Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 7 luglio 2022 - Ricorso n. 32715/19 - Causa M.S. c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita e rivista dalla sig.ra Rita Carnevali, assistente linguistico, e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA M.S. c. ITALIA
(Ricorso n. 32715/19)

SENTENZA

Art 3 (materiale) - Obblighi positivi - Mancanza di diligenza delle autorità nazionali, in un primo periodo, intervenute tardivamente nell'applicazione di una misura cautelare, ossia 22 mesi dopo che la ricorrente era stata aggredita da suo marito con un coltello - Mancanza di valutazione immediata e proattiva dell'esistenza di un rischio reale e immediato di violenze domestiche ricorrenti contro l'interessata - Diligenza delle autorità nazionali, in un secondo periodo, nella loro valutazione dei rischi autonoma, proattiva ed esaustiva, che li ha portati ad adottare una misura cautelare e ad ammonire il marito

Art 3 (procedurale) - Indagine efficace - Mancanza di diligenza e di rapidità da parte dei giudici nazionali, con il risultato che il marito violento ha goduto di un'impunità quasi totale in ragione della prescrizione - Mantenimento di un sistema, sulla base dei meccanismi di prescrizione dei reati, propri del quadro nazionale, in cui la prescrizione è strettamente legata all'azione giudiziaria, anche dopo l'avvio di un procedimento - Passività giudiziaria incompatibile con il suddetto quadro giuridico

STRASBURGO

7 luglio 2022

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa M.S. c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:

  • Marko Bošnjak, presidente,
  • Péter Paczolay,
  • Alena Poláčková,
  • Erik Wennerström,
  • Raffaele Sabato,
  • Lorraine Schembri Orland,
  • Davor Derenčinović, giudici,
  • e da Renata Degener, cancelliere di sezione,

Visti:

il ricorso (n. 32715/19) proposto contro la Repubblica italiana da una cittadina di questo Stato, la sig.ra M.S. («la ricorrente») che il 5 gennaio 2018 ha adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),
la decisione di portare a conoscenza del governo italiano («il Governo») la doglianza fondata sugli articoli 2, 3, 8, 13 e 14 della Convenzione,
le osservazioni delle parti,
Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 14 giugno 2022,

Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. Il ricorso riguarda gli obblighi positivi derivanti dall'articolo 3 della Convenzione in un contesto di violenza domestica. La ricorrente lamenta, in particolare, una mancanza di protezione e di assistenza da parte dello Stato convenuto a seguito delle violenze domestiche inflittele da suo marito e un'inosservanza delle garanzie procedurali dell'articolo 3 in quanto, poiché vari delitti erano stati dichiarati prescritti, le autorità non avrebbero agito con la rapidità e la diligenza richieste.

IN FATTO

  1. La ricorrente è nata nel 1962 e risiede a Tito. È stata rappresentata dall'avvocato R. Forliano.
  2. Il Governo è stato rappresentato dal suo agente, L. D’Ascia, avvocato dello Stato.
  3. La ricorrente è avvocato. Il 18 aprile 2004 presentò una denuncia penale nella quale dichiarava di essere stata aggredita da suo marito.
  1. AGGRESSIONE DEL 19 GENNAIO 2007 E RELATIVO PROCEDIMENTO
  1. Il 19 gennaio 2007 D.P. si recò presso lo studio della ricorrente per discutere della loro separazione. La ricorrente era assistita da suo cognato, L.S., e da un collega presente in una stanza adiacente.
  2. Nel corso della discussione, D.P. tentò di aggredire la ricorrente e ferì L.S. alla gamba con un coltello nel momento in cui quest'ultimo era intervenuto per difenderla.
  3. La ricorrente fuggì e si rifugiò nella stanza in cui si trovava il suo collega.
  4. La sera stessa, la ricorrente sporse denuncia ai carabinieri.
  5. Contro D.P. non fu adottato alcun provvedimento cautelare.
  6. Il 20 gennaio 2007 i carabinieri comunicarono al procuratore le ipotesi di reato a carico di D.P. e allegarono anche il verbale delle dichiarazioni rese dalla ricorrente, dal collega presente nella stanza al momento dell'aggressione e da altri testimoni, nonché il certificato medico di L.S.
  7. In seguito i carabinieri continuarono l'indagine sui fatti esposti dalla ricorrente nelle sue denunce del 7 febbraio 2007, 24 marzo 2007 e 27 aprile 2007 (si vedano i paragrafi 22-28 infra).
  8. Il 24 ottobre 2007 il procuratore chiese al giudice per le indagini preliminari (di seguito il « GIP ») di rinviare D.P. a giudizio per i fatti commessi il 19 gennaio 2007 contro D.S. e la ricorrente.
  9. L'8 maggio 2008 il GIP fissò l'udienza preliminare per il 14 ottobre 2008.
  10. Il 14 ottobre 2008 D.P. fu rinviato a giudizio per i reati di lesioni personali contro L.S., ai sensi degli articoli 582, 585 e 577 del codice penale, porto illegale di un coltello e maltrattamenti nei confronti della ricorrente, ai sensi dell'articolo 572 del codice penale.
  11. L'udienza dinanzi al tribunale fu fissata per il 23 gennaio 2009.
  12. Sette anni dopo i fatti, il 27 giugno 2014, il tribunale di Potenza dichiarò D.P. colpevole dei delitti che gli erano ascritti e lo condannò a un anno di reclusione per le lesioni su L.S. e a un anno di reclusione per maltrattamenti sulla ricorrente. Il tribunale accordò a L.S. e alla ricorrente un risarcimento da liquidarsi in separato giudizio civile.
  13. Il tribunale decise che la sentenza sarebbe stata depositata entro sessanta giorni.
  14. Il 3 dicembre 2014 la ricorrente chiese al giudice di depositare la sentenza. Questa richiesta fu trasmessa al presidente del tribunale e al presidente della corte d'appello.
  15. La sentenza fu depositata circa nove mesi dopo, nel marzo 2015.
  16. D.P. interpose appello il 23 maggio 2015.
  17. La ricorrente si rivolse al presidente della corte d'appello per chiedere che i procedimenti pendenti a carico di D.P. fossero definiti rapidamente in ragione del termine di prescrizione.
  18. La prima udienza dinanzi alla corte d'appello fu fissata per il 18 febbraio 2016. In tale data, uno dei componenti del collegio giudicante dichiarò la propria incompatibilità e l'udienza fu rinviata al 10 giugno 2016.
  19. Con sentenza del 10 giugno 2016, la corte d'appello constatò che i reati di cui era accusato D.P. si erano prescritti il 27 giugno 2015 e il 14 luglio 2015. Poiché D.P. era assente, la sentenza gli fu notificata nel maggio 2017 e divenne definitiva il 7 luglio 2017.
  20. Le parti non hanno informato la Corte dell'esito dei procedimenti civili.
  1. DENUNCE PRESENTATE TRA FEBBRAIO 2007 e ottobre 2008, AGGRESSIONe DEL 7 oTtobre 2008 e RELATIVO PROCEDIMENTO
  1. Il 7 febbraio 2007 la ricorrente presentò una nuova denuncia e chiese l'intervento dell'autorità giudiziaria per porre fine agli atti persecutori che D.P. le faceva subire. Indicò che, a seguito della denuncia che aveva presentato nel 2004 e di una separazione di fatto che era durata circa tre mesi, lei e D.P. si erano riconciliati. Tuttavia, essi erano comunque in causa dinanzi al tribunale civile per il riconoscimento della proprietà di alcuni beni immobili. La ricorrente affermò che nel 2006 suo marito si era trasferito in una casa in campagna e le aveva chiesto di rinunciare al processo civile, minacciandola di morte. Minacce simili sarebbero state rivolte anche all'avvocato della ricorrente. Inoltre, il 12 dicembre 2006, durante una lite con D.P. in questa casa, quest'ultimo l'avrebbe minacciata con un'arma da fuoco e avrebbe rotto il suo cellulare. Di conseguenza, la ricorrente dichiarò di aver deciso di rinunciare all'azione civile e di chiedere la separazione giudiziale senza esigere un assegno di mantenimento. Tuttavia, poiché D.P. voleva vendere alcuni beni di famiglia, l'interessata avrebbe deciso di proseguire l'azione civile per cercare di impedirgli di procedere a questa vendita.
  2. Lo stesso giorno i carabinieri trasmisero la denuncia al procuratore e comunicarono le ipotesi di reato a carico di D.P.
  3. Il 10 marzo S.P. fu sentito dai carabinieri e confermò di essere stato presente nel corso di un'aggressione subita dalla ricorrente il 27 ottobre 2006 (si veda il paragrafo 25 supra).
  4. Il 26 marzo 2007 i carabinieri inviarono una comunicazione all'autorità giudiziaria.
  5. Il 24 marzo 2007 la ricorrente depositò una denuncia integrativa con la quale informò che D.P. la seguiva e si appostava all'esterno della sua abitazione, costringendola a dormire presso i suoi genitori. Essa chiese che le forze dell'ordine intervenissero per permetterle di far rientro nella sua abitazione con i suoi figli, e che a D.P. fosse prescritto di non avvicinarsi a lei e al suo studio legale.
  6. Il 20 aprile 2007 la ricorrente chiese ai carabinieri di aiutarla perché era molestata da D.P.
  7. Il 27 aprile 2007 la ricorrente presentò un'altra denuncia penale. Essa sostenne che, il giorno prima, aveva ricevuto delle minacce da parte di uno sconosciuto in presenza di D.P., nonché delle telefonate anonime, e che uno dei suoi figli era stato seguito da D.P. Chiese ai carabinieri di avvertire D.P. di smettere di molestarla e di seguirla.
  8. Il 2 ottobre 2007 la ricorrente dichiarò di rimettere le sue denunce del 7 febbraio 2007 e del 27 aprile 2007. Aveva paura e sperava che questa mossa avrebbe permesso a D.P. di smettere di molestarla.
  9. Nel giugno 2008 la ricorrente avviò un'azione civile per impedire a D.P. di alienare il loro patrimonio immobiliare e, nel luglio 2018, ottenne che fosse disposto il sequestro conservativo dei beni.
  10. Il 16 giugno 2008 la ricorrente presentò una denuncia per le minacce che continuava a subire da parte di D.P.
  11. Il 19 settembre 2008 la ricorrente presentò una denuncia ai carabinieri poiché D.P. l'aveva minacciata verbalmente e fisicamente.
  12. Il 7 ottobre 2008 la polizia fu chiamata a seguito della segnalazione di un'aggressione davanti a un bar. La ricorrente era stata colpita alla testa e in altre parti del corpo da D.P. con un bastone. Un testimone confermò le dichiarazioni della ricorrente. D.P. era fuggito. La ricorrente si recò in ospedale, dove le furono diagnosticati un trauma cranico e delle ferite multiple. Fu dichiarata guaribile in dieci giorni.
  13. L'8 ottobre 2008 la questura di Potenza comunicò all'autorità giudiziaria la notizia di reato e, tenuto conto del comportamento di N.P, chiese di valutare l'opportunità di adottare una misura restrittiva della libertà al fine di proteggere la ricorrente.
  14. Fu aperto un nuovo procedimento penale.
  15. Il 21 ottobre 2008 la polizia chiese al procuratore di adottare una misura cautelare per D.P. sottolineando che quest'ultimo era violento nei confronti della ricorrente, la quale era stata colpita ed era stata oggetto di minacce e molestie.
  16. Il 21 novembre 2008 il GIP applicò la misura cautelare degli arresti domiciliari a D.P. ritenendo che sussistessero le esigenze cautelari che rendevano necessaria la privazione della libertà poiché D.P. aveva già commesso altri fatti delittuosi contro la ricorrente e vi era stata un'escalation di violenza.
  17. La mattina del 20 febbraio 2009 il GIP dichiarò l'inefficacia della misura degli arresti domiciliari per decorrenza dei termini massimi previsti dal codice di procedura penale per i reati.
  18. Lo stesso giorno il procuratore chiese di sostituire la misura degli arresti domiciliare con il divieto di dimora nel territorio del comune di Potenza e l'obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria. La sua richiesta era così formulata:

«Rilevato che essendo trascorso un sufficiente lasso di tempo dall'applicazione della misura cautelare e risultando attenuate le esigenze cautelari di cui all'art.274 c.p.p. indicate nella richiesta di applicazione di misura cautelare di questo Ufficio del 24.10.2008;

Ritenuto comunque necessario in considerazione della gravità dei fatti sottoporre l'indagato alle misure cautelari di cui all'art. 307 c.p.p.

Chiede sostituirsi l'attuale misura cautelare degli arresti domiciliari, disponendo a carico dell'indagato suindicato cumulativamente le misure del divieto di dimora nel territorio del comune di Potenza, del divieto di espatrio e dell'obbligo di presentazione quotidiana (per due volte) alla Polizia Giudiziaria territorialmente competente.»

  1. Nel corso della stessa giornata il Gip ritenne che la richiesta non fosse fondata perché non era subentrato alcun fatto nuovo che consentisse di considerare affievolite le esigenze cautelari poste a base della misura (dichiarata inefficace). Pertanto, riqualificò la richiesta del procuratore e applicò a D.P. la misura del divieto di dimora nel territorio del comune di Potenza pur autorizzando quest'ultimo a partecipare alle udienze.
  2. Circa sei anni dopo, e più precisamente il 10 aprile 2015, il tribunale dichiarò D.P. colpevole dei delitti ascrittigli e lo condannò a sedici mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena. Tuttavia il tribunale ritenne che i fatti relativi ai maltrattamenti fossero prescritti.
  3. A seguito dell'appello interposto da D.P., il 10 marzo 2016 la corte d'appello dichiarò che i reati di maltrattamento nonché quelli di cui agli articoli 610, 612 e 660 del codice penale erano prescritti e condannò D.P. a un anno e un mese di reclusione soltanto per le lesioni provocate alla ricorrente durante la sua aggressione con un bastone. La corte d'appello dichiarò che l'importo della somma da versare alla ricorrente in quanto parte civile per il risarcimento del danno subìto doveva essere determinata dal tribunale civile.
  4. La Corte di cassazione respinse il ricorso di D.P. il 22 gennaio 2018.
  1. DENUNCE PRESENTATE NEL 2010 PER ATTI PERSECUTORI E ESTORSIONE E RELATIVO PROCEDIMENTO
  1. Il 26 maggio 2010 la ricorrente presentò un'altra denuncia nella quale sosteneva di subire delle minacce e di essere continuamente molestata. Riferì che qualche giorno prima, mentre stava guidando la sua auto con la figlia a bordo, il marito l'aveva inseguita con il suo furgone e l'aveva tamponata.
  2. Il 27 maggio 2010 la ricorrente depositò una nuova denuncia nella quale sosteneva di essere stata seguita e minacciata da D.P. Inoltre, la ricorrente sosteneva che quest'ultimo avrebbe potuto usare un'arma da fuoco e che faceva pressione su di lei e la molestava facendole delle telefonate anonime.
  3. Il 2 agosto 2010 la ricorrente depositò una nuova denuncia per integrare la precedente e fornire alla polizia giudiziaria una visione d'insieme dei fatti.
  4. Il 7 settembre 2010 la ricorrente depositò un'altra denuncia nella quale dichiarava che, mentre era alla guida della sua auto, un furgone aveva iniziato a seguirla. Indicò che questo furgone poteva appartenere a D.P.
  5. Fu aperta un'indagine.
  6. Il 7 maggio 2012 la ricorrente depositò un'altra denuncia in cui sosteneva che D.P. continuava a minacciarla e a seguirla.
  7. L'11 giugno 2012 la questura emise un provvedimento di ammonimento nei confronti di D.P., ai sensi dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 11 del 2009, invitando lo stesso a tenere una condotta conforme alla legge. D.P. fu anche avvisato che in caso di recidiva sarebbe stato deferito all'autorità giudiziaria ai sensi dell'articolo 612 bis del codice penale.
  8. L'11 luglio 2012 la ricorrente chiese al presidente del tribunale di accelerare i procedimenti pendenti contro D.P.
  9. Il 7 novembre 2012 D.P. fu rinviato a giudizio per i reati di atti persecutori ed estorsione commessi nel 2010. La prima udienza si tenne il 23 gennaio 2013.
  10. Il 17 febbraio 2013 la ricorrente reiterò la sua domanda al presidente del tribunale affinché i procedimenti penali pendenti fossero definiti rapidamente.
  11. Il 24 settembre 2013 il presidente del tribunale fu invitato a chiudere rapidamente i procedimenti giudiziari.
  12. Con una sentenza emessa il 5 novembre 2020, otto anni dopo l'inizio del procedimento, il tribunale condannò D.P., per atti persecutori, a tre anni di reclusione e lo prosciolse per il reato di estorsione. Secondo il tribunale, D.P. aveva minacciato e molestato la ricorrente e suscitato in lei uno stato di ansia grave e persistente, il che costituiva una minaccia per la sua stessa sicurezza e l'aveva costretta a cambiare sia il suo stile di vita che le sue abitudini lavorative. In particolare, egli la seguiva nei suoi spostamenti, rimanendo nelle vicinanze del suo ufficio, dove la ricorrente lavorava come avvocato, e nelle vicinanze della sua casa, situata nel centro della città, e aveva anche danneggiato la sua auto più di una volta. Il tribunale condannò D.P. a versare alla ricorrente, in quanto parte civile, 3.000 euro a titolo di risarcimento del danno subìto da quest'ultima e a titolo provvisorio fino a quando il giudice civile non avesse statuito in via definitiva sul risarcimento. Secondo le informazioni ricevute dalla parte ricorrente, il procedimento è ancora in corso.
  1. SECONDO PROCEDIMENTO PER ATTI PERSECUTORI
  1. Nel frattempo, D.P. scelse un nuovo avvocato il cui studio era situato nello stesso palazzo in cui si trovava lo studio della ricorrente. Quest'ultima denunciò questi fatti all'ordine degli avvocati e chiese una protezione alla polizia.
  2. Il 12 luglio 2013 la ricorrente presentò una denuncia in cui sosteneva di essere stata molestata per telefono dal suo ex marito e seguita mentre tornava a casa in auto. La ricorrente dichiarò che si sentiva in pericolo, nonostante l'11 giugno 2012 la polizia avesse ingiunto a suo marito di non tenere più questi comportamenti.
  3. Il 16 luglio 2013 la ricorrente chiese l'applicazione di una misura di protezione.
  4. Il 29 novembre 2013 la questura inviò una comunicazione di notizia di reato commesso da D.P. nei confronti della ricorrente per atti persecutori.
  5. Il 17 gennaio 2017 D.P. fu rinviato a giudizio per il reato di atti persecutori commessi tra il 4 e il 20 novembre 2013.
  6. Sulla base delle informazioni ricevute dalla Corte, il procedimento risulta essere ancora in corso.

IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

  1. DIRITTO INTERNO
  1. Le disposizioni pertinenti in materia civile e penale riguardanti la violenza domestica sono esposte nella sentenza Landi c. Italia (n. 10929/19, §§ 47-49, 7 aprile 2022).
  1. Il decreto legislativo n. 11 del 23 febbraio 2009
  1. L’articolo 7 ha introdotto il delitto di atti persecutori (articolo 612 bis).
  2. L’articolo 8 prevede che fino a quando non è stata proposta una querela per il reato di cui all'articolo 612 bis del codice penale, la persona offesa può esporre i fatti all'autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.
    1. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stata richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge. Una copia del verbale è rilasciata alla persona che ha richiesto l'intervento del questore e all'autorità competente (...).
    2. La pena prevista per il reato di cui all'articolo 612 bis del codice penale è aggravata se il reato è commesso da una persona che è già stata ammonita ai sensi del presente articolo.
    3. Per il delitto previsto dall'articolo 612 bis del codice penale si procede d'ufficio se il delitto è commesso da una persona ammonita ai sensi del presente articolo.
  1. La prescrizione dei reati
  1. L’articolo 39 del codice penale («CP») distingue due categorie di reati: i delitti e le contravvenzioni.
  2. La prescrizione costituisce uno dei motivi di estinzione dei reati (Capo I del Titolo VI del Libro I del CP). Il suo regime è stato modificato dalla legge n. 251 del 5 dicembre 2005, dal decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008, dalla legge n. 133 del 2016, dalla legge n. 103 del 2017, dalla legge n. 3 del 2019 e dalla legge n. 134 del 2021.
  3. Secondo l'articolo 157, comma 1, del CP, la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.
  4. Nel secondo, terzo e quarto comma dell'articolo 157 sono fissati i criteri di calcolo del tempo necessario a prescrivere; il quinto comma prevede un tempo di prescrizione di tre anni per i reati per i quali la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria. Il sesto comma raddoppia i termini di prescrizione, calcolati in base ai commi precedenti, per alcuni reati (fra cui i maltrattamenti in ambito familiare e la violenza sessuale). Ai sensi dell'ottavo comma dello stesso articolo, la pena non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo.
  5. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall'imputato (articolo 157, comma 7, del CP).
  6. L’articolo 158, comma 1, dispone che il termine di prescrizione decorre a partire dalla data in cui è stato commesso il reato e, nel caso di reato permanente, a partire dal giorno in cui è cessata la permanenza.
  7. L’articolo 159 del CP prevede i casi in cui rimane sospeso il corso della prescrizione.
  8. Ai sensi dell'articolo 160 del CP, il termine di prescrizione è interrotto da un'ordinanza che applica le misure cautelari personali o da quella di convalida del fermo o dell'arresto, dall'interrogatorio reso davanti al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, o davanti al giudice, dall'invito a presentarsi davanti al pubblico ministero per rendere l'interrogatorio, dal provvedimento del giudice che fissa l'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, da una richiesta di rinvio a giudizio, da un'ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, da un decreto di fissazione dell'udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, dalla presentazione dell'imputato nel giudizio direttissimo, da un decreto che dispone il giudizio immediato, dal decreto che dispone il giudizio, dal decreto di citazione a giudizio o da un decreto di condanna. La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall'ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell'articolo 157 possono essere prolungati oltre i limiti di cui all'articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all'articoli 51, commi 3 bis e 3 quater, del codice di procedura penale.»
  9. Ai sensi del secondo comma dell'articolo 161, fatta eccezione per alcuni reati che non sono pertinenti nel presente caso, le suddette interruzioni non possono comportare l'aumento del tempo necessario a prescrivere – calcolato in base all'articolo 157 – di più di un quarto e, in alcuni casi, di più della metà, di più di due terzi (nei casi di recideva reiterata) o di più del doppio (se l'autore del reato è recidivo).
  10. Il legislatore italiano è intervenuto più volte per inquadrare meglio le disposizioni che limitano la prescrizione nel corso del procedimento.
    La legge n. 251/2005 (ex-legge Cirielli) prevedeva l'interruzione del termine di prescrizione con la sentenza o il decreto di condanna, con le ordinanze che applicavano le misure cautelari personali [...] [e] con il decreto di fissazione dell'udienza preliminare.
    La legge n. 103 del 23 giugno 2017 (legge Orlando) prevedeva che il tempo necessario a prescrivere restasse sospeso per non oltre un anno e mezzo:
    • a partire della data prevista dalla legge per il deposito della motivazione della sentenza di condanna in primo grado, anche se la sentenza è resa da una giurisdizione d'appello, fino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado di giudizio successivo;
    • a partire della data prevista dalla legge per il deposito della motivazione della sentenza di condanna in secondo grado, anche se la sentenza è stata resa da una giurisdizione d'appello, fino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado di giudizio definitivo;

Con la legge n..3 del 2019 (legge Bonafede), dopo la sentenza di primo grado (condanna o assoluzione), il termine di prescrizione era sospeso fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio. In altre parole, il termine di prescrizione cessa definitivamente di decorrere dalla pronunzia della sentenza di condanna o di assoluzione in primo grado.

Con la legge n. 134 del 27 settembre 2021, (legge Cartabia), la disposizione della legge Bonafede secondo la quale la sentenza di primo grado sospendeva il tempo necessario a prescrivere fino alla conclusione del processo è stata modificata da una nuova nozione giuridica, quella della improcedibilità del procedimento d'appello o del ricorso per cassazione se alcuni termini (un anno in appello e sei mesi in cassazione) non sono rispettati, fatto che, ha in pratica lo stesso effetto della prescrizione.

  1. La causa Taricco
  1. Il tribunale di Cuneo fu investito di una causa nella quale il sig. Taricco era accusato di associazione per delinquere finalizzata a commettere dei reati fiscali. Il tribunale constatò che l'azione, a causa della durata dei procedimenti in Italia e delle norme sulle cause di interruzione del termine di prescrizione (articoli 160 e 161 del codice penale), era destinata a estinguersi prima che si fossero pronunciati i giudici dei tre gradi di giurisdizione. Il tribunale si chiese se, garantendo in definitiva l'impunità alle persone e alle società che violavano le disposizioni penali, il diritto italiano non avesse creato una nuova possibilità di esonero dall'IVA non prevista dal diritto dell'Unione. A questo proposito chiese chiarimenti alla Corte di giustizia dell'Unione europea («CGUE»).

    1. Sentenza emessa dalla CGUE l'8 settembre 2015 nella causa C -105/14 Ivo Taricco e altri
     
  2. Con sentenza dell'8 settembre 2015, la CGUE si è pronunciata su una causa che aveva ad oggetto l'interpretazione da dare all'articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea («TFUE»), secondo il quale l'Unione europea e gli Stati membri hanno il dovere di adottare misure di lotta contro la frode e qualsiasi altra attività illegale che leda gli interessi finanziari dell'Unione e di offrire una protezione effettiva a questi interessi.
    In particolare, la CGUE ha ritenuto che la legge italiana sulla prescrizione dei reati in materia di IVA fosse idonea a pregiudicare l'articolo 325 TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. La CGUE ha inoltre affermato che spettava al giudice nazionale dare piena efficacia all’articolo 325 TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali sulla prescrizione.
  3. La corte d'appello di Milano e la Corte di cassazione (ordinanza dell'8 luglio 2016) hanno tuttavia considerato che i principi derivanti dalla sentenza Taricco potevano comportare una violazione del principio di legalità dei delitti e delle pene, sancito dalla Costituzione italiana. Esse hanno quindi adito la Corte costituzionale.

    2. L’ordinanza della corte costituzionale del 26 gennaio 2017
     
  4. Con un'ordinanza del 26 gennaio 2017, la Corte costituzionale ha espresso dei dubbi sulla compatibilità della soluzione che risultava dalla sentenza Taricco con i principi supremi dell'ordine costituzionale italiano e con il rispetto dei diritti inalienabili di ciascuno. In particolare, essa riteneva che la suddetta soluzione rischiasse di ledere il principio di legalità dei delitti e delle pene, il quale principalmente esige che le disposizioni penali siano definite con precisione e non siano retroattive. Essa ha pertanto deciso di chiedere alla CGUE dei chiarimenti sul senso da dare all'articolo 325 TFUE, letto alla luce della sentenza Taricco.

    3. Sentenza emessa dalla CGUE il 5 dicembre 2017 nella causa C-42/17 M.A.S. e M.B.
     
  5. Con la sua sentenza del 5 dicembre 2017, emessa nell'ambito di un procedimento accelerato, la CGUE ha rilevato che l'articolo 325 TFUE poneva a carico degli Stati membri degli obblighi di risultato che non erano accompagnati da alcuna condizione per quanto riguarda la loro applicazione. Di conseguenza, a suo parere non spettava ai giudici nazionali dare piena efficacia agli obblighi derivanti dall'articolo 325 TFUE, in particolare applicando i principi enunciati nella sentenza Inoltre, la CGUE ha rimarcato che spettava in primo luogo al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentissero di ottemperare agli obblighi derivanti dall'articolo 325 TFUE.
    Tuttavia, la CGUE ha constatato che, secondo la Corte costituzionale, in virtù del diritto italiano, la prescrizione rientrava nel diritto sostanziale e rimaneva quindi soggetta al principio di legalità dei delitti e delle pene. A questo titolo, essa ha rammentato, da un lato, le esigenze di prevedibilità, di determinatezza e di irretroattività della legge penale derivanti dal principio di legalità dei delitti e delle pene, sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e, dall'altro, il fatto che tale principio fosse di fondamentale importanza sia negli Stati membri che nell'ordinamento giuridico dell'Unione. Di conseguenza, l'obbligo di garantire un prelievo efficace delle risorse dell'Unione derivante dall'articolo 325 TFUE non poteva, secondo la CGUE, essere in contrasto con il principio di legalità dei delitti e delle pene.
    Da ciò la CGUE ha concluso che, se il giudice nazionale, nei procedimenti riguardanti delle persone accusate di aver commesso dei reati in materia di IVA, dovesse essere indotto a ritenere che l'obbligo di applicare i principi enunciati in questa sentenza contrasti con il principio di legalità, esso non è tenuto a conformarsi a tale obbligo, neppure qualora il rispetto dello stesso consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione.

    4. La sentenza n. 115 emessa dalla Corte costituzionale il 31 maggio 2018
     
  6. Alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza M.A.S. della CGUE, la Corte costituzionale ha ritenuto che nessuna delle questioni sollevate dai giudici del rinvio fosse fondata, in quanto la «regola Taricco» doveva essere considerata inapplicabile nelle sentenze in questione.
    I giudici del rinvio non avrebbero potuto applicare la «regola Taricco» in quanto contraria al principio di legalità dei delitti e delle pene, sancito dall'articolo 25, secondo comma, della Costituzione.
    La Corte ha anche concluso che l'inapplicabilità della «regola Taricco», secondo quanto riconosciuto dalla sentenza M.A.S., ha la propria fonte non solo nella Costituzione ma anche nel diritto stesso dell'Unione europea e che, di conseguenza, le questioni di costituzionalità sollevate nell'ipotesi in cui tale norma fosse invece applicabile non erano fondate.
  1. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNAZIONALI
  1. Le disposizioni pertinenti sono esposte nella sentenza Landi, sopra citata, §§ 50-55.
  2. I passaggi pertinenti del rapporto di valutazione di riferimento sull'Italia del GREVIO, organo specializzato indipendente incaricato di monitorare l'attuazione della Convenzione di Istanbul (si veda Landi, sopra citata, §§ 53-54), datato 3 gennaio 2020 sono così formulati:

«VI. Indagini, procedimenti penali, diritto processuale e misure di protezione

  1. Risposta immediata, prevenzione e protezione (articolo 50)
    1. Denunce alle forze dell'ordine e indagini

(...)

  1. Per snellire i procedimenti penali, l’articolo 132 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale richiede di dare priorità alle indagini giudiziarie sui reati più spesso associati a episodi di violenza basata sul genere, ossia maltrattamento, stalking e violenza sessuale. Tuttavia, la norma non modifica i termini generalmente applicabili per la conclusione delle indagini sui reati (18 mesi o 24 mesi in casi di violenza sessuale aggravata, violenza sessuale su minori e stupro di gruppo) e non fissa delle scadenze per i casi dinnanzi alle corti d’appello e di cassazione. I dati disponibili sembrano indicare che la durata media dei processi di primo grado sui casi di violenza basata sul genere è di tre anni; tuttavia, la prassi dei tribunali varia considerevolmente ed i ritardi nei procedimenti portano alla prescrizione di numerosi casi. I procedimenti si rivelano lunghi anche per reati minori, come le minacce e le lesioni non gravi, che rientrano nella sfera di competenze del giudice di pace.

(...)

  1. Il GREVIO esorta vivamente le autorità italiane a:
    1. dar seguito al proprio impegno per consentire una rapida gestione delle indagini e dei procedimenti penali nei casi di violenza basata sul genere, garantendo al tempo stesso che le misure adottate a tal fine siano supportate da adeguati finanziamenti;
    2. affermare la responsabilità degli autori di violenze e perseguire la giustizia penale per tutte le forme di violenza contemplate dalla Convenzione di Istanbul;
    3. garantire che la condanna in casi di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, sia commisurata alla gravità del reato e che rispetti la funzione deterrente della pena.
      I progressi in questo ambito dovrebbero essere misurati tramite dati adeguati e supportati da analisi della gestione dei casi penali da parte delle forze dell’ordine, dei pubblici ministeri e dei tribunali al fine di individuare i punti di criticità e le eventuali lacune nella risposta istituzionale alla violenza contro le donne.»

IN DIRITTO

  1. LA DICHIARAZIONE UNILATERALE DEL GOVERNO
  1. Con lettera datata 24 settembre 2020, il Governo ha sottoposto alla Corte una dichiarazione unilaterale con la quale invitava la Corte a cancellare il ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37 della Convenzione.
  2. Con lettera datata 12 ottobre 2020, la ricorrente ha informato la Corte che non era soddisfatta dei termini della dichiarazione unilaterale, soprattutto in quanto i procedimenti penali avviati contro il suo aggressore erano prescritti e alcuni di essi erano pendenti da vari anni. A suo parere, la dichiarazione sottovalutava il fatto che non erano state condotte indagini con celerità e che le carenze di queste ultime avevano creato un clima di impunità.
  3. I principi generali riguardanti le dichiarazioni unilaterali sono stati presentati nelle cause Jeronovičs c. Lettonia ([GC], n. 44898/10, §§ 64-70, 5 luglio 2016), e Aviakompaniya A.T.I., ZAT c. Ucraina (n. 1006/07, §§ 27-33, 5 ottobre 2017).
  4. Più in particolare, la Corte rammenta che, tra i fattori che entrano in gioco quando si tratta di decidere di cancellare in tutto o in parte un ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37 § 1 c) della Convenzione sulla base di una dichiarazione unilaterale, vi sono la natura delle doglianze formulate, la natura e la portata delle misure eventualmente adottate dal governo convenuto nell’ambito dell’esecuzione delle sentenze emesse dalla Corte in cause precedenti, e l’impatto di tali misure sulla causa in esame, la natura delle concessioni formulate nella dichiarazione unilaterale, in particolare il riconoscimento di una violazione della Convenzione e l’impegno a versare una riparazione adeguata per tale violazione, l’esistenza di una giurisprudenza pertinente «chiara e completa» a tale riguardo – in altri termini, il punto se le questioni sollevate siano analoghe a quelle già chiarite dalla Corte in cause precedenti –, le modalità di riparazione che il governo convenuto intende offrire al ricorrente e la questione se tali modalità permettano o meno di eliminare le conseguenze di una violazione dedotta.
  5. La Corte rammenta inoltre che una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ripristinare per quanto possibile la situazione antecedente alla stessa (Ex re di Grecia e altri c. Grecia [GC] (equa soddisfazione), n. 25701/94, § 72, 28 novembre 2002). Essa ha deciso che lo stesso approccio doveva essere seguìto quando un governo cerca di ottenere una cancellazione dal ruolo per mezzo di una dichiarazione unilaterale (Decev c. Repubblica di Moldavia (n. 2), n. 7365/05, § 18, 24 febbraio 2009).
  6. Nel caso di specie, la Corte ha esaminato i termini della dichiarazione unilaterale del Governo. Essa rammenta che la procedura di dichiarazione unilaterale è di carattere eccezionale e che, nel caso di violazioni dei diritti più fondamentali sanciti dalla Convenzione, tale procedura non può eludere l’opposizione del ricorrente a una composizione amichevole o permettere al Governo di sottrarsi alla sua responsabilità per tali violazioni (Jeronovičs, sopra citata, § 117).
    Essa osserva che il riconoscimento da parte del Governo delle violazioni dedotte dalla ricorrente e il versamento di una certa somma a tale proposito non sono dunque sufficienti per ammettere che tale versamento comporti la composizione definitiva della causa.
  7. Infine, la Corte rammenta che le sue sentenze servono non solo a dirimere le cause ad essa sottoposte, ma, più in generale, a chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione e a contribuire in tal modo al rispetto, da parte degli Stati, degli impegni che questi ultimi hanno assunto nella loro qualità di Parti contraenti. Anche se il sistema istituito dalla Convenzione mira essenzialmente a offrire un ricorso al singolo cittadino, esso ha nondimeno lo scopo di definire, nell’interesse generale, questioni che rientrano nell’ordine pubblico, elevando le norme di tutela dei diritti dell’uomo ed estendendo la giurisprudenza in questo ambito a tutta la comunità degli Stati parte alla Convenzione (Rantsev c. Cipro e Russia, n. 25965/04, § 197, CEDU 2010, e i riferimenti ivi citati.)
  8. La Corte sottolinea anche la gravità delle accuse formulate nella presente causa, e osserva inoltre, da un punto di vista più generale, che vari tipi di violazioni dedotte dei diritti protetti dagli articoli 2 e 3 della Convenzione in materia di violenze domestiche sono stati oggetto di numerosi ricorsi dinanzi alla Corte.
  9. Alla luce di quanto sopra esposto e tenuto conto, inoltre, del fatto che l’importo del risarcimento offerto è inferiore alle somme accordate in cause simili, essa considera che tale dichiarazione non offra una base sufficiente affinché essa possa considerare che non è più giustificato proseguire l’esame della causa.
  10. In conclusione, sulla base dell’articolo 37 § 1 c) della Convenzione, la Corte respinge la domanda di cancellazione dal ruolo formulata dal Governo e, di conseguenza, decide di proseguire l’esame della ricevibilità e del merito della causa.
  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
  1. La ricorrente afferma che le autorità italiane, sebbene fossero state informate varie volte della violenza di suo marito, non hanno adottato le misure necessarie e appropriate per proteggerla contro il pericolo, a suo avviso reale e noto, e non hanno impedito la perpetrazione di altre violenze domestiche. Essa rammenta che vari procedimenti sono caduti in prescrizione a causa della loro durata e che alcuni sono tuttora in corso. A suo parere, le autorità si sono pertanto sottratte ai loro obblighi positivi sanciti dagli articoli 2, 3, 8 e 13 della Convezione.
  2. La Corte rammenta che non è vincolata dai motivi di ricorso proposti da un ricorrente ai sensi della Convenzione e dei suoi Protocolli, e che può decidere la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti lamentati esaminando questi ultimi in base ad articoli o a disposizioni della Convenzione diversi da quelli invocati dal ricorrente (Radomilja e altri c. Croazia [GC], n. 37685/10 e 22768/12, § 126, 20 marzo 2018).
    Ora, tenuto conto della sua giurisprudenza e della natura delle doglianze esposte dalla ricorrente, la Corte ritiene che le questioni sollevate nel caso di specie debbano essere esaminate soltanto dal punto di vista degli obblighi positivi e procedurali dell’articolo 3 della Convenzione.
    L’articolo 3 della Convenzione è così formulato:

Articolo 3

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

  1. Sulla ricevibilità
  1. Constatando che questa doglianza non è manifestamente infondata né irricevibile per uno degli altri motivi di cui all'articolo 35 della Convenzione, la Corte la dichiara ricevibile.
  1. Sul merito
  1. Tesi delle parti
  1. La ricorrente
  1. La ricorrente sottolinea anzitutto che il Governo, nella sua ricostruzione dei fatti, ha commesso lo stesso errore che hanno commesso le autorità, ossia ha sottovalutato la pericolosità di D.P. e i rischi che lei correva.
  2. La ricorrente afferma che il primo procedimento per l’aggressione di gennaio 2007 è caduto in prescrizione, e aggiunge che il procedimento per il reato di atti persecutori e per i maltrattamenti, nonché per l’aggressione di ottobre 2008 si è anch’esso estinto per parziale prescrizione. L’interessata rammenta che l’assenza di un’azione penale avviata in tempo utile ha permesso a D.P. di sentirsi libero, di continuare a perseguitarla e aggredirla, e di mantenerla in uno stato di costante paura. La ricorrente ritiene che delle condanne pronunciate entro un termine ragionevole, almeno in primo grado, avrebbero potuto avere un effetto dissuasivo, e conclude che il superamento del termine di prescrizione in ciascuno dei processi ha dimostrato che il comportamento di D.P. era sempre impunito.
  3. Per quanto riguarda il procedimento penale, relativo all’aggressione con un coltello da lei subita nel gennaio 2007, la ricorrente constata che non è stata richiesta alcuna misura precauzionale.
  4. Essa aggiunge che il giudice del tribunale ha violato il codice di procedura penale impiegando dieci mesi per depositare la sentenza senza tenere conto del termine di prescrizione di cui si avvicinava la scadenza.
  5. Per quanto riguarda il secondo procedimento, inerente ai delitti di maltrattamenti e di atti persecutori, nonché l’aggressione di ottobre 2008 commessa utilizzando un bastone, la ricorrente osserva che è vero che subito dopo è stata adottata una misura precauzionale, ma che tale misura è stata di breve durata ed è stata velocemente sostituita da una misura meno vincolante, ossi il divieto di dimora nel comune di Potenza, che è risultata inadeguata in quanto D.P. ha continuato a seguirla e a minacciarla. La ricorrente ritiene che una protezione adeguata avrebbe permesso di impedire a D.P. di commettere i suoi atti criminali, e afferma che le autorità non hanno dimostrato alcuna diligenza nei suoi confronti e che devono aver pensato che, essendo un avvocato, non aveva bisogno di una protezione stretta in quanto era in grado di difendersi.
  6. Per quanto riguarda il risarcimento danni accordato con alcune sentenze, la ricorrente rammenta che nessuna decisione adottata in sede civile potrà essere efficace contro D.P., in quanto egli è tuttora libero, come lo è stato per anni. L’interessata dice di temere delle rappresaglie da parte sua, e fa notare che, nel 2008, l’unica volta in cui ha intentato un’azione civile contro D.P e ha ottenuto un sequestro conservativo, il giorno dopo è stata seriamente picchiata con un bastone da D.P.
  1. Il Governo
  1. Il Governo chiede alla Corte di esaminare soltanto i procedimenti che si sono conclusi, in quanto ve ne sono altri tuttora in corso. A suo parere, anche se è davvero deplorevole che i procedimenti si siano conclusi per l’intervenuta prescrizione, la ricorrente ha ricevuto un risarcimento in qualità di parte civile. Inoltre, il fatto che il giudice abbia impiegato troppo tempo per depositare la sentenza è dovuto, secondo il Governo, alla difficoltà della causa.
  2. Per quanto riguarda il secondo procedimento, il Governo rammenta che, anche se i fatti di maltrattamento sono stati dichiarati prescritti, D.P. è stato condannato a un anno e un mese di reclusione per il reato di lesioni commesso contro la ricorrente, e aggiunge che, nel 2020, il tribunale ha condannato D.P. per atti persecutori e che, di conseguenza, D.P. è stato punito.
  3. Il Governo rammenta che, dopo l’aggressione del 7 ottobre 2008, è stata applicata una misura precauzionale contro D.P. e che, nel 2012, gli è stato rivolto un richiamo all’ordine affinché cessasse di avvicinarsi e di perseguitare la ricorrente. Poiché D.P. ha continuato a molestarla, è stato avviato un nuovo procedimento per atti persecutori.
  4. Il Governo afferma che lo Stato ha fatto di tutto per proteggere la ricorrente e punire il responsabile degli atti violenti di cui è stata vittima.
  1. Valutazione della Corte
  1. Sull’applicabilità dell’articolo 3 della Convenzione
  1. La Corte rammenta che, per rientrare nelle previsioni dell’articolo 3, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di tale minimo dipende dall’insieme degli elementi della causa, in particolare dalla natura e dal contesto del trattamento, dalla sua durata, dai suoi effetti fisici e psichici, ma anche dal sesso della vittima, e dal rapporto esistente tra quest’ultima e l’autore del trattamento. Un maltrattamento che raggiunge tale soglia minima di gravità implica, in generale, lesioni al corpo o forti sofferenze fisiche o psicologiche. Tuttavia, anche in assenza di sevizie di questo tipo, nel momento in cui il trattamento umilia o svilisce un individuo, dando prova di mancanza di rispetto per la sua dignità umana o sminuendola, o suscita nell’interessato sentimenti di paura, angoscia o inferiorità tali da annientare la sua resistenza morale e fisica, questo trattamento può essere qualificato degradante e rientrare così nel divieto di cui all’articolo 3 (Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09, §§ 86-87, CEDU 2015).
  2. La Corte ha altresì riconosciuto che, oltre alle lesioni fisiche, l'impatto psicologico costituisce un aspetto importante della violenza domestica (Valiulienė c. Lituania, n. 33234/07, § 69, 26 marzo 2013, e Volodina Russia (n. 2), n. 40419/19, §§ 74-75, 14 settembre 2021). L'articolo 3 non si riferisce esclusivamente al fatto di infliggere del dolore fisico, ma anche a quello della sofferenza morale che è causata dalla creazione di uno stato di angoscia e di stress con mezzi diversi dalle vie di fatto. Il timore di nuove aggressioni può essere sufficientemente grave da indurre le vittime di violenza domestica a provare una sofferenza e un'angoscia che possono raggiungere la soglia minima prevista per l'applicazione dell'articolo 3 (Eremia c. Repubblica di Moldavia, n. 3564/11, § 54, 28 maggio 2013, T.M. e C.M. c. Repubblica di Moldavia, n. 26608/11, § 41, 28 gennaio 2014, e Volodina, sopra citata, § 75).
  3. Nella fattispecie, la ricorrente ha subìto, da parte di D.P., delle violenze che sono state verbalizzate l’8 ottobre 2008 dall’ospedale e dalla polizia. È stata colpita alla testa e in altre parti del corpo con un bastone, e ha riportato un trauma cranico e delle ferite multiple.
  4. Il comportamento minaccioso di D.P. le ha fatto temere per molto tempo che le violenze si ripetessero. Ciò è testimoniato dalle varie denunce e richieste di protezione inviate alle autorità dello Stato. La ricorrente ha lamentato varie volte un atteggiamento di coercizione e di ricerca di controllo, che si è manifestato con la sorveglianza dei suoi spostamenti, la persecuzione davanti al suo domicilio e le minacce.
  5. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che il trattamento denunciato abbia oltrepassato la soglia di gravità prevista dall’articolo 3 della Convenzione.
  1. Principi generali
  1. La Corte rammenta che spetta alle autorità nazionali adottare delle misure di protezione di una persona la cui integrità fisica o psicologica è minacciata dagli atti criminali di un suo familiare o del suo partner (Kontrová c. Slovacchia, n. 7510/04, § 49, 31 maggio 2007, e altri c. Italia e Bulgaria, n. 40020/03, § 105, 31 luglio 2012, e Opuz c. Turchia, n. 33401/02, § 176, CEDU 2009). L’ingerenza delle autorità nella vita privata e familiare può divenire necessaria per proteggere la salute e i diritti di una vittima o per prevenire degli atti criminali in alcune circostanze. In numerosi casi le autorità, anche se non sono rimaste totalmente passive, non hanno comunque rispettato gli obblighi ad esse imposti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, in quanto le misure da esse adottate non hanno impedito all’aggressore di perpetrare nuove violenze contro la vittima (si vedano i riferimenti giurisprudenziali nella sentenza Volodina, sopra citata, § 86).
  2. Dalla giurisprudenza emerge che gli obblighi positivi che gravano sulle autorità in virtù dell’articolo 3 della Convenzione comportano, in primo luogo, l’obbligo di mettere in atto un quadro legislativo e regolamentare di protezione; in secondo luogo, in alcune circostanze ben definite, l’obbligo di adottare delle misure operative per proteggere delle persone ben precise da un rischio di trattamenti contrari a tale disposizione; e, in terzo luogo, l’obbligo di condurre un’indagine effettiva su accuse difendibili relative all’inflizione di tali trattamenti. In generale, i primi due aspetti di questi obblighi positivi sono definiti «materiali», mentre il terzo corrisponde all’obbligo positivo «procedurale» imposto allo Stato (Tunikova e altri Russia, nn. 55974/16 e altri 3, § 78, 14 dicembre 2021, Volodina, sopra citata, § 77, X e altri c. Bulgaria [GC], n. 22457/16, § 178, 2 febbraio 2021, e Kurt c. Austria [GC], n. 62903/15, § 165, 15 giugno 2021, con la giurisprudenza ivi citata).
  3. La Corte ha recentemente chiarito la portata e il contenuto dell’obbligo positivo per lo Stato di prevenire il rischio di violenza ricorrente nel contesto della violenza domestica nella causa Kurt (sopra citata, §§ 157-189). Tale portata e contenuto si possono sintetizzare come segue (ibid., § 190):
    1. Le autorità devono reagire immediatamente alle denunce di violenza domestica.
    2. Quando tali denunce vengono portate a loro conoscenza, le autorità devono accertare se esista un rischio reale e immediato per la vita altrui delle vittime di violenza domestica che sono state identificate e, per farlo, devono compiere una valutazione del rischio che sia autonoma, proattiva ed esaustiva. Esse devono tenere debitamente conto del contesto particolare dei casi di violenza domestica nel valutare il carattere reale e immediato del rischio.
    3. Non appena tale valutazione evidenzia l’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita altrui, le autorità hanno l’obbligo di adottare misure operative preventive. Tali misure devono essere adeguate e proporzionate al livello di rischio rilevato.
  4. La Corte ha esaminato tale obbligo positivo – in alcuni casi dal punto di vista degli articoli 2 o 3 e in altri casi dal punto di vista dell’articolo 8 considerato isolatamente o in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione (Volodina, sopra citata). Essa ritiene che nella presente causa sia necessario allinearsi sull’insegnamento derivante dalla sentenza Kurt (sopra citata) sotto il profilo dell’articolo 2. La Corte fa dunque riferimento prima di tutto ai principi ivi enunciati nell’ambito dell’esame degli obblighi positivi sotto il profilo dell’articolo 3.
  1. Applicazione di questi principi nel caso di specie
  1. La Corte osserva che, da un punto di vista generale, il quadro giuridico italiano era idoneo ad assicurare una protezione contro atti di violenza che possono essere commessi da privati in una determinata causa. Essa osserva, inoltre, che l’ampia serie di misure giuridiche e operative disponibili nel sistema legislativo italiano offriva alle autorità interessate una varietà sufficiente di possibilità adeguate e proporzionate rispetto al livello di rischio esistente nel caso di specie.
  1. Sulla questione se le autorità abbiano reagito immediatamente alle denunce di violenza domestica
  1. La Corte osserva che la polizia ha reagito senza ritardo alle denunce presentate dalla ricorrente a partire da gennaio 2007, ed è intervenuta in occasione degli episodi violenti. Il procuratore, da parte sua, informato varie volte dalla polizia, ha chiesto al GIP, nell’ottobre 2008, di disporre la misura di protezione richiesta dalla polizia, e sono state condotte varie indagini in seguito alle denunce. La misura degli arresti domiciliari è stata successivamente sostituita dalla misura del divieto di dimora nel comune di Potenza, in quanto erano scaduti i termini massimi previsti per gli arresti domiciliari.
  2. La Corte ritiene che le autorità abbiano proceduto a una valutazione del rischio autonoma, proattiva ed esaustiva, tenendo debitamente conto del contesto particolare delle cause in materia di violenza domestica (si veda Kurt, sopra citata, § 190), e abbiano applicato una misura cautelare alla luce della presunta esistenza di un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente derivante dall’escalation delle violenze perpetrate da D.P. Tale misura è stata poi sostituita dal divieto di dimora nel comune di Potenza con obbligo di presentarsi all’autorità di polizia.
  3. La Corte osserva, inoltre, che nel giugno 2012 D.P. è stato ammonito dalla polizia, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 11 del 2009, e invitato a tenere un comportamento conforme alla legge; l’ammonimento (che può essere emesso anche in assenza di una denuncia da parte della persona offesa) comporta che, quando una persona ammonita commette una nuova infrazione, la pena è aggravata e si procede d’ufficio (si veda il paragrafo 67 supra).
  4. La Corte ritiene che le autorità abbiano reagito senza ritardo alle denunce della ricorrente, raccolto elementi di prova e adottato misure di divieto e di protezione.

  1. La qualità della valutazione dei rischi
  1. La Corte rammenta che, allo scopo di stabilire se le autorità avrebbero dovuto essere a conoscenza del rischio ripetuto di atti di violenza, essa ha individuato e preso in considerazione, in un certo numero di cause, gli elementi seguenti: i precedenti di comportamento violento dell'autore e il mancato rispetto dei termini di un'ordinanza di protezione (Eremia, sopra citata, § 59), l'escalation della violenza che rappresenta una minaccia continua per la salute e la sicurezza delle vittime (Opuz, sopra citata, §§ 135-36, CEDU 2009), le richieste di aiuto ripetute della vittima per mezzo di appelli urgenti, nonché le denunce formali e le petizioni rivolte al capo della polizia (Bălşan c. Romania, n. 49645/09, §§ 135-36, 23 maggio 2017). Alcuni degli elementi sopra indicati erano presenti anche nelle circostanze della presente causa.
  2. La Corte ritiene che sia opportuno distinguere tra due periodi distinti: il primo va dal 19 gennaio 2007, giorno dell’aggressione con il coltello, al 21 ottobre 2008, giorno in cui è stata disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti di D.P., e il secondo va dal 21 ottobre 2008 fino alla presentazione del ricorso nel 2019.
  3. Per quanto riguarda il primo periodo, la Corte constata che le autorità si sono sottratte al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di recidiva della violenza commessa contro la ricorrente e di adottare delle misure operative e preventive al fine di attenuare questo rischio. In effetti, le autorità non hanno adottato alcuna misura per circa tredici mesi: D.P. non è stato arrestato, non è stata applicata alcuna misura (cautelare o di protezione) nonostante l'aggressione con un coltello e le varie denunce per maltrattamenti, atti persecutori e minacce depositate nel frattempo dalla ricorrente (paragrafi 25-35 supra).
    La Corte osserva che, malgrado queste varie denunce, una prima valutazione dei rischi è stata fatta soltanto quando è stata richiesta la misura cautelare, ossia tredici mesi dopo la prima denuncia, sebbene vi fossero segni di una escalation di violenza da parte di D.P. Il rinvio a giudizio è stato chiesto dieci mesi dopo l'aggressione e l'udienza preliminare si è tenuta diciannove mesi dopo. Anche se la Corte non può fare supposizioni per quanto riguarda gli eventi del 2006 riferiti dalla ricorrente nelle sue denunce, essa ritiene che, per tutto questo lungo periodo, i rischi di violenza ricorrente non siano stati correttamente valutati o presi in considerazione.
  4. Per quanto riguarda il secondo periodo, la Corte ritiene che le autorità abbiano condotto la loro valutazione dei rischi in maniera autonoma, proattiva ed esaustiva. Essa osserva infatti che gli agenti di polizia non si sono limitati a basarsi sul racconto dei fatti esposto dalla ricorrente, ma hanno fondato la loro valutazione su altri fattori ed elementi di prova. Hanno sentito le persone direttamente implicate, ossia la ricorrente e le persone da lei indicate, i genitori di quest'ultima e i testimoni degli episodi violenti, e hanno redatto dei verbali dettagliati delle loro deposizioni.
    In particolare, gli agenti di polizia hanno tenuto conto del fatto che la ricorrente era terrorizzata ed era stata oggetto di minacce, e hanno espressamente rilevato un certo numero di altri fattori di rischio pertinenti, ossia degli atti violenti segnalati, l'escalation della violenza, nonché i fattori di stress rilevati nella famiglia all'epoca, come la separazione e i procedimenti civili relativi ad alcuni beni immobili. Essi hanno chiesto una misura di protezione che è stata applicata dal GIP. I rischi di violenza ricorrente sono stati correttamente presi in considerazione.
  5. La Corte constata, inoltre, che i procuratori hanno avviato tre procedimenti penali contro D.P. per i reati di cui quest'ultimo era sospettato.
  6. La Corte ritiene pertanto che la valutazione dei rischi effettuata dalle autorità in questo secondo periodo, che non ha sicuramente seguìto alcuna procedura standard, ha comunque rispettato le esigenze di autonomia, proattività ed esaustività.
  1. Le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che esisteva un rischio reale e immediato di violenza ricorrente per l’interessata?
  1. Alla luce degli elementi sopra esposti, la Corte ritiene che le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che sussisteva un rischio reale e immediato di violenza ricorrente nei confronti dell’interessata a causa delle violenze commesse da D.P., e che le stesse avessero l’obbligo di valutare il rischio che tali violenze si ripetessero e di adottare delle misure adeguate e sufficienti per proteggere la ricorrente.
  1. Le autorità hanno adottato misure preventive adeguate nelle circostanze del caso di specie?
  1. Per quanto riguarda il primo periodo, la Corte ritiene che, sulla base delle informazioni note alle autorità all’epoca dei fatti e che indicavano che esisteva un rischio reale e immediato che fossero commesse nuove violenze contro la ricorrente, di fronte alle denunce di escalation delle violenze domestiche che formulava l’interessata, le autorità non abbiano dimostrato la diligenza richiesta e siano intervenute tardivamente applicando una misura cautelare nell’ottobre 2008 mentre l’aggressione con coltello era avvenuta nel gennaio 2007 e nel frattempo erano state depositate altre denunce. La Corte osserva inoltre che, durante questo periodo, le autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo derivante dall’articolo 3 di proteggere la ricorrente dalle violenze domestiche commesse da P.
  2. Pertanto durante questo periodo, alla luce delle conclusioni alle quali è giunta nel paragrafo 125 supra, la Corte ritiene che vi sia stata violazione del profilo materiale dell’articolo 3 della Convenzione.
  3. Per quanto riguarda il secondo periodo, la Corte conclude che le autorità hanno dimostrato la particolare diligenza richiesta. Esse hanno proceduto a una valutazione dei rischi autonoma, proattiva ed esaustiva, il cui risultato le ha portate ad adottare una misura cautelare e a pronunciare un ammonimento nei confronti di D.P. (si vedano i paragrafi 35, 43 e 53 supra). Pertanto, essa ritiene che le suddette autorità abbiano rispettato il loro obbligo positivo derivante dall’articolo 3 di proteggere la ricorrente dalle violenze domestiche commesse da P.
  4. Alla luce delle conclusioni alle quali è giunta nel paragrafo 129 supra, la Corte conclude che, durante questo secondo periodo, non vi è stata violazione del profilo materiale dell’articolo 3 della Convenzione.
  1. L’obbligo di condurre un’indagine effettiva

    α Principi generali
  1. La Corte rammenta che l’obbligo di condurre un’indagine effettiva su tutti i casi di violenza domestica è un elemento essenziale degli obblighi che l’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato. Per essere efficace, un’indagine di questo tipo deve essere rapida e approfondita; tali esigenze si applicano alla procedura nel suo complesso, compresa la fase del processo (A. c. Slovenia, n 3400/07, § 48, 15 gennaio 2015, e Kosteckas c. Lituania, n. 960/13, § 41, 13 giugno 2017).
  2. Tuttavia, l’obbligo di condurre un’indagine effettiva è un obbligo di mezzi e non di risultato. Non esiste un diritto assoluto di ottenere l’avvio dell’azione penale contro una determinata persona, o la condanna di quest’ultima, quando non vi siano state omissioni colpevoli negli sforzi compiuti per obbligare gli autori di reati a rendere conto delle proprie azioni (A, B e C c. Lettonia, n. 30808/11, § 149, 31 marzo 2016, e G.C. c. Romania, n. 61495/11, § 58, 15 marzo 2016).
  3. La Corte rammenta che, tra gli elementi che caratterizzano un’indagine effettiva dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, il fatto che l’azione giudiziaria non sia soggetta ad alcun termine di prescrizione è fondamentale. Essa indica anche di avere già dichiarato che la concessione di un’amnistia o di un indulto non dovrebbe essere tollerata in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da agenti dello Stato (Mocanu e altri c. Romania [GC], nn. 10865/09 e altri 2, § 326, CEDU 2014 (estratti)). Questo principio è stato esteso anche agli atti di violenza inflitti da privati (E.G. c. Repubblica di Moldavia, n. 37882/13, § 43, 13 aprile 2021, e Pulfer c. Albania, 31959/13, § 83, 20 novembre 2018; si veda anche, per un’impunità derivata dall’intervenuta prescrizione, İbrahim Demirtaş c. Turchia, n. 25018/10, § 35, 28 ottobre 2014).
  4. La Corte ha affermato che gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 e dall’articolo 3 non si potevano considerare rispettati quando un’indagine si era conclusa per effetto della prescrizione della responsabilità penale dovuta all’inattività delle autorità (Parere consultivo relativo all’applicabilità della prescrizione all’azione penale, alla condanna e alla sanzione per reati costitutivi, in sostanza, di atti di tortura [GC], domanda n. P16-2021-001, Corte di cassazione armena, § 60, 26 aprile 2022, e le cause ivi citate).
  5. La Corte ha quindi concluso che vi è stata violazione delle garanzie procedurali dell’articolo 3 in cause nelle quali la prescrizione era intervenuta in quanto le autorità non avevano agito con la tempestività e la diligenza richieste (si vedano, tra altre, Batı e altri c. Turchia, nn. 33097/96 e 57834/00, §§ 97 e 145-147, CEDU 2004-IV (estratti), Abdülsamet Yaman, sopra citata, § 59, Yeşil e Sevim c. Turchia, n. 34738/04, §§ 38-42, 5 giugno 2007, Erdoğan Yılmaz e altri Turchia, n. 19374/03, § 57, 14 ottobre 2008, Erdal Aslan c. Turchia, nn. 25060/02 e 1705/03, §§ 75-79, 2 dicembre 2008, Pădureţ c. Moldavia, n. 33134/03, § 75, 5 gennaio 2010, Karagöz e altri c. Turchia, nn. 14352/05 e altri 2, §§ 53-55, 13 luglio 2010, Savin c. Ucraina, n. 34725/08, §§ 70-71, 16 febbraio 2012, Uğur c. Turchia, n. 37308/05, § 105, 13 gennaio 2015, e Barovov c. Russia, n. 9183/09, § 42, 15 giugno 2021).
  6. Inoltre, quando l’indagine ufficiale ha portato all’avvio di un’azione penale dinanzi ai giudici nazionali, il procedimento nel suo complesso, compresa la fase del processo, deve soddisfare le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione (C. e A.C. c. Romania, n. 12060/12, § 112, 12 aprile 2016). Se non esiste un obbligo assoluto di far sì che tutti i procedimenti portino a una condanna o a una pena particolare, i giudici nazionali non dovrebbero in nessun caso essere disposti a lasciare impunite delle gravi violazioni dell’integrità fisica e psichica, o a sanzionare dei reati gravi con pene eccessivamente lievi (Sabalić c. Croazia, n. 50231/13, § 97, 14 gennaio 2021).

    β Applicazione di questi principi nel caso di specie
     
  7. La Corte ha già stabilito (paragrafo 129 supra) che le autorità erano a conoscenza delle violenze di cui la ricorrente era stata vittima. Le denunce di quest’ultima sono state corroborate da elementi di prova, in particolare da referti medici, e costituiscono una doglianza difendibile relativa a fatti di maltrattamento che aveva fatto sorgere l'obbligo, per le autorità, di condurre un'indagine che rispondesse alle esigenze dell'articolo 3 della Convenzione (Volodina, sopra citata, § 93).
  8. In risposta alle accuse di aggressione, molestie e minacce, e di maltrattamenti che aveva formulato la ricorrente, sono state avviate quattro indagini dall'autorità giudiziaria. La Corte osserva che, per quanto riguarda la prima indagine relativa all'aggressione di gennaio 2007, D.P. è stato rinviato a giudizio nell'ottobre 2008, ossia ventuno mesi dopo i fatti, e che la sentenza di condanna in primo grado è stata pronunciata nel giugno 2014, ossia sette anni dopo i fatti, ma è stata depositata solo nel marzo 2015. Nel giugno 2016, la corte d'appello ha dichiarato che i fatti delittuosi ascritti a D.P. erano caduti in prescrizione. Per quanto riguarda la seconda indagine per le denunce depositate tra febbraio 2007 e ottobre 2008, e per le lesioni subite durante l'aggressione di ottobre 2008, la Corte osserva che la sentenza di primo grado è stata pronunciata nell'aprile 2015, e che D.P. è stato condannato esclusivamente per le lesioni inflitte alla ricorrente, in quanto i fatti di maltrattamento erano prescritti. Nel marzo 2016 la corte d'appello ha dichiarato prescritti gli altri fatti delittuosi, ad eccezione delle lesioni.
    Per quanto riguarda la terza indagine per le denunce depositate nel 2010, la Corte osserva che D.P. è stato rinviato a giudizio nel 2012, e che la sentenza del tribunale è stata pronunciata il 5 novembre 2020, ossia dieci anni dopo i fatti. Per quanto riguarda, infine, l'ultima indagine per molestie per i fatti denunciati nel 2013, D.P. è stato rinviato a giudizio quattro anni dopo e il procedimento è tuttora in corso dinanzi al tribunale.
  9. La Corte ritiene che, nel trattare in via giudiziaria il contenzioso relativo a violenze contro le donne, spetta ai giudici nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di vulnerabilità particolare, morale, fisica e/o materiale della vittima, e valutare la situazione di conseguenza, quanto più rapidamente possibile. La Corte non è convinta che, nel caso di specie, le autorità abbiano dimostrato una volontà reale di fare in modo che D.P. dovesse rendere conto del suo comportamento. Al contrario, la Corte ritiene che, dopo gli interventi della polizia e dei procuratori che hanno dimostrato la particolare diligenza richiesta, i giudici nazionali abbiano agito in violazione del loro obbligo di assicurare che D.P., imputato di lesioni, maltrattamenti, minacce e atti persecutori, fosse giudicato rapidamente e non potesse pertanto beneficiare della prescrizione.
  10. Nelle circostanze del caso, non si può ritenere che le autorità italiane abbiano agito con sufficiente tempestività e con una diligenza ragionevole. Il risultato di questa lacuna è che D.P. ha goduto di un’impunità quasi totale (si vedano, tra altre, İbrahim Demirtaş, sopra citata, 35, Beganović c. Croazia, n. 46423/06§§ 85 - 87, 25 giungo 2009, Valiulienė, sopra citata, §§ 85 - 86, per quanto riguarda l’articolo 2, Alikaj e altri c. Italia, n. 47357/08, §§ 107 e 108, 29 marzo 2011, e Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk c. Turchia, n. 13423/09, §§ 98 - 101, CEDU 2013).
  11. La Corte considera che lo scopo di una protezione efficace contro i maltrattamenti, comprese le violenze domestiche, non si può considerare raggiunto quando un procedimento penale è chiuso in quanto i fatti sono prescritti, se all'origine della prescrizione vi sono delle carenze da parte delle autorità, come è stato dimostrato sopra (Valiulienė, sopra citata, § 85). Da questo punto di vista, essa ritiene che i reati legati alle violenze domestiche debbano rientrare, anche se commessi da privati, tra quelli più gravi per i quali la giurisprudenza della Corte considera che sia incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 3 che le indagini su tali delitti si concludano per intervenuta prescrizione a causa dell'inattività delle autorità (per quanto riguarda la concessione dell'amnistia in caso di violenza sessuale commessa da privati, si veda G. c. Repubblica di Moldavia, sopra citata, § 143, paragrafo 136 supra).
  12. La Corte osserva che il GREVIO, nel suo rapporto sull'Italia, ha sottolineato che i ritardi nei procedimenti comportano la prescrizione di molte cause, e che venivano avviati dei procedimenti molto lunghi anche per reati minori, come le minacce e le lesioni lievi (si veda il paragrafo 79 supra).
  13. La Corte afferma inoltre che, come sopra indicato (paragrafo 77), nella legislazione interna si alternano da molti anni diversi regimi di prescrizione in materia penale, la quale presenta in Italia delle caratteristiche specifiche (sulle particolarità rilevate dalla CGUE si vedano i paragrafi 79 e 82 supra), in quanto continua a decorrere anche se è stata avviata l'azione penale. In particolare, dopo l'adozione, con la legge n. 3 del 2019, di disposizioni che limitano la prescrizione in corso di procedimento, che avrebbero potuto costituire un passo in avanti nella soluzione dei problemi legati alla prescrizione dei reati, la legge n. 134 del 2021 prevede nuovamente la prescrizione dei reati quando il ricorso in appello e il ricorso per cassazione non sono definiti entro termini prestabiliti (si veda il paragrafo 71 supra).
  14. In queste condizioni, la Corte ribadisce che spetta allo Stato gestire il proprio sistema giudiziario in modo tale da permettere ai propri tribunali di rispondere alle esigenze della Convenzione, in particolare quelle relative agli obblighi derivanti dall'articolo 3 della Convenzione. Essa osserva con preoccupazione le conseguenze combinate delle particolarità del sistema italiano in materia di prescrizione e dei ritardi nei procedimenti, e condivide le perplessità del GREVIO, secondo le quali tali fattori comportano la prescrizione di un numero importante di cause anche in ambito di violenza domestica, ad esempio i maltrattamenti, le molestie e le violenze sessuali (si veda il paragrafo 79 supra).
  15. Insistendo nuovamente sulla particolare diligenza che richiede il trattamento delle denunce per violenze domestiche, la Corte ritiene che le specificità dei fatti di violenza domestica, riconosciute nel preambolo della Convenzione di Istanbul, debbano essere tenute presenti nell'ambito dei procedimenti interni.
  16. La Corte rammenta che essa si aspetta che gli Stati siano particolarmente severi quando sanzionano anche i responsabili di violenze domestiche, in quanto è in gioco non soltanto la questione della responsabilità penale individuale degli autori: perciò, le autorità giudiziarie interne non devono in nessun caso dimostrarsi disposte a lasciare impunite delle violazioni dell'integrità fisica e morale delle persone. Lo Stato ha anche il dovere di lottare contro il sentimento di impunità di cui gli aggressori possono pensare di beneficiare, e di mantenere la fiducia e il sostegno dei cittadini nello stato di diritto, in modo tale da prevenire qualsiasi apparenza di tolleranza o di collusione delle autorità rispetto agli atti di violenza (Okkalı c. Turchia, n. 52067/99, § 65, CEDU 2006-XII (estratti)).
  17. Nella presente causa la Corte ritiene, tenuto conto degli elementi sopra esposti, che il modo in cui le autorità interne, da una parte, sulla base dei meccanismi di prescrizione dei reati tipici del quadro nazionale (si vedano i paragrafi 68-77 supra), hanno mantenuto un sistema nel quale la prescrizione è strettamente legata all'azione giudiziaria, anche dopo l'avvio di un procedimento, e, dall'altra, hanno condotto l'indagine penale con una passività giudiziaria incompatibile con il suddetto quadro giuridico, non possa soddisfare le esigenze dell'articolo 3 della Convenzione (si vedano, mutatis mutandis, c. Slovenia, n. 24125/06, §§ 66-70, 23 gennaio 2014, P.M. c. Bulgaria, n. 49669/07, §§ 65-66, 24 gennaio 2012, e M.C. e A.C., sopra citata, §§ 120-125).
  18. Di conseguenza, essa conclude che vi è stata violazione del profilo procedurale di tale disposizione.
  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE IN COMBINATO DISPOSTO CON L'ARTICOLO 3
  1. Invocando l'articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 3, la ricorrente sostiene che l'assenza di protezione legislativa e di risposta adeguata da parte delle autorità alle denunce di violenza domestica da lei formulate costituisce un trattamento discriminatorio fondato sul suo sesso. L'articolo 14 della Convenzione è cosi formulato:

«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella (…) Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»

  1. Tesi delle parti
  1. Dopo aver indicato dettagliatamente tutte le leggi sulla lotta contro la violenza domestica in Italia, il Governo sottolinea che non vi è una prassi caratterizzata da indifferenza e da abusi nei confronti delle donne in quanto, secondo dati statistici precisi e affidabili, l'Italia sarebbe uno dei paesi europei con il numero più basso di casi di femminicidio, e il più avanzato in materia di lotta contro le violenze alle donne.
  2. Secondo il Governo, non esiste alcuna prova che le autorità nazionali abbiano trascurato le denunce della ricorrente a causa del suo sesso. Analogamente, le autorità nazionali non avrebbero nemmeno dimostrato alcuna forma di compiacenza nei confronti di D.P.
  3. Secondo il Governo, la ricorrente non ha dimostrato che, se l'aggressore fosse stata una donna, il procedimento giudiziario sarebbe stato più rapido.
  4. La ricorrente afferma di essere vittima di una violazione dell'articolo 14 in quanto donna e in quanto avvocato. Essa ritiene che le autorità abbiano dimostrato meno diligenza nei suoi confronti in quanto devono avere pensato che, essendo un avvocato, poteva difendersi. L'unica misura cautelare applicata a D.P. non avrebbe avuto alcuna efficacia nel suo caso.
  1. Valutazione della Corte
  1. I principi pertinenti, enunciati per la prima volta nella sentenza Opuz (sopra citata, §§ 184-91), sono stati integrati nella sentenza Volodina (sopra citata, §§ 109-114), e si possono riassumere come segue:
    1. Una disparità di trattamento tra persone che si trovano in situazioni analoghe o equiparabili è discriminatoria se non ha alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole;
    2. Una politica generale che ha effetti pregiudizievoli sproporzionati su un determinato gruppo può essere discriminatoria anche se non riguarda specificamente tale gruppo e se non vi è intenzione discriminatoria. La discriminazione può anche risultare da una situazione di fatto;
    3. La violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, è una forma di discriminazione nei confronti delle donne. L’inosservanza – anche involontaria – da parte di uno Stato del suo obbligo di proteggere le donne contro tale violenza costituisce una violazione del diritto di queste ultime a una pari protezione della legge;
    4. Una disparità di trattamento volta ad assicurare la parità materiale tra i sessi si può giustificare e anche imporre;
    5. Quando il ricorrente ha dimostrato l'esistenza di una disparità di trattamento, spetta allo Stato convenuto dimostrare che tale disparità era giustificata. Se è stabilito che la violenza domestica riguarda le donne in maniera sproporzionata, spetta a questo Stato dimostrare quali misure correttive ha adottato per porre rimedio agli svantaggi associati al sesso;
    6. I tipi di elementi idonei a invertire l'onere della prova a svantaggio dello Stato convenuto in tali casi non sono predeterminati, e possono variare. Tali elementi possono essere ricavati da rapporti di organizzazioni non governative o di osservatori internazionali come il CEDAW, o da dati statistici, provenienti da autorità o istituzioni accademiche, che dimostrano che (i) la violenza domestica riguarda principalmente le donne, e che (ii) l'atteggiamento generale dell'autorità – che si manifesta, ad esempio, nel modo in cui le donne vengono trattate nei commissariati di polizia quando segnalano dei casi di violenza domestica, o nella passività della giustizia quando si deve offrire una protezione adeguata alle donne che ne sono vittime – ha creato un clima propizio a tale violenza; e
    7. Se è accertato che sussistono importanti pregiudizi strutturali, il ricorrente non ha bisogno di dimostrare che la vittima era anche bersaglio di pregiudizi individuali. Se, invece, le prove della natura discriminatoria della legislazione o delle prassi ufficiali, o dei loro effetti discriminatori, sono insufficienti, la dedotta discriminazione potrà essere dimostrata soltanto provando la parzialità dei funzionari incaricati del caso della vittima. In assenza di tale prova, il fatto che tutte le sanzioni o le misure ordinate o raccomandate nel singolo caso della vittima non siano state rispettate, non rivela di per sé un’intenzione discriminatoria fondata sul sesso.
  2. Nella presente causa, la Corte osserva che la ricorrente è stata più volte vittima di violenze da parte di D.P., e che le autorità erano state informate di tali fatti e hanno condotto varie indagini.
  3. Nella causa Talpis (sopra citata, § 141-149), la Corte aveva constatato che la violenza domestica riguardava principalmente le donne, e che la passività generalizzata e discriminatoria della giustizia italiana creava un clima propizio a tale violenza.
  4. La Corte prende atto che del fatto che, a partire dal 2017, e dall'adozione della sentenza Talpis sopra citata, l'Italia ha adottato delle misure per mettere in atto la Convenzione di Istanbul, dimostrando in tal modo la sua volontà politica reale di prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne. Come sottolinea il Governo, una serie di riforme legislative già adottate a partire dal 2008 (in particolare l'introduzione di misure di protezione contro gli abusi familiari, del reato di atti persecutori, di circostanze aggravanti per i reati contro le persone e i minori, della misura dell'allontanamento d'urgenza dal domicilio familiare) ha creato un insieme importante di regole e di meccanismi che rafforzano la capacità delle autorità di far corrispondere le loro intenzioni ad azioni concrete per porre fine alla violenza. Successivamente sono state adottate altre misure legislative in materia penale e civile.
  5. Dopo avere constatato quanto precede, la Corte ritiene utile sottolineare che le circostanze della presente causa rientrano in un periodo antecedente alle riforme che il Governo sostiene di avere introdotto (Halime Kılıç c. Turchia, n. 63034/11, § 116, 28 giugno 2016).
  6. La Corte non è convinta che la ricorrente sia riuscita a stabilire un inizio di prova relativa a una passività generalizzata della giustizia nel fornire una protezione efficace alle donne vittime di violenza domestica ( c. Croazia, n. 55164/08, § 97, 14 ottobre 2010) o al carattere discriminatorio delle misure o delle prassi adottate dalle autorità nei suoi confronti. Essa non ha fornito alcun dato statistico o osservazione di organizzazioni non governative.
  7. La ricorrente non ha affermato nemmeno che gli inquirenti avessero cercato di dissuaderla dal far perseguire D.P. o dal testimoniare contro di lui, o che avessero cercato in qualsiasi modo di ostacolare le sue denunce volte a chiedere una protezione contro le violenze denunciate ( c. Croazia, sopra citata, § 97, e, a contrario, Eremia, sopra citata, § 87, e Munteanu c. Repubblica di Moldavia, n. 34168/11, § 81, 26 maggio 2020). Al contrario, essi hanno segnalato varie volte ai procuratori la situazione dell'interessata e hanno chiesto che fossero adottate misure di protezione.
  8. La Corte ritiene che, anche se ha concluso che le autorità nazionali non hanno trattato il caso della ricorrente con il livello di diligenza richiesto dall'articolo 3 della Convenzione nel caso di specie, non vi siano elementi che dimostrino che le autorità investite del caso della ricorrente abbiano agito in maniera o con intenzione discriminatoria nei suoi confronti (a contrario Talpis, sopra citata, §§ 141-149). Essa rammenta che può esservi violazione dell'articolo 14 solo in caso di carenze generalizzate derivanti dal fatto che le autorità nazionali chiaramente e sistematicamente omettano di valutare la gravità, la portata e l'effetto discriminatorio sulle donne del problema della violenza domestica.
  9. Di conseguenza, la Corte conclude che le carenze denunciate nella presente causa, che sono derivate da una passività da parte delle autorità, pur essendo certamente sebbene riprovevoli e contrarie all'articolo 3 della Convenzione (si vedano i paragrafi 130² 149-150 supra), non possono essere considerate di per sé indicative di un atteggiamento discriminatorio da parte delle autorità (paragrafo 157 g) supra).
  10. Tenuto conto di tutti gli elementi di cui dispone, e nella misura in cui è competente per esaminare le accuse formulate, la Corte non rileva alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli. Di conseguenza, questa doglianza è manifestamente infondata e deve essere respinta, in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
  1. SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
  1. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione:

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

  1. Danno
  1. La ricorrente chiede una somma per danno morale, ma senza precisarne l’importo.
  2. Il Governo non formula alcuna osservazione specifica a questo proposito.
  3. La Corte rammenta che, poiché il danno morale non si presta, per definizione, a un calcolo preciso, essa ha già accettato, dimostrando una certa flessibilità, di esaminare delle richieste delle quali i ricorrenti non avevano quantificato l'importo, lasciando che la Corte si occupasse di determinarlo (Carter c. Russia, n. 20914/07, § 179, 21 settembre 2021, Volodina, sopra citata, § 72, C.L. e A.N. c. Regno Unito, nn. 77587/12 e 74603/12, §§ 218-219, 16 febbraio 2021, e Nagmetov c. Russia [GC], n. 35589/08, § 72, 30 marzo 2017).
  4. La Corte constata che la presente causa fa emergere circostanze eccezionali che richiedono che sia riconosciuta una somma per danno morale a titolo di equa soddisfazione, anche in assenza di una «domanda» debitamente formulata. Deliberando in via equitativa, e tenuto conto dell’angoscia e della sofferenza che la ricorrente deve aver provato in ragione delle violenze domestiche subite e del mancato rispetto, da parte delle autorità, del loro obbligo positivo di condurre un’indagine effettiva, la Corte accorda all’interessata la somma di 10.000 EUR per danno morale.
  1. Spese
  1. La ricorrente non chiede alcuna somma per le spese, ad eccezione dell’importo di 18,95 EUR per le spese postali da lei sostenute.
  2. Il Governo non si pronuncia su questo punto.
  3. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, la Corte accorda alla ricorrente la somma di 18,95 EUR per le spese sostenute.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Respinge la dichiarazione unilaterale del Governo;
  2. Dichiara la doglianza relativa all’articolo 3 ricevibile e il resto del ricorso irricevibile;
  3. Dichiara che vi è stata violazione del profilo materiale dell’articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda il periodo compreso tra il 19 gennaio 2007 e il 21 ottobre 2008;
  4. Dichiara che non vi è stata violazione del profilo materiale dell’articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda il periodo successivo;
  5. Dichiara che vi è stata violazione del profilo procedurale dell’articolo 3 della Convenzione;
  6. Dichiara non doversi esaminare le doglianze formulate sotto il profilo degli articoli 8 e 13 della Convenzione;
  7. Dichiara,
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le somme seguenti:
      1. 000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma, per danno morale;
      2. 18,95 EUR (diciotto euro e novantacinque centesimi), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente su tale somma a titolo di imposta, per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  8. Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, e poi comunicata per iscritto il 7 luglio 2022, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Renata Degener
Cancelliere

Marko Bošnjak
Presidente