Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 17 giugno 2021 - Ricorso n. 55093/13 - Causa Miniscalco c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita e rivista da Rita Carnevali, assistente linguistico e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA MINISCALCO c. ITALIA

(Ricorso n. 55093/13)

SENTENZA

Art 3 P1  - Divieto di candidarsi alle elezioni regionali, determinato dalla condanna penale definitiva per abuso d’ufficio - Misura prevedibile e proporzionata allo scopo legittimo di contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata all’interno dell’amministrazione

Art 7 - Applicabilità - Misura non assimilata a una sanzione penale - Misura che non ha comportato la perdita del diritto di elettorato «attivo» - Procedimenti in contraddittorio associati all’adozione e all’esecuzione della misura

STRASBURGO
17 giugno 2021

DEFINITIVA
17/09/2021

 

Questa sentenza è divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Miniscalco c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:

  • Ksenija Turković, presidente,
  • Alena Poláčková,
  • Péter Paczolay,
  • Gilberto Felici,
  • Erik Wennerström,
  • Raffaele Sabato,
  • Lorraine Schembri Orland, giudici,
  • e da Renata Degener, cancelliere di sezione,

Visti:

il ricorso (n. 55093/13) proposto contro la Repubblica italiana da un cittadino di questo Stato, il sig. Marcello Miniscalco («il ricorrente»), che, il 2 agosto 2013, ha adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),

l’astensione del giudice G. Raimondi, eletto per l’Italia, (articolo 28 del regolamento della Corte),
la nomina, da parte dell’ex presidente della camera, del giudice I. Caracciolo per partecipare alla seduta in qualità di giudice ad hoc (articolo 29 del regolamento),
la decisione di portare il ricorso a conoscenza del governo italiano («il Governo»),
le osservazioni delle parti,
l’astensione del giudice Caracciolo (articolo 29 del regolamento della Corte),
la sostituzione di quest’ultima con il giudice R. Sabato, eletto per l’Italia (articolo 26 § 4 della Convenzione),
Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 18 maggio 2021,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

INTRODUZIONE

  1. La presente causa riguarda il divieto di candidarsi alle elezioni regionali imposto al ricorrente a seguito della sua condanna definitiva per il reato di abuso d’ufficio. Essa verte su doglianze che fanno riferimento agli articoli 7 della Convenzione e 3 del Protocollo n. 1.

IN FATTO

  1. Il ricorrente è nato nel 1965 e risiede a Rocchetta a Volturno. È stato rappresentato dagli avvocati Guzzetta, U. Corea e F.S. Marini, del foro di Roma.
  2. Il Governo è stato rappresentato dal suo ex agente, E. Spatafora.

 

  1. La LEGGE ANTICORRUZIONE

 

  1. Il 28 novembre 2012 entrò in vigore la legge anticorruzione (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione – «la legge n. 190/2012»). L’articolo 1, comma 1, di questa legge prevede, in particolare, in applicazione dell'articolo 6 della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata a New York il 31 ottobre 2003 (ratificata dall’Italia nell’ottobre 2009), e degli articoli 20 e 21 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, adottata a Strasburgo il 27 gennaio 1999 (ratificata dall’Italia nel giugno 2013), l’istituzione di un’Autorità nazionale anticorruzione e di un piano d’azione nazionale per «controllare, prevenire e contrastare la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione». Come precisato nella relazione di presentazione al Parlamento del progetto che divenne poi la legge n. 190/2012, l’introduzione di un piano nazionale di contrasto alla corruzione era divenuta un’esigenza tenuto conto, da una parte, delle conclusioni della valutazione effettuata nel 2008 e nel 2009 dal Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) e, dall’altra, della constatazione secondo la quale la maggior parte degli Stati europei aveva già un piano di questo tipo.
  2. Il comma 63 dell’articolo 1 della legge n. 190/2012 delegava al governo il potere di adottare, entro un anno, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità, tra altre, alle elezioni regionali, provinciali e circoscrizionali. Il comma 64 fissava il quadro rigoroso dei criteri da applicare.

 

  1. IL DECRETO LEGISLATIVO N. 235 DEL 31 DICEMBRE 2012

 

  1. Nei limiti del suo potere delegato, il 6 dicembre 2012, il governo adottò il decreto legislativo n. 235 («il decreto legislativo n. 235/2012»), entrato in vigore il 5 gennaio 2013.
  2. Ai sensi dell’articolo 7, comma 1, lettera c), non possono essere candidati alle elezioni regionali coloro che hanno riportato una condanna definitiva per diversi reati, tra cui l’abuso d’ufficio (articolo 323 del codice penale).
  3. Secondo l’articolo 9, in occasione della presentazione delle liste, i candidati devono rendere, in particolare, una dichiarazione attestante l’insussistenza delle cause di incandidabilità di cui all’articolo 7. Gli uffici preposti all’esame delle liste dei candidati cancellano dalle liste stesse i nomi di coloro che non hanno reso la dichiarazione o per i quali è stata accertata la sussistenza di una condizione di incandidabilità.

 

  1. I PROCEDIMENTI AVVIATI DAL RICORRENTE

 

  1. Il 27 gennaio 2013, l’Ufficio Centrale Regionale («l’UCR»), costituito presso la corte d’appello di Campobasso in vista delle elezioni regionali del 24 e 25 febbraio 2013, esaminò la lista di candidati nella quale era inserito il nome del ricorrente. L’UCR constatò che, a differenza di quelle degli altri candidati, la dichiarazione del ricorrente attestante l’assenza di cause di incandidabilità alle elezioni non era veritiera. Dal certificato del casellario giudiziale risultava che l’interessato aveva riportato tre condanne per abuso di ufficio: le prime due erano state pronunciate nell’ambito di due procedimenti semplificati (patteggiamento) ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale («CPP»), e la terza, divenuta definitiva il 19 dicembre 2011, era relativa a un procedimento con rito ordinario. Peraltro, il ricorrente aveva dapprima richiesto il beneficio della riabilitazione, e poi vi aveva rinunciato.
  2. L’UCR cancellò il nome del ricorrente dalla lista in quanto la condanna in questione era una delle condizioni di incandidabilità previste dall’articolo 7 del decreto legislativo n. 235/2012.
  3. L’UCR si espresse come segue: «(...) questo ufficio ritiene che il decreto legislativo [di cui si tratta] sia di immediata applicabilità non soltanto con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore, ma anche a quelle precedenti, come dimostra pure il disposto del già richiamato art. 16, comma 1, il quale esclude la candidabilità per le sole sentenze ex art. 444 c.p.p. pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo».
  4. Il 28 gennaio 2013, contestando la retroattività dell'articolo 7, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 235/2012, il ricorrente adì l’UCR per denunciare il carattere penale di una norma retroattiva e la mancata previsione di un limite temporale all'incandidabilità, contrariamente a quanto previsto dallo stesso testo per le elezioni dei membri del parlamento nazionale e del parlamento europeo. Sottolineando di aver rinunciato a presentare domanda di riabilitazione «in quanto il decreto legislativo non era ancora in vigore», chiese di essere reinserito nella lista e, in subordine, di esservi inserito con riserva in attesa del decreto di riabilitazione che avrebbe nuovamente richiesto.
  5. Il 28 gennaio 2013 una diversa composizione dell’UCR respinse la domanda di riesame della sua decisione del 27 gennaio. L’UCR ritenne che il decreto legislativo n. 235/2012 non fosse di natura penale e che il legislatore rimanesse libero di dettare regole diverse per le elezioni dei membri del Parlamento e di prevedere, in particolare, un termine massimo di durata dell’incandidabilità per le cariche elettive.
  6. L’UCR rilevava anche che il certificato del casellario giudiziale del ricorrente menzionava otto condanne, tra cui quella per abuso d’ufficio che, giustamente, aveva comportato la cancellazione del suo nome dalla lista dei candidati.
  7. Il 29 gennaio 2013, ribadendo gli stessi argomenti e basandosi sull'articolo 7 della Convenzione, il ricorrente adì il tribunale amministrativo regionale della regione Molise («il TAR»).
  8. Con sentenza del 1° febbraio, il TAR respinse il ricorso in quanto, come correttamente affermato dall’UCR, il decreto legislativo in questione non era di natura penale, ma si trattava piuttosto di una «norma extra penale che fa discendere un effetto amministrativo dal presupposto di una condanna». Poiché l'interpretazione del decreto legislativo era conforme alle sue disposizioni, i diritti elettorali dell'interessato non erano stati in alcun modo violati.
  9. Il 2 febbraio 2013 il ricorrente si rivolse al Consiglio di Stato che, il 6 febbraio, confermò la sentenza impugnata. Secondo questo organo giurisdizionale, l'applicazione immediata dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 235/2012 non si poneva in contrasto con il dedotto principio, ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della CEDU, della irretroattività delle norme penali. Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale relativa all’analoga fattispecie delle cause di incandidabilità previste, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, dalla legge n. 16 del 18 gennaio 1992, il Consiglio di Stato precisò che la misura in questione non aveva natura di sanzione penale né di sanzione amministrativa. Lo scopo perseguito dalla disposizione del decreto legislativo «era quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità fosse conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia». La condanna penale definitiva costituiva, quindi, un requisito negativo» o una «qualificazione negativa» ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica. Secondo il Consiglio di Stato, l'applicazione del decreto legislativo controverso ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore costituiva «l'applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l'applicazione della legge sostanziale vigente al momento dell'esercizio del potere amministrativo».
  10. Quanto all'assenza di un limite temporale per l’incandidabilità, analogo a quello previsto per le elezioni al Parlamento, la giurisdizione lo considerò «ragionevole posto che la diversità delle elezioni e delle cariche elettive non consente di sindacare l’apprezzamento discrezionale operato dal legislatore nel quadro di una disciplina complessivamente eterogenea, anche sul piano sostanziale, delle fattispecie de quibus.»
  11. Nel 2017, dopo aver ottenuto la riabilitazione, il ricorrente ha potuto nuovamente candidarsi alle elezioni regionali.

IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

  1. LE DISPOSIZIONI DELLA COSTITUZIONE

 

  1. Le disposizioni pertinenti della Costituzione sono così formulate:

Articolo 2

«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.»

Articolo 4

«(...)

  1. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.»

Articolo 25

«(...)

  1. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
    vigore prima del fatto commesso.

(...)»

Articolo 51

«Tutti i cittadini (…) possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge (...)».

Articolo 54

«(...)

I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore (…)».

Articolo 97

«(...)

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

(...)»

Articolo 117

(articolo modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001)

«La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull’istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a:

  • rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
  • commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro;
  • istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni;
  • ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
  • tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;
  • casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

(...).»

Articolo 122

«Il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi.»

 

  1. La legge N. 190 del 6 novembre 2012 (DISPOSIZIONI PER LA PREVENZIONE E LA REPRESSIONE DELLA CORRUZIONE E DELL’ILLEGALITà NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE)

 

  1. L’articolo 1, comma 1, della legge n. 190/2012 prevede, in particolare, l’istituzione di una Autorità nazionale anticorruzione e un piano d’azione nazionale per «controllare, prevenire e contrastare la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione».
  2. Il comma 63 dello stesso articolo definisce i principi e i criteri fondamentali del decreto legislativo che il governo doveva adottare allo scopo di riunire in un testo unico le disposizioni relative all’incandidabilità, tra l’altro, alle elezioni regionali.

Secondo il comma 64,

«Il decreto legislativo di cui al comma 63 provvede al riordino e all’armonizzazione della vigente normativa ed è adottato secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

(...)

  1. i) individuare (…) le ipotesi di incandidabilità alle elezioni regionali (…) conseguenti a sentenze definitive di condanna;

(...).»

  1. Secondo la sua relazione illustrativa, l’obiettivo della legge era la prevenzione e la repressione del fenomeno della corruzione mediante un approccio multidisciplinare nell’ambito del quale le sanzioni costituiscono soltanto una parte degli elementi della lotta alla corruzione e all’illegalità nell’azione dell’amministrazione. Alla base della legge vi sono le esigenze di trasparenza e di controllo da parte dei cittadini, e di adeguamento del sistema giuridico italiano con le norme internazionali. La relazione precisava, inoltre, che la corruzione minava la credibilità del paese e scoraggiava gli investimenti, anche stranieri, rallentando così lo sviluppo economico.

 

  1. IL DECRETO LEGISLATIVO N. 235 DEL 31 DICEMBRE 2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)

 

  1. Adottato il 6 dicembre 2012, il decreto legislativo n. 235 entrò in vigore il 5 gennaio 2013. Ai sensi del suo articolo 7,

«Non possono essere candidati alle elezioni regionali:

(...)

  1. c) coloro che hanno riportato condanna definitiva per [in particolare il delitto di abuso di ufficio ai sensi dell’articolo] 323 (…) del codice penale;

(...).»

  1. Ai sensi dell’articolo 9,

«1. In occasione della presentazione delle liste dei candidati per le elezioni del presidente della regione e dei consiglieri regionali (...), ciascun candidato rende, unitamente alla dichiarazione di accettazione della candidatura, una dichiarazione sostitutiva (...) attestante l'insussistenza delle cause di incandidabilità di cui all'articolo 7.

  1. Gli uffici preposti all'esame delle liste dei candidati (…) cancellano dalle liste stesse i nomi dei candidati (…) per i quali venga comunque accertata, dagli atti o documenti in possesso dell'ufficio, la sussistenza di alcuna delle predette condizioni di incandidabilità.»
  1.  Secondo l’articolo 15,

«(...)

La sentenza di riabilitazione (...) è l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità (...).»

  1. L’articolo 16 prevede che l’incandidabilità si applica alle sentenze di cui all’articolo 444 CPP [che disciplina il procedimento semplificato del «patteggiamento»] pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore del presente testo unico.»
  2. Per quanto riguarda la scelta della condanna che giustifica il divieto di candidarsi, la relazione illustrativa indica che:

«(...) la presenza di condanne per determinati reati di indubbio significato ed afferenti ad un ampio ventaglio di beni giuridici offesi, specificatamente e tassativamente individuati e tipizzati per evitare incertezze e indirizzi contraddittori che finirebbero per vulnerare la sfera protetta dall'art. 51 Cost., è stata assunta, sulla base di un apprezzamento astratto, quale requisito ostativo per ricoprire un ufficio o carica pubblica elettiva, determinandosi un effetto impeditivo automatico per l'accesso, senza che sia richiesta una ponderazione dei singoli casi o una qualsivoglia valutazione discrezionale. In proposito, la stessa Corte di Cassazione (sez. I, n. 3904 del 2005) ha ritenuto, infatti, che le condanne per reati ostativi configurino uno status di inidoneità funzionale assoluta e non rimovibile da parte dell'interessato volto a tutelare «il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi» (si vedano anche Corte Costituzionale, sentenze nn. 407 del 1992, 197 del 1993 e 118 del 1994).»

  1. IL CODICE PENALE

 

  1. Secondo l’articolo 28 del codice penale, l’interdizione dai pubblici uffici può essere perpetua o temporanea.

In caso di interdizione perpetua, il condannato è privato a vita del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico, dell’ufficio di tutore, dei titoli accademici e degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato. L’interdizione temporanea comporta la perdita degli stessi diritti ma non può avere una durata inferiore a un anno né superiore a cinque.

  1.  Ai sensi dell’articolo 323, come modificato dalla legge n.190/2012,

«Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (…) intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. (...)»

  1. LA POSIZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL DECRETO LEGISLATIVO N. 235/2012

 

  1. La sentenza n. 236 del 20 ottobre 2015

 

  1. In questa sentenza, la Corte costituzionale ha esaminato e dichiarato non fondata la questione della legittimità costituzionale, dell’articolo 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 235/2012, in relazione all’articolo 10, comma 1, lettera c) del medesimo decreto legislativo, sollevata dal TAR della Campania, nell’ottobre 2014, in riferimento agli articoli 2, 4, comma 2, 51, comma 1, e 97, comma 2, della Costituzione, (paragrafo 20 supra).
  2. La questione era stata sollevata dal sig. L.D.M. nel contesto della decisione del prefetto di Napoli di sospenderlo dalla carica di sindaco per effetto della sua condanna (alla pena di un anno e tre mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per un anno) inflitta dal tribunale di Napoli nel settembre 2014, per abuso d’ufficio. L’interessato contestava l’applicazione retroattiva del suddetto articolo 11 (che comportava la sospensione dalla carica e la decadenza degli amministratori locali in situazione d’incandidabilità), poiché la sua elezione era avvenuta nel 2011.
  3. Secondo il TAR, in sostanza, «i dubbi di legittimità costituzionale dell’articolo 11 per violazione del divieto di retroattività, «ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti: il primo è la natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione, il secondo l’efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva». Pertanto, la questione concerneva la sussistenza «di un eccessivo sbilanciamento a favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto ad altri interessi costituzionali: diritto di elettorato passivo (articolo 51 Cost.), da ritenersi inviolabile ai sensi dell’articolo 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’articolo 97, comma 2, [della Costituzione], ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’articolo 4, comma 2, [della Costituzione]».
  4. Quanto al primo presupposto sopra menzionato, la Corte costituzionale ha richiamato la sua giurisprudenza relativa alle leggi che disciplinavano la materia prima dell’entrata in vigore del decreto n. 235/2012 (sentenze nn. 184/1994, 118/1994, 295/1994, 206/2009, 132/2001 e 25/2002), giurisprudenza secondo la quale l’incandidabilità, la decadenza e la sospensione dalla carica non hanno carattere sanzionatorio.
  5. La Corte costituzionale, in particolare, ha dichiarato quanto segue:

«(...) tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento (...)».

  1. Facendo riferimento alla sua sentenza n. 118/1994, la Corte costituzionale ha precisato di aver dichiarato infondata una questione dello stesso tipo sollevata dal TAR in merito all’articolo 15 della legge n. 55 del 19 marzo 1990 (recante nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso), che prevedeva la decadenza automatica da una serie di cariche elettive conseguente a sentenza di condanna passata in giudicato per determinati reati, anche se le elezioni si erano svolte prima dell’entrata in vigore della legge medesima. La Corte costituzionale si è pronunciata come segue:

«(...) la condanna penale irrevocabile è stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di «indegnità morale» a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale «requisito negativo» ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime.»

  1. La Corte costituzionale ha dichiarato che, in definitiva, la sospensione non era una sanzione, rispondeva ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui l’interessato prestava servizio (sentenza n. 206/1999), e costituiva indubbiamente una misura cautelare (sentenza n. 25/2002).
  2. Per quanto riguarda la retroattività, la Corte costituzionale ha indicato di essersi già espressa in merito a disposizioni dello stesso tipo di quella in questione, e ha dichiarato quanto segue:

«(...) il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal legislatore non si appalesa irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di «inquinamento» o, quanto meno, di perdita dell’immagine degli apparati pubblici, che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, (…) e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo (sentenza n. 352 del 2008; si vedano anche le sentenze n. 118 del 2013, n. 257 del 2010, n. 25 del 2002, n. 206 del 1999, n. 141 del 1996)

(...)

Di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, infatti, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa, contro la pubblica amministrazione) susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un inquinamento dell’amministrazione e per garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera» (sentenza n. 206 del 1999).

L’applicazione immediata delle cause ostative ai mandati in corso non rappresenta affatto una novità del d.lgs. n. 235 del 2012, ma ha sempre caratterizzato le precedenti norme (sopra citate) che apprestavano strumenti di tutela degli interessi protetti dall’art. 97, secondo comma, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., a fronte del pregiudizio che deriva alle istituzioni pubbliche dal coinvolgimento degli eletti in vicende penali.

Come questa Corte ha già rilevato in relazione alla normativa di cui all’art. 1 della legge n. 16 [del 18 gennaio] 1992 [recante norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali], «non appare, invero, affatto irragionevole che [la legge] operi con effetto immediato anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore certamente non irrazionale l’aver attribuito all’elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere (…) l’incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore» (sentenza n. 118 del 1994).

Così come la condanna irrevocabile può giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si deve concludere che la scelta operata dal legislatore (…) non ha superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco.»

  1. La sentenza n. 276 del 5 ottobre 2016

 

  1. In questa sentenza, la Corte costituzionale ha nuovamente esaminato la compatibilità delle disposizioni del decreto legislativo in questione con la Costituzione. Nei punti 5.2 - 5.7 della sua decisione, afferma quanto segue in merito alla sospensione dalle loro funzioni di un governatore regionale, di un consigliere regionale e di un consigliere comunale:

«5.2. Nel merito, le restanti questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di appello di Bari e dal Tribunale ordinario di Napoli in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., non sono fondate.

L’art. 25, secondo comma, Cost. riferisce il principio di stretta legalità soltanto alla pena, disponendo che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

Anche con riguardo alle misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto questa Corte ha affermato che sussiste «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), e ha inoltre precisato come la necessità «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967).

Da ultimo, ha affermato che il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto è «desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale ‒ data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito...») ‒ può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile ‒ in senso stretto ‒ a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sentenza n. 196 del 2010; nello stesso senso anche la successiva pronuncia n. 104 del 2014).

Nondimeno, il principio di irretroattività valido per le pene e per le misure amministrative di carattere punitivo-afflittivo non è predicabile nei confronti delle disposizioni censurate, per la natura non punitiva di quanto in esse previsto.

Prendendo in esame le stesse previsioni del d.lgs. n. 235 del 2012, questa Corte ha escluso che «le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione abbiano carattere sanzionatorio», rappresentando esse solo «conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate». La sospensione dalla carica, in particolare, «risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» e, trattandosi di sospensione, costituisce «misura sicuramente cautelare» (sentenza n. 236 del 2015, la quale si colloca nel solco tracciato dalle precedenti sentenze n. 25 del 2002, n. 206 del 1999 e n. 295 del 1994).

5.3. (...)

(...) i rimettenti si limitano a considerare che, sebbene la sospensione dalla carica costituisca un effetto di natura amministrativa della condanna penale, si tratterebbe comunque di un effetto afflittivo conseguente a condanna pronunciata per un reato consumato in data antecedente a quella dell’entrata in vigore.

Tale motivazione ‒ povera di argomenti di supporto e di richiami alla giurisprudenza della Corte EDU ‒ è appena sufficiente a superare la soglia minima dell’ammissibilità e lo è solo perché essa individua, sia pure in modo implicito, nel ritenuto carattere di «afflittività» della misura uno dei criteri identificativi della nozione di «pena» in senso convenzionale, coniati dalla Corte di Strasburgo.

5.4. Questa Corte è dunque chiamata a verificare se la sospensione dalle cariche elettive locali prevista dalla disposizione censurata sia compatibile con il principio di irretroattività delle sanzioni di cui all’art. 7 CEDU, la cui applicabilità presuppone l’utilizzo di autonomi criteri elaborati dalla giurisprudenza europea per definire la nozione di pena.

Nella sua ormai quarantennale giurisprudenza in tema, la Corte di Strasburgo ha individuato tre figure sintomatiche della natura penale di una sanzione (i cosiddetti criteri «Engel»): la qualificazione dell’illecito operata dal diritto nazionale; la natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente; la sua severità, ovvero la gravità del sacrificio imposto (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, serie A n. 22 (...)).

Come ribadito da ultimo nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, questi criteri sono «alternativi e non cumulativi», ma ciò non impedisce di adottare un «approccio cumulativo se l’analisi separata di ciascun criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti))» (§ 94).

5.5. (...)

Spetta nondimeno a questa Corte (…) apprezzare la giurisprudenza europea formatasi sulla norma conferente, «in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011; da ultimo, sentenza n. 193 del 2016).

Con particolare riferimento al diritto di elettorato passivo e alla protezione riconosciuta ad esso dalla Convenzione, gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento, che tiene conto, tra l’altro, delle peculiarità storiche, politiche e culturali di ciascun ordinamento. La Corte europea ha precisato che, per quanto concerne il diritto di candidarsi alle elezioni, e cioè il versante «passivo» dei diritti garantiti dall’articolo 3 del Protocollo n. 1, la valutazione delle sue restrizioni deve essere ancora più prudente di quanto non debba essere l’esame delle restrizioni al diritto di voto, vale a dire l’elemento «attivo» degli stessi diritti. Ciò in quanto il diritto di presentarsi alle elezioni deve poter essere circondato nella sua disciplina ad opera del legislatore nazionale da cautele ancora più rigorose rispetto a quelle predisposte nella disciplina del diritto di voto (Hirst c. Regno Unito (n. 2) [GC], n. 74025/01, § 57-62, CEDU 2005 IX; Ždanoka c. Lettonia [GC], n. 58278/00, § 115, CEDU 2006 IV).

5.6. In assenza di precedenti specifici della Corte EDU relativi a normative che, come quella censurata e con modalità simili a quelle in essa previste, facciano derivare da condanne penali la perdita dei requisiti di candidabilità e di mantenimento della carica, per valutare la compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost. della normativa oggetto del presente giudizio occorre fare applicazione dei citati criteri di qualificazione della misura da essa disposta come sanzione penale ai sensi della Convenzione stessa.

5.6.1. Escluso, per le ragioni esposte sopra (§ 5.2.), che la sospensione di diritto dalla carica abbia natura penale nel diritto interno, è necessario verificare se ricorrano gli altri due criteri concorrenti, attinenti rispettivamente alla sostanza punitiva della misura e alla gravità del sacrificio imposto.

La natura punitiva della misura si desume, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, da un complesso di elementi, tra i quali principalmente il tipo di condotta sanzionata, il nesso fra la misura inflitta e l’accertamento di un reato, la presenza di beni e interessi tradizionalmente affidati alla sfera penale, il procedimento con il quale la misura è adottata.

Scopo della misura della sospensione dalla carica prevista dal d.lgs. n. 235 del 2012 è, nelle intenzioni del legislatore (…) esclusivamente quello di tutelare la pubblica funzione in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato. Si tratta di una misura tipicamente interinale, di mera anticipazione dell’effetto interdittivo derivante dal giudicato, anch’esso parimenti non diretto a finalità punitive. Tale effetto trova il suo fondamento nella valutazione, compiuta dal legislatore, delle condizioni che sconsigliano provvisoriamente la permanenza dell’eletto in una determinata carica pubblica, al fine di sottrarre l’ufficio a dubbi sulla onorabilità di chi lo riveste che potrebbero metterne in discussione il prestigio e pregiudicarne il buon andamento.

Nella giurisprudenza della Corte EDU si rinvengono decisioni che hanno collocato al di fuori della sfera penale talune restrizioni del diritto di elettorato passivo, per quanto collegate alla commissione di un illecito, in ragione della loro finalità principale di proteggere l’integrità di una pubblica istituzione (Paksas c. Lituania [GC], n. 34932/04, CEDU 2011; Ādamsons c. Lettonia, n. 3669/03, § 114, 24 giugno 2008; Ždanoka c. Lettonia [GC], n. 58278/00, §§ 122, 130, 133, CEDU 2006-IV).). Più precisamente la Corte di Strasburgo ha escluso la natura penale della misura dell’incandidabilità, quando sia diretta ad assicurare un corretto svolgimento delle elezioni parlamentari. E ciò anche se una misura dello stesso contenuto – l’esclusione dalla candidabilità – sia prevista dalla legge penale come sanzione «ancillare» o «aggiuntiva» a una sanzione penale principale, giacché in questo secondo caso, a differenza del primo, essa deriva la sua natura penale dalla sanzione «principale» alla quale accede (Pierre-Bloch c. Francia, 21 ottobre 1997, § 56, Recueil des arrêts et décisions 1997-VI).

(...)

La stessa mancanza di discrezionalità in capo all’autorità amministrativa chiamata ad accertare l’intervenuta causa di sospensione, la quale consegue automaticamente alla sentenza penale di condanna, senza che sia necessaria una deliberazione diretta a graduare la misura calibrandola sulle specifiche caratteristiche del caso concreto, costituisce un indice ulteriore del fatto che l’incapacità giuridica temporanea di cui si discute non consegue a un giudizio di riprovazione personale, ma è semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la funzione di cui si tratta.

La sentenza Welch c. Regno Unito del 1995 ‒ in cui si legge che «il punto di partenza per ogni valutazione sulla sussistenza di una pena consiste nel determinare se la misura in questione è imposta a seguito [«following» nella versione inglese e «à la suite» nella versione francese] di una condanna per un illecito penale» (§ 28) ‒ non si attaglia alla fattispecie normativa qui in esame.

In primo luogo, il collegamento fra la prevista sospensione e l’accertamento penale (non definitivo) non attesta una funzione repressiva della prima, come si evince, non solo dalla strutturale provvisorietà della misura, ma soprattutto dal fatto che sia la sua applicazione che la sua durata prescindono dalla pena irrogata in concreto dal giudice. Essa inoltre produce i suoi effetti indipendentemente dalla limitazione del diritto di elettorato passivo derivante dall’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

In secondo luogo, mentre nel caso Welch la confisca collegata al reato di traffico di stupefacenti era chiaramente diretta a neutralizzare gli effetti della condotta illecita sanzionata, nel nostro caso il fatto di reato accertato può non avere alcuna incidenza (nemmeno temporale) sull’esercizio del mandato, e la sospensione costituisce, non uno sviluppo «interno» di quanto statuito nella condanna, ma solo l’oggettivo presupposto perché si produca un effetto ulteriore e distinto, destinato a operare in modo autonomo ed «esterno» rispetto all’azione pubblica di repressione penale.

5.6.2. Esclusa la natura punitiva e in questo senso «penale» della sospensione, occorre passare al terzo indice, riguardante la gravità delle conseguenze sfavorevoli per colui che ne è colpito. La Corte di Strasburgo ha chiarito che per valutare tale gravità si deve fare riferimento al massimo edittale e non alla misura effettivamente irrogata nei confronti di chi instaura il giudizio avverso lo Stato (Hirst c. Regno Unito (n. 2), n. 74025/01, 30 marzo 2004; Grande Stevens e altri c. Italia, nn. 18640/10 e altri 4, 4 marzo 2014; Weber c. Svizzera, 22 maggio 1990, § 34, serie A n. 177). Il rigore di una misura punitiva dipende inoltre dalla sua capacità di incidere sulla posizione del destinatario: ciò che rileva, cioè, è la dimensione soggettiva e non quella oggettiva della pretesa punitiva (Ziliberberg c. Moldavia, n. 61821/00, § 34, 1° febbraio 2005).

La sospensione dalla carica prevista nella disposizione all’esame di questa Corte è limitata a diciotto mesi, decorsi i quali la sospensione stessa viene meno. La circostanza che, nonostante la delicatezza dell’interesse pubblico tutelato, la misura intacchi solo una porzione circoscritta del mandato elettivo depone nel senso di una sua limitata severità, sia in termini oggettivi di durata, sia in termini soggettivi di detrimento della reputazione. Che il grado di gravità della misura non sia idoneo a ricondurla nell’ambito di ciò che a tali fini va considerato come «penale» è confermato dal precedente Pierre-Bloch, in cui l’ineleggibilità per un anno – comminata a seguito della violazione di norme sui limiti di spesa della campagna elettorale – è stata ritenuta, anche per la sua durata, non assimilabile a una sanzione di carattere penale. Il periodo massimo di sospensione previsto dalla norma censurata è accostabile per ordine di grandezza a quello considerato nella sentenza Pierre-Bloch, sicché anche sotto tale profilo i riferimenti alla giurisprudenza di Strasburgo non conducono a riconoscere alla misura in esame natura «penale» convenzionale.

In definitiva è assente, nella sospensione dalla carica qui in esame, quel connotato di «speciale» gravità, necessario perché la misura che non presenta finalità deterrente e punitiva possa essere assimilata, sul piano della sua afflittività, a una sanzione penale o a una sanzione amministrativa.

5.7. In conclusione, dal quadro delle garanzie apprestate dalla CEDU come interpretate dalla Corte di Strasburgo non è ricavabile un vincolo ad assoggettare una misura amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di retroattività della legge penale. Mentre è compatibile con quel quadro la soluzione adottata dal legislatore italiano con la finalità di evitare «che la permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione [possa] comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore» (sentenza n. 236 del 2015).»

  1. Questo approccio è stato anche confermato nella sentenza n. 35 del 9 febbraio 2021 relativa alla sospensione dalle funzioni di un consigliere regionale a causa della sua condanna in primo grado.
  1. IL GRUPPO DI STATI CONTRO LA CORRUZIONE

 

  1. Per quanto riguarda in generale la lotta alla corruzione, nell’Addendum al Rapporto di conformità sull’Italia relativo al primo e al secondo ciclo di valutazione congiunti (2008 e 2009 rispettivamente) pubblicato il 1° luglio 2013 (Greco RC-I/II (2011)1F), il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) ha formulato in particolare le seguenti conclusioni per quanto riguarda la lotta alla corruzione:

«(...)

  1. Va riconosciuto all’Italia il merito di avere adottato delle disposizioni al fine di chiarire la propria politica di lotta alla corruzione; l'adozione, nel novembre 2012, di una nuova legge-quadro anticorruzione costituisce un segnale chiaro in questa direzione. Inoltre, l'Italia ha ormai ratificato la Convenzione penale sulla corruzione (STE n. 173) nonché la Convenzione civile sulla corruzione (STE n. 174). Sono state introdotte varie misure per aumentare la trasparenza e il controllo all'interno della pubblica amministrazione e circoscrivere meglio questioni preoccupanti per il pubblico, tra le quali la regolamentazione delle gare e degli appalti pubblici, i conflitti di interessi, l'integrità e la deontologia nella funzione pubblica, la responsabilità dei dirigenti e la tutela degli informatori. Parimenti, è stato realizzato un quadro istituzionale per adottare, attuare, controllare e valutare le politiche anticorruzione. La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità della pubblica amministrazione [divenuta successivamente l’ANAC] è stata designata in qualità di autorità nazionale per la lotta alla corruzione allo scopo di adempiere agli obblighi derivanti dall'articolo 6 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, nonché dagli articoli 20 e 21 dello STE n. 173; alle amministrazioni a livello nazionale e locale sono stati affidati compiti fondamentali in materia di elaborazione di piani contro la corruzione e per l'integrità nei loro rispettivi settori di attività. Il tempo e l'esperienza diranno se il nuovo dispositivo risponda efficacemente agli obiettivi di prevenire e scoraggiare la corruzione. Sarà fondamentale far sì che per tutte le nuove disposizioni legislative siano previsti meccanismi di applicazione efficaci, compresi consigli orientativi rivolti a coloro che devono conformarsi alla legge e sanzioni adeguate in caso di abuso. Questo richiede un impegno politico costante (...)»
  1. Il 29 marzo 2021, il GRECO ha pubblicato il Secondo rapporto di conformità per l’Italia (Greco RC4 (2021) 4) relativo al Quarto ciclo di valutazione («Prevenzione della corruzione dei parlamentari, dei giudici e dei procuratori») adottato in occasione della sua 87a Riunione Plenaria. Nella sua valutazione delle misure adottate dalle autorità italiane per attuare le raccomandazioni formulate nel Rapporto del quarto ciclo di valutazione reso pubblico l’11 gennaio 2017 (Greco Eval4rep (2016/2), il GRECO ha sottolineato, tra l’altro, che entrambe le camere del Parlamento «devono ancora procedere alla formalizzazione dei rispettivi Codici di condotta» e che «sarebbe necessaria un'azione più risoluta per dare seguito a tutte le raccomandazioni formulate in relazione ai parlamentari.»

IN DIRITTO

  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE

 

  1. Il ricorrente lamenta che il suo nome sia stato rimosso dalla lista dei candidati alle elezioni regionali del 2013 sulla base dell’applicazione, secondo lui retroattiva, del decreto legislativo n. 235/2012, e invoca l’articolo 7 della Convenzione, così formulato:

«1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.»

Sulla ricevibilità

  1. Le tesi delle parti
     
    1. Il Governo

 

  1. Il Governo sottolinea che la Corte costituzionale ha esaminato in numerose sentenze la questione della natura della ineleggibilità e della decadenza dal mandato elettorale in riferimento alle leggi anteriori al decreto legislativo n. 235/2012.

Intervenendo nuovamente in materia, nella sentenza n. 236/2015 l’Alta Giurisdizione si è pronunciata specificamente sul decreto legislativo n. 235/2012 in merito alla sospensione del sindaco di Napoli dalle sue funzioni a seguito di una condanna non definitiva per abuso d’ufficio. L'Alta Giurisdizione ha confermato in tale sentenza le sue argomentazioni secondo le quali le misure di questo tipo «non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento». Non si tratterebbe «affatto di irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo nell’ambito di quel potere di fissazione dei requisiti di eleggibilità, che l’art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore. La «condanna penale irrevocabile [sarebbe] un mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di indegnità morale a ricoprire determinate cariche elettive.»

Queste affermazioni, fatte alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, porterebbero a escludere il carattere punitivo e, pertanto, la natura penale delle misure, in quanto lo scopo perseguito dal decreto legislativo sarebbe quello di assicurare che la composizione degli organi regionali e locali rifletta i valori di «disciplina e onore che la Costituzione stessa, nel suo articolo 54, secondo comma, impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche.»

  1. Secondo il Governo, non si può dedurre alcuna argomentazione in favore della tesi della natura penale dell’incandidabilità dall'effetto estintivo della riabilitazione e dal fatto che la misura non si applichi alle sentenze adottate ai sensi dell'articolo 444 CPP prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo.

Per quanto riguarda la riabilitazione come unica causa dell’estinzione dell’incandidabilità, essa sarebbe la dimostrazione che la misura non è una sanzione penale accessoria, poiché in caso contrario l’incandidabilità cesserebbe di esistere una volta che è stata scontata la pena.

Per il resto, il Governo afferma che la decisione adottata ai sensi dell'articolo 444 CPP non equivale a una sentenza di condanna normale, in quanto «trae origine da un accordo tra il procuratore e l'imputato, e non comporta la prova effettiva della responsabilità di quest'ultimo.»

Inoltre, il legislatore non avrebbe oltrepassato il proprio margine di apprezzamento in quanto il decreto legislativo controverso riguarda i reati commessi nell’ambito delle procedure elettorali e che compromettono il corretto funzionamento del servizio pubblico.

  1. Infine, il Governo ritiene che la giurisprudenza pertinente della Corte escluda chiaramente la natura penale delle misure in contestazione, e fa riferimento in particolare alle cause Engel e altri c. Paesi Bassi (8 giugno 1976, serie A n. 22), Welch c. Regno Unito (9 febbraio 1995, serie A n. 307-A), Pierre-Bloch c. Francia (21 ottobre 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-VI), Malige c. Francia (23 settembre 1998, Recueil 1998-VII) e Paksas c. Lituania ([GC], n. 34932/04, CEDU 2011 (estratti)).

 

  1. Il ricorrente

 

  1. Basandosi sui criteri Engel, e in particolare su quello della gravità della misura, il ricorrente contesta le argomentazioni del Governo, affermando che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali, previsto dal decreto legislativo numero 235/2012, che ha comportato la cancellazione del suo nome dalla lista di candidati, equivale a una «pena» ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione.
  2. A suo parere, il potere discrezionale del legislatore ha oltrepassato i limiti del ragionevole imponendo una sanzione la cui gravità si manifesta con la mancata indicazione della durata dell’incandidabilità, e ciò contrariamente a quanto avviene nel caso dei membri del parlamento nazionale ed europeo, per i quali la durata della misura è «corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici (…) e, in ogni caso, non è inferiore a sei anni» ai sensi dell'articolo 13 del decreto legislativo in questione. Il ricorrente afferma che, sebbene condannato definitivamente nel 2011, egli non ha potuto concorrere alle elezioni regionali del 2013 né potrà farlo in futuro. Inoltre, l'inapplicabilità dell'incandidabilità alle persone che hanno beneficiato delle procedure di patteggiamento concluse prima dell'entrata in vigore del decreto, e l'estinzione del divieto attraverso la riabilitazione, dimostrerebbero rispettivamente la natura penale della misura e il carattere penale della condanna.
  3. Infine, facendo riferimento alla stessa giurisprudenza evocata dal Governo (paragrafo 46 supra), il ricorrente trae conclusioni opposte.

 

  1. Valutazione della Corte
     
    1. Principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte
       

 

  1. La Corte rammenta che ha espresso i principi generali della sua giurisprudenza sull’articolo 7 della Convenzione nella sentenza Del Río Prada Spagna [GC], (n. 42750/09, CEDU 2013) (§§ 77-93). Essa ha osservato, in particolare, quanto segue:

«81 La nozione di «pena» contenuta nell’articolo 7 § 1 della Convenzione, come quelle di «diritti e doveri di carattere civile» e di «accusa in materia penale» di cui all’articolo 6 § 1, ha una portata autonoma. Per rendere effettiva la protezione offerta dall’articolo 7, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare essa stessa se una particolare misura equivalga, in sostanza, a una «pena» ai sensi di tale disposizione (Welch, sopra citata, § 27, e Jamil, sopra citata, § 30).

82.Il testo dell’articolo 7 § 1, seconda frase, indica che il punto di partenza di qualsiasi valutazione sull’esistenza di una «pena» consiste nel determinare se la misura in questione è stata imposta a seguito di una condanna per un illecito penale. Altri elementi possono essere ritenuti pertinenti al riguardo: la natura e lo scopo della misura in causa, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure associate alla sua adozione e alla sua esecuzione, nonché la sua gravità (Welch, § 28, Jamil, § 31, Kafkaris, § 142, e M. c. Germania, § 120, tutte sopra citate). La gravità della misura, tuttavia, non è di per sé determinante, in quanto molte misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (Welch, sopra citata, § 32, e Van der Velden c. Paesi Bassi (dec.), n. 29514/05, CEDU 2006‑XV).

(...)

88. La Corte sottolinea che il termine «inflitto» utilizzato nella seconda frase dell'articolo 7 § 1 non può essere interpretato nel senso che esso esclude dall'ambito di applicazione di tale disposizione tutte le misure che possono intervenire dopo che sia stata pronunciata la pena. Essa rammenta, a tale riguardo, che è di fondamentale importanza che la Convenzione sia interpretata e applicata in modo da rendere concrete ed effettive, e non teoriche e illusorie, le garanzie in essa contenute (Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], n. 27765/09, § 175, CEDH 2012, e Scoppola, sopra citata, § 104).

89. Alla luce di quanto sopra esposto la Corte non esclude che delle misure adottate dal legislatore, dalle autorità amministrative o dalle giurisdizioni dopo che sia stata pronunciata una pena definitiva o durante l'esecuzione di quest'ultima, possano portare a una ridefinizione o una modifica della portata della «pena» inflitta dal giudice che l'ha pronunciata. In tal caso, la Corte ritiene che le misure in questione siano soggette al principio del divieto della retroattività delle pene sancito dall'articolo 7 § 1 in fine della Convenzione. Se così non fosse, gli Stati sarebbero liberi di adottare – ad esempio modificando la legge o reinterpretando norme già stabilite – delle misure che possono ridefinire retroattivamente e a svantaggio del condannato la portata della pena inflitta, sebbene quest'ultimo non potesse prevederlo al momento della perpetrazione del reato o della pronuncia della pena. In tali condizioni, l'articolo 7 § 1 sarebbe privato di effetto utile per i condannati la cui pena sia stata modificata a posteriori, e a loro svantaggio (...)».

 

  1. Approccio della Commissione e della Corte nelle cause simili alla presente

 

  1. Sebbene la presente causa sia relativa all'articolo 7 della Convenzione, la Corte esaminerà anche cause simili che hanno riguardato l'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6, in quanto le nozioni di «accusa penale» e di «pena» contenute rispettivamente negli articoli 6 e 7 sono corrispondenti (si vedano, mutatis mutandis, Paksas, sopra citata, § 68 e Gestur Jónsson e Ragnar Halldór Hall c. Islanda [GC], nn. 68273/14 e 68271/14, § 112, 22 dicembre 2020).
  2. Nella causa Estrosi c. Francia (n. 24359/94, decisione della Commissione del 30 giugno 1995, Décisions et rapports 82-A, pp. 56-71), la Commissione ha ritenuto che l'ineleggibilità per un anno, pronunciata dal Consiglio costituzionale in applicazione del codice elettorale per inosservanza delle norme relative alle spese elettorali, non fosse attinente al diritto penale, ma alla regolamentazione dell'esercizio di un diritto politico che, per definizione, non rientrava nell’ambito di applicazione dell'articolo 6 della Convenzione.
  3. Nella causa Tapie c. Francia (n. 32258/96, Decisione della Commissione del 13 gennaio 1997, non pubblicata), la Commissione ha ritenuto che l’ineleggibilità per cinque anni derivante da un procedimento di liquidazione giudiziaria rientrasse nel diritto commerciale, e non nell’ambito di applicazione penale dell'articolo 6 § 1. Per quanto riguarda la natura dell’illecito, per la Commissione quest'ultima non derivava da un’insolvenza nell'ambito di un'attività commerciale, in quanto le giurisdizioni competenti avevano constatato l'impossibilità di recuperare il passivo delle società e del ricorrente stesso, nella sua qualità di socio. Secondo la Commissione, anche se era di durata superiore a quella esaminata nella causa Estrosi, l'ineleggibilità non faceva rientrare il procedimento controverso nel profilo penale dell'articolo 6 § 1 della Convenzione né per la sua natura né per il suo livello di gravità.
  4. Nella causa Pierre-Bloch (sopra citata, §§ 56 e 57), riguardante anch'essa una ineleggibilità per un anno, nonché le dimissioni d'ufficio dalla carica di deputato, misure pronunciate dal Consiglio costituzionale in applicazione del codice elettorale per inosservanza delle disposizioni in materia di spese elettorali, la Corte è giunta a una conclusione identica a quella alla quale è giunta la Commissione nella causa Estrosi. Analizzando la natura e il livello di severità dell’ineleggibilità che il Consiglio costituzionale aveva inflitto al ricorrente, la Corte ha osservato che, tenuto conto della sua finalità, ossia il corretto svolgimento delle elezioni legislative, la misura non rientrava nell'ambito penale. Essa ha aggiunto che, poiché la sua durata era limitata a un anno, tale misura si distingueva anche dalle ineleggibilità pronunciate dalle giurisdizioni repressive a titolo di pene accessorie.
  5. Nella sentenza Paksas (sopra citata, §§ 66-68), la Corte ha esaminato la questione dell'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6 § 1 a due procedimenti dinanzi alla Corte costituzionale. Il primo riguardava la conformità con la Costituzione di un decreto adottato dal ricorrente nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente della Repubblica; il secondo riguardava una fase della procedura di impeachment avviata dal Parlamento per mancato rispetto della Costituzione o del giuramento costituzionale, il che aveva portato alla decadenza del ricorrente dal suo mandato presidenziale, con conseguente ineleggibilità permanente. La Corte ha concluso che i due procedimenti, per la loro finalità, non rientravano nell'ambito penale, in quanto non miravano alla pronuncia di una sanzione da parte della Corte costituzionale nei confronti del ricorrente, e, per quanto riguarda il secondo procedimento, la destituzione e l'ineleggibilità dell'interessato erano riconducibili alla responsabilità costituzionale del Capo dello Stato. L’articolo 6 § 1 della Convenzione non era dunque applicabile né sotto il profilo civile né sotto il profilo penale e, pertanto, tali procedimenti non avevano portato ad una condanna o a una «pena» ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione, che non era dunque applicabile nel caso di specie.
  6. Nelle cause Refah Partisi (Partito della prosperità) e altri c. Turchia (dec.) n. 41340/98 e altri 3, 3 ottobre 2000) e Sobaci c. Turchia (dec.), n. 26733/02, 1° giugno 2006), la Corte ha escluso che lo scioglimento del Refah Partisi e del Fazilet Partisi, così come gli effetti di tale misura sui diritti politici del primo partito e degli altri ricorrenti, corrispondessero a delle sanzioni penali. Essa ha considerato che la natura per eccellenza politica dei diritti in questione (proseguimento dell'attività politica del partito) e del divieto controverso (divieto opposto ai dirigenti di essere fondatori e dirigenti o contabili di un nuovo partito) non rientrava nella garanzia dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. Di conseguenza, essa ha anche respinto la doglianza relativa all'articolo 7 per incompatibilità ratione materiae. In queste due cause, lo scioglimento dei partiti e il divieto opposto ai ricorrenti non erano conseguenza di una condanna penale, ma derivavano dall'applicazione, da parte della Corte costituzionale, della Costituzione e della legge sui partiti politici.
  7. La Corte ha anche esaminato la questione dell'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6 ai procedimenti cosiddetti di lustrazione, relativi alla pubblicazione di liste di persone che hanno collaborato con i servizi segreti dei regimi comunisti. In particolare, la Corte ha concluso per l'inapplicabilità del profilo penale di tale disposizione ai procedimenti di lustrazione, soprattutto a quelli in esame in Lituania (Sidabras e Džiautas c. Lituania (dec.), nn. 55480/00 e 59330/00, 1° luglio 2003) e in Macedonia (Ivanovski c. l’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 29908/11, § 121, 21 gennaio 2016). In questi due paesi, i ricorrenti erano coinvolti nel procedimento di lustrazione per atti commessi sotto il regime comunista, soprattutto per aver lavorato o collaborato con i servizi segreti. Nella causa lituana, ad esempio, la sanzione consisteva nella perdita di un impiego pubblico (nei confronti di un ispettore del fisco e di un procuratore che erano ex agenti del KGB), e in limitazioni, per una durata di dieci anni, di accesso al pubblico impiego e ad alcuni ambiti del settore privato. Nella causa riguardante la Macedonia, il ricorrente, che era giudice della Corte costituzionale, era stato destituito dalle sue funzioni e aveva subìto l'interdizione da qualsiasi impiego nella funzione pubblica o in ambiente universitario per un periodo di cinque anni.
  8. La Corte ha considerato che la finalità di tali misure fosse impedire a ex agenti dei servizi segreti di occupare dei posti nella pubblica amministrazione e nei settori importanti per la sicurezza nazionale. Per quanto riguarda la gravità, la Corte ha indicato che essa non raggiungeva un livello sufficiente per far ricadere la sanzione nella sfera penale.

 

  1. Applicazione della giurisprudenza sopra citata nel caso di specie

 

  1. La Corte osserva che il ricorrente afferma, in sostanza, che a seguito dell'applicazione delle disposizioni del decreto legislativo n. 235/2012 gli è stata inflitta una nuova pena, oltre a quella che era risultata dalla sua condanna definitiva nel 2011 per abuso d'ufficio.
  2. Pertanto, la questione alla quale la Corte è chiamata a rispondere è se il divieto di candidarsi alle elezioni regionali rientri nell’ambito di applicazione dell'articolo 7 della Convenzione.
  3. La Corte rammenta che, in linea di principio, i diritti politici ed elettorali non rientrano nell'ambito di applicazione degli articoli 6 § 1 e 7 della Convenzione (paragrafi 52-58 supra). Perciò, nella maggior parte delle cause trattate relative all'ineleggibilità o alla perdita di un mandato elettivo, gli organi della Convenzione hanno escluso l'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6, oltre a quella dell'articolo 7.
  4. Allo scopo di definire la natura della misura contestata dal ricorrente, la Corte applicherà i criteri fissati nella sentenza Del Río Prada (sopra citata) e la giurisprudenza ivi citata (paragrafo 50 supra). Dopo avere determinato se l'incandidabilità è stata imposta a seguito di una condanna penale, la Corte analizzerà la sua natura e il suo scopo, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure associate alla sua adozione e alla sua esecuzione, nonché la sua gravità.

 

  1. Misure imposte a seguito della condanna penale

 

  1. La Corte osserva che la misura imposta al ricorrente ha avuto come presupposto necessario la condanna penale definitiva di dicembre L’incandidabilità ha privato l’interessato, a causa della sua condanna per abuso d’ufficio, del suo diritto di candidarsi alle elezioni regionali del 2013, ai sensi dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 235/2012.

 

  1. Natura e scopo delle misure

 

  1. Per quanto riguarda l’argomentazione del ricorrente secondo la quale il divieto di candidarsi ha un carattere punitivo, la Corte fa osservare anzitutto che le relazioni illustrative della legge n. 190/2012 e del decreto legislativo n. 235/2012 indicano espressamente che l’obiettivo della lotta contro l’illegalità e la corruzione doveva essere perseguito con un approccio nell’ambito del quale le sanzioni erano solo una parte degli elementi dell’azione. La scelta della condanna definitiva per reati predefiniti come base che giustifica il divieto di esercitare cariche elettive (con il presupposto dell’incandidabilità) era basata sulla volontà del legislatore di fondarsi su criteri astratti. Tale condanna corrisponde a un’inidoneità funzionale non rimovibile dell'interessato, volta a preservare il buon andamento e la trasparenza dell’amministrazione, così come la libera determinazione degli organi elettivi (paragrafi 23 e 28 supra). Inoltre, la relazione di presentazione al Parlamento del progetto che divenne successivamente la legge n. 190/2012 indicava che l’introduzione di un piano nazionale di lotta contro la corruzione era divenuta un’esigenza tenuto conto, da una parte, delle conclusioni della valutazione effettuata dal GRECO nel 2008 e nel 2009 e, dall’altra, della constatazione secondo la quale la maggior parte degli Stati europei aveva già un tale piano (paragrafo 41 supra).
  2. L’inclusione dell’abuso d’ufficio tra le cause che giustificano il divieto controverso mirava a rafforzare l’azione di lotta contro il fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno dell’amministrazione. Come ha sottolineato la Corte costituzionale nella sua sentenza n. 236/2015 (paragrafi 31-38 supra), delle limitazioni dei diritti elettorali erano già in vigore in precedenza.
  3. La Corte osserva anche che, nell’Addendum al Rapporto di conformità sull’Italia (Greco RC-I/II (2011) 1 F), pubblicato il 1° luglio 2013, il GRECO si è compiaciuto per l’adozione della legge n. 190/2012 e per i progressi compiuti dalle autorità nazionali nel chiarire la politica di lotta alla corruzione, e ha indicato che «[i]l tempo e l'esperienza diranno se il nuovo dispositivo risponda efficacemente agli obiettivi di prevenire e scoraggiare la corruzione» (paragrafo 41 supra).

 

  1. Qualificazione delle misure nel diritto interno

 

  1. La Corte attribuisce importanza all’approccio della Corte costituzionale italiana (paragrafi 31-39 supra), la cui giurisprudenza su questo punto, e in particolare le sentenze nn. 236/2015 e 276/2016 (che riprendono i principi fissati in merito ai casi di incandidabilità e di decadenza relativi alle elezioni locali regolamentate dalla legge n. 55/1990), ha stabilito che la misura controversa non è né una sanzione né un effetto della condanna che rientra nella sfera penale, ma deriva dalla perdita della condizione soggettiva che permette l’accesso alle cariche elettive e il loro esercizio. Il candidato il cui nome è stato cancellato dalla lista dei candidati a seguito della perdita del suo diritto di elettorato passivo non è sanzionato in funzione della gravità dei fatti che gli sono ascritti e per i quali è stato condannato dalle giurisdizioni penali; egli è escluso dalla lista perché ha perduto l’idoneità morale, requisito fondamentale per poter avere accesso alle funzioni di rappresentante degli elettori.
  2. Anche se è vero che queste due sentenze non riguardano l’esclusione di un candidato da una lista elettorale, la Corte costituzionale precisa che, così come la condanna definitiva può giustificare la decadenza dal mandato in corso, una condanna non definitiva può esigere che l’eletto sia sospeso dalle sue funzioni. Si tratta, sempre secondo la Corte costituzionale, di una scelta che non oltrepassa i limiti di una valutazione ragionevole degli interessi costituzionali in gioco. La giurisdizione costituzionale esclude anche lo scopo punitivo delle misure previste dal decreto legislativo pertinente.
  3. La Corte rammenta che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali previsto dall’articolo 7 del decreto legislativo n. 235/2012 comporta soltanto la perdita dell’elettorato «passivo», nel senso che una candidatura depositata nonostante un divieto sarà cancellata dalla lista dei candidati dall’ufficio elettorale competente (paragrafo 25 supra). Per contro, il diritto di elettorato attivo non è in alcun modo compromesso. Il divieto in questione corrisponde all’inidoneità assoluta all’esercizio delle funzioni elettive, in quanto incide su un’esigenza oggettiva (l’idoneità morale) la cui assenza porta a privare una persona del suo diritto di elettorato passivo.
  4. La Corte sottolinea inoltre che l’inapplicabilità dell’incandidabilità a un procedimento semplificato quale il patteggiamento (anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 235/2012) è giustificata dal fatto che quest’ultimo non è totalmente equiparabile a un procedimento penale ordinario: ad esempio, nel primo mancano un pieno accertamento della colpevolezza, le pene accessorie, la condanna al pagamento delle spese. Infine, l’estinzione dell’incandidabilità attraverso la riabilitazione si spiega con la necessità di eliminare tale limitazione del diritto di elettorato passivo in quanto, pur avendo come presupposto necessario una condanna definitiva, la misura non viene applicata dall’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale e non deriva dagli effetti penali di quest’ultimo.

 

  1. Procedure che hanno portato alla cancellazione del nome del ricorrente dalla lista dei candidati

 

  1. La Corte rammenta che la cancellazione in questione è intervenuta a seguito dell’esame da parte dell’UCR competente (paragrafo 25 supra) delle liste di candidati sulla base dei documenti in suo possesso. Il ricorrente ha potuto contestare la sua esclusione dinanzi all’UCR e, successivamente, dinanzi alle giurisdizioni amministrative, TAR e Consiglio di Stato, dinanzi alle quali si è tenuto un procedimento in contraddittorio.

 

  1. Gravità della misura

 

  1. Per quanto riguarda la gravità della misura, la Corte rammenta che, secondo la sua giurisprudenza, essa non permette di per sé di determinare se la «sanzione» sia di natura penale (Del Río Prada, sopra citata, § 82, Brown c. Regno Unito (dec.), n. 38644/97, 24 novembre 1998, Welch, sopra citata, § 32, Müller-Hartburg c. Austria, n. 47195/06, § 47, 19 febbraio 2013). Nella fattispecie, la perdita del diritto di candidarsi alle elezioni regionali ha avuto per il ricorrente delle conseguenze sul piano politico. Tuttavia, ciò non basta per qualificarla come sanzione di natura penale, tanto più che, nel 2017, l’interessato si è potuto candidare a nuove elezioni regionali dopo avere ottenuto la riabilitazione (paragrafo 19 supra), e che il diritto di elettorato attivo è rimasto inalterato.

 

  1. Conclusione

 

  1. Tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali non possa essere assimilato a una sanzione penale ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Di conseguenza, questa doglianza è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione e deve essere respinta in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

 

  1. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DEL PROTOCOLLO n. 1

 

  1. Il ricorrente lamenta che la sua incandidabilità ha limitato in maniera illegittima il suo diritto di elettorato passivo. Ai sensi dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione,

«Le Alte Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo.»

  1. Sulla ricevibilità

 

  1. Sebbene le parti non abbiano discusso l’applicabilità di questa disposizione, la Corte ritiene utile esaminare la questione, in considerazione delle circostanze della presente causa.
  2. La Corte rammenta anzitutto che le parole «corpo legislativo» contenute nell’articolo 3 del Protocollo n. 1 non si riferiscono necessariamente al parlamento nazionale, ma devono essere interpretate in funzione della struttura costituzionale dello Stato in causa (Mathieu-Mohin e Clerfayt c. Belgio, 2 marzo 1987, § 54, serie A n. 113).

Nella sua decisione Mółka c. Polonia (relativa alla asserita privazione del diritto di voto a causa di una situazione di disabilità), la Corte ha rammentato che «nella causa Mathieu-Mohin e Clerfayt, la riforma costituzionale belga del 1980 aveva conferito al Consiglio fiammingo sufficienti competenze e poteri perché si potesse considerare che tale organo, così come il Consiglio della Comunità francese e il Consiglio regionale vallone, faceva parte del «corpo legislativo» belga, allo stesso titolo che la Camera dei rappresentanti e il Senato» (Mathieu-Mohin e Clerfayt, c. Belgio, 2 marzo 1987, § 53, serie A n. 113, e Matthews c. Regno Unito [GC], n. 24833/94, § 40, CEDU 1999‑I).

Invece, gli organi della Convenzione hanno dichiarato che gli organi delle autorità locali, come i consigli municipali in Belgio, i consigli delle contee metropolitane nel Regno Unito e i consigli regionali in Francia, non facevano parte del «corpo legislativo» ai sensi dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 (Clerfayt, Legros e altri c. Belgio, n. 10650/83, decisione della Commissione del 17 maggio 1985, DR 42, p. 212; Booth-Clibborn e altri c. Regno Unito (dec.), n. 11391/85, decisione della Commissione del 5 luglio 1985, DR 43, p. 236, e Malarde c. Francia (dec.), n. 46813/99, 5 settembre 2000)» (Mółka c. Polonia (dec.), n. 56550/00, 11 aprile 2016).

  1. La Corte osserva che, nel caso di specie, da quando è entrata in vigore la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, il potere legislativo delle Regioni, peraltro già sostanziale, è stato rafforzato. Fino a quel momento, l'articolo 117 della Costituzione limitava la competenza delle Regioni a un insieme definito di ambiti. Il nuovo articolo 117, modificato dalla suddetta legge costituzionale, riconosce il potere legislativo 1) esclusivo dello Stato in materia, soprattutto, di politica estera e relazioni internazionali dello Stato, diritto di asilo, immigrazione, difesa, sicurezza dello Stato, moneta, cittadinanza, giurisdizioni e norme processuali, ecc.; 2) concorrente, in particolare, in ambiti come i rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni, il commercio estero, la protezione civile, il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, l'istruzione, ecc. Il comma 4 della disposizione costituzionale sottolinea che, in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, il potere legislativo spetta alle Regioni (paragrafo 20 supra) (si veda Repetto Visentini c. Italia, (dec.), n. 42081/10, § 22, 9 marzo 2021).
  2. Si deve constatare che, nell'ambito della struttura costituzionale italiana, la Costituzione fonda il potere legislativo delle Regioni accordando a queste ultime un ampio margine di azione, cosicché si può considerare che i consigli regionali fanno parte del corpo legislativo. Di conseguenza, l'articolo 3 del Protocollo n. 1 è applicabile nel caso di specie.
  3. Constatando che questa doglianza non è manifestamente infondata né irricevibile per uno degli altri motivi di cui all'articolo 35 della Convenzione, la Corte la dichiara ricevibile.
  1. Sul merito
  1. Tesi delle parti
    1. Il ricorrente
  1. Il ricorrente afferma che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali non era né prevedibile né proporzionato allo scopo perseguito dal decreto legislativo n. 235/2012. L'esistenza di una base legale e la necessità di assicurare la credibilità dell'azione dell'amministrazione e i rapporti con i cittadini non renderebbero le disposizioni del suddetto decreto conformi alla Convenzione.
  2. In particolare, per quanto riguarda la proporzionalità, il legislatore non avrebbe correttamente ponderato gli interessi della collettività e quelli del ricorrente. «Il divieto permanente e irreversibile di essere eletto non costituirebbe una risposta proporzionata all'esigenza del mantenimento dell'ordine pubblico in quanto la libera espressione del popolo sulla scelta del corpo legislativo (…) deve essere garantita in ogni caso.»
     
    1. Il Governo
       
  3. Il Governo rammenta che la scelta del legislatore volta a escludere l'accesso all'esercizio di funzioni pubbliche alle persone implicate in procedimenti penali risponde alla «necessità di proteggere il buon funzionamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, allo scopo di garantire la credibilità dell'amministrazione verso il pubblico e, di conseguenza, il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni.»
  4. Il ricorrente era stato condannato per fatti che costituiscono un delitto contro l'Amministrazione, ossia l'abuso d'ufficio, «la cui valutazione negativa (…) è strettamente legata all’esigenza di proteggere l’interesse al buon andamento della funzione elettiva pubblica.»
  5. In conclusione, la legittimità del decreto legislativo n. 235/2012 non può essere contestata, tanto più che la volontà del legislatore di contrastare la corruzione nell'Amministrazione era evidente ben prima della consultazione elettorale in questione, il che escluderebbe qualsiasi effetto sorpresa a danno del ricorrente.

 

  1. Valutazione della Corte
     
    1. I principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte

 

  1. La Corte rammenta che l'articolo 3 del Protocollo n. 1 sancisce un principio fondamentale in un regime politico veramente democratico e assume pertanto nel sistema della Convenzione un'importanza fondamentale (Mathieu-Mohin e Clerfayt c. Belgio, 2 marzo 1987, § 47, serie A n. 113). Oltre a prevedere espressamente l'obbligo di organizzare elezioni libere, questo articolo implica anche dei diritti soggettivi, tra cui il diritto di voto e quello di candidarsi alle elezioni (ibidem, § 51), e sancisce il diritto di ogni persona eletta di esercitare il proprio mandato (Sadak e altri c. Turchia (n. 2), nn. 25144/94 e altri 8, § 33, CEDU 2002-IV, Lykourezos c. Grecia, n. 33554/03, § 50, CEDU 2006 VIII, Sitaropoulos e Giakoumopoulos c. Grecia [GC], n. 42202/07, § 63, CEDU 2012; Repetto Visentini c. Italia, decisione sopra citata, § 26).
  2. Si tratta di diritti fondamentali per l’istituzione e il mantenimento delle basi di una reale democrazia retta dalla preminenza del diritto (Ždanoka, sopra citata, § 103, Scoppola c. Italia (n. 3), n. 126/05, § 82, 18 gennaio 2011 e Karácsony e altri c. Ungheria [GC], nn. 42461/13 e 44357/13, § 141, CEDU 2016 (estratti)).
  3. Gli organi della Convenzione hanno raramente avuto occasione di esaminare le denunce di violazione dell’elemento «passivo» dei diritti garantiti dall’articolo 3 del Protocollo n. 1. A tale riguardo, la Corte ha sottolineato che gli Stati contraenti avevano un’ampia discrezionalità per stabilire, nel loro ordinamento costituzionale, in particolare i criteri di eleggibilità. Pur procedendo da una preoccupazione comune – garantire l'indipendenza degli eletti ma anche la libertà degli elettori –, questi criteri variano in funzione dei fattori storici e politici propri di ciascuno Stato. La molteplicità di situazioni previste nelle costituzioni e nelle legislazioni elettorali di numerosi Stati membri del Consiglio d'Europa dimostra la diversità delle scelte possibili in materia. Ai fini dell'applicazione dell'articolo 3, ogni legge elettorale deve quindi essere sempre valutata alla luce dell'evoluzione politica del paese interessato (Ždanoka, sopra citata, § 106).
  4. Per quanto riguarda l'interpretazione generale dell'articolo 3 del Protocollo n. 1, la Corte ha enunciato i grandi principi nella sua giurisprudenza (si vedano, tra altre, Mathieu-Mohin e Clerfayt, sopra citata, §§ 46-51, Ždanoka, sopra citata, § 115, Podkolzina c. Lettonia, n. 46726/99, § 33, CEDU 2002-II). Più in particolare, nella sentenza Ždanoka (sopra citata, § 115), relativa al divieto imposto a una ex dirigente comunista durante l’era sovietica di presentarsi alle elezioni legislative, la Corte ha stabilito i criteri da applicare per valutare se l'articolo 3 del Protocollo n. 1 fosse stato rispettato, e ha dichiarato quanto segue:

«115. (...):

  1. L'articolo 3 del Protocollo n. 1 è simile ad altre disposizioni della Convenzione che proteggono diversi diritti civili e politici quali, ad esempio, l'articolo 10, che garantisce il diritto alla libertà di espressione, o l'articolo 11, che sancisce il diritto alla libertà di associazione, compreso il diritto di ciascuno alla libertà di associazione politica con altre persone all'interno di un partito. Esiste innegabilmente un legame tra tutte queste disposizioni, ossia la necessità di garantire il rispetto del pluralismo di opinioni in una società democratica attraverso l'esercizio delle libertà civili e politiche. Inoltre, la Convenzione e i suoi Protocolli devono essere considerati nel loro complesso. Tuttavia, quando è in causa una violazione dell'articolo 3 del Protocollo n. 1, la Corte non deve automaticamente ricorrere agli stessi criteri applicati per le ingerenze autorizzate dal paragrafo 2 degli articoli 8-11 della Convenzione, né deve sistematicamente basare le sue conclusioni riguardo all'articolo 3 del Protocollo n. 1 sui principi derivanti dall'applicazione degli articoli 8-11 della Convenzione. Data l'importanza dell'articolo 3 del Protocollo n. 1 per il sistema istituzionale dello Stato, questa disposizione è redatta in termini molto diversi da quelli degli articoli 8-11 della Convenzione. L'articolo 3 del Protocollo n. 1 è formulato in termini collettivi e generali, sebbene la Corte abbia interpretato questa disposizione nel senso che essa comprende anche diritti individuali specifici. Le norme da applicare per stabilire la conformità all’articolo 3 del Protocollo n. 1 devono quindi essere considerate meno rigorose di quelle applicate in relazione agli articoli 8-11 della Convenzione.
  2. La nozione di «limitazione implicita» che emerge dall'articolo 3 del Protocollo n. 1 è di fondamentale importanza quando si tratta di determinare la legittimità degli scopi perseguiti dalle restrizioni dei diritti garantiti da questa disposizione. Poiché l'articolo 3 del Protocollo n. 1 non si limita a una lista precisa di «scopi legittimi», quali quelli elencati negli articoli 8-11 della Convenzione, gli Stati contraenti possono liberamente fondarsi su uno scopo che non rientra in tale lista per giustificare una restrizione, purché la compatibilità di tale scopo con il principio della preminenza del diritto e con gli obiettivi generali della Convenzione sia dimostrata nelle circostanze particolari di una determinata causa.
  3. La nozione di «limitazione implicita» che si evince dall'articolo 3 del Protocollo n. 1 significa anche che la Corte non applica i criteri tradizionali di «necessità» o di «bisogno sociale imperioso» utilizzati nell’ambito degli articoli 8-11 della Convenzione. La Corte, quando deve esaminare questioni di conformità all'articolo 3 del Protocollo n. 1, si basa essenzialmente su due criteri: da un lato, verifica se vi è stata arbitrarietà o mancanza di proporzionalità, e, dall'altro, se la restrizione ha compromesso la libera espressione dell'opinione del popolo. Essa riafferma sempre, quindi, l'ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati contraenti. Inoltre, sottolinea la necessità di valutare qualsiasi legislazione elettorale alla luce dell'evoluzione politica del paese interessato, il che implica che delle caratteristiche inaccettabili nel quadro di un sistema possono essere giustificate nel contesto di un altro (si vedano, in particolare, le cause Mathieu-Mohin e Clerfayt e Podkolzina sopra citate).
  4. La necessità che una misura legislativa che si presume contraria alla Convenzione sia individualizzata, e il grado di individualizzazione eventualmente richiesto da quest'ultima, dipendono dalle circostanze di ciascuna causa particolare, cioè dalla natura, dal tipo, dalla durata e dalle conseguenze della restrizione legale controversa. Affinché una misura restrittiva sia conforme all'articolo 3 del Protocollo n. 1, può essere sufficiente un minor grado di individualizzazione rispetto a quello richiesto per le situazioni in cui viene dedotta una inosservanza degli articoli 8-11 della Convenzione.
  5. Quanto al diritto di presentarsi alle elezioni, ossia l'elemento «passivo» dei diritti garantiti dall'articolo 3 del Protocollo 1, la Corte si mostra ancor più prudente nella sua valutazione delle restrizioni in tale contesto rispetto a quando deve esaminare delle restrizioni del diritto di voto, vale a dire l'elemento «attivo» dei diritti garantiti dall'articolo 3 del Protocollo n. 1. Nella sentenza Melnitchenko sopra citata (§ 57), essa ha osservato che il diritto di presentarsi alle elezioni legislative può essere inquadrato da condizioni più rigorose rispetto al diritto di voto. Infatti, mentre il criterio relativo all’elemento «attivo» dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 implica di norma una valutazione più ampia della proporzionalità delle disposizioni di legge che privano una persona o un gruppo di persone del diritto di voto, l’approccio adottato dalla Corte per quanto riguarda l’elemento «passivo» di questa disposizione si limita essenzialmente a verificare l’assenza di arbitrarietà nelle procedure interne che portano a privare una persona dell’eleggibilità (...)».

 

  1. Applicazione di questi principi nel caso di specie

 

  1. La Corte nota innanzitutto che questo motivo di ricorso solleva delle questioni nuove per quanto riguarda lo scopo della misura.
  2. Essa sottolinea il contesto specifico della causa. Prima dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012 e del decreto legislativo n. 235/2012, la legge n. 50/1990 aveva già previsto, nel quadro della lotta contro il fenomeno dell'infiltrazione mafiosa nell'amministrazione, dei casi di limitazioni dell’elettorato passivo volte ad escludere dall'amministrazione locale ogni persona che, occupando un posto, avrebbe potuto nuocere alla credibilità delle istituzioni.
  3. Nel maggio 2010 fu presentato al Senato il progetto di legge n. 2156 recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione». Il progetto, che diverrà la legge n. 190/2012, fissava già il quadro rigoroso dei criteri da seguire nel lavoro volto a riunire in un unico testo di legge le norme relative all'«ineleggibilità» alle cariche elettive, comprese quelle nazionali e sovranazionali.
  4. La legge n. 190/2012 entrò in vigore il 28 novembre 2012 (paragrafo 4 supra). Il decreto legislativo n. 235/2012 fu adottato il 6 dicembre 2012 ed entrò in vigore il 5 gennaio 2013 (paragrafo 6 supra).

 

  1. Sull’esistenza di una ingerenza nell’esercizio dei diritti del ricorrente

 

  1. La Corte osserva che non è oggetto di contestazione tra le parti che la misura controversa abbia comportato un'ingerenza nell'esercizio dei diritti elettorali del ricorrente sanciti dall'articolo 3 del Protocollo n. 1. Resta da stabilire se tale ingerenza perseguisse uno scopo legittimo e proporzionato, ai sensi della giurisprudenza della Corte.

 

  1. Lo scopo della misura controversa

 

  1. L'articolo 3 del Protocollo n. 1 non è limitato da una lista precisa di scopi legittimi, e pertanto gli Stati contraenti possono liberamente fondarsi su uno scopo legittimo che non rientra nella lista di quelli contenuti negli articoli 8-11 della Convenzione per giustificare una restrizione, purché la compatibilità di tale scopo con il principio della preminenza del diritto e con gli obiettivi generali della Convenzione sia dimostrata nelle circostanze particolari di una determinata causa (Ždanoka, sopra citata, § 115).
  2. La Corte sottolinea che, nel caso di specie, l'incandidabilità è stata introdotta dal legislatore italiano con la legge delega n. 190/2012 e dal governo dell'epoca, nell'ambito dei poteri delegati, per mezzo del decreto legislativo n. 235/2012; si trattava di rafforzare lo strumento delle restrizioni dei diritti elettorali già esistenti sul piano locale a partire dalla legge n. 50/1990. Con ogni evidenza, l'incandidabilità risponde all'imperativo di assicurare in maniera generale il buon funzionamento delle amministrazioni pubbliche, garanti della gestione della res publica. Essa regola l'accesso alla vita pubblica e preserva la libertà decisionale degli organi elettivi. Si tratta di uno scopo compatibile con il principio della preminenza del diritto e con gli obiettivi generali della Convenzione.

 

  1. La proporzionalità della misura

 

  1. La Corte, quando è chiamata esaminare delle questioni relative all'elemento passivo dei diritti sanciti dall'articolo 3 del Protocollo n. 1, segue un approccio caratterizzato da un controllo circoscritto essenzialmente alla verifica dell'assenza di arbitrarietà nei procedimenti interni che portano a privare l'individuo dell'eleggibilità (Ždanoka, sopra citata, § 115 in fine, e Melnitchenko c. Ucraina, n. 17707/02, §§ 57-59, CEDU 2004-X). Per farlo, nel caso di specie, la Corte, per quanto riguarda l’incandidabilità, esaminerà il quadro legale, in particolare la prevedibilità e l'applicazione immediata della misura, nonché la sua durata.

 

  1. Il quadro legale

 

  1. Per quanto riguarda il quadro legale, la Corte osserva che l'incandidabilità alle elezioni regionali prevede delle garanzie. Anzitutto, tale divieto ha come presupposto l'esistenza di una condanna penale definitiva come quella prevista per un certo numero di reati gravi strettamente definiti dalla legge. La scelta di questo presupposto specifico è stata effettuata sulla base di una valutazione astratta, e la condanna definitiva è la condizione che sta alla base del divieto di candidarsi alle elezioni. Tale divieto è una conseguenza automatica per la quale non è prevista né ponderazione delle situazioni individuali né valutazione discrezionale. Infatti, nel quadro dei criteri fissati dalla legge n. 190/2012 (articolo 1, comma 64 – paragrafo 22 supra), il decreto legislativo n. 235/2013 indica, nel suo articolo 7, tra gli altri, il reato di abuso d'ufficio (paragrafo 24 supra). La misura controversa non è applicabile in maniera indifferenziata a tutti i condannati unicamente a causa di una condanna, ma a una categoria di persone predefinita e in funzione della natura dei reati (si veda, mutatis mutandis, Scoppola (no 3), sopra citata, §§ 97-102). Il ricorrente è stato oggetto della misura in questione a causa della sua condanna definitiva del 2011 per un reato contro l'amministrazione.
  2. Per quanto riguarda la presunta inosservanza del principio di prevedibilità della legge a causa dell'applicazione dell’incandidabilità a seguito della condanna del ricorrente per fatti commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo in contestazione, la Corte fa osservare che, considerato l'ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati in materia di limitazione del diritto di elettorato passivo delle persone, le esigenze dell'articolo 3 del Protocollo n. 1 sono meno rigorose di quelle relative all'articolo 7 della Convenzione. Nella fattispecie, si trattava per lo Stato di organizzare il proprio sistema di contrasto all'illegalità e alla corruzione all'interno dell'amministrazione (paragrafo 23 supra).
  3. La Corte considera che, in questo contesto nazionale, l'applicazione immediata del divieto di candidarsi alle elezioni regionali è coerente con lo scopo espresso dal legislatore, ossia scartare dalle procedure elettorali le persone condannate per reati gravi e proteggere in tal modo l'integrità del processo democratico. La Corte accetta la scelta del legislatore italiano, che ha preso come base, per l'applicazione del divieto, la data nella quale la condanna penale diventa definitiva e non la data di perpetrazione dei fatti perseguiti. Applicando la misura a qualsiasi persona condannata per i reati di cui al decreto legislativo n. 235/2012 dopo l’entrata in vigore di quest'ultimo, il legislatore intendeva chiaramente completare e rafforzare gli strumenti legislativi di contrasto alla corruzione e all'illegalità nell'amministrazione pubblica, obiettivo che aveva guidato i lavori parlamentari che hanno portato all'adozione della legge anticorruzione n. 190/2012.
  4. L'argomentazione del ricorrente secondo la quale la misura sarebbe contraria ai principi di prevedibilità, pertanto, non può essere accolta. Infatti, la condanna definitiva di dicembre 2011 ha costituito il presupposto necessario per l'incandidabilità, condizione prevista dall'articolo 7 del decreto legislativo in questione.
  5. Infine, la Corte sottolinea che, anche se il divieto di candidarsi alle elezioni regionali non è limitato nel tempo, nel caso di specie, il ricorrente, come egli stesso aveva affermato dinanzi al Consiglio di Stato, aveva richiesto la sua riabilitazione e poi rinunciato alla domanda prima della scadenza elettorale del 2013 «in quanto il decreto legislativo non era ancora in vigore» (paragrafo 12 supra). Inoltre, l'interessato ha successivamente reiterato tale domanda [in applicazione del comma 3 dell'articolo 15 del decreto legislativo n. 235/2012], ottenendo la riabilitazione e il diritto di presentarsi alle nuove elezioni regionali del 2017 (paragrafo 19 supra).
  1. Conclusione

 

  1. In conclusione, considerato il fatto che la misura dell’incandidabilità alle elezioni regionali non era sproporzionata, la Corte constata che, nel caso di specie, non vi è stata violazione dell'articolo 3 del Protocollo n. 1.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Dichiara la doglianza relativa all’articolo 3 del Protocollo n. 1 ricevibile, e il resto del ricorso irricevibile;
  2. Dichiara che non vi è stata violazione di tale disposizione.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 17 giugno 2021, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Renata Degener
Cancelliere

Ksenija Turković
Presidente