Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 6 dicembre 2022 - Ricorso n. . 8790/21 - Causa Scalzo c. Italia


© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con la sig.ra Rita Carnevali, assistente linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry


CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA SCALZO c. ITALIA

(Ricorso n. 8790/21)

SENTENZA

Art 8 • Obblighi positivi • Impossibilità per molto tempo di intentare un’azione volta alla dichiarazione di paternità nei confronti del padre biologico a causa della lunghezza della procedura di disconoscimento di paternità del padre presunto • Necessità di difendere gli interessi della persona che cerca di determinare la propria filiazione nel sistema in cui l’azione di disconoscimento di paternità è pregiudizievole per l’azione volta alla dichiarazione di paternità • Assenza di misure di accelerazione della procedura • Ricorrente, che ha un interesse vitale a scoprire la sua identità personale, mantenuta in uno stato di incertezza prolungata • Violazione sproporzionata del diritto al rispetto della propria vita privata

STRASBURGO

6 dicembre 2022

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Scalzo c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:

Marko Bošnjak, presidente,
Péter Paczolay,
Krzysztof Wojtyczek,
Lətif Hüseynov,
Ivana Jelić,
Gilberto Felici,
Raffaele Sabato, giudici,
e da Renata Degener, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso (n. 8790/21) presentato contro la Repubblica italiana da una cittadina di questo Stato, la sig.ra Maria Scalzo («la ricorrente») che il 29 gennaio 2021 ha adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),

Vista la decisione di portare a conoscenza del governo italiano («il Governo») i motivi di ricorso relativi agli articoli 6 e 8 della Convenzione, e di dichiarare il ricorso irricevibile per il resto,

Viste le osservazioni delle parti,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 15 novembre 2022,

Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. Il ricorso riguarda l’impossibilità per la ricorrente di intentare un’azione volta alla dichiarazione di paternità nei confronti del presunto padre biologico, da una parte, in ragione del fatto che la legge italiana subordina l’azione volta alla dichiarazione di paternità alla condizione che la sentenza che esclude la paternità del padre presunto, il marito di sua madre nella procedura di disconoscimento di paternità, sia divenuta definitiva e, dall’altra, a causa della lunghezza della procedura di disconoscimento di paternità che, nel caso di specie, dura da più di dodici anni. Invocando gli articoli 6 e 8 della Convenzione, la ricorrente afferma che il fatto che la decisione pronunciata nell’ambito della procedura di disconoscimento di paternità non fosse definitiva l’ha lasciata in uno stato di incertezza prolungata circa la sua identità personale e le impedisce di intentare un’azione volta alla dichiarazione di paternità.

IN FATTO

  1. La ricorrente è nata nel 1954 e risiede a Sellia Marina. È stata rappresentata dall’avv. E. Tolomeo.
  2. Il Governo è stato rappresentato dal suo agente, L. D’Ascia, avvocato dello Stato.
  3. Alla nascita, la ricorrente fu registrata nel registro dello stato civile del comune di Sellia Marina come figlia del sig. C. Scalzo e della sig.ra D.M.

L’AZIONE DI DISCONOSCIMENTO DI PATERNITÀ

  1. Nel 2010 la ricorrente e suo fratello, il sig. G. Scalzo, intentarono un’azione di disconoscimento di paternità dinanzi al tribunale di Catanzaro allo scopo di far dichiarare che non erano i figli biologici del sig. C. Scalzo, il marito della loro madre. La ricorrente affermava che il suo padre biologico era T.M.
  2. Il 7 marzo 2011 i figli di T.M., che nel frattempo era deceduto, formularono intervento volontario nel giudizio.
  3. Con sentenza non definitiva del 26 febbraio 2014, il tribunale di Catanzaro dichiarò l’inammissibilità dell’intervento volontario dei figli di T.M.
  4. Nel frattempo il tribunale di Catanzaro aveva chiesto una perizia biologica.
  5. A seguito del risultato della perizia, che aveva escluso la paternità biologica del sig. C. Scalzo rispetto alla ricorrente e a suo fratello, il 1° luglio 2015 il tribunale di Catanzaro dichiarò che gli interessati non erano i figli biologici del sig. C. Scalzo e ordinò all’ufficiale dello stato civile di Catanzaro di procedere all’iscrizione della sentenza negli atti di nascita.
  6. Uno dei fratelli della ricorrente (il sig. G. Scalzo) interpose appello avverso la sentenza del tribunale di Catanzaro, ritenendo che il procedimento fosse inficiato da vizi di forma. In particolare, il sig. G. Scalzo eccepiva la nullità della perizia biologica, considerando che le indagini erano state effettuate oltre i limiti fissati dal giudice.
  7. Il 13 ottobre 2016 la corte d’appello di Catanzaro respinse l’appello e confermò la sentenza di primo grado.
  8. Il sig. G. Scalzo reiterò le stesse doglianze dinanzi alla Corte di cassazione.
  9. Con ordinanza del 16 giugno 2021, depositata il 15 settembre 2021, la Corte di cassazione, dopo aver riconosciuto l’esistenza di una divergenza giurisprudenziale sulla questione della nullità della relazione peritale eccepita dal sig. G. Scalzo, questione che era pendente dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione, sospese il procedimento in attesa di tale decisione (depositata il 1° febbraio 2022).
  10. Secondo le ultime informazioni ricevute dalla Corte, la causa è tuttora pendente dinanzi alla Corte di cassazione.

L’AZIONE volta alla dichiarazione DI PATERNITÀ

  1. Nel 2016, nelle more del giudizio di appello sul disconoscimento di paternità dinanzi alla corte d’appello di Catanzaro, la ricorrente e due dei suoi fratelli formularono dinanzi al tribunale di Roma una domanda di dichiarazione di paternità nei confronti di T.M. Gli eredi di T.M. furono convenuti in giudizio.
  2. Con sentenza depositata il 17 luglio 2018 il tribunale di Roma dichiarò improcedibile la domanda di dichiarazione di paternità in quanto la decisione con la quale i giudici avevano accolto il ricorso di disconoscimento di paternità non era ancora definitiva, condizione preliminare nel diritto interno per la domanda di dichiarazione di paternità. Il tribunale condannò la ricorrente alle spese del giudizio.
  3. Il tribunale respinse la domanda di sospensione del giudizio in attesa dell’esito dell’azione di disconoscimento di paternità, ritenendo che non vi fosse alcun nesso tra le due cause.

IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

I. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

A. Il codice civile

  1. Secondo la legislazione italiana, la presunzione Pater is est quem nuptiae demonstrant (presunzione di paternità) è in linea di principio applicabile al figlio che si presume concepito o nato durante il matrimonio (articolo 231 del codice civile).
    Quando il figlio è reputato figlio del marito della sua madre biologica, la legge prevede delle possibilità per disconoscere la paternità del marito della madre biologica.

Articolo 243 bis
Disconoscimento di paternità

«L'azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo.

Chi esercita l'azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre.

La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità.»

Articolo 244
Termini dell’azione di disconoscimento

«L'azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio.»

Articolo 249
Legittimazione all'azione di reclamo dello stato di figlio. Imprescrittibilità.

«L'azione per reclamare lo stato legittimo spetta al medesimo.

L’azione è imprescrittibile.»

Articolo 250
Riconoscimento

«Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall'articolo 254, dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.

Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso.

Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell'altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.

Il consenso non può essere rifiutato se risponde all'interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell'altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all'altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l'audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l'opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all'affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell'articolo 315 bis e al suo cognome ai sensi dell'articolo 262.

Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze e avuto riguardo all'interesse del figlio.»

Articolo 253
Inammissibilità del riconoscimento

«In nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio [legittimo o legittimato] in cui la persona si trova.»

Articolo 269
Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità

«La paternità e la maternità [naturale] possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso.

La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.

(...)

La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.»

Articolo 270
Legittimazione attiva e termine

«L'azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità [naturale] è imprescrittibile riguardo al figlio.»

Articolo 276
Legittimazione passiva

«La domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità [naturale] deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso.

Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse.»

Articolo 277
Effetti della sentenza

«La sentenza che dichiara la filiazione [naturale] produce gli effetti del riconoscimento.

Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l'affidamento, il mantenimento, l'istruzione e la educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui.»

Articolo 315
Stato giuridico della filiazione

«Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.»

B. Il codice di procedura civile

Articolo 295
Sospensione necessaria

«Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa.»

C. La giurisprudenza della Corte di cassazione

  1. Con l’ordinanza n. 17392 del 3 luglio 2018, la Corte di cassazione ha riconosciuto che tra l’azione di disconoscimento di paternità e quella volta alla dichiarazione di paternità vi era un «nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico», che non costituirebbe ostacolo all’introduzione dell’azione volta alla dichiarazione di paternità, ma soltanto all’accoglimento della stessa, il che richiederebbe una sospensione del corso del procedimento in attesa dell’esito del procedimento di disconoscimento di paternità.
  2. Con l’ordinanza n. 27560 dell’11 ottobre 2021, la Corte di cassazione ha affermato che la condizione di «figlio legittimo» è ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità da parte di colui che assume di essere il padre biologico, atteso che deve, prima, essere rimosso lo stato di «figlio legittimo», con accertamento efficace erga omnes, e – pur non essendo legittimato a proporre in via autonoma azione di disconoscimento di paternità, e neppure potendo intervenire e partecipare a quel giudizio o proporre impugnazione di terzo, in qualità di «altro genitore» se il minore è infraquattordicenne, può chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale affinché promuova l’azione di disconoscimento, e ciò interpretando la locuzione dell’art. 244, comma 6, del codice civile.

D. La Corte costituzionale

  1. Con la sentenza n. 177 del 14 luglio 2022, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’articolo 269 del codice civile nella parte in cui tale articolo prevede che la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità può essere pronunciata soltanto nei casi in cui il riconoscimento è ammesso, ma non può esserlo quando tale riconoscimento è «in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova». In via subordinata, il giudice rimettente dubitava della legittimità costituzionale dell’articolo 269 del codice civile, nella parte in cui non permetteva al tribunale di pronunciare una sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità con efficacia condizionata alla rimozione giudiziale del precedente status.

Secondo il giudice del rinvio, ne risulterebbe una lesione del diritto all’identità personale «nel duplice profilo della impossibilità di accertare la genitura in presenza di uno status contrastante e della perdita irreversibile di una qualsiasi identità filiale nell’ipotesi in cui alla eliminazione di quella precedentemente acquisita non segua il vittorioso esperimento dell’azione per la dichiarazione di quella «naturale» ». Ciò contrasterebbe con gli artt. 2, 29, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, con gli articoli 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, nonché con l’articolo 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

  1. 22. La Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni sollevate, ma si è pronunciata nei seguenti termini:

«Innanzitutto, pur a fronte di una disposizione non priva di criticità sotto il profilo costituzionale, questa Corte prende atto che, per rimuovere il vulnus lamentato dal giudice a quo, eliminando la condizione del giudizio demolitivo del precedente status, sarebbe necessaria una riforma di sistema idonea a farsi carico di molteplici profili.

L’esigenza di coniugare la tutela dei diritti di chi vuol far accertare una nuova identità, con la protezione di chi, sulla base della efficacia certativa del titolo, vanta il precedente status, rende, infatti, necessario un intervento di competenza del legislatore.

In particolare, l’effetto caducatorio dello status pregresso andrebbe esplicitato per consentire al giudice di tenere conto degli interessi coinvolti da tale effetto demolitivo.

Da un lato, in un eventuale giudizio promosso nell’interesse del figlio minore, il giudice dovrebbe poter ponderare che dall’accertamento del nuovo status discende anche la rimozione del legame antecedente.

Da un altro lato, andrebbe disposto l’intervento necessario nel giudizio del genitore esposto al citato meccanismo.

Senza una riforma di sistema, l’attuale disciplina della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità farebbe residuare una tutela debolissima al genitore, benché dotato di un titolo di stato. Questi avrebbe, infatti, una semplice facoltà di intervenire nel giudizio, come «chiunque vi abbia interesse» (art. 276, secondo comma, cod. civ.), o potrebbe proporre, avverso la sentenza che accerta il nuovo status, un’opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 404, primo comma, del codice di procedura civile.

Da ultimo, andrebbe, altresì, effettuato un intervento organico, che valuti le ricadute su altre disposizioni (a partire dall’art. 239 cod. civ.) e provveda agli opportuni coordinamenti.

(...)

In definitiva, tanto l’esigenza che sia il legislatore a procedere a una «revisione organica della materia in esame» (sentenza n. 101 del 2022 e, in senso analogo, di recente, sentenze n. 143, n. 100 e n. 22 del 2022, n. 151, n. 32 e n. 33 del 2021; n. 80 e n. 47 del 2020, n. 23 del 2013), facendosi carico della complessità degli interessi coinvolti, onde prevedere «cautele» (sentenza n. 143 del 2022) ed evitare «disarmonie» (sentenza n. 32 del 2021), quanto il carattere generico e ambiguo del petitum formulato in via principale (sentenze n. 239 e n. 237 del 2019) inducono questa Corte a dichiararne l’inammissibilità.

Spetterà, dunque, al legislatore, nella sua discrezionalità, valutare, alla luce dell’evoluzione delle tecniche di accertamento della filiazione, come un intervento di sistema possa tenere conto di tutti gli interessi coinvolti, senza comprimere in maniera sproporzionata diritti di rango costituzionale.

La necessità di un giudizio articolato in più gradi, che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), in un ostacolo «all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica» (sentenza n. 50 del 2006).

Inoltre, l’onere di un duplice processo comporta il rischio per il figlio di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio; rischio particolarmente grave quando riguardasse un minore, il cui interesse ai legami familiari merita – com’è noto – particolare tutela (si vedano le sentenze di questa Corte n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017 e, in una prospettiva analoga, le pronunce della Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza n. 27140 del 2021 e sentenza 22 dicembre 2016, n. 26767).»

II. IL DIRITTO INTERNAZIONALE

A. La Convenzione europea sullo status giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio

  1. Questa Convenzione, adottata il 15 settembre 1975, è stata firmata dall’Italia l’11 febbraio 1981, ma non è stata mai ratificata. Nella sua parte pertinente al caso di specie, tale Convenzione è così formulata:

Articolo 3

«La filiazione paterna di qualsiasi figlio nato fuori matrimonio può essere accertata o stabilita per riconoscimento volontario o decisione giurisdizionale.»

  1. Il Rapporto esplicativo di tale Convenzione, per quanto riguarda l’articolo 3 della stessa sopra citato, afferma quanto segue:

«16. Tale articolo prevede due modalità di accertamento o di determinazione della filiazione paterna che sono esposti qui di seguito; esso prevede anche la regola generale secondo la quale l’azione volta alla dichiarazione di paternità deve in ogni caso poter essere intentata.

(...)

  1. La determinazione delle persone o delle autorità che possono o devono agire allo scopo di accertare la paternità di un figlio nato fuori dal matrimonio, nonché quella dei termini entro i quali può essere intentata un’azione di questo tipo, è lasciata alla discrezionalità delle legislazioni interne.»

B. Le Linee guida per una giustizia a misura di minore

  1. Le Linee guida per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010 durante la 1098a riunione dei Delegati dei Ministri, sono così formulate nella parte pertinente:

4. Evitare i ritardi ingiustificati

«50. In tutti i procedimenti che coinvolgono i minori si dovrebbe applicare il principio dell’urgenza, al fine di fornire una rapida risposta e tutelare l’interesse superiore del minore, nel rispetto del principio dello Stato di diritto.

51. Nelle cause in materia di diritto di famiglia (per esempio, filiazione, affidamento, sottrazione di minore da parte di un genitore), i giudici dovrebbero dimostrare una diligenza eccezionale al fine di evitare ogni rischio di conseguenze dannose sui rapporti familiari.»

  1. Il comitato di esperti sul diritto della famiglia (CJ-FA) ha predisposto un «Libro bianco» sui principi relativi all’accertamento e alle conseguenze giuridiche del legame di filiazione adottato dal Comitato europeo per la cooperazione giuridica (CDCJ), durante la sua 79a riunione plenaria dall’11 al 14 maggio 2004. Il principio n. 8 era così formulato:

«1. Se la filiazione paterna non è accertata né per presunzione né per riconoscimento volontario, la legislazione deve prevedere la possibilità di intentare un’azione affinché la filiazione sia accertata mediante una decisione giudiziaria.

  1. Il minore o il suo rappresentante hanno il diritto di intentare un’azione ai fini di accertare la filiazione paterna. Tale diritto può essere accordato anche a una o più delle seguenti persone:
  • la madre;
  • la persona che afferma di essere il padre;
  • qualsiasi persona che dimostri un interesse specifico;
  • l’autorità pubblica;
  1. Gli Stati possono fissare dei termini per l’avvio di un’azione volta a stabilire la filiazione paterna.»

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE

  1. Invocando gli articoli 6 e 8 della Convenzione, la ricorrente lamenta l'impossibilità per lei di ottenere la dichiarazione del suo status di figlia a causa dell'eccessiva durata del procedimento di disconoscimento di paternità che è pendente da più di dodici anni. Essa rammenta che, per poter ottenere la dichiarazione in questione, deve attendere che la sentenza pronunciata nel procedimento di disconoscimento di paternità sia passata in giudicato.
  2. La Corte rammenta che non è vincolata dai motivi di ricorso proposti da un ricorrente ai sensi della Convenzione e dei suoi Protocolli, e che può decidere la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti di una doglianza esaminando quest'ultima sotto il profilo di articoli o di disposizioni della Convenzione diversi da quelli invocati dal ricorrente (Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, § 126, 20 marzo 2018).
  3. La Corte osserva inoltre che, mentre l'articolo 6 offre una garanzia procedurale, ossia il «diritto a un tribunale» che esaminerà i «diritti e gli obblighi di carattere civile», l'articolo 8 risponde a un obiettivo più ampio, ossia garantire il rispetto della vita privata e familiare. A tale riguardo, essa rammenta che, anche se l'articolo 8 non contiene alcuna condizione procedurale esplicita, il processo decisionale legato alle misure di ingerenza deve essere equo e idoneo a rispettare gli interessi protetti da tale disposizione (T. c. Italia, nn. 40910/19, § 49, 24 giugno 2021).

Tenuto conto del fatto che le doglianze sono strettamente legate tra loro, la Corte esaminerà il ricorso unicamente sotto il profilo dell'articolo 8, così formulato:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...).

  1. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»

A. Sulla ricevibilità

  1. Tesi delle parti

a) Il Governo

  1. Il Governo afferma che la ricorrente non ha esaurito le vie di ricorso interne, spiegando che avrebbe dovuto impugnare la sentenza del tribunale di Roma dinanzi alla corte d'appello, la quale avrebbe potuto, conformemente alla giurisprudenza della Corte di cassazione, sospendere la procedura volta alla dichiarazione di paternità in attesa dell'esito di quella di disconoscimento di paternità. Inoltre, sostiene che l'interessata non ha rispettato il termine di sei mesi in quanto la sentenza del tribunale di Roma sarebbe divenuta definitiva il 17 febbraio 2019, mentre il ricorso è stato presentato dinanzi alla Corte il 29 gennaio 2021.
  2. Il Governo si riferisce in particolare alla sentenza della Corte di cassazione n. 17392 del 3 luglio 2018 e a quella n. 19956 del 13 luglio 2021, che erano a suo parere favorevoli alla ricorrente, e che precisavano che l'azione volta alla dichiarazione di paternità non era subordinata a quella di disconoscimento di paternità.
  3. Il Governo sostiene che la ricorrente avrebbe dovuto proporre appello e poi presentare ricorso per cassazione per ottenere una sentenza favorevole, e che avrebbe potuto anche chiedere la sospensione del giudizio dinanzi al tribunale di Roma per quanto riguarda la condanna alle spese processuali.
  4. In via preliminare, il Governo rammenta che, secondo recente giurisprudenza della Corte di cassazione, esiste un nesso pregiudiziale tra l'azione di disconoscimento di paternità e quella volta alla dichiarazione di paternità, il che non impedisce tuttavia allo stesso attore di intentare simultaneamente o separatamente le due azioni dinanzi all'autorità giudiziaria.
  5. Nell'ipotesi di presentazione simultanea delle due azioni nell'ambito dello stesso procedimento o di presentazione di queste ultime in procedimenti diversi, l'ordinamento giuridico italiano permetterebbe al giudice di ordinare la sospensione della procedura di disconoscimento di paternità, conformemente all'articolo 295 del codice di procedura civile.
  6. Le due azioni in questione possono essere intentate anche simultaneamente dinanzi allo stesso tribunale.
  7. Peraltro, secondo il Governo, la ricorrente non avrebbe presentato un ricorso, come prevede la legge Pinto, per lamentare la durata eccessiva del procedimento.

b) La ricorrente

  1. La ricorrente si oppone alla tesi del Governo e afferma anzitutto che quest'ultimo fa riferimento a una giurisprudenza isolata, che si limita a stabilire, per la prima volta, la possibilità per il giudice cui è stata sottoposta un'azione volta alla dichiarazione di paternità di sospendere il giudizio in attesa della pronuncia della decisione definitiva all'esito della procedura di disconoscimento di paternità.
  2. Inoltre, essa rammenta che la sospensione del giudizio in corso non equivale a permettere di dichiarare la paternità. La ricorrente osserva, a tale riguardo, che l'azione di disconoscimento di paternità è ancora pendente, da dodici anni, e che l'azione volta alla dichiarazione di paternità è stata dichiarata inammissibile dal tribunale di Roma in quanto la sentenza pronunciata nell'ambito della procedura di disconoscimento di paternità non era ancora definitiva.
  3. La ricorrente indica che le sue doglianze riguardano l'assenza di strumenti utili che le permettano di agire per via giudiziaria per far dichiarare la sua filiazione paterna, mentre l'azione di disconoscimento di paternità è pendente da dodici anni e, nel caso di specie, l'azione volta a ottenere la dichiarazione di paternità è subordinata a una condizione imposta dal diritto interno.
  4. Essa ritiene che il Governo si contraddica in quanto, da una parte, afferma che l'interessata avrebbe dovuto impugnare la sentenza del tribunale di Roma per ottenere, forse, la sospensione del giudizio e, dall'altra, ammette che, secondo la legislazione interna, è vietato dichiarare la paternità quando quest'ultima confligge con la qualità di figlio di un'altra persona.
  5. Per quanto riguarda il ricorso previsto dalla legge Pinto, essa sottolinea che si tratta di un ricorso di natura risarcitoria e non di un ricorso volto ad accelerare una procedura.

2. Valutazione della Corte

  1. La Corte rammenta che la regola dell'esaurimento delle vie di ricorso interne contenuta nell'articolo 35 § 1 della Convenzione è volta a garantire agli Stati contraenti l'occasione di prevenire o di porre rimedio alle violazioni dedotte nei loro confronti prima che le stesse siano sottoposte all’esame della Corte. Questa regola si basa sull'ipotesi, oggetto dell'articolo 13 della Convenzione – con il quale essa presenta delle strette affinità – che l'ordinamento interno offre un ricorso effettivo per quanto riguarda la violazione dedotta. Essa costituisce dunque un aspetto importante del principio secondo il quale il meccanismo di salvaguardia istituito dalla Convenzione assume un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti dell'uomo (Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], nn. 17153/11 e altri 29, §§ 69-77, 25 marzo 2014).
  2. La Corte rammenta inoltre che, in applicazione della regola dell'esaurimento delle vie di ricorso interne di cui all'articolo 35 § 1 della Convenzione, un ricorrente deve avvalersi dei ricorsi normalmente disponibili e sufficienti per permettergli di ottenere la riparazione delle violazioni che egli lamenta, fermo restando che spetta al Governo che eccepisce il mancato esaurimento convincere la Corte che il ricorso evocato era effettivo e disponibile sia in teoria che nella pratica all'epoca dei fatti, ossia che era accessibile e poteva offrire al ricorrente la riparazione di quanto da lui lamentato, e presentava prospettive ragionevoli di concludersi con esito positivo (si veda, tra altre, Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 68, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, e Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46, CEDU 2006-II). Inoltre, secondo i «principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti», alcune circostanze particolari possono dispensare il ricorrente dall'obbligo di esaurire le vie di ricorso interne a lui offerte.
  3. Nella fattispecie, la Corte osserva che la doglianza della ricorrente verte sull'impossibilità per lei di ottenere la dichiarazione dell'esistenza di un rapporto di filiazione, mentre l'azione di disconoscimento è pendente da più di dodici anni. Essa osserva che l'interessata ha intentato dinanzi al tribunale di Roma un'azione volta alla dichiarazione di paternità, ma che quest'ultimo ha respinto la sua domanda in quanto la procedura di disconoscimento era ancora pendente. Il Governo argomenta che la ricorrente avrebbe dovuto impugnare in appello la sentenza del tribunale di Roma e avrebbe così potuto ottenere la sospensione del giudizio in attesa che la procedura di disconoscimento si concludesse e che la sentenza in questione divenisse definitiva.
  4. Ora, la Corte osserva che un appello presentato avverso la sentenza del tribunale di Roma non avrebbe posto rimedio alla situazione lamentata dalla ricorrente, in quanto un'eventuale sospensione del giudizio in attesa dell'esito della procedura di disconoscimento di paternità avrebbe posto l'interessata nella stessa posizione di incertezza giuridica nella quale si trova attualmente. Inoltre, la Corte osserva che, poiché la procedura di disconoscimento di paternità è ancora pendente, e il ricorso in appello non è un rimedio da esperire, la ricorrente ha adito la Corte entro il termine di sei mesi.
  5. Quanto al fatto che l'interessata non si sarebbe avvalsa del ricorso previsto dalla legge Pinto per lamentare l’eccessiva durata del procedimento, la Corte rammenta che, nei procedimenti la cui durata produce un impatto evidente sulla vita familiare del ricorrente (e che rientrano dunque nell'articolo 8 della Convenzione), essa ha ritenuto che sia necessario un approccio più rigoroso, che obblighi gli Stati a creare un ricorso che sia al tempo stesso preventivo e risarcitorio (Kuppinger c. Germania, n. 62198/11, § 143, 15 gennaio 2015, e Macready c. Repubblica ceca, nn. 4824/06 e 15512/08, § 48, 22 aprile 2010). A tale riguardo, essa ha osservato che l'obbligo positivo che incombe allo Stato di adottare misure idonee ad assicurare il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita familiare rischiava di divenire illusorio se l'interessato disponeva soltanto di un ricorso risarcitorio che poteva portare unicamente al riconoscimento a posteriori di un indennizzo pecuniario (ibidem).
  6. Tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte ritiene doversi respingere le eccezioni di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e di inosservanza del termine di sei mesi sollevate dal Governo.
  7. Constatando che il ricorso non è manifestamente infondato né irricevibile per uno degli altri motivi di cui all'articolo 35 della Convenzione, la Corte lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

  1. Tesi delle parti

a) La ricorrente

  1. La ricorrente, che ha sessantotto anni, argomenta che la legge la lascia da dodici anni nell'incertezza per quanto riguarda la sua identità personale, in assenza di un rimedio effettivo che le permetta di accelerare la procedura e in assenza di un ricorso disponibile idoneo a stabilire la sua filiazione paterna a causa del fatto che la sentenza pronunciata nella procedura di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva.
  2. La ricorrente afferma che, fintantoché la ricerca delle origini biologiche sarà sottoposta alla preventiva soppressione del vecchio status, ciò sarà contrario alla Convenzione. Le giurisdizioni italiane la mantengono da dodici anni in uno stato di incertezza per quanto riguarda la sua identità personale e, a suo parere, non le hanno garantito il «rispetto» della sua vita privata.
  3. Essa sottolinea che non vi è una procedura speciale per le cause in materia di filiazione, e che ciò comporta delle lungaggini processuali eccessive, senza che l'interesse del figlio sia preso in considerazione o che quest'ultimo sia protetto.
  4. La ricorrente ritiene che l’eccessiva durata del processo sia contraria alla legge, irragionevole, e per lei pregiudizievole, e che tale durata leda la sua vita privata. Essa afferma che, a partire dal momento in cui viene emessa una decisione nell'ambito della procedura di disconoscimento di paternità, il figlio perde l'uso del cognome del padre, il che lo priva di un cognome fino al momento in cui la decisione pronunciata nell'ambito del procedimento volto alla dichiarazione di paternità passa in giudicato. Ciò può richiedere molti anni. La ricorrente considera pertanto che questo costituisca una violazione dell'articolo 8 della Convenzione.
  5. La ricorrente rammenta inoltre che, quando il suo status di figlia naturale sarà accertato, gli eredi del suo padre biologico avranno già dissipato tutto il patrimonio e venduto tutti i beni che le sarebbero dovuti. Nessuna norma permette al figlio, durante la procedura volta alla dichiarazione di paternità, di ottenere una forma di protezione patrimoniale ed ereditaria.

b) Il Governo

  1. Dopo aver rammentato i principi giuridici applicabili, il Governo sottolinea che la dichiarazione giudiziaria di paternità – così come il riconoscimento volontario spontaneo – non è ammessa quando è in contraddizione con lo status attuale del figlio. In particolare, è necessario che lo status del figlio, che risulta dall’atto di nascita, sia previamente soppresso mediante l'azione di disconoscimento di paternità. Nell'ordinamento giuridico, nessuno può dunque rivendicare la qualità di figlio se tale qualità è contraria a quella riportata nell'atto di nascita, se quest'ultima non è stata prima soppressa mediante una sentenza che sia divenuta definitiva e che produca effetti ex tunc e erga omnes. Il sistema giuridico mira, pertanto, a impedire la sovrapposizione di status di filiazione contraddittori.
  2. Nell'ipotesi di presentazione simultanea di due azioni nell'ambito della stessa procedura o di presentazione successiva di tali azioni nell'ambito di procedimenti diversi, l'ordinamento giuridico italiano permette al giudice di disporre la sospensione del giudizio ai sensi dell'articolo 295 del codice di procedura civile.
  3. Da un punto di vista procedurale e civile, e tenuto conto, pertanto, del collegamento pregiudizievole che esiste tra queste due procedure, l'azione di disconoscimento e quella volta alla dichiarazione di paternità possono essere presentate simultaneamente, anche dinanzi allo stesso giudice (anche in deroga alle norme generali relative alla competenza dei tribunali).
    Il Governo rammenta che la previa soppressione della qualità di figlio che risulta dall'atto di nascita mediante l'esercizio dell'azione di disconoscimento di paternità non è dunque contraria all'articolo 8 della Convenzione.
  4. Il Governo sottolinea che l'ordinamento giuridico è pienamente compatibile con l'articolo 8 della Convenzione, poiché riconosce, in quanto componente essenziale del diritto all'identità personale, conformemente all'articolo 8 della Convenzione, la massima importanza alla protezione del diritto al riconoscimento della qualità di figlio per quanto riguarda la verità biologica. Secondo il Governo, la presunta ingerenza subita dalla ricorrente era prevista dalla legge e necessaria in una società democratica per proteggere i diritti e le libertà altrui.

2. Valutazione della Corte

  1. La Corte osserva anzitutto che i fatti di causa, che riguardano una procedura relativa alla paternità, rientrano senza dubbio nell’articolo 8 della Convenzione, che riconosce a ogni persona il diritto di conoscere le proprie origini e di ottenere che le stesse siano dichiarate per legge (Mikulić c. Croazia, n. 53176/99, §§ 51 e 54, CEDU 2002-I, Pascaud c. Francia, n. 19535/08, § 49, 16 giugno 2011).
  2. Essa rammenta che la «vita privata», ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, può integrare degli aspetti dell'identità non soltanto fisica ma anche sociale della persona (si veda, per esempio, Mennesson c. Francia, n. 65192/11, § 46, CEDU 2014). Ciò include la filiazione nella quale rientra ciascuna persona (ibidem), e la Corte, del resto, ha dichiarato più precisamente che il riconoscimento, così come l'annullamento, di un legame di filiazione riguarda direttamente l'identità dell'uomo o della donna di cui è in questione la genitorialità (si vedano, per esempio, Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 33, serie A n. 87, L.V. c. Romania (dec.), n. 4901/04, § 33, 24 agosto 2010, Krušković c. Croazia, n. 46185/08, § 18, 21 giugno 2011, e Canonne c. Francia (dec.), n. 22037/13, § 25, 2 giugno 2015).
  3. La Corte rammenta che l’articolo 8 della Convenzione ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, e che a tale obbligo negativo possono aggiungersi degli obblighi positivi inerenti a un effettivo rispetto della vita privata o familiare. Questi obblighi positivi possono implicare l’adozione di misure che mirano al rispetto della vita privata nelle relazioni tra le persone. La linea di demarcazione tra gli obblighi positivi e gli obblighi negativi dello Stato ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione non si presta, tuttavia, ad una definizione precisa, anche se i principi applicabili sono equiparabili. Per determinare se esista un obbligo positivo, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da garantire tra l'interesse generale e gli interessi della persona; analogamente, sia per gli obblighi positivi che per gli obblighi negativi, lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento (Mikulić, sopra citata, §§ 57-58).
  4. La Corte rammenta anche che non può sostituirsi alle autorità interne competenti per dirimere le controversie nazionali in materia di paternità; il suo ruolo è quello di esaminare sotto il profilo della Convenzione le decisioni che tali autorità hanno emesso nell'esercizio del loro potere discrezionale (Mikulić, sopra citata, § 59, e Hokkanen c. Finlandia, 23 settembre 1994, § 55, serie A n. 299-A). Più in particolare, la Corte deve esaminare se lo Stato convenuto, tenuto conto dell’azione della ricorrente, abbia agito in violazione del suo obbligo positivo derivante dall'articolo 8 della Convenzione. Per farlo, essa deve esaminare se sia stato garantito un giusto equilibrio nella ponderazione degli interessi confliggenti, ossia, da una parte, il diritto della ricorrente a far dichiarare la propria filiazione civile nei confronti del suo padre naturale e, dall'altra, la necessità di rispettare l'interesse generale alla protezione della certezza del diritto.
  5. A tale riguardo, la Corte osserva che la ricorrente si trova da dodici anni nell'incertezza per quanto riguarda la sua identità personale, a causa dell'impossibilità per lei di intentare un'azione volta alla dichiarazione di paternità poiché la sentenza pronunciata nell'ambito della procedura di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva.
  6. Anche se è vero che la ricorrente era maggiorenne quando ha intentato il procedimento a livello nazionale, ciò non attenua il suo diritto, ai sensi dell'articolo 8, di conoscere le proprie origini e di vederle riconosciute, in quanto tale diritto non viene meno con l'età, anzi tutt’altro (Pascaud, sopra citata, § 65, e Jäggi c. Svizzera, n. 58757/00, § 40, CEDU 2006-X, e Zaieţ c. Romania, n. 44958/05, 24 marzo 2015). La nascita, e singolarmente le circostanze di quest'ultima, rientra nella vita privata del minore, e poi dell'adulto, sancita da questa disposizione (Odièvre c. Francia [GC], n. 42326/98, § 29, CEDU 2003-III, e Godelli c. Italia, n. 33783/09, § 46, 25 settembre 2012).
  7. Secondo la Corte, le persone che si trovano nella situazione della ricorrente hanno un interesse vitale, protetto dalla Convenzione, a ottenere le informazioni che sono per loro indispensabili per scoprire la verità su un aspetto importante della loro identità personale.
  8. La Corte osserva che un sistema come quello dell'Italia, che prevede che l'azione di disconoscimento di paternità è pregiudizievole all'azione volta alla dichiarazione di paternità, può in linea di principio essere dichiarato compatibile con gli obblighi derivanti dall'articolo 8, tenuto conto del margine discrezionale dello Stato. Essa ritiene, tuttavia, che, nell'ambito di un sistema di questo tipo, gli interessi della persona che cerca di determinare la propria filiazione debbano essere protetti, il che non avviene quando le procedure durano parecchi anni e impediscono che sia intentata un'azione volta alla dichiarazione di paternità.
  9. La Corte constata inoltre l'assenza di misure di accelerazione della procedura tali da permettere alla ricorrente di intentare l'azione volta alla dichiarazione di paternità anche se la sentenza pronunciata nell'ambito della procedura di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva. Ora, nel caso di specie non è prevista alcuna procedura di questo tipo. Nella presente causa, l'azione volta alla dichiarazione di paternità intentata dalla ricorrente dinanzi al tribunale di Roma è stata dichiarata inammissibile, conformemente alla prassi giudiziaria applicabile all'epoca dei fatti, senza alcun esame del suo caso particolare (paragrafi 10 e 13 supra).
  10. A tale riguardo, la Corte osserva anche che, nella sua sentenza del 14 luglio 2022 (paragrafi 21-22 supra), la Corte costituzionale italiana ha invitato il legislatore a intervenire per regolamentare le questioni relative all'accertamento della verità biologica, senza limitare in maniera sproporzionata gli altri diritti elevati al rango costituzionale. Essa ha ammesso che il processo che si svolge come nel caso di specie costituisce un fardello pesante per la persona che desidera far accertare la propria identità biologica, e rischia di comportare non soltanto una violazione del principio della durata ragionevole del processo, ma anche un ostacolo «all'esercizio del diritto di azione sancito dall'articolo 24 della Costituzione italiana», e ciò a maggior ragione nel caso di azioni volte alla protezione dei diritti fondamentali relativi allo status e all’identità biologici.
  11. La Corte, così come la Corte costituzionale (si veda il paragrafo 22 supra), non perde di vista che la ricorrente rischia anche, dopo vari anni di procedura, una volta che sia soppresso il suo precedente status di figlia, di ritrovarsi senza status, e che dovrà intentare una nuova azione volta alla dichiarazione di paternità durante la quale rimarrà nell'incertezza per quanto riguarda la filiazione.
  12. Di conseguenza, essa considera che, nel caso di specie, l'interessata è mantenuta in uno stato di incertezza prolungata per quanto riguarda la sua identità personale. Lo svolgimento del procedimento lede in maniera sproporzionata il diritto al rispetto della sua vita privata. Essa ritiene, nelle circostanze del caso di specie, che le autorità italiane si siano sottratte all'obbligo positivo di garantire il diritto della ricorrente al «rispetto» della sua vita privata, che le viene riconosciuto dalla Convenzione.
    Di conseguenza vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

  1. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

  1. La ricorrente chiede la somma di 100.000 euro (EUR) per il danno morale che ritiene di avere subìto.
  2. Il Governo si oppone a questa richiesta.
  3. La Corte accorda alla ricorrente la somma di 10.000 EUR per danno morale, più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma.

B. Spese

  1. La ricorrente chiede la somma di 46.714,76 EUR per le spese che ha sostenuto per il procedimento condotto dinanzi alle giurisdizioni interne, la somma di 17.909,44 EUR per le spese processuali che è stata condannata a pagare a seguito del rigetto del suo ricorso dinanzi al tribunale di Roma, nonché la somma di 11.864,32 EUR per le spese sostenute per il procedimento condotto dinanzi alla Corte.
  2. Il Governo contesta queste richieste.
  3. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti in suo possesso e dei criteri sopra menzionati, la Corte ritiene ragionevole accordare alla ricorrente la somma di 20.000 EUR per tutte le spese, più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma.

per questi motivi, la Corte, all'unanimità,

  1. Dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione;
  3. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione le somme seguenti:
      1. 000 EUR (diecimila euro), più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma, per danno morale;
      2. 000 EUR (ventimila euro), più l'importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta su tale somma, per le spese;
    2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, e poi comunicata per iscritto il 6 dicembre 2022, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Marko Bošnjak
Presidente

Renata Degener
Cancelliere