parte del procedimento dinanzi al questore devono necessariamente essere aggiunte alla parte dinanzi ai tribunali.

IV. CONCLUSIONI

  1. Vorrei sottolineare che la soluzione giuridica dell’ammonimento, introdotta dallo Stato convenuto ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge n. 11/2009, convertito nella legge n. 38/2009, è stata esaminata dalla Corte nella causa Talpis c. Italia, sopra citata, § 51, nel quadro di una più ampia panoplia di misure preventive relative alla violenza di genere. Poiché le autorità interne in tale caso erano rimaste inerti rispetto all’escalation di violenza nei confronti di una donna, erano state riscontrate violazioni. Successivamente nella causa Kurt c. Austria, sopra citata, § 190, la Grande Camera aveva messo a punto i principi che regolano l’obbligo delle autorità di dare, dopo una valutazione autonoma, proattiva e completa dei rischi, una risposta immediata alle denunce di violenza domestica.
  2. Ciò detto, ritengo che la suddetta opinione abbia dimostrato che la sentenza della maggioranza nella presente causa segna molti passi indietro nella tutela, ai sensi della Convenzione, delle donne dalla violenza di genere in generale e dagli atti persecutori in particolare. In aggiunta alle diverse superflue garanzie - spesso controproducenti - che la maggioranza fa derivare, in un totale vuoto giurisprudenziale, dall’articolo 8 della Convenzione e cerca di imporre agli Stati in relazione alle ordinanze di ingiunzione o protezione di cui all’articolo 54 della Convenzione di Istanbul, e dalle quali con rammarico devo prendere le distanze come indicato supra, si può trovare un’ulteriore dimostrazione di tali passi indietro nel totale detournement dall’acquis giurisprudenziale della Corte reperibile al paragrafo 128 della sentenza.
  3. Citando il paragrafo 169 della causa Kurt, la maggioranza usa il concetto di valutazione dei rischi “autonoma” e “proattiva” (io aggiungerei anche “completa”), sviluppato da quella sentenza della Grande Camera, a sostegno dell’idea che “dopo aver ricevuto una denuncia” una decisione in merito alle misure deve prima “concedere [all’autore del reato] la possibilità di presentare rilievi a sostegno della sua posizione”. Ma ciò non è quello che la Corte intendeva, sulla base dei consolidati sviluppi della ricerca scientifica sulla violenza di genere, quando faceva riferimento a una valutazione dei rischi “autonoma” e “proattiva”. Come mostrano chiaramente i paragrafi 169 e 170 della causa Kurt, i termini “autonomo” e “proattivo” si riferiscono all’obbligo delle autorità di non basarsi soltanto sulla percezione del rischio della vittima, ma di integrare la propria valutazione tenendo conto della vulnerabilità generale delle vittime di abusi domestici, della loro tendenza a ritirare le denunce, modificare le deposizioni, negare la violenza passata e tornare a vivere con l’autore del fatto (si veda Talpis, sopra citata, §§ 107-25). Invece, secondo la maggioranza una valutazione “autonoma” e “proattiva” del rischio implica che, prima dell’emissione di un’ordinanza di ingiunzione o protezione, le autorità debbano rintracciare l’autore del reato e “concedergli la possibilità di presentare rilievi a sostegno della sua posizione”, ovvero l’esatto opposto della finalità perseguita dalla Grande Camera nella sua ricerca di una tutela migliore per le vittime vulnerabili che non sono in grado di denunciare in toto la violenza che subiscono.
  4. Il garantismo nei confronti del presunto autore del reato e la volontà di ottenere a tutti i costi la sua “versione” contrapposta a quella della presunta vittima, come dimostra l’esperienza, conduce di solito ad accuse reciproche di falsa dichiarazione, a denunce di condotta provocatoria o addirittura di violenza reciproca. In alcuni casi può esservi motivo di emettere ingiunzioni nei confronti sia della vittima che dell’autore del reato. Si tratta di una spirale che deve essere evitata in quanto può, per il ben noto fenomeno dell’eterogenesi dei fini, persino mettere a repentaglio l’accertamento della verità. Posso citare ancora una volta il rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul che al paragrafo 276 afferma “Infine poiché accertare la verità nei casi di violenza domestica può talvolta essere difficile, la Parti possono valutare se limitare la possibilità dell’opponente/autore del reato di far fallire i tentativi della vittima di cercare protezione adottando le misure necessarie per assicurare che nei casi di violenza domestica, le ordinanze di ingiunzione e protezione di cui al paragrafo 1 non possano essere emesse allo stesso tempo nei confronti della vittima e dell’autore del reato. Le parti possono altresì valutare se interdire l’utilizzo nella legislazione nazionale della nozione di condotta provocatoria in relazione al diritto di chiedere ordinanze di ingiunzione o protezione. Tale concetto si presta a interpretazioni scorrette miranti a screditare la vittima e dovrebbe essere eliminato dalla legislazione interna sulla violenza domestica.”

[1] Nella causa Opuz c. Turchia, § 132, 9 giugno 2009, la Corte ha chiarito una volta per tutte che la violenza domestica, “che può assumere varie forme che spaziano dalla violenza fisica a quella psicologica o alla violenza verbale” è “un problema generale che riguarda tutti gli Stati membri e che non sempre emerge perché spesso si presenta all’interno di rapporti personali o di circuiti chiusi” Ha chiarito inoltre che essa non colpisce soltanto le donne, ma che possono esserne vittime anche gli uomini e, che, in verità, “ anche i minori sono spesso vittime del fenomeno, direttamente o indirettamente”. Ciò premesso, è fin troppo evidente il motivo per il quale faccio riferimento nel testo alle donne quali vittime, infatti dal punto di vista statistico e concettuale sono loro le vittime quasi esclusive della violenza di genere.

[2]La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) è stata adottata dal Comitato dei ministri ed è stata aperta alla firma a Istanbul in data 11 maggio 2011. La Convenzione è entrata in vigore il 1° agosto 2014 e riconosce che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Può essere opportuno chiarire sin dall’inizio che, sebbene non sia compito della Corte “esaminare l’osservanza da parte dei Governi di strumenti diversi dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e relativi protocolli, la Convenzione di Istanbul, “che come la stessa Convenzione è stata elaborata in seno al Consiglio d’Europa” può “offrirle una fonte di ispirazione” “come altri trattati internazionali” (si veda, per esempio, con riferimento alla Carta sociale europea, Zehnalová e Zehnal c. Repubblica ceca (dec.),n. 38621/97, CEDU 2002-V). Inoltre la Convenzione non può essere interpretata nel vuoto e deve essere intesa in armonia con i principi generali del diritto internazionale. A tale proposito voglio sottolineare che la Corte ha citato la Convenzione di Istanbul quale fonte di ispirazione, per esempio, nella causa Kurt c. Austria, 62903/15 [GC], §§ 167, 172, 175, 180-1, 197, 15 giugno 2021.

[3] Ritengo che il rispetto per la dignità della presunta vittima mi imponga di utilizzare il suo nominativo, in forma di iniziali (sig.ra C.S.). Ella era il soggetto richiedente nel procedimento amministrativo di ammonimento ed era quindi anche parte (sebbene in absentia), così come il Ministero dell’interno, del successivo procedimento giudiziario interno. La letteratura sulla denominazione delle donne negli ultimi decenni è divenuta parte integrante degli studi storici e giuridici sulla discriminazione.

[4] Purtroppo la sentenza della maggioranza ritiene che “che la gran maggioranza delle persone informate dei fatti non [abbia] confermato la versione dei fatti della moglie del ricorrente” ovvero i “fatti come da lei ipotizzati” (si veda il paragrafo 136 della sentenza). Come ribadisco, a giudizio della maggioranza “quattordici deposizioni non [avevano] conferm[ato] la versione dei fatti della moglie del ricorrente”, quanto alle restanti tre persone informate dei fatti, una è stata definita “un’amica della moglie del ricorrente”. Tralasciando il fatto che nel contesto della violenza contro le donne, spesso succede che solo gli “amici sappiano”, voglio soltanto sottolineare che il racconto della sig.ra C.S. non è stato considerato il racconto di una testimone (quella principale, secondo me), bensì una “versione” che doveva per forza essere confermata. Le vittime contano e, come affermo nel corpo principale dell’opinione, dovrebbero essere annoverate tra i testimoni. Invero, è un criterio largamente riconosciuto quello secondo il quale nei casi di violenza domestica, una volta garantiti i diritti di difesa, è sufficiente la credibilità intrinseca della vittima. Inserirò nelle mie conclusioni (parte IV) alcune considerazioni sui rischi che comporta la riduzione della violenza di genere ad accuse reciproche e opposte “versioni” dei fatti. 

[5] Il primo rapporto è stato: Modena Group on Stalking, Donne vittime di stalking: Riconoscimento e modelli d'intervento in ambito europeo, Franco Angeli, Milano 2005; cui sono seguiti, con il sostegno dell’Unione europea, molti altri rapporti.

[6] Può essere interessante qui rilevare che tale scelta è in perfetta armonia con il quarto trattino dell’articolo 53 § 2 della Convenzione di Istanbul. Il paragrafo 273 del rapporto esplicativo della convenzione recita:

 “Il quarto trattino mira a garantire alle vittime la possibilità di ottenere un’ordinanza di ingiunzione o protezione anche nel caso che non decidano di promuovere un altro procedimento giudiziario. Per esempio, laddove esistono tali ordinanze, gli studi hanno dimostrato che molte vittime che vogliono chiedere un’ordinanza di ingiunzione o protezione possono non essere pronte a sporgere querela (che condurrebbe a un’indagine penale ed eventualmente a un procedimento penale nei confronti del responsabile” (sottolineatura aggiunta).

[7] L’ammonimento italiano dal punto di vista tecnico non è un “caution”, in quanto, diversamente da quanto accade in alcuni paesi di common law, non presuppone che il responsabile accetti le accuse; l’accusato, al contrario, può ricorrere alla giustizia amministrativa. L’ammonimento italiano, di natura amministrativa, è stato successivamente esteso dalla legge n. 119/2013 ai casi di violenza domestica stricto sensu (al di là dello stalking), e dalla legge n. 71/2017 al cyberbullismo, nei casi in cui l’autore del fatto sia un minore. Nella mia opinione tratterò il fatto che esso, di regola, non ha una durata prefissata tranne nel caso del minore autore di cyberbullismo (nel qual caso termina quando il minore compie diciotto anni). La legislazione italiana offre molti altri esempi di ammonimento delle autorità la cui natura e disciplina non hanno pressoché nulla in comune con il caso di cui trattasi nella presente sentenza. 

[8] Il paragrafo 268 del rapporto esplicativo, che tratta dell’articolo 53, recita:

“si propone di offrire un rimedio giuridico celere per tutelare le persone che rischiano di subire una delle forme di violenza contemplate dal campo di applicazione della presente Convenzione, vietando, limitando o prescrivendo determinate condotte da parte dell’autore del fatto. L’ampia gamma di misure contemplate in tali ordinanze significa che esse esistono sotto diversi nomi, per esempio ordinanza restrittiva, ordinanza di interdizione, ordinanza di sfratto, ordinanza di protezione o ingiunzione. A dispetto di tali differenze esse servono al medesimo scopo: prevenire la violenza e proteggere la vittima. Ai fini della presente Convenzione, gli estensori hanno deciso di usare l’espressione “ordinanza di ingiunzione o di protezione come categoria onnicomprensiva” (sottolineatura aggiunta).

Può essere interessante rilevare che il successivo paragrafo 269 tratta della possibilità che le ordinanze di ingiunzione o di protezione siano disciplinate dal diritto civile o, come nell’ordinamento italiano, dal diritto amministrativo. Esso recita:

 “Gli estensori hanno lasciato alle Parti la scelta del regime giuridico più adatto in virtù del quale poter emettere tali ordinanze. La scelta di stabilire il fondamento delle ordinanze di ingiunzione o di protezione nel diritto civile, nel diritto procedurale penale, nel diritto amministrativo, o in tutti tali diritti dipende dall’ordinamento giuridico nazionale e soprattutto dalla necessità di un’effettiva tutela delle vittime” (sottolineatura aggiunta).

[9] Al paragrafo 114 la maggioranza sottolinea, a mio parere eccessivamente, l’aggettivo “temporaneo” presente in questo paragrafo del rapporto esplicativo, e lo usa, indirettamente, per integrare i propri rilievi sulla necessità che la durata sia predeterminata o soggetta a riesame. Per contestare tale presupposto è opportuno notare che:

 - il pertinente trattino dell’articolo 53 § 2 menziona misure “ex parte” con effetto immediato, senza inserire il concetto di “temporaneità” che è contenuto soltanto nel rapporto esplicativo;

- la versione francese di tale rapporto utilizza il diverso aggettivo “provisoire”;

- l’ambito della frase che contiene il requisito della “temporaneità” è pertanto strettamente connesso al fondamento “ex parte” dell’ordinanza provvisoria. Qualora, come nell’ordinamento italiano, l’ingiunzione sia sempre emessa a seguito di indagini, il requisito della temporaneità può non applicarsi, Ciò che importa in questo passo del rapporto esplicativo è che il diritto di difesa è assicurato mediante successiva impugnazione e non mediante la partecipazione preventiva come esige invece la maggioranza.

[10] La maggioranza cita gli sviluppi della giurisprudenza interna in questo ambito, ma poiché essi sono ben lontani dall’essersi stabilizzati non li prenderò in considerazione nella presente opinione.