Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 giugno 2020 - Ricorso n. 50988/13 - Causa Citraro e Molino contro l'Italia


© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita e rivista da Rita Carnevali, assistente linguistico, e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA CITRARO E MOLINO c. ITALIA
(Ricorso n. 50988/13)

SENTENZA

STRASBURGO
4 giugno 2020

Questa sentenza è definitiva. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Citraro e Molino c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in un comitato composto da:
Armen Harutyunyan, presidente,
Pere Pastor Vilanova,
Pauliine Koskelo, giudici,
e da Renata Degener, cancelliere aggiunto di sezione,

Visti:
il ricorso sopra menzionato (n. 50988/13) proposto contro la Repubblica italiana da due cittadini di questo Stato, il sig. Santo Citraro e la sig.ra Santa Molino («i ricorrenti»), che hanno adito la Corte il 24 luglio 2013 ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),

la decisione di portare a conoscenza del governo italiano («il Governo») le doglianze relative agli articoli 2 e 3 della Convenzione e di dichiarare il ricorso irricevibile per il resto,

le osservazioni delle parti,

osservando che il Governo non si è opposto all’esame del ricorso da parte di un comitato,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 28 aprile 2020,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

INTRODUZIONE

1. Il ricorso riguarda il suicidio del figlio dei ricorrenti, detenuto in carcere all’epoca dei fatti, e gli obblighi positivi dello Stato derivanti dall’articolo 2 della Convenzione. Il ricorso riguarda anche, dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, il mantenimento in carcere del figlio dei ricorrenti, senza un’assistenza medica adeguata.

IN FATTO

2. I ricorrenti, il sig. Santo Citraro e la sig.ra Santa Molino, sono due cittadini italiani nati rispettivamente nel 1934 e nel 1938 e residenti a Terme Vigliatore. Sono i genitori di A.C., nato il 6 marzo 1970 e deceduto il 16 gennaio 2001. Dinanzi alla Corte sono stati rappresentati dall’avvocato G. Freni, del foro di Messina.

3. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo ex agente, E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, M. Aversano.

4. I fatti di causa, esposti dai ricorrenti, possono riassumersi come segue.

I. IL DECESSO DI A.C.

5. All'epoca dei fatti, il figlio dei ricorrenti stava scontando una pena detentiva ad Augusta. Risulta dal fascicolo che nel 1995 gli era stato diagnosticato un insieme di disturbi della personalità (dramatic cluster )1., ovvero disturbi antisociale, «borderline», narcisistico, istrionico, ossessivo-compulsivo e paranoico. Tuttavia, l'esistenza di queste patologie non era stata ritenuta incompatibile con l'esecuzione della pena. A.C. aveva così trascorso alcuni periodi in carcere e altri in ospedale psichiatrico. Nel 1999 era stato posto sotto osservazione presso l'ospedale psichiatrico giudiziario («l'OPG») di Barcellona Pozzo di Gotto e poi era stato rimesso in carcere. Nel 2000 aveva commesso atti di autolesionismo, compresi dei tentativi di suicidio.

6. Il 14 settembre 2000 le autorità trasferirono A.C. nel carcere di Messina per consentirgli di partecipare alle udienze di un processo che si svolgevano all'interno del carcere stesso. Dal fascicolo risulta che, durante la sua detenzione in questo istituto, il detenuto espresse delle rimostranze ed ebbe un comportamento antisociale, fatto per cui fu sottoposto a periodi di osservazione psichiatrica e a procedimenti disciplinari.

7. Il 3 gennaio 2001 A.C. fu collocato nel reparto penitenziario «sosta» perché aveva detto agli agenti penitenziari che temeva per la sua vita. Lo stesso giorno chiese di non incontrare altri detenuti e di essere trasferito in un altro istituto. Il 5 gennaio 2001 A.C. ritrattò le sue dichiarazioni e comunicò che voleva partecipare alle udienze del processo, ma voleva stare lontano dagli altri detenuti. Di conseguenza, fu lasciato nel reparto penitenziario «sosta».

8. Sempre il 5 gennaio 2001, un agente penitenziario notò che A.C. aveva un sanguinamento a livello della gola e, di conseguenza, chiese l'assistenza dei medici del carcere, i quali constatarono che il detenuto si era inflitto un taglio alla gola.

9. Il 6 gennaio 2001 A.C. commise un altro atto di autolesionismo ferendosi all'avambraccio sinistro. Il medico del carcere, che lo visitò, suggerì alla direzione dell'istituto penitenziario di mettere l’interessato in una cella priva di oggetti e di sottoporlo a una «grande sorveglianza», ossia una sorveglianza ad intervalli frequenti. Anche lo psichiatra che visitò A.C. prescrisse a quest'ultimo una terapia farmacologica e suggerì alla direzione del carcere di sottoporre il detenuto alla «sorveglianza a vista», ossia una sorveglianza ininterrotta. A.C. rifiutò la terapia.
10. Lo stesso giorno, la direttrice del carcere decise di sottoporre A.C. alla «sorveglianza a vista».
11. L'8 gennaio 2001, lo psichiatra visitò di nuovo A.C. e, dopo aver notato la persistenza dei sintomi (l’interessato si sentiva perseguitato e tendeva ad essere sospettoso di tutto) e il rifiuto del detenuto di seguire la terapia, propose di collocare con urgenza A.C. in OPG per un periodo di osservazione.

12. Il medico del carcere trasmise un rapporto alla direzione dell'istituto in cui attestava alcuni atti di autolesionismo commessi da A.C. il 5 e il 6 gennaio 2001 e il rifiuto di quest'ultimo di sottoporsi alla terapia farmacologica raccomandata dallo psichiatra. Inoltre, faceva riferimento alla raccomandazione di trasferire con urgenza A.C. in OPG, fatta dallo stesso psichiatra.

13. Il 9 gennaio 2001 la direttrice del carcere chiese al magistrato di sorveglianza di Messina di ordinare il trasferimento dell’interessato in OPG.

14. Lo stesso giorno, lo psichiatra visitò di nuovo A.C. e propose alla direzione del carcere di abbassare il livello di sorveglianza, cioè di sostituire la «sorveglianza a vista» del detenuto con una «grande sorveglianza». La direttrice del carcere decise di annullare la «sorveglianza a vista» ma optò per un livello di sorveglianza superiore a quello proposto dallo psichiatra, ossia una «grandissima sorveglianza con blindo aperto» su 24 ore, che prevedeva che il blindo rimanesse aperto tutta la notte e la grata chiusa.

15. L'11 gennaio 2001 A.C. si adirò per la mancanza di contatti con la sua famiglia; in seguito a ciò fu organizzata una visita dei suoi genitori per il giorno successivo.

16. Il 12 gennaio 2001 la direttrice del carcere di Messina indirizzò al Ministero della Giustizia la richiesta di collocamento di A.C. in OPG, unitamente alla relativa decisione del magistrato di sorveglianza di Messina dello stesso giorno. Nella sua decisione, il magistrato aveva disposto che A.C. fosse sottoposto al periodo massimo di osservazione psichiatrica, ossia trenta giorni, nel luogo che il Ministero avrebbe indicato.

17. Il 13 gennaio 2001 A.C. chiese, invano, di vedere il suo avvocato. Divenne violento, distrusse gli oggetti in dotazione alla sua cella e si barricò all'interno di quest'ultima usando pezzi di legno di una scopa, un cavo televisivo, lacci di scarpe, lenzuola e altri materiali fissati alla grata della porta. Una delle guardie del reparto «sosta» notò che il figlio dei ricorrenti minacciava di servirsi della gamba del tavolo che si trovava nella sua cella, di cui si era impossessato, contro chiunque si fosse avvicinato a quest'ultima. L'interessato si rifiutò di aprire la porta, dicendo di volersi proteggere da qualsiasi aggressione proveniente dall'esterno, e disse a due guardie che era «la sua testa che glielo faceva dire» (sic). Il capo degli agenti penitenziari fu informato di questi eventi.

18. Il 14 gennaio 2001 altre due guardie carcerarie constatarono che A.C. aveva messo fuori servizio l'illuminazione della cella, per cui era necessario usare una torcia per vedere all'interno della stessa.

19. Il 15 gennaio 2001 le guardie scoprirono che A.C. aveva staccato le luci al neon della sua cella e chiuso le imposte della finestra e constatarono quanto segue: l'interessato era nel buio più completo e, per controllare cosa succedesse, la cella doveva essere illuminata con delle torce; il pavimento della cella era coperto di liquido; e il detenuto lanciava oggetti e secchi d'acqua contro coloro che volevano entrare. Lo psichiatra visitò di nuovo A.C e, dopo aver osservato il suo stato e le condizioni in cui si trovava la cella, reiterò la richiesta di un trasferimento d'urgenza all'OPG.

Lo psicologo del carcere tentò, invano, di parlare ad A.C. e ne informò la direttrice. Quest'ultima apprese che A.C. era barricato dal 13 gennaio 2001. Decise di avvicinarsi alla cella di A.C. e di autorizzarlo eccezionalmente a parlare con il suo avvocato in cella.
Dopo aver conversato con il suo cliente, l'avvocato di A.C. informò la direzione del carcere che quest'ultimo era adirato e aveva danneggiato la cella a causa del suo mancato trasferimento in ospedale, e che rifiutava farmaci e cibo. Dopo l'uscita del suo avvocato, A.C. avrebbe verosimilmente rimosso le barriere che ostacolavano l'entrata nella sua cella.

20. Lo stesso giorno, e sebbene non sia stato riportato alcun elemento in tal senso nel fascicolo medico dell'interessato, quest'ultimo avrebbe ripreso il suo trattamento farmacologico.

21. Il 16 gennaio 2001 A.C. trascorse una giornata calma nella sua cella. Verso le 19.15, una guardia lo trovò appeso con un lenzuolo del letto alla grata della cella. Quando il personale del carcere riuscì a entrare nella cella per fornire le prime cure ad A.C., quest'ultimo non reagì. Il detenuto fu trasportato d'urgenza all'ospedale civile, dove fu dichiarato morto al suo arrivo.

22. Pochi istanti prima, alle 19.05, il carcere di Messina aveva ricevuto dal Ministero della Giustizia l'autorizzazione a trasferire A.C. all'OPG di Barcellona Pozzo di Gotto, conformemente al provvedimento del 12 gennaio 2001 del magistrato di sorveglianza di Messina.

II. IL PROCEDIMENTO PENALE CON COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE

A. L’indagine penale

23. Immediatamente dopo il decesso di A.C., la procura della Repubblica di Messina avviò un'indagine e furono indagate otto persone: la direttrice del carcere, lo psichiatra e sei guardie della struttura carceraria.

24. Analogamente, un esperto fu subito incaricato dal procuratore di Messina di eseguire l'autopsia sul corpo di A.C. L'esito dell'autopsia confermò che si trattava di un decesso per impiccagione, presumibilmente di un suicidio, avvenuto il 16 gennaio 2001 nella cella n. 2 del reparto penitenziario «sosta».

25. Inoltre, si procedette all'interrogatorio del capo degli agenti penitenziari. Quest'ultimo dichiarò che, il 16 gennaio 2001, un agente in servizio aveva visto A.C. verso le 17.50 in uno stato piuttosto calmo, aveva poi effettuato ulteriori controlli e alle 19.15 il detenuto era stato trovato impiccato.

26. Nel corso delle indagini furono eseguiti diversi atti, tra cui l'audizione di più persone (in particolare dei membri del personale medico e degli agenti penitenziari; paragrafi 27-29 infra), fatto che risulta da un verbale delle attività di indagine redatto dai carabinieri il 28 febbraio 2001 (in applicazione dell'articolo 373 del codice di procedura penale).

27. Così, durante la sua audizione, lo psichiatra sostituto, che aveva seguito A.C. nel gennaio 2001, dichiarò di aver visitato l'interessato per la prima volta il 6 gennaio 2001, a seguito degli atti autolesionistici commessi da quest'ultimo. Lo psichiatra dichiarò quanto segue: A.C. non aveva apprezzato la sua collocazione nel reparto «sosta» perché tale reparto era noto per accogliere i collaboratori di giustizia – cosa che lui non era – e si preoccupava per la reazione degli altri detenuti; sospettava di tutti e aveva degli impulsi autoaggressivi; inoltre, si era rifiutato di sottoporsi alla terapia farmacologica. Lo psichiatra proseguì precisando che, di conseguenza, l'8 gennaio 2001, aveva inviato alla direzione una richiesta di trasferimento urgente del detenuto all'OPG, che il 9 gennaio 2001 aveva rivisto A.C. e lo aveva rassicurato dicendogli di aver richiesto il suo trasferimento, e che, vedendo che l'interessato era calmo e sembrava soddisfatto, aveva quindi proposto di abbassare il livello di sorveglianza. Aggiunse che il 15 gennaio 2001, alle 13.25, aveva sentito le grida di A.C provenienti dalla sua cella, che si era quindi avvicinato e aveva constatato dei danni all'interno di quest'ultima, che la luce era spenta, che le imposte della finestra erano chiuse e che la grata della porta era bloccata con la cintura di un accappatoio.

28. Da parte sua, il medico responsabile del carcere, durante la sua audizione, dichiarò quanto segue: il 16 gennaio 2001, nel tardo pomeriggio, aveva sentito delle grida di aiuto provenienti dal reparto «sosta»; vi si era recato immediatamente, accompagnato da un altro medico, e aveva constatato che il corpo di A.C. giaceva sul pavimento della cella; lui e il suo collega avevano tentato di rianimare il detenuto, che, a prima vista, presentava lesioni tipiche di un'impiccagione; all'esame, A.C. era areflesso, le sue pupille non reagivano alla luce e il suo polso periferico era assente, fatto che faceva pensare che l'interessato fosse morto; tuttavia, poiché la temperatura e la rigidità del corpo erano normali, si decise di trasferire il detenuto in ospedale. Durante il suo interrogatorio, un altro medico dichiarò che, all'arrivo dei soccorsi, la cella non era sufficientemente illuminata e che, secondo le sue stime, i primi soccorsi erano stati prestati da dieci a quindici minuti dopo l'inizio del passaggio all'atto suicida.

29. Per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria presenti al momento dei fatti, uno di loro dichiarò che le operazioni di soccorso erano state difficili a causa della mancanza di luce nella cella: secondo lui, le luci al neon, che erano state poste in un angolo della cella, erano state precedentemente rese inutilizzabili dal detenuto stesso. Un altro agente dichiarò che, il 14 gennaio 2001, il figlio dei ricorrenti si era già barricato nella sua cella e che questa informazione era stata riportata fino al responsabile della sorveglianza.

30. Oltre ai suddetti atti investigativi, riferiti nel rapporto dei carabinieri, le autorità eseguirono altri atti, tra cui l'interrogatorio delle persone indagate e l'audizione dei ricorrenti.
Così, l'agente C – uno degli indagati – fu ascoltato due volte, il 13 febbraio e il 30 luglio 2001. In queste circostanze, dichiarò quanto segue: egli aveva effettuato un controllo della cella di A.C. verso le 16.30 e aveva visto l'interessato steso sul letto; aveva appurato che non vi era luce nella cella e che quest'ultima era gravemente danneggiata; alle 18.00, poiché A.C. gli aveva chiesto un caffè, egli si era assentato per una decina di minuti per andarglielo a prendere; verso le 19.15 aveva sentito una richiesta di aiuto proveniente dall'agente in servizio nel reparto penitenziario «sosta»; si era recato sul posto e aveva quindi constatato che A.C. era appeso alle sbarre superiori della grata della cella; dopo essere entrato nella cella, lui e i suoi colleghi avevano steso il detenuto sul letto; subito dopo, erano arrivati i medici e A.C. era stato trasferito all'ospedale.

31. L’agente G, anch’egli indagato, dichiarò quanto segue: il 16 gennaio 2001, alle 14.00, alla fine del suo turno, egli aveva raccomandato al suo collega, l'agente C, di prestare particolare attenzione ad A.C.; verso le 17.50 l'agente C aveva chiamato un altro collega, l'agente L - anche lui indagato -, per poter fare una pausa; l'agente L era rimasto dalle 18.05 alle 18.15 nel reparto «sosta», e, in questo intervallo, A.C. aveva fumato una sigaretta e chiesto un caffè; secondo le sue dichiarazioni, l'agente L, aveva fatto un altro controllo alle 19.00 e in quel momento A.C. stava fumando una sigaretta; alle 19.15 A.C. fu ritrovato impiccato.

32. Quanto ai ricorrenti, nel corso della loro audizione, il 1° febbraio 2001, dichiararono che il 13 gennaio 2001 avevano chiesto all'amministrazione penitenziaria di collocare il loro figlio in un altro istituto perché temevano per la sua vita.

33. Oltre a questi interrogatori, le autorità competenti eseguirono altri atti di indagine.
Il 17 gennaio 2001, su ordine del procuratore della Repubblica di Messina, fu effettuata l'ispezione della cella occupata da A.C. A seguito di questa misura, i due agenti penitenziari, incaricati di eseguirla, nel loro rapporto indicarono, in particolare, che il mobilio era stato in parte distrutto, soprattutto il letto, il lavabo, il tavolo da pranzo, la plafoniera, la base del televisore e i vetri della finestra. Analogamente, il 26 gennaio 2001 fu eseguita una seconda ispezione dai carabinieri, sempre su ordine del procuratore della Repubblica di Messina.

34. Inoltre, gli investigatori misero mano alle registrazioni video delle telecamere di sorveglianza, di cui la direzione del carcere aveva omesso di segnalare esistenza. Dopo un'intercettazione degli agenti penitenziari, si scoprì che costoro avevano ricevuto la disposizione della direttrice del carcere di non menzionare l'esistenza di queste cassette. Peraltro, fu accertato che su una delle cassette mancavano quattro minuti di registrazione.

35. Infine, nel corso dell'indagine, il Ministero della Giustizia ordinò delle ispezioni nel carcere di Messina. Una prima ispezione ebbe luogo nel 2001 e non rilevò alcun elemento particolare. Una seconda ispezione fu effettuata nel 2002, nell'ambito della quale fu nominata una commissione incaricata di redigere un rapporto sul carcere di Messina.
In questo documento, la commissione ministeriale formulava delle critiche nei confronti della direzione del carcere, in particolare del capo degli agenti penitenziari, giudicato totalmente incompetente rispetto al posto occupato, e della direttrice dell'istituto penitenziario, descritta come disattenta ai reali problemi del carcere, e proponeva la sostituzione di questi ultimi.
Per quanto riguarda il suicidio del figlio dei ricorrenti, i risultati dell'ispezione indicavano che i precedenti di A.C. erano stati sottovalutati e che vi era stata quindi una disattenzione da parte della direzione. In particolare, la commissione ministeriale criticava la decisione di sostituire la «sorveglianza a vista», di natura permanente, con una sorveglianza a intervalli frequenti, pur precisando che questa scelta era forse giustificata da una mancanza di personale. Inoltre, la commissione riteneva che il fatto che il figlio dei ricorrenti avesse eretto una barricata nella sua cella dimostrava la necessità di mantenere la «sorveglianza a vista» e che era difficile comprendere come la richiesta di un trasferimento «urgente» in OPG potesse conciliarsi con la revoca della «sorveglianza a vista». La commissione menzionava che, anche se era vero che lo psichiatra aveva proposto di abbassare il livello di sorveglianza, il parere di questo specialista non era vincolante. Inoltre, riteneva che la direzione del carcere avrebbe potuto adottare una misura eccezionale, che consisteva nel togliere le lenzuola. Notava anche che la direttrice del carcere sembrava aver esaminato il fascicolo di A.C. solo dopo la sua morte.

B. Il rinvio a giudizio delle persone indagate

36. Il 21 ottobre 2003 il procuratore della Repubblica chiese il rinvio a giudizio della direttrice del carcere e degli agenti penitenziari indagati. La direttrice e l'agente L erano sospettati di non aver impedito il suicidio di A.C. Tre delle guardie – gli agenti C, G e L – erano sospettati di aver aiutato la direttrice a nascondere l'esistenza delle videoregistrazioni effettuate nei corridoi del carcere e ad ostacolare il corso della giustizia. L'agente L è stato anche indagato per non aver sorvegliato efficacemente A.C.

37. I ricorrenti si costituirono parte civile nel procedimento l'8 novembre 2004. Nell'ambito della loro richiesta, essi contestavano il comportamento delle autorità, accusandole di non aver adottato misure idonee a prevenire il suicidio del loro figlio e di aver lasciato quest'ultimo senza assistenza medica in cella sebbene il suo stato di salute avrebbe richiesto un ricovero d'urgenza.

38. Il 15 febbraio 2005 il giudice per le indagini preliminari di Messina rinviò a giudizio le persone indagate.

39. Il processo dello psichiatra, accusato di non aver impedito il suicidio di A.C., si svolse parallelamente con rito abbreviato.

C. Le decisioni emesse nel procedimento

40. Con sentenza del 17 ottobre 2005, il giudice del tribunale di Messina assolse lo psichiatra. In particolare, per quanto riguarda l'accusa elevata contro quest'ultimo di non aver tenuto adeguatamente conto della situazione di A.C. e di avere in seguito suggerito una riduzione del livello di sorveglianza, il giudice ritenne, dopo aver analizzato il comportamento dello psichiatra, che l'omissione denunciata non avesse alcun nesso causale con la morte di A.C. Rilevò quindi che lo psichiatra aveva incontrato A.C., dapprima il 6 gennaio 2001, e suggerito la «sorveglianza a vista», poi il 9 gennaio 2001, e in quel momento aveva apprezzato il miglioramento delle condizioni di A.C. e, di conseguenza, aveva invitato la direzione del carcere a ridurre il livello di sorveglianza. Il giudice concluse che il comportamento dello psichiatra non poteva essere rimesso in discussione per il fatto che, tra la sua ultima visita e il suicidio, A.C. «avrebbe dovuto essere sorvegliato dalle guardie sulla base delle istruzioni che il responsabile della sicurezza personale dei detenuti avrebbe dovuto dare a [questi agenti]».

41. Con sentenza del 13 dicembre 2007, il giudice del tribunale di Messina assolse la direttrice del carcere e gli altri imputati.

42. Per quanto riguarda l'ora del ritrovamento del corpo di A.C., il giudice la dedusse dalla registrazione video effettuata dalle telecamere posizionate vicino alla cella del detenuto. Rilevò, così, che le immagini registrate mostravano tre persone che apparivano sullo schermo alle 19.19, e una di esse che si metteva a correre verso la cella di A.C., questa stessa persona che ritornava correndo alle 19.23 e, infine, diverse persone, tra cui una in camice bianco, che apparivano sullo schermo alle 19.29. Il giudice ritenne che fosse quindi ragionevole stimare che il ritrovamento del corpo fosse avvenuto verso le 19.19, e notò che l'autopsia aveva confermato che il decesso per impiccagione era avvenuto verso le 19.00.

43. Il giudice constatò che la direttrice del carcere non aveva menzionato l'esistenza del sistema di videosorveglianza e che mancavano quattro minuti (tra le 18.34 e le 18.38) della registrazione video effettuata dalle telecamere nel corridoio vicino alla cella di A.C. Osservò, tuttavia, che si doveva tener conto del fatto che non c'erano telecamere di sorveglianza che riprendessero l'interno delle celle e che le immagini riguardavano solo il corridoio esterno alla cella. Di conseguenza, il giudice ritenne che, anche supponendo che il filmato fosse stato completo, il momento del passaggio all'atto suicida non avrebbe potuto essere registrato in ogni caso. Rilevò che, anche se la direttrice del carcere non aveva avuto una condotta irreprensibile e non aveva pienamente collaborato con gli investigatori, la stessa non aveva commesso alcun reato poiché aveva consegnato le cassette alle autorità giudiziarie su loro richiesta e non vi erano prove che i quattro minuti in questione fossero stati cancellati. Inoltre, il giudice indicò che i minuti mancanti non erano importanti, poiché il figlio dei ricorrenti era stato visto ancora in vita verso le 19.00, cioè dopo che il filmato era stato tagliato, da un agente penitenziario.

44. Successivamente, il giudice ritenne che il suicidio di A.C. non fosse prevedibile per i seguenti motivi: la direttrice del carcere aveva disposto la revoca della «sorveglianza a vista» sulla base del parere dello psichiatra, per cui questa decisione non poteva esserle ascritta; non poteva neanche esserle ascritto di non aver ordinato il collocamento del detenuto in una cella priva di oggetti, poiché le lenzuola sarebbero state verosimilmente lasciate al loro posto; la direttrice del carcere non poteva neanche essere criticata per la sua decisione di non intervenire con la forza per rimuovere la barricata che A.C. aveva eretto all'interno della sua cella, poiché questa decisione non aveva nulla a che fare con la morte del giovane. A questo proposito, il giudice osservò che, data l'impossibilità di applicare il contenimento fisico in carcere, il figlio dei ricorrenti non avrebbe potuto essere legato anche se il personale penitenziario avesse potuto avvicinarsi a lui una volta rimossa la barricata. Notò anche che, in ogni caso, dopo aver ricevuto la visita del suo avvocato il 15 gennaio 2001, il detenuto stesso aveva rimosso gli ostacoli all'ingresso della cella e che, il giorno successivo, gli agenti penitenziari avevano potuto entrare liberamente nella stessa fino a poco tempo prima del suicidio.

45. Quanto alla questione se la «sorveglianza a vista» avrebbe impedito il suicidio, il giudice osservò che questa misura era riservata alle persone con tendenze suicide e che, in questo caso, A.C. aveva commesso solo «alcuni atti di autolesionismo». Inoltre, rammentò che, nell'ambito della «grandissima sorveglianza», era prevista un'osservazione più attenta del detenuto interessato sia da parte del personale di sicurezza che dell'équipe sanitaria, che doveva visitare frequentemente l'interessato e avere un contatto diretto con lui al fine di determinare il suo stato e le condizioni all'interno della cella.

46. Il giudice ritenne che la «grandissima sorveglianza» alla quale A.C. era stato sottoposto dal 9 gennaio 2001 fosse perfettamente adeguata alla situazione in causa. Ritenne che la frequenza dei controlli, come pure il monitoraggio assicurato dallo psichiatra, che del resto avrebbe dovuto essere quotidiano, fossero idonei a impedire il suicidio del detenuto. A questo proposito, il giudice notò che gli atti di autolesionismo in questione non erano molto importanti e non lasciavano presagire un pericolo concreto e imminente di suicidio, e che il 15 e il 16 gennaio 2001 A.C. sembrava essere collaborativo e avrebbe preso le sue medicine.

47. Per quanto riguarda le presunte mancanze nella sorveglianza del detenuto che erano ascritte all'agente L., il giudice riconobbe quest'ultimo non colpevole in quanto non era stata accertata alcuna negligenza. Nel giungere a questa decisione, il giudice ragionò come segue. Da un lato, la misura della «grandissima sorveglianza» che l'agente L doveva applicare non prevedeva l'obbligo di trovarsi sempre nelle vicinanze della cella del detenuto, e la frequenza dei controlli non era specificata. Dall'altro, l'affermazione secondo la quale non vi era stato alcun controllo nella mezz'ora che aveva preceduto il suicidio del detenuto non era verificabile con le registrazioni delle videocamere di sorveglianza. Infatti, le riprese in quella parte del carcere erano cessate alle 18.47 e le registrazioni erano riprese solo alle 19.15, cioè dopo il suicidio.

48. A seguito dell'assoluzione della direttrice del carcere e degli altri indagati da parte del tribunale di Messina, fu chiuso anche il procedimento disciplinare che era stato avviato dopo il rinvio a giudizio.

49. I ricorrenti interposero appello avverso la sentenza sopra citata. Nel loro ricorso, sostenevano che il giudice unico non si era pronunciato sulle questioni civili relative ai danni materiali e morali subiti a causa del decesso del loro figlio. Il procuratore non interpose appello.

50. Con sentenza del 15 novembre 2010, la corte d'appello di Messina respinse l'appello dei ricorrenti.

51. I ricorrenti presentarono ricorso per cassazione.

52. Con sentenza del 10 maggio 2012, depositata presso la cancelleria l'11 febbraio 2013, la Corte di cassazione respinse il ricorso dei ricorrenti.

IL QUADRO GIURIDICO PERTINENTE

I. IL DIRITTO INTERNO

53. Secondo le disposizioni interne applicabili in materia, le cure psichiatriche possono essere dispensate dal personale specializzato appartenente al servizio sanitario penitenziario (articolo 17 del decreto del Presidente della Repubblica (DPR) n. 230 del 30 giugno 2000) o da medici esterni al carcere (articolo 80 della legge sull'ordinamento penitenziario).
L’articolo 112 del DPR n. 230/2000 prevede che il giudice può, d'ufficio o su segnalazione del direttore del carcere, disporre l'accertamento delle condizioni psichiche di un detenuto. Se l'esame deve essere espletato in un istituto esterno, il periodo di osservazione non può essere superiore a trenta giorni.

54. Gli ospedali psichiatrici giudiziari («gli OPG») sono stati chiusi definitivamente il 31 marzo 2015, in applicazione delle leggi n. 9 del 17 febbraio 2012 e n. 81 del 30 marzo 2014.

II. I TESTI DEL CONSIGLIO D’EUROPA

A. Il Comitato dei Ministri

55. Il 12 febbraio 1987 il Comitato dei Ministri ha adottato la Raccomandazione (87) 3 sulle Regole penitenziarie europee2. , in vigore al momento dei fatti. Le Regole penitenziarie europee citano delle raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Consiglio d'Europa relative alle regole minime da applicare nelle carceri. Si raccomanda agli Stati di ispirarsi a tali regole nell’elaborazione delle loro legislazioni e delle loro politiche e di assicurarne un'ampia diffusione presso le autorità giudiziarie, il personale penitenziario e i detenuti. In particolare, le regole pertinenti nel caso di specie erano così formulate:

«30. 1. Il sanitario deve aver cura della salute fisica e psichica dei detenuti. Deve visitare, nelle condizioni e con la frequenza consigliata dalle norme ospedaliere, tutti i detenuti malati, tutti quelli che segnalano di essere malati o feriti, e tutti quelli sui quali la sua attenzione è particolarmente attirata.

2. Il sanitario deve far rapporto al direttore ogni qualvolta ritenga che la salute fisica o psichica di un detenuto è stata o può essere sfavorevolmente influenzata da un prolungamento o da una qualsivoglia modalità della detenzione.

31. (...) 2. Il direttore deve prendere in considerazione i rapporti e i pareri del sanitario previsti dalle regole 30, paragrafo 2, e 31, paragrafo 1, e, in caso di accordo, adottare immediatamente le misure volute perché tali raccomandazioni siano applicate; in caso di disaccordo, o se la materia non rientra nella sua competenza, egli deve trasmettere immediatamente le sue osservazioni e il rapporto sanitario all’autorità sovraordinata.

32. I servizi sanitari dell’istituto devono adoperarsi per diagnosticare e curare tutte le malattie fisiche o mentali e le malformazioni suscettibili di compromettere il reinserimento del detenuto dopo la sua liberazione.

A tal fine, devono essere fornite al detenuto tutte le cure mediche, chirurgiche e psichiatriche necessarie, ivi comprese quelle che sono fornite all’esterno.

(...)»

56. L’8 aprile 1998 il Comitato dei Ministri ha adottato la raccomandazione R (98) 7 sugli aspetti etici e organizzativi delle cure sanitarie negli istituti penitenziari. Il capitolo D del titolo III è dedicato ai sintomi psichiatrici, ai disordini mentali e ai gravi disturbi della personalità, nonché al rischio di suicidio. In particolare, esso prevede che:

«55. I detenuti che soffrono di gravi disturbi psichici dovrebbero poter essere posti e curati in un reparto ospedaliero dotato dell'attrezzatura adeguata e che disponga di personale qualificato. La decisione di ammettere un detenuto in un ospedale pubblico dovrebbe essere presa da un medico psichiatra previa autorizzazione delle autorità competenti.

56. Quando l'isolamento in cella dei detenuti affetti da disturbi psichici non può essere evitato, quest'ultimo dovrebbe essere ridotto a una durata minima e sostituito non appena possibile con una sorveglianza infermieristica permanente e personale.

57. In situazioni eccezionali, per quanto riguarda i malati che soffrono di gravi disturbi mentali, il ricorso a misure di coercizione fisica può essere previsto per una durata minima corrispondente al tempo necessario affinché una terapia medica produca l'effetto di sedazione atteso.

58. I rischi di suicidio dovrebbero essere valutati permanentemente dal personale medico e penitenziario. A seconda dei casi, se sono state utilizzate misure di coercizione fisica concepite per impedire ai detenuti malati di auto-danneggiarsi, dovrebbero essere utilizzate una sorveglianza stretta e permanente e un sostegno relazionale durante i periodi di crisi».

B. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)

57. Nel giugno 1993, il CPT ha pubblicato il suo 3° Rapporto generale, intitolato «I servizi medici in carcere», nel quale raccomanda in particolare quanto segue:

«43. Un detenuto malato di mente deve essere tenuto e curato in una sede ospedaliera che sia opportunamente attrezzata e possieda personale opportunamente preparato. Tale sede potrebbe essere un ospedale psichiatrico civile o una sede psichiatrica specialmente attrezzata all’interno del carcere.
(...)
Qualunque direzione venga scelta, la capacità di sistemazione del centro psichiatrico in questione deve essere adeguata; troppo spesso si verifica un periodo di attesa prolungata prima che sia effettuato un necessario trasferimento. Il trasferimento della persona interessata in una sede psichiatrica deve essere considerato questione della più alta priorità.».

IN DIRITTO

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE

58. Dal punto di vista dell’articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti lamentano che le autorità nazionali non hanno adottato le misure sufficienti per prevenire il suicidio del loro figlio. Sempre dal punto di vista dello stesso articolo, essi criticano l'indagine condotta sulle circostanze della morte del loro figlio e le responsabilità in questo decesso in quanto tale indagine non sarebbe stata conforme agli obblighi di natura procedurale di tale disposizione che, nelle sue parti pertinenti, recita:

«1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. (...)»

59. Il Governo contesta questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

60. Il Governo eccepisce che il ricorso è manifestamente infondato. Gli argomenti che esso formula a tale riguardo si confondono con le sue osservazioni sul merito.

61. Pertanto la Corte esaminerà nella loro globalità le osservazioni del governo convenuto nella propria analisi sul merito.

62. Constatando che questa doglianza non è manifestamente infondata né irricevibile per altri motivi tra quelli indicati nell’articolo 35 della Convenzione, la Corte la dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Sull’obbligo di proteggere la vita del famigliare dei ricorrenti

a) Tesi delle parti

63. I ricorrenti affermano che le autorità interne, per mancanza di precauzioni e per negligenza, non hanno adottato le misure necessarie e adeguate idonee a impedire il suicidio del loro figlio. Essi rinviano, tra l'altro, al rapporto di ispezione della commissione del Ministero della Giustizia del 2002 (paragrafo 35 supra), da cui risulta, a loro parere, che il gesto fatale del loro familiare avrebbe potuto essere evitato. Essi affermano che i disturbi psichici da cui era affetto il loro figlio erano ben noti alle diverse parti in causa, il che, secondo loro, avrebbe dovuto spingere la direzione del carcere ad adottare misure ragionevoli e adeguate alla situazione. In particolare, i ricorrenti contestano alle autorità di non avere adattato il livello di sorveglianza alle circostanze.

64. Il Governo replica che la doglianza è manifestamente infondata e afferma che le autorità hanno adottato ogni misura possibile per prevenire il rischio di suicidio.

65. Anzitutto, il Governo afferma che le autorità erano consapevoli dei disturbi della personalità di A.C. e che una presa in carico era stata assicurata. Precisando che lo stato di salute del familiare dei ricorrenti era stato ritenuto compatibile con la detenzione, esso ritiene che le autorità penitenziarie abbiano agito con diligenza e risposto in maniera adeguata ai segnali di disagio di A.C. Perciò, le sedute con lo psichiatra, l'adozione delle diverse misure di sorveglianza, la scelta di non forzare la barricata eretta dall'interessato, così come la celerità – addotta dal governo convenuto – con cui è stata trattata la domanda di trasferimento verso l’OPG, dimostrerebbero l’attenzione attribuita alla situazione controversa nonché il rispetto degli obblighi derivanti dall'articolo 2 della Convenzione.

66. Inoltre, il Governo afferma che i tribunali interni hanno assolto gli imputati, in particolare la direttrice del carcere, e afferma quanto segue: i giudici nazionali hanno ritenuto che il comportamento dell’interessata non denotasse una mancanza di diligenza da parte sua rispetto alla situazione; i tribunali hanno in effetti rilevato che la direttrice del carcere aveva prescritto un follow-up psichiatrico e terapeutico di A.C., che quando quest'ultimo si era barricato all'interno della propria cella la stessa si era rifiutata di ordinare agli agenti penitenziari di forzare l'entrata allo scopo di evitare reazioni impulsive di quest'ultimo, e aveva poi deciso di abbassare il livello di sorveglianza basandosi sul parere dello psichiatra, che attestava una diminuzione dei segni di agitazione del detenuto.

67. Per quanto riguarda gli altri aspetti contestati, il Governo indica che la domanda di ricovero è stata trattata d'urgenza e confuta la tesi dell'esistenza di un nesso di causalità tra il mancato trasferimento di A.C. in un'altra cella e il suo suicidio, affermando che un eventuale trasferimento non avrebbe potuto impedire che quest’ultimo passasse all’azione.

68. Infine, il Governo invita la Corte a non tenere conto del rapporto di ispezione della commissione ministeriale del 2002, in quanto tale rapporto riguardava un’ispezione generale del carcere, e non il suicidio di A.C.

b) Valutazione della Corte

69. La Corte rammenta che, nella presente causa, lo Stato è responsabile dal punto di vista dell’articolo 2 della Convenzione in quanto tale disposizione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione (Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95, § 89, CEDU 2001 III).

70. Essa rammenta inoltre, come ha fatto nella recente sentenza emessa nella causa Fernandes de Oliveira c. Portogallo [GC] (n. 78103/14, §§ 110 e segg., 31 gennaio 2019), che l'obbligo per le autorità di proteggere la vita di una persona privata della libertà sussiste dal momento in cui queste ultime sapevano o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che la persona interessata attentasse alla propria vita. Per caratterizzare una inosservanza di tale obbligo, è necessario poi dimostrare che le autorità hanno omesso di adottare, nell'ambito dei loro poteri, le misure che, da un punto di vista ragionevole, avrebbero senza dubbio protetto l’interessato da tale rischio.

71. Per quanto riguarda l'accertamento dei fatti inerente alla questione se le autorità fossero al corrente dell'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita dell’individuo interessato o avrebbero dovuto esserlo, la Corte dovrà tenere conto di un certo numero di fattori (Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 115), in particolare i precedenti di disturbi psichici e la gravità della malattia da cui è affetto l’interessato, la commissione di atti di autolesionismo e di tentativi di suicidio, i gesti e pensieri suicidi e i segnali di malessere fisico o psichico.

72. Nella presente causa la Corte osserva, in via preliminare, che in ragione della sua privazione della libertà e dei suoi disturbi psichici A.C. era particolarmente vulnerabile (De Donder e De Clippel c. Belgio, n. 8595/06, § 75, 6 dicembre 2011, e Renolde c. Francia, n. 5608/05, § 84, CEDU 2008 (estratti)).

73. Inoltre, la Corte osserva che prima del suo arrivo nel carcere di Messina A.C. era stato posto varie volte in OPG per alcuni periodi di osservazione. Al familiare dei ricorrenti era stato diagnosticato un insieme di disturbi della personalità definito «dramatic cluster», caratterizzato tra l'altro da un comportamento «borderline». Sempre prima del suo arrivo nel carcere di Messina, A.C. aveva commesso dei tentativi di suicidio e degli atti di autolesionismo (paragrafo 5 supra). Perciò, la sua cartella clinica attestava i suoi disturbi psichici e la sua vulnerabilità (si veda, a contrario, Isenc c. Francia, n. 58828/13, § 38, 4 febbraio 2016, § 39).

74. La Corte osserva peraltro che il governo convenuto, nelle sue osservazioni (paragrafo 65 supra) indica espressamente che le autorità italiane erano al corrente dello stato di salute del figlio dei ricorrenti e che, a partire dal suo arrivo nel carcere di Messina, hanno messo in atto una presa in carico specifica.

75. La Corte ritiene che il rischio di suicidio di A.C., oltre a essere reale, fosse anche immediato. In effetti, è sufficiente fare riferimento al peggioramento progressivo dello stato mentale di A.C. a partire dal suo arrivo nel carcere di Messina, in particolare dal 3 gennaio 2001 e fino al giorno del suo decesso, tredici giorni dopo (paragrafi 7 e seguenti supra) (si vedano, mutatis mutandis, Keenan, sopra citata, § 96, e Ketreb c. Francia, n. 38447/09, § 83, 19 luglio 2012).

76. In conclusione, la Corte è convinta che le autorità fossero a conoscenza che vi era un rischio reale e immediato che A.C. potesse commettere degli atti di autoaggressione e attentare in maniera fatale alla propria vita.

77. Rimane da stabilire se le autorità abbiano fatto tutto quanto si poteva ragionevolmente attendersi da esse per prevenire il rischio di suicidio, fermo restando che conviene interpretare tale obbligo in maniera da non imporre alle autorità un onere insostenibile o eccessivo e che qualsiasi minaccia presunta contro la vita non obbliga le autorità, in riferimento alla Convenzione, ad adottare misure concrete per prevenirne la realizzazione (si veda, tra molte altre, Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 111).

78. Concretamente, è sufficiente che il ricorrente dimostri che le autorità non hanno fatto tutto quanto si poteva ragionevolmente attendersi da esse nelle circostanze della causa per impedire il materializzarsi di un rischio certo e immediato per la vita di cui erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza (Isenc, sopra citata, § 38, e la giurisprudenza ivi indicata).

79. Per quanto riguarda le misure adottate dalle autorità nella presente causa, la Corte non può negare che queste ultime abbiano condotto alcune azioni per assicurare la protezione della vita di A.C.

80. In effetti, si può notare che, il 3 gennaio 2001, l'amministrazione carceraria ha risposto alla domanda di trasferimento di A.C. quando quest'ultimo ha affermato che temeva per la propria vita nella cella in cui si trovava. L’interessato è stato allora trasferito immediatamente in una cella individuale nel reparto penitenziario «sosta» (paragrafo 7 supra).

81. Successivamente, quando sono stati osservati i primi episodi di autoaggressione, rispettivamente il 5 gennaio 2001 (paragrafo 8 supra) e il 6 gennaio 2001 (paragrafo 9 supra), A.C. è stato visitato dallo psichiatra del carcere, che gli ha prescritto una terapia farmacologica. Lo specialista ha anche suggerito la messa in atto di un maggiore controllo del detenuto, ossia la «sorveglianza a vista», il massimo livello di sorveglianza. Lo stesso giorno, la direzione del carcere ha confermato il parere dello psichiatra e applicato la misura suddetta (paragrafo 10 supra).

82. Ciò premesso, la Corte rileva l’esistenza di diversi elementi che indicano una mancanza di diligenza da parte delle autorità.

83. Anzitutto, essa osserva che sono passati dodici giorni tra gli episodi di autoaggressione e l'autorizzazione al trasferimento di A.C. verso un OPG (paragrafo 12 supra), e ritiene che un ritardo di questo tipo non possa essere considerato compatibile con il carattere urgente del trasferimento in OPG, indicato nel rapporto del medico.

84. Un altro elemento da evidenziare riguarda la decisione, adottata il 9 gennaio 2001 dalla direzione del carcere, di abbassare il livello di sorveglianza (da «sorveglianza a vista» a «grandissima sorveglianza con blindo aperto»), il giorno stesso in cui veniva presentata la domanda di trasferimento al magistrato di sorveglianza. Al di là della contraddizione tra le due decisioni, adottate lo stesso giorno, la Corte osserva anche che, in seguito, nonostante una serie di episodi che testimoniano il peggioramento evidente dello stato di salute di A.C., le autorità non sono mai ritornate sulla decisione relativa al livello di sorveglianza e non hanno mai deciso di aumentarlo.

85. Ora, è opportuno rammentare che A.C. rifiutava, dal 6 gennaio 2001, di seguire il trattamento farmacologico prescritto. In effetti, sembra che soltanto il giorno prima del suo suicidio, la sera del 15 gennaio 2001, A.C. avrebbe accettato di assumere i farmaci, circostanza che tuttavia non è stata riportata nella sua cartella clinica (paragrafo 20 supra). A questo proposito, la Corte osserva anche che non vi sono elementi che permettano di determinare se il personale medico esercitasse un controllo sull’effettiva assunzione dei farmaci da parte di A.C. e sul modo in cui questa avveniva.

86. Per di più, la Corte osserva che, dopo il 9 gennaio 2001, A.C. ha distrutto una parte del mobilio della sua cella, tra cui il letto, e si è barricato all'interno della stessa danneggiando anche l’illuminazione e chiudendo le imposte (paragrafo 17 supra), per rimanere così nell'oscurità totale durante i giorni precedenti il suo atto fatale.

87. L’assenza di luce nella cella di A.C. è un aspetto che la Corte intende sottolineare, non solo per le difficoltà che questo ha causato agli agenti penitenziari durante la sorveglianza dell’interessato e al momento dell’entrata nella cella dopo il suicidio di quest’ultimo (paragrafo 29 supra), ma anche per l’effetto che ha potuto avere sullo stato mentale fragile del detenuto.

88. Secondo la Corte, il danneggiamento della cella indicava uno stato di sofferenza e di agitazione particolarmente elevato. Inoltre, secondo le testimonianze degli agenti penitenziari, A.C. faceva discorsi deliranti e paranoici (paragrafo 17 supra).

89. La Corte prende nota della posizione del governo convenuto, che afferma che la direzione del carcere ha seguito il parere dello psichiatra, quando ha deciso di ridurre il livello di sorveglianza, ed ha scelto di non agire per liberare in maniera forzata l’ingresso della cella, e ciò al fine di evitare che la situazione peggiorasse (paragrafo 66 supra).

90. La Corte osserva tuttavia che il parere dello psichiatra non era vincolante e che, secondo la sua stessa testimonianza, tale medico, che sostituiva lo psichiatra titolare, aveva visitato A.C. per la prima volta il 6 gennaio 2001. A questo proposito, essa rinvia ai principi della Raccomandazione R (98) 7 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa (paragrafo 56 supra), secondo i quali i rischi di suicidio devono essere costantemente valutati dal personale medico e penitenziario. Nella fattispecie, essa osserva che , durante il periodo compreso tra il 10 e il 14 gennaio 2001, A.C. non è stato visitato dallo psichiatra, nonostante la sua agitazione e i danneggiamenti evidenti della sua cella, e sebbene sarebbe stato necessario prevedere delle consulenze psichiatriche quotidiane (paragrafo 46 supra).

91. La Corte osserva che, certamente, la direzione del carcere ha permesso all’avvocato di A.C. di fare visita a quest’ultimo direttamente nella sua cella (paragrafo 19 supra). Tuttavia, questo elemento non può compensare il fatto che le autorità non abbiano adottato altri provvedimenti o misure ragionevoli per ridurre il rischio di suicidio, come il trasferimento in un’altra cella dotata di illuminazione funzionale, la pulizia dei luoghi o la messa in atto di consulenze frequenti con lo psichiatra (Çoşelav c. Turchia, n. 1413/07, § 62, 9 ottobre 2012).

92. Ad abundantiam, la Corte osserva che, per quanto riguarda il regime di «grandissima sorveglianza a blindo aperto» – nell’ambito del quale la porta blindata doveva rimanere aperta e la frequenza dei controlli essere conseguente –, non vi sono elementi nel fascicolo che permettano di stabilire in che cosa consistesse più precisamente questo regime. Dal fascicolo stesso emerge che la direttrice del carcere e il capo degli agenti penitenziari non hanno emesso alcun ordine di servizio relativamente alla frequenza dei controlli. A questo proposito, la Corte osserva che, nella decisione di assoluzione dello psichiatra, il tribunale di Messina ha ritenuto che quest’ultimo non potesse essere considerato penalmente responsabile, in quanto il suicidio era avvenuto mentre A.C. era in regime di «grandissima sorveglianza» e avrebbe dovuto, in tale contesto, essere sorvegliato dalle guardie sulla base delle istruzioni che il responsabile della sicurezza personale dei detenuti avrebbe dovuto trasmettere ai suddetti agenti (paragrafo 40 supra). La Corte rinvia anche al rapporto di ispezione redatto dalla commissione del Ministero della Giustizia, che conteneva delle critiche specifiche a proposito della gestione della situazione di A.C. Secondo tale rapporto, le autorità implicate avevano sottovalutato i precedenti del figlio dei ricorrenti e non avevano previsto un livello di sorveglianza adatto al suo stato (paragrafo 35 supra).

93. Tenuto conto di tutti questi elementi, la Corte è convinta che le autorità non abbiano adottato le misure ragionevoli che erano necessarie per assicurare l’integrità di A.C. Le considerazioni sopra esposte sono sufficienti per permettere alla Corte di concludere che le autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita di A.C.

94. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione.

2. Sull’obbligo procedurale di condurre un’indagine effettiva

a) Tesi delle parti

95. I ricorrenti affermano che l'indagine che è stata condotta in merito alle cause della morte del loro figlio e che mirava a individuare gli eventuali responsabili del suo decesso non è stata effettiva.

96. Il governo convenuto replica che le affermazioni dei ricorrenti sono sommarie, in quanto questi ultimi, a suo parere, si sono limitati a menzionare la giurisprudenza della Corte pertinente in materia.

97. In particolare, il Governo afferma che le autorità competenti hanno avviato l'indagine in maniera rapida e diligente, e sostiene che l'indagine è stata adeguata ed effettiva, precisando a tale riguardo che il rispetto del principio del contraddittorio è stato garantito e che si è proceduto a un esame rigoroso dei fatti della causa su tre gradi di giudizio. Il Governo afferma inoltre che, parallelamente al procedimento penale, è stato condotto un procedimento disciplinare da parte delle autorità, che è stato chiuso a seguito dell’assoluzione degli indagati.

b) Valutazione della Corte

98. La Corte rammenta che i fatti della presente causa fanno sorgere un obbligo di natura procedurale nei confronti dello Stato per quanto riguarda la necessità di stabilire le cause della morte di A.C. e di esaminare, una volta accertato il suicidio, se le autorità coinvolte fossero in qualche modo responsabili di una mancata prevenzione. I principi applicabili all’indagine sono stati enunciati nella sentenza Mustafa Tunç e Fecire Tunç (c. Turchia [GC], n. 24014/05, §§ 169-182, 14 aprile 2015).

99. In particolare, per essere definita «effettiva», l’indagine deve essere adeguata (Ramsahai e altri c. Paesi Bassi [GC], n. 52391/99, § 324, CEDU 2007-II, e Giuliani e Gaggio c. Italia [GC], n. 23458/02, § 301, CEDU 2011 (estratti)) e indipendente (Mustafa Tunç e Fecire Tunç, sopra citata, §§ 222-224), deve essere condotta con celerità e con una diligenza ragionevole (Fountas c. Grecia, n. 50283/13, § 72, 3 ottobre 2019) e, infine, deve essere accessibile alla famiglia della vittima (De Donder e De Clippel, sopra citata, § 86). Anche l'esigenza di un controllo pubblico è pertinente in questo contesto (Troubnikov c. Russia, n. 49790/99, § 88, 5 luglio 2005).

100. Nel caso di specie, la Corte rileva che l'indagine sul suicidio di A.C. è stata condotta dal procuratore della Repubblica di Messina. Nei primi giorni successivi al decesso di A.C. è stata ordinata l'autopsia sul corpo del detenuto, che è stata effettuata da un medico terzo nominato dalla procura della Repubblica. Questo esame ha confermato le cause del decesso per impiccagione e conseguente soffocamento. Inoltre, sono state effettuate due ispezioni della cella, sempre su ordine della procura: prima dagli agenti penitenziari, il giorno dopo il decesso, e poi dai carabinieri qualche giorno dopo (paragrafo 33 supra).

101. La Corte rileva anche che il procuratore ha interrogato le persone indagate, il capo degli agenti penitenziari, il medico responsabile del carcere e i ricorrenti, e che le registrazioni della videosorveglianza all'esterno della cella sono state sequestrate ed esaminate.

102. Rileva inoltre che il 21 ottobre 2003 la procura ha richiesto il rinvio a giudizio delle persone indagate, che i ricorrenti hanno potuto costituirsi parte civile (paragrafo 37 supra) e che il 15 febbraio 2005 il giudice per le indagini preliminari ha rinviato a giudizio le persone indagate (si veda, a contrario, Patsaki e altri c. Grecia, n. 20444/14, § 75, 7 febbraio 2019).

103. La Corte constata che i ricorrenti non hanno messo in discussione l'indipendenza degli inquirenti. In ogni caso, essa ritiene che i responsabili delle indagini, ossia i rappresentanti della procura di Messina e i carabinieri, siano indipendenti dalle persone implicate nel decesso (Malik Babayev c. Azerbaijan, n..30500/11, § 81, 1° giugno 2017).

104. La Corte osserva inoltre che la procura della Repubblica ha adottato misure ragionevoli per garantire la raccolta degli elementi di prova riguardanti i fatti in questione, tra cui, in particolare, l'audizione dei testimoni e delle persone indagate, lo studio delle registrazioni di videosorveglianza e l'autopsia sul corpo di A.C. Quest'ultimo esame ha permesso di ottenere un resoconto completo tenuto conto delle lesioni subite dal detenuto e un'analisi obiettiva delle cause del decesso. La Corte osserva inoltre che il procedimento disciplinare è stato condotto, parallelamente al procedimento penale, fin dal rinvio a giudizio, e che in seguito è stato chiuso dopo la sentenza del tribunale di primo grado (paragrafo 48 supra). Inoltre, i ricorrenti sono stati coinvolti nel procedimento dal momento che sono stati sentiti dal procuratore, dapprima nelle fasi iniziali delle indagini e poi in qualità di parti civili durante il processo, nell'ambito del quale hanno potuto denunciare delle negligenze nella presa in carico del figlio (De Donder e De Clippel, sopra citata, § 86).

105. Per quanto riguarda la celerità dell'indagine, e tenuto conto del volume delle prove raccolte, la Corte ritiene che la durata del procedimento non permetta di dubitare dell'effettività dell'indagine. In effetti, l'indagine propriamente detta è durata due anni e nove mesi (paragrafo 36 supra). Inoltre, a differenza di quanto osservato nelle cause Fernandes de Oliveira (sopra citata, § 139) e Patsaki e altri (sopra citata, §§ 74 e 75), nel caso di specie non è possibile rilevare alcuna carenza nell'indagine.

106. La Corte ritiene perciò che le autorità abbiano sottoposto il caso di A.C. a un esame scrupoloso e che abbiano quindi condotto un'indagine effettiva sulle circostanze del suo decesso (Erikan Bulut c. Turchia, n. 51480/99, § 45, 2 marzo 2006). Di conseguenza non vi è stata violazione dell’elemento procedurale dell'articolo 2 della Convenzione.

III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

107. I ricorrenti lamentano che il mantenimento in detenzione del loro figlio, senza un’assistenza medica adeguata, ha costituito un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione, che recita:

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

108. Il Governo contesta questa tesi.

109. La Corte constata che questa doglianza è legata a quella sopra esaminata e deve essere dichiarata ricevibile.

110. Considerata la conclusione alla quale è giunta dal punto di vista dell’articolo 2 della Convenzione (paragrafo 94 supra), la Corte ritiene che sia inutile esaminare la questione se, nella fattispecie, vi sia stata violazione dell’articolo 3 (si veda, tra altri precedenti, De Donder e De Clippel, sopra citata, § 91).

IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

111. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione:

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

112. I ricorrenti chiedono la somma di 8.108,35 euro (EUR) per il danno materiale che indicano di avere riportato, per le spese sostenute per il funerale del loro figlio, e la somma di 333.683,93 EUR per il danno morale che affermano di avere subìto.

113. Il Governo considera che le richieste dei ricorrenti siano prive di un nesso di causalità con i pregiudizi dedotti e, in ogni caso, manifestamente eccesive.

114. La Corte non vede un nesso di causalità sufficiente tra la violazione constatata e il danno materiale dedotto, e respinge dunque la richiesta formulata a questo titolo. La Corte ritiene invece doversi accordare ai ricorrenti, congiuntamente, la somma di 32.000 EUR per danno morale.

B. Spese

115. I ricorrenti chiedono la somma di 10.927,44 EUR per le spese da loro sostenute per il procedimento dinanzi ai giudici nazionali, e si rimettono al giudizio della Corte per quanto riguarda le spese per il procedimento dinanzi ad essa.

116. Il Governo contesta l’importo richiesto dai ricorrenti, ai quali rimprovera di non aver fornito alcun documento a sostegno della loro domanda.

117. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei criteri sopra menzionati e dei documenti prodotti dai ricorrenti, la Corte ritiene ragionevole accordare a questi ultimi, congiuntamente, la somma di 900 EUR per una parte delle spese relative al procedimento interno e respinge, in assenza di documenti giustificativi, il resto della domanda presentata per quanto riguarda le spese inerenti allo stesso procedimento e al procedimento condotto dinanzi ad essa.

C. Interessi moratori

118. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara che vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione;
  3. Dichiara che non vi è stata violazione dell’elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione;
  4. Dichiara non doversi esaminare la doglianza formulata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione;
  5. Dichiara,
    1. che lo Stato convenuto deve versare congiuntamente ai ricorrenti, entro il termine di tre mesi, le somme seguenti:
      1. 32.000 EUR (trentaduemila euro), più l’importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, per danno morale,
      2. 900 EUR (novecento euro), più l’importo eventualmente dovuto su tale somma dai ricorrenti a titolo di imposta, per le spese,
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  6. Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Armen Harutyunyan
Presidente

Renata Degener
Cancelliere aggiunto
 

1Secondo la definizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – DSM-5, dell’Associazione americana di psichiatria.

2L’11 gennaio 2006 il Comitato dei Ministri ha rivisto il testo adottando la Raccomandazione (2006) 2 sulle Regole penitenziarie europee.