Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 19 marzo 2020 - Ricorso n. 41603/13 - Causa Fabris e Parziale contro l'Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita e rivista da Rita Carnevali assistente linguistico e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA FABRIS E PARZIALE c. ITALIA

(Ricorso n. 41603/13)

SENTENZA

Art 34 • Qualità di vittima di una cugina di un detenuto deceduto non automatica • Mancanza di interesse legittimo dinanzi alla Corte nonostante il riconoscimento della qualità di parte lesa nel procedimento interno • Qualità di vittima di uno zio
Art 35 • Esaurimento delle vie di ricorso interne • Scelta della via penale da parte del ricorrente • Archiviazione della causa per prescrizione che impedisce la costituzione di parte civile non equivalente a rinuncia ad avvalersi dei diritti di vittima • Inaccessibilità del ricorso civile invocato dal governo.
Art 2 (materiale) • Obblighi positivi • Decesso in carcere di un detenuto tossicodipendente per inalazione volontaria del gas fornito per cucinare • Uso improprio di una sostanza pericolosa detenuta regolarmente • Dipendenza nota alle autorità penitenziarie e oggetto di un controllo medico costante • Intervento rapido delle autorità durante una precedente inalazione di gas • Decisione legittima di non limitare l'accesso al gas o di non rafforzare la sorveglianza • Assenza di rischio immediato di mettere in pericolo la vita o l'integrità fisica del detenuto
Art 2 (procedurale) • Indagine effettiva sulle circostanze del decesso del detenuto - Intervento immediato delle autorità • Conclusioni errate della prima autopsia senza conseguenze sull'effettività dell'indagine • Significativo rallentamento dell'indagine senza conseguenze sulla sua effettività complessiva • Prescrizione dei fatti che non hanno impedito il compimento di atti istruttori essenziali o la possibile condanna dei responsabili

STRASBURGO

19 marzo 2020

Questa sentenza diverrà definitiva nelle condizioni definite dall’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Fabris e Parziale c. Italia
La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:
Ksenija Turković, presidente,
Krzysztof Wojtyczek,
Aleš Pejchal,
Pauliine Koskelo,
Tim Eicke,
Jovan Ilievski,
Raffaele Sabato, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio l’11 febbraio 2020,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 41603/13) proposto contro la Repubblica italiana da due cittadini di questo Stato («i ricorrenti»), il sig. Gian Paolo Fabris («il ricorrente») e la sig.ra Carmela Parziale («la ricorrente»), che hanno adito la Corte il 12 giugno 2013 ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»)

2. Il ricorrente è stato rappresentato dall’avvocato A. Gamberini, del foro di Bologna, mentre la ricorrente è stata rappresentata dall’avvocato A. Forza, del foro di Venezia. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo ex agente, E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, G. Civinini.

3. I ricorrenti denunciavano che le autorità erano venute meno ai loro obblighi di proteggere la vita del loro parente e di condurre un’indagine effettiva a tale riguardo.

4. Il 23 maggio 2017 il ricorso è stato comunicato al Governo.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1940 e nel 1963 e risiedono ad Abano Terme. Sono rispettivamente uno zio paterno e una cugina da parte di madre di A., nato nel 1971 e deceduto il 30 maggio 2005 mentre era detenuto nel carcere di Venezia.

6. A. faceva uso di droghe e abusava dell’alcol fin dall'età di sedici anni. Fu incarcerato cinque volte tra il 1996 e il 2005. Al momento della sua ultima carcerazione, il 29 aprile 2004, era affetto da patologie legate alla sua tossicodipendenza cronica, in particolare da cirrosi, epatite C ed encefalopatia. In carcere seguiva una terapia psicologica ed era sottoposto a un protocollo farmacologico di disintossicazione. Inoltre, era curato per le sue patologie epatiche.

7. La cartella clinica penitenziaria descriveva A. come «un individuo con l'atteggiamento mentale tipico di un tossicodipendente che cerca, quando ne ha la possibilità, di usare sostanze che lo facciano sballare» senza però manifestare tendenze suicide.

8. L’11 marzo 2005 A. fu trovato in stato di ebbrezza dopo aver ingerito dell’alcol denaturato usato per pulire delle ferite sul braccio riportate a seguito di un incidente. Il 18 marzo 2005 gli agenti penitenziari rinvennero nella sua cella diverse compresse di psicofarmaci che facevano parte del suo trattamento di disintossicazione. Queste ultime furono sequestrate ed il protocollo di somministrazione del trattamento fu adattato in modo da non affidare più le compresse al detenuto. Infine, dalla cartella clinica risulta che A. si rifiutava spesso di sottoporsi ai trattamenti raccomandati dai medici per curare la cirrosi da cui era affetto.

9. Il 12 maggio 2005 A. fu sorpreso da un agente penitenziario mentre inalava il gas contenuto nelle cartucce fornite ai detenuti per cucinare. A seguito del rapporto di questo agente, A. fu deferito al consiglio di disciplina del carcere. L’interessato giustificò i fatti affermando che, poiché il suo braccio era ingessato, aveva tentato di aprire la cartuccia del gas con la bocca. Il 19 maggio 2005 il consiglio di disciplina ritenne credibile la versione del detenuto e chiuse il procedimento disciplinare raccomandando all’interessato di utilizzare le cartucce del gas con prudenza. Nelle sue conclusioni il consiglio di disciplina prese atto del fatto che il medico del carcere, che aveva visitato A. subito dopo l’episodio, non aveva constatato segni evidenti di intossicazione da gas.
10. Il 30 maggio 2005 A. fu trovato morto nella sua cella da S.R., un compagno di cella addetto alla pulizia e alla distribuzione dei pasti. Secondo il rapporto delle autorità penitenziarie, durante il tentativo di rianimazione, i medici rilevarono che nella stanza c'era un forte odore di gas che proveniva anche dalla bocca del paziente, e fu trovata una cartuccia di gas vuota a terra, vicino al corpo.

11. Alcuni agenti della polizia penitenziaria si recarono sul posto e constatarono il decesso. Ispezionarono la cella della vittima, sequestrarono la cartuccia di gas e sentirono S.R. nonché i medici che avevano tentato di soccorrere A. Il procuratore della Repubblica aprì un’indagine il giorno stesso e ordinò che fosse eseguita una perizia medico-legale sul corpo di A. I ricorrenti e altri familiari della vittima furono invitati a nominare un perito nel caso in cui avessero desiderato partecipare all’autopsia.

12. Il 1° giugno 2005 fu eseguita l’autopsia in presenza di un perito nominato dai ricorrenti.

13. Il 23 dicembre 2005 i periti depositarono la loro relazione secondo la quale il decesso era stato causato da una insufficienza cardio-respiratoria acuta. Avendo rilevato che alcune ferite a livello della fronte e della mano sinistra di A. erano compatibili con una elettrocuzione, i periti indicavano, nella loro relazione, che l’insufficienza cardio-respiratoria all’origine del decesso era stata provocata dall’azione dell’energia elettrica. Aggiungevano che l’elettrocuzione poteva essere stata provocata da un terzo con un dissuasore a impulso elettrico. Peraltro, aggiungevano che, tenuto conto delle informazioni che riguardavano il profilo e il comportamento della vittima, non si poteva escludere che quest’ultima avesse volontariamente inalato una sostanza gassosa che ne aveva causato il decesso, anche se le analisi del sangue effettuate non avevano permesso di stabilire con certezza tale circostanza.

14. Il 28 dicembre 2005 il giudice per le indagini preliminari, tenuto conto delle conclusioni della perizia, avviò un procedimento penale contro ignoti per morte come conseguenza di un altro delitto ai sensi dell’articolo 586 del codice penale. I ricorrenti e altri familiari della vittima furono invitati a partecipare al procedimento in qualità di parti lese.

15. L’11 marzo 2006 i ricorrenti depositarono in procura una memoria con la quale sostenevano che A. era deceduto in conseguenza dell’azione di uno degli agenti penitenziari che doveva sorvegliarlo.

16. L’11 maggio 2006 il procuratore sentì S.R. Quest’ultimo affermò di aver fornito alla vittima una nuova cartuccia di gas qualche minuto prima del decesso. Aggiunse che aveva avvisato A. dei rischi di intossicazione, «conoscendo la sua abitudine a inalare il gas delle cartucce».

17. Il 30 giugno 2006 il procuratore chiese e ottenne la proroga del termine di sei mesi per la conclusione delle indagini.

18. Il 13 luglio 2006 ordinò una seconda perizia medico-legale volta a verificare la compatibilità delle lesioni osservate sul corpo di A. con l'azione dell'energia elettrica e, se necessario, a determinare la fonte di elettricità e il nesso causale tra una elettrocuzione e il decesso.

19. Il perito depositò la sua relazione l'11 settembre 2007. In essa affermava innanzitutto che, contrariamente a quanto concluso nella prima perizia, le lesioni osservate sul corpo della vittima non erano compatibili con una elettrocuzione. Rilevava, inoltre, che A. era affetto da una grave fibrosi miocardica, correlata alla sua dipendenza da alcol e droga, rimasta latente fino al decesso. Il perito riteneva che probabilmente A. fosse rimasto vittima di un'aritmia acuta causata dagli effetti del gas, che aveva provocato il decesso a causa della gravità delle patologie cardiache preesistenti.

20. In date diverse, ossia il 27 settembre 2006, il 17 luglio 2007 e il 12 gennaio 2009, i ricorrenti chiesero, senza successo, di poter accedere al fascicolo della procura e di essere informati sugli sviluppi dell’indagine.

21. Il 24 marzo 2009 il procuratore richiese l’archiviazione del procedimento. A suo parere, poiché l'ultima perizia aveva escluso che il decesso fosse stato causato da elettrocuzione, l’ipotesi dell'esistenza di un nesso di causalità tra il decesso e il comportamento di un terzo, che aveva giustificato l'apertura dell'indagine, non era più sostenibile. Sempre secondo la procura, le indagini avevano permesso di concludere che il decesso era stato causato dall'inalazione volontaria, da parte del parente dei ricorrenti, del gas regolarmente fornito dal carcere ai detenuti, ossia da una condotta imprevedibile della vittima, di cui le autorità non erano responsabili.

22. I ricorrenti proposero opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento. Il 30 settembre 2009 si tenne un'udienza. Con decisione del 1° ottobre 2009, il giudice per le indagini preliminari di Venezia respinse la richiesta di archiviazione del procuratore. A suo avviso, se era vero che l'ipotesi del decesso causato da terzi con l'ausilio di un dissuasore doveva essere esclusa, poiché la morte di A. era stata probabilmente determinata dall'inalazione di gas, occorreva comunque accertare se vi fossero delle responsabilità soprattutto per quanto riguardava le modalità con cui erano state fornite le cartucce di gas alla vittima. Di conseguenza il giudice rimise gli atti al procuratore affinché quest’ultimo procedesse alle verifiche necessarie entro un termine di tre mesi.

23. I ricorrenti presentarono delle memorie il 14 ottobre 2009, il 2 marzo 2010 e il 9 aprile 2010.

24. Il 19 maggio 2010 la procura iscrisse i nomi del direttore del carcere di Venezia, del medico responsabile del carcere e del direttore dei servizi penitenziari nel registro delle notizie di reato perché sospettati di aver causato la morte di A. Gli atti furono qualificati come omicidio colposo ai sensi dell'articolo 589 del codice penale.

25. Il 24 maggio 2010 il procuratore interrogò gli indagati, tra cui il direttore dei servizi penitenziari del carcere di Venezia.

26. Il 22 febbraio 2011 e il 14 maggio 2012 i ricorrenti sollecitarono la chiusura delle indagini preliminari e il rinvio degli indagati dinanzi a un giudice.

27. Il 25 luglio 2012 il procuratore chiese nuovamente l’archiviazione del procedimento indicando, in primo luogo, che le perizie non avevano permesso di stabilire con certezza che il decesso fosse stato causato dall'inalazione del gas. Indicò, inoltre, che dalle indagini risultava che il consumo delle cartucce di gas da parte di A. era paragonabile a quello degli altri detenuti nel carcere, cioè una media di due cartucce tra un ordine e l'altro. Aggiunse che il suddetto consumo non era aumentato nei giorni precedenti il decesso poiché l'ultima consegna, di tre cartucce, era stata effettuata il 16 maggio 2005, ossia quattordici giorni prima dei fatti.

28. Il 21 settembre 2012 i ricorrenti presentarono opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento. Il giudice per le indagini preliminari fissò un’udienza per il 29 novembre 2012. Il 10 ottobre 2012 i ricorrenti chiesero che l'udienza fosse anticipata a causa dell'imminente prescrizione dei fatti. Il giudice respinse tale richiesta in quanto l’avviso di fissazione dell’udienza era già stato notificato alle parti.

29. Con provvedimento del 6 dicembre 2012, il giudice per le indagini preliminari archiviò il procedimento con la motivazione che i fatti erano prescritti dal 30 novembre 2012. Il giudice rilevò, innanzitutto, che la prescrizione lo esonerava dal trattare il caso in modo più approfondito. Ciò premesso, egli indicò che l’indagine condotta aveva permesso di concludere che il decesso di A. era stato causato dall'inalazione volontaria del gas fornito dal carcere. Tuttavia, precisò che era difficile ravvisare una responsabilità in capo agli indagati, i quali avrebbero potuto eventualmente impedire alla vittima di avere accesso alle cartucce di gas solo in presenza di precise e comprovate segnalazioni, che nel caso di specie non esistevano.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

30. L’articolo 2043 del codice civile è così formulato:
«Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.»

31. L’articolo 185 del codice penale è così formulato:
«Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.»

32. Ai sensi dell’articolo 79 del codice di procedura penale (CPP), la parte lesa può costituirsi parte civile a decorrere dall’udienza preliminare, ossia dall’udienza durante la quale il giudice è chiamato a decidere se l’accusato debba essere rinviato a giudizio. Prima di questa udienza, o nei casi in cui l'udienza non abbia luogo perché la causa è stata archiviata in una fase precedente, la persona offesa può esercitare determinate facoltà (articolo 90 del CPP).

33. L’articolo 2947 del codice civile (il «CC»), nelle sue parti pertinenti recita:
«1. Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.
(...)
3. In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. (...)»

IN DIRITTO

SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE

34. I ricorrenti sostengono che le autorità penitenziarie non hanno adeguatamente protetto il diritto alla vita del loro parente e non hanno condotto un'indagine effettiva a tale riguardo. Lamentano una violazione dell'articolo 2 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti al caso di specie, è così formulato:
«1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge».

A. Sulla ricevibilità

1. Sulla mancanza di qualità di vittima della ricorrente

35. Il Governo eccepisce, in primo luogo, la mancanza di qualità di vittima della ricorrente di cui non sarebbe stata provata la realtà del legame affettivo con A. e fa notare che quest’ultima non figura neanche nella lista delle persone che andavano regolarmente a trovare A. in carcere, al contrario del ricorrente e di altri familiari. Inoltre, il Governo sostiene che il diritto italiano non considera i cugini come «parenti stretti».

36. I due ricorrenti sostengono di essere familiari stretti di A., orfano di entrambi i genitori dal 1993. Essi affermano di essersi sempre presi cura del loro nipote e cugino mentre era in vita e anche dopo il suo decesso, in particolare partecipando al procedimento avviato dalle autorità per chiarire le circostanze della sua morte.

37. La Corte rammenta che, nelle cause che sollevano questioni ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, una persona che abbia l’interesse legittimo richiesto essendo parente del defunto, può dichiararsi ricorrente a pieno titolo, il che costituisce una situazione particolare disciplinata dalla natura della violazione dedotta e dalle considerazioni relative all'effettiva applicazione di una delle più fondamentali disposizioni del sistema della Convenzione (Fairfield e altri c. Regno Unito (dec.), n. 24790/04, CEDU 2005-VI e Varnava e altri c. Turchia [GC], nn. 16064/90, 16065/90, 16066/90, 16068/90, 16069/90, 16070/90, 16071/90, 16072/90 e 16073/90, § 111, CEDU 2009).

38. Così, gli organi della Convenzione hanno sempre e in maniera incondizionata considerato che un genitore, un fratello, una sorella, un nipote o una nipote di una persona il cui decesso si presume implichi la responsabilità dello Stato convenuto, possano ritenersi vittime di una violazione dell’articolo 2 della Convenzione, anche nel caso in cui i parenti più stretti, come i figli del defunto, non abbiano presentato ricorso (Velikova v. Bulgaria (dec.), n. 41488/98, CEDU 1999-V (estratti), e Yurtsever e altri c. Turchia, n. 22965/10, § 49, 8 luglio 2014). Al contrario, la qualità di vittima di un cugino non è riconosciuta in maniera automatica dalla Corte. È vero che quest’ultima ha accolto dei ricorsi presentati da cugini che sollevavano doglianze legate al decesso del loro parente (si vedano Armani Da Silva c. Regno Unito [GC], n. 5878/08, §§ 186-189, 30 marzo 2016; Van Melle e altri c. Paesi Bassi (dec.), n. 19221/08, 29 settembre 2009; Arapkhanovy c. Russia, n. 2215/05 §§ 7 e 107, 3 ottobre 2013), ma la Corte ha già affermato che un legame di parentela di quarto grado non giustifica di per sé il riconoscimento della qualità di vittima ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione (Belkıza Kaya e altri c. Turchia, nn. 33420/96 e 36206/97, § 46, 22 novembre 2005).

39. Nel caso di specie, la Corte osserva che l'unico elemento addotto dalla ricorrente a sostegno della sua vicinanza ad A. – oltre al suo legame di parentela – è il riconoscimento da parte delle autorità italiane della qualità di parte lesa nel procedimento penale relativo al decesso. Tuttavia, le condizioni che disciplinano i ricorsi individuali presentati ai sensi della Convenzione non coincidono necessariamente con i criteri nazionali relativi al locus standi, in quanto le norme nazionali in materia possono servire a scopi diversi da quelli dell'articolo 34 della Convenzione. Anche se a volte c'è un'analogia tra i rispettivi scopi, non sempre è così. Di fatto, lo scopo sotteso al meccanismo della Convenzione è quello di fornire una garanzia effettiva e pratica alle persone colpite da violazioni dei diritti fondamentali (Velikova, decisione sopra citata, e Malhous c. Repubblica ceca (dec.), n. 33071/96, CEDU 2000-XII).

40. Tenuto conto dell'assenza di elementi che dimostrino che la ricorrente avesse un interesse legittimo in quanto parente, e tenendo presente che il ricorrente rimane parte del procedimento dinanzi ad essa, la Corte ritiene che l’eccezione del Governo vada accolta e che si debba concludere che la ricorrente, la sig.ra Parziale, non può ritenersi vittima ai sensi dell'art. 34 della Convenzione.

41. Pertanto, la Corte si riferirà esclusivamente al ricorrente nel prosieguo della presente sentenza.

2. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne

42. Il Governo sostiene che il ricorrente non ha esaurito le vie di ricorso interne in quanto non ha intentato un’azione di risarcimento danni dinanzi al giudice civile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.

43. Il Governo ritiene che, dal momento che non vi è stata costituzione di parte civile nell’ambito del procedimento penale, l’interessato avrebbe potuto intentare un’azione dinanzi al tribunale civile. Indica che, secondo le norme di diritto interno, il termine di prescrizione dell’azione civile era, nel caso di specie, di sei anni, ossia lo stesso termine di quello stabilito per la prescrizione del delitto (paragrafo 33 supra). Di conseguenza, il ricorrente sarebbe stato libero di rivolgersi al giudice civile in qualsiasi momento, prima del 29 maggio 2011, allo scopo di fare luce sul decesso di suo nipote e ottenere un eventuale risarcimento.

44. Il Governo sostiene che, dinanzi al giudice civile, il ricorrente avrebbe potuto utilizzare gli elementi raccolti durante l'indagine penale. Ritiene che un'azione di risarcimento danni contro l'amministrazione penitenziaria sarebbe stata un rimedio accessibile ed effettivo. Si riferisce, in particolare, ad una sentenza emessa del tribunale di Milano nel 2008, confermata dalla corte d'appello di Milano nel 2012, che ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire i genitori di un detenuto deceduto in circostanze analoghe a quelle della presente causa. Il Governo produce anche una sentenza del 29 giugno 2017 con la quale il tribunale di Milano si è pronunciato, pur respingendola nel merito, sulla richiesta di risarcimento presentata dai familiari di un detenuto deceduto a seguito di una inalazione volontaria di gas.

45. Secondo il Governo, il ricorrente ha rinunciato al suo diritto di ottenere a livello nazionale una riparazione per la violazione dedotta dinanzi alla Corte.

46. Il ricorrente replica che il Governo ha torto a ritenere che egli non abbia dato ai giudici interni l'opportunità di accertare e riparare la violazione dell'articolo 2 della Convenzione. Sostiene di aver utilizzato la via di ricorso più effettiva non solo per ottenere un risarcimento, ma soprattutto al fine di individuare la o le persone responsabili della morte di suo nipote. Egli ritiene che i poteri investigativi delle autorità penali siano molto più ampi di quelli messi a disposizione di una parte privata, alla quale, peraltro, nel processo civile spetterebbe l’onere della prova.

47. Inoltre, il ricorrente afferma che la costituzione di parte civile in un procedimento penale rappresenta, secondo la giurisprudenza della Corte, la via privilegiata per denunciare il decesso di un detenuto in condizioni sospette. Ora, a suo parere, sebbene egli non abbia avuto la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento, ha comunque partecipato all'indagine e ha utilizzato attivamente tutti i poteri che gli erano conferiti in quanto parte lesa.

48. Infine, il ricorrente ritiene che il Governo non abbia sufficientemente dimostrato che un'azione di risarcimento danni sarebbe stata effettiva nel suo caso in quanto, a suo avviso, le uniche due decisioni citate a titolo di esempi dal Governo convenuto sono molto remote nel tempo e sono state pronunciate dal tribunale di Milano e dalla corte d’appello della stessa città, cioè solo da una delle ventisei corti d'appello italiane. Inoltre, egli sostiene che la prescrizione dell’azione penale ha determinato anche la prescrizione dell’azione civile, poiché gli sarebbe stato impossibile adire il giudice civile una volta che il procedimento penale fosse stato archiviato.

49. La Corte rammenta anzitutto che, per determinare se un procedimento interno costituisca, ai fini dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, un ricorso effettivo che i ricorrenti devono esercitare, occorre prendere in considerazione un certo numero di fattori, tra cui la doglianza del ricorrente, la portata degli obblighi che la disposizione della Convenzione in questione fa pesare sullo Stato, i ricorsi disponibili nello Stato convenuto e le particolari circostanze della causa (Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo [GC], n. 56080/13, § 134, 19 dicembre 2017). Se un ricorrente ha utilizzato un mezzo di ricorso apparentemente effettivo e sufficiente, non può essergli contestato di non aver tentato di utilizzarne un altro che era disponibile ma il cui scopo era praticamente lo stesso (si veda, tra altre, O'Keeffe c. Irlanda [GC], n. 35810/09, § 109, CEDU 2014 (estratti).

50. La Corte rammenta anche che – sebbene la Convenzione non garantisca di per sé un diritto all’apertura di un'azione penale nei confronti di terzi – in alcune circostanze eccezionali può essere necessario, ai fini dell'articolo 2, condurre una indagine penale effettiva anche in caso di violazione involontaria del diritto alla vita o all'integrità fisica (Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC], n. 41720/13, § 160, 25 giugno 2019).

51. Inoltre, va ricordato che, in tutti i casi in cui un detenuto muore in condizioni sospette ed in cui è possibile collegare la causa di questo decesso a un’azione o a una omissione di agenti o di servizi pubblici, le autorità hanno l'obbligo di condurre d'ufficio una «indagine ufficiale ed effettiva» che permetta di stabilire la causa del decesso e, se del caso, individuare gli eventuali responsabili e punirli. La Corte ha peraltro affermato che, laddove esista un meccanismo simile, la costituzione di parte civile dinanzi al giudice istruttore o al giudice penale è una via logica ed effettiva per denunciare tali fatti. La costituzione di parte civile si inserisce in effetti pienamente nella logica dell’obbligo procedurale specifico che gli articoli 2 e 3 della Convenzione pongono a carico degli Stati, e consente alle vittime di fatti costitutivi di un crimine o di un delitto di aumentare le loro possibilità di ottenere riparazione dei danni che sono stati loro causati (De Donder e De Clippel c. Belgio, n. 8595/06, §§ 57, 60 e 61, 6 dicembre 2011, Semache c. Francia, n. 36083/16, §§ 51-57, 21 giugno 2018, e Tekın e Arslan c. Belgio, n. 37795/13, §§ 68-71, 5 settembre 2017).

52. Guardando al caso di specie, la Corte osserva innanzitutto che il ricorrente non afferma, e non vi è nulla nel fascicolo che lo indichi, che il decesso di suo nipote sia stato provocato intenzionalmente da agenti dello Stato o dal ricorso illegale alla forza, in quanto l’interessato denunciava piuttosto una mancanza di diligenza delle autorità penitenziarie e una assenza di misure preventive idonee a proteggere la vita di A.

53. La Corte osserva poi, come pure il Governo, che il diritto nazionale offre la possibilità di ottenere un risarcimento per fatti imputabili agli agenti dello Stato sia con la costituzione di parte civile in un'indagine penale sia intentando un'azione di risarcimento danni dinanzi al giudice civile. Il Governo considera che il ricorrente, che non si è costituito parte civile nel procedimento penale, avrebbe dovuto intentare, senza attendere l'esito dell’indagine, un'azione di risarcimento danni dinanzi al giudice civile, il quale avrebbe potuto stabilire la causa della morte di A. e, se del caso, accordare un’adeguata riparazione.

54. La Corte rileva che, nella fattispecie, il ricorrente ha scelto di partecipare in qualità di parte lesa al procedimento penale che era stato avviato d'ufficio dalle autorità per chiarire le circostanze del decesso di A. Se è vero che il ricorrente non si è costituito parte civile in tale procedimento, ciò è dovuto al fatto che, nel diritto italiano, la parte lesa può costituirsi parte civile solo a partire dall'udienza preliminare (paragrafo 32 supra). Ora, l'udienza preliminare nel caso di specie non si è svolta perché il procedimento era stato archiviato nella fase delle indagini preliminari essendosi prescritto il reato.

55. Tuttavia, la Corte osserva che, durante tutto il procedimento penale, che è durato quasi sette anni, il ricorrente ha continuato ad avvalersi dei suoi diritti di parte lesa per accelerare la procedura e ottenere il rinvio a giudizio degli indagati (paragrafi 19, 22, 25 e 27 supra). Di conseguenza, la mancata costituzione di parte civile in ragione dell’archiviazione del caso, in quanto i fatti si erano prescritti, non può essere imputata al ricorrente nelle circostanze del caso di specie e non può essere interpretata come una rinuncia da parte dell’interessato a far valere i suoi diritti di vittima.

56. Per quanto riguarda la tesi secondo la quale il ricorrente avrebbe dovuto intentare un'azione civile separata per soddisfare l’esigenza del mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte rileva innanzitutto che, secondo il Governo, il rimedio civile era accessibile al ricorrente fino al 29 maggio 2011 (paragrafo 43 supra). Ne consegue che, al momento della chiusura del procedimento penale nel dicembre 2012, il termine per intentare un'azione di risarcimento danni era scaduto da diversi mesi, con la conseguenza che tale via di ricorso non era più disponibile per il ricorrente una volta esclusa l’esistenza di reati (si veda, a contrario, Benmouna e altri c. Francia (dec.), n. 51097/13, §§ 48 e 52, e, mutatis mutandis, Dumpe c. Lettonia (dec.), n. 71506/13, CEDU 16 ottobre 2018).

57. La Corte considera che sarebbe stato irragionevole aspettarsi che il ricorrente anticipasse l'esito sfavorevole del procedimento penale e adisse il giudice civile entro il termine fissato a tale scopo. Essa osserva peraltro che, fino alla sua archiviazione per intervenuta prescrizione, il procedimento penale non era manifestamente destinato ad avere esito negativo, dato che ha portato ad una prima decisione del giudice per le indagini preliminari di rigetto della richiesta di archiviazione della procura con ordine di condurre altre indagini allo scopo di chiarire i fatti e verificare l'esistenza di responsabilità penali. Inoltre, la scelta della via penale poteva essere ritenuta preferibile per il ricorrente in quanto l'obbligo di raccogliere elementi di prova incombeva alle autorità inquirenti, che dispongono in tal senso di mezzi ben più efficaci di quelli accessibili a un individuo nella sua qualità di parte privata (De Donder e De Clippel, sopra citata, § 61, Elena Cojocaru c. Romania, n. 74114/12, § 122, 22 marzo 2016, e Nicolae Virgiliu Tănase, sopra citata, § 176).

58. La Corte non comprende per quale motivo si dovrebbe considerare che il ricorrente abbia agito in maniera inappropriata quando ha scelto di prendere parte al procedimento penale e ritiene che l’interessato non avesse motivo di rinunciare a tale possibilità per tentare la via civile. A questo proposito, è opportuno anche rammentare che, se una persona ha più ricorsi interni a sua disposizione, la stessa ha il diritto, ai fini dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, di sceglierne uno che possa portare alla riparazione di quanto lamentato nella sua doglianza principale. In altri termini, quando una via di ricorso è stata esperita, non è richiesto l'utilizzo di un'altra via il cui scopo sia praticamente lo stesso (Aquilina c. Malta [GC], n. 25642/94, § 39, CEDU 1999‑III, KozacıoÄŸlu c. Turchia [GC], n. 2334/03, § 40, 19 febbraio 2009, Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 58, CEDU 2009, e Åžerife YiÄŸit c. Turchia [GC], n. 3976/05, § 50, 2 novembre 2010).

59. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte considera che non si possa accusare il ricorrente di non avere dato alle autorità la possibilità di condurre un’indagine volta all’individuazione dei responsabili del decesso del suo parente e di adempiere pertanto all'obbligo che ad esse incombe ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione.

60. Essa conclude che, nelle circostanze del caso di specie, il ricorrente non fosse obbligato, ai fini dell'esaurimento delle vie di ricorso interne, ad esperire il ricorso civile evocato dal Governo e che l'eccezione sollevata da quest'ultimo sia priva di fondamento a tale proposito. Constatando peraltro che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Osservazioni delle parti

61. Il ricorrente afferma che lo Stato italiano ha omesso di proteggere la vita di suo nipote, ed espone che quest'ultimo era una persona vulnerabile, tenuto conto delle sue condizioni fisiche e psicologiche, e avrebbe dovuto essere oggetto di precauzioni particolari da parte delle autorità penitenziarie.

62. Il ricorrente afferma che le conseguenze nefaste delle azioni di A. non possono essere qualificate come imprevedibili, soprattutto alla luce della storia personale della vittima e del suo comportamento legato alla tossicodipendenza, senz'altro nota alle autorità. Egli si riferisce, a tale riguardo, agli episodi dell’11 e del 18 marzo 2005, nonché all'incidente del 12 maggio 2005, che a suo parere evidenziano i disturbi del comportamento di cui soffriva suo nipote. Il ricorrente considera che gli eventi in questione costituiscano dei precedenti significativi che avrebbero dovuto condurre le autorità ad adottare misure di precauzione, e aggiunge che, in ogni caso, tali fatti costituiscono la prova che le autorità erano al corrente delle azioni pericolose della vittima all’interno del carcere.

63. Il ricorrente afferma inoltre che il decesso di A. avrebbe potuto essere evitato adottando misure di prevenzione adeguate. Egli deplora che suo nipote abbia potuto ottenere senza restrizioni un numero importante di cartucce di gas nonostante il suo profilo e il suo stato di salute, mentre invece, nel 2009, il carcere di Venezia avrebbe deciso di preservare la sicurezza di un detenuto, precedentemente sorpreso mentre inalava gas, attuando un protocollo che limitava l'accesso alle cartucce. Per il ricorrente, questo dimostra che nel caso di specie avrebbero potuto essere previste delle misure individualizzate e specifiche.

64. Il ricorrente afferma anche che l'indagine non è stata effettiva in quanto si è conclusa con un’archiviazione per l'intervenuta prescrizione dei fatti. Egli considera inaccettabile la durata della fase delle indagini preliminari in questa causa e denuncia una reticenza delle autorità competenti, in particolare della procura, ad agire prontamente malgrado le numerose sollecitazioni volte ad accelerare la procedura.

65. Il ricorrente indica che sono trascorsi quasi due anni tra il deposito dell’ultima relazione peritale e la prima richiesta di archiviazione della procura, e afferma inoltre che, dopo il rigetto di tale richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari il 1° ottobre 2009, la procura non ha proceduto ad alcun atto di indagine significativo, oltre all'audizione del direttore dei servizi penitenziari del carcere il 24 maggio 2010, fino alla sua nuova richiesta di archiviazione del procedimento il 25 luglio 2012.

66. Il ricorrente afferma anche che il giudice per le indagini preliminari non ha potuto fare altro che constatare l’imminente prescrizione dei fatti e l’inutilità di condurre delle indagini supplementari. Ora, questo sarebbe incompatibile con gli obblighi di celerità, diligenza ed effettività imposti dall'articolo 2 della Convenzione.

67. Il Governo sostiene che l’autopsia e le perizie condotte durante l'indagine penale in presenza di un esperto designato dal ricorrente non hanno permesso di stabilire con certezza la causa del decesso di A., e aggiunge che soltanto dopo aver effettuato degli esami sul corpo della vittima, e avere così escluso l'ipotesi dell’elettrocuzione causata da terzi, i periti hanno preso in considerazione il fatto che l'inalazione di gas potesse essere all'origine del decesso a causa della patologia cardiaca da cui era affetta la vittima. Il Governo precisa che, tuttavia, i periti non hanno potuto stabilire con certezza che l'inalazione del gas fosse stata determinante, non essendo stato possibile individuare la causa dell’arresto cardiaco di A.

68. Il Governo afferma inoltre che nessun elemento poteva portare le autorità penitenziarie a ritenere che A. fosse in pericolo di vita. Secondo il Governo, l'episodio del 12 maggio 2005 non aveva un significato univoco se si pensa alle spiegazioni fornite da A. alle autorità penitenziarie e ritenute credibili da queste ultime. In ogni caso, per il Governo non vi era alcun motivo serio che imponesse alle autorità di adottare delle restrizioni nella distribuzione di cartucce di gas, restrizioni che, del resto, avrebbero avuto conseguenze anche sui co-detenuti di A.

69. Il Governo sostiene inoltre che il consumo di cartucce di gas da parte della vittima non era irragionevole rispetto al consumo medio degli altri detenuti del carcere, e poteva essere giustificato tenuto conto della quantità di cibo cucinato dal parente del ricorrente. Secondo il Governo, le indagini hanno permesso tutt'al più di stabilire che la vittima non si preoccupava della propria salute e aveva una tendenza a intossicarsi, tipica delle persone tossicodipendenti. Invece, le autorità penitenziarie non avrebbero dimostrato alcuna negligenza e non sarebbero dunque responsabili del decesso, in quanto si sarebbero sempre fatte carico di monitorare dal punto di vista medico e psicoterapico le patologie di A., compresa la sua dipendenza da sostanze stupefacenti e da altre sostanze che danno assuefazione.

70. Per quanto riguarda le precauzioni messe in atto dal carcere di Venezia nel 2009 al fine di preservare l'integrità fisica di un altro detenuto, il Governo indica anzitutto che tale detenuto è stato sorpreso due volte mentre inalava gas e aveva ammesso i fatti, contrariamente ad A. Inoltre, secondo il governo convenuto, nel 2009 il carcere aveva acquisito un'esperienza relativa ai rischi derivanti dall’inalazione di gas che non aveva nel 2005, quando è avvenuto il decesso del nipote del ricorrente.

71. Per quanto riguarda l'elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione, il Governo afferma che, nel caso di specie, è stata condotta un’indagine effettiva. Sarebbero state immediatamente adite le autorità inquirenti, e l'autopsia sul corpo della vittima sarebbe stata effettuata tempestivamente, così come due perizie tecniche volte ad accertare la causa del decesso. Inoltre, sarebbero stati sentiti numerosi testimoni. Il Governo considera che le autorità abbiano compiuto tutti gli accertamenti necessari all’indagine con celerità e diligenza.

72. Il Governo ritiene inoltre che la prescrizione dei fatti non sia intervenuta a causa di un’inerzia degli inquirenti, dato che questi ultimi hanno terminato le loro indagini nel 2010, e dunque entro un termine ragionevole, ma di una scelta della procura di trattare in via prioritaria delle cause sufficientemente suffragate da elementi di prova. Aggiunge che, nella fattispecie, la procura era giunta alla conclusione che gli elementi di prova raccolti non permettessero di sostenere l'accusa nel processo. Perciò, secondo il Governo, il fatto che il procedimento penale non sia stato proseguito non è dovuto alla prescrizione dei fatti, ma piuttosto all’assenza di prove.

2. Valutazione della Corte

a) Sull’obbligo positivo di proteggere la vita

i. Principi generali

73. La Corte rammenta che la prima frase dell'articolo 2 della Convenzione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. La Corte ha dunque il compito di determinare se, nelle circostanze del caso di specie, lo Stato abbia adottato tutte le misure richieste per impedire che la vita di A. fosse inutilmente messa in pericolo (si vedano, per esempio, L.C.B. c. Regno Unito, 9 giugno 1998, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1998 III, e Renolde c. Francia, n. 5608/05, § 80, CEDU 2008 (estratti)).

74. La Corte rammenta anche che l'articolo 2 della Convenzione può, in alcune circostanze ben definite, porre a carico delle autorità l'obbligo positivo di adottare in via preventiva delle misure di ordine pratico per proteggere l'individuo da altri o, in alcune circostanze particolari, da se stesso (Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, § 115, Recueil 1998-VIII, Mastromatteo c. Italia [GC], n. 37703/97, § 68, CEDU 2002-VIII, e Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95, § 89, CEDU 2001-III).

75. Tuttavia, si deve interpretare tale obbligo in maniera da non imporre alle autorità un onere insostenibile o eccessivo, senza perdere di vista le difficoltà che incontrano le forze dell'ordine nell'esercizio delle loro funzioni nelle società contemporanee, l’imprevedibilità del comportamento umano e le scelte operative da fare in materia di priorità e di risorse. Pertanto, ogni presunta minaccia contro la vita non obbliga le autorità, in riferimento alla Convenzione, ad adottare misure concrete per prevenirne la realizzazione (Tanribilir, sopra citata, §§ 70-71, Keenan, sopra citata, § 90, e Taïs c. Francia, n. 39922/03, § 97, 1° giugno 2006).

76. Ciò premesso, in molte cause in cui il rischio proveniva non da atti criminali compiuti da terzi ma da atti di autolesionismo commessi da un detenuto, la Corte ha concluso che sulle autorità gravava un obbligo positivo, in quanto sapevano o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che la persona attentasse alla propria vita. Nelle cause in cui ha accertato che le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza di tale rischio, essa ha successivamente esaminato se le stesse avessero fatto tutto quanto si poteva ragionevolmente aspettarsi da loro per prevenirlo. (Keenan, sopra citata, § 93, CEDU 2001‑III e Fernandes de Oliveira c. Portogallo [GC], n. 78103/14, § 110, 31 gennaio 2019). Perciò, la Corte determina, tenendo conto di tutte le circostanze di una determinata causa, se il rischio in questione fosse reale e immediato.

77. Inoltre, la Corte rammenta che i detenuti si trovano in situazione di vulnerabilità e le autorità hanno il dovere di proteggerli (Keenan, sopra citata, § 91, Younger c. Regno Unito (dec.), n. 57420/00, CEDU 2003-I, Troubnikov c. Russia, n. 49790/99, § 68, 5 luglio 2005, e Renolde, sopra citata, § 83). Parimenti, le autorità penitenziarie devono esercitare le loro funzioni in maniera compatibile con i diritti e le libertà dell'individuo interessato. Possono essere adottate delle misure e delle precauzioni generali per ridurre i rischi di autolesionismo nel rispetto dell’autonomia individuale (si veda, mutatis mutandis, Mitić c. Serbia, n. 31963/08, § 47, 22 gennaio 2013). La Corte ha ammesso che delle misure eccessivamente restrittive potevano sollevare dei problemi in riferimento agli articoli 3, 5 e 8 della Convenzione (Hiller c. Austria, n. 1967/14, § 55, 22 novembre 2016). Per quanto riguarda la questione se debbano essere adottate delle misure più rigorose nei confronti di un detenuto e se sia ragionevole applicarle, questo dipende dalle circostanze della causa (Keenan, sopra citata, § 92, Younger, decisione sopra citata, e Troubnikov, sopra citata, § 70). Infine, la Corte riafferma che, nel caso delle persone affette da malattie mentali, si deve tenere conto della loro particolare vulnerabilità (Keenan, sopra citata, § 111, e Rivière c. Francia, n. 33834/03, § 63, 11 luglio 2006). Le autorità, nel decidere di porre e mantenere in detenzione una persona affetta da una malattia mentale, devono vigilare con particolare attenzione a che le condizioni della detenzione rispondano alle necessità specifiche derivanti dalla sua malattia (Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 113). Per quanto riguarda i rischi di suicidio, in particolare, sempre nel contesto di una persona privata della libertà, la Corte ha inoltre precedentemente tenuto conto di vari fattori al fine di accertare la portata dell'obbligo positivo delle autorità di adottare misure preventive adeguate (si veda, a questo proposito, Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 115).

ii. Applicazione al caso di specie

78. La Corte rammenta anzitutto che nulla nel fascicolo indica – né d’altronde il ricorrente lo suggerisce – che il decesso di A. sia stato provocato intenzionalmente da terzi. Nella fattispecie, la questione che si pone è piuttosto se le autorità si siano sottratte al loro obbligo positivo di proteggere la vita del nipote del ricorrente, tenuto conto della sua situazione personale.

79. La Corte osserva inoltre che quest'ultimo, come hanno constatato le autorità nazionali, non è probabilmente deceduto a seguito di un atto volontario di automutilazione, ma piuttosto per effetto dell’uso improprio di una sostanza pericolosa, di cui era entrato in possesso in maniera regolare. Essa constata inoltre che, sebbene affetto da disturbi del comportamento legati alla sua assuefazione all’alcool e alle droghe, A. non aveva mai evidenziato tendenze suicide e non soffriva di disturbi mentali gravi (si vedano, mutatis mutandis, Troubnikov, sopra citata, § 73, e, a contrario, Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 124, 31 gennaio 2019).

80. Sebbene la vittima non si trovasse in una situazione di vulnerabilità particolare a causa del suo stato mentale, rimane comunque il fatto, secondo la Corte, che la sua tossicodipendenza cronica, associata a disturbi del comportamento legati al consumo di sostanze che danno assuefazione e il suo stato di salute fragile, ne facevano un soggetto particolarmente vulnerabile, il che poteva richiedere una maggiore sorveglianza rispetto agli altri detenuti. La Corte considera in effetti che il pericolo derivante dalla tendenza patologica ad abusare di sostanze tossiche che danno assuefazione e potenzialmente letali, come il gas, può essere equiparabile, in alcune circostanze, al rischio di automutilazione e di suicidio.

81. La Corte deve pertanto esaminare se le autorità sapessero o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che A. mettesse in pericolo la propria integrità fisica e, in caso affermativo, se abbiano fatto tutto quanto si poteva ragionevolmente attendersi da esse per prevenire tale rischio (Keenan, sopra citata, § 93).

82. Nella fattispecie, la Corte constata che le autorità penitenziarie conoscevano la situazione di A. e la sua tendenza patologica all’assuefazione, dato che quest’ultimo era stato molte volte incarcerato. A questo proposito, si deve osservare che la cartella clinica del carcere di Venezia descriveva A. come una persona che necessitava costantemente di sostanze psicoattive, nonostante il trattamento di disintossicazione che gli era stato somministrato. Si deve anche osservare che il comportamento pericoloso della vittima, legato al consumo di sostanze che creano dipendenza, era stato più volte sanzionato dalle autorità penitenziarie (paragrafi 8 e 9 supra).

83. Ciò premesso, la Corte osserva che il nipote del ricorrente era costantemente seguito da parte dei medici del carcere di Venezia, i quali, fin dall'inizio della detenzione, avevano messo in atto dei trattamenti di disassuefazione farmacologica e psicologica. Inoltre, ad A. venivano somministrati dei farmaci allo scopo di curare le patologie da cui quest'ultimo era affetto.

84. Per quanto riguarda, in particolare, la fibrosi miocardica che aveva verosimilmente comportato l'arresto cardiaco di A., tale patologia era stata diagnosticata per la prima volta in occasione della perizia dell'11 settembre 2007, e non era dunque nota alle autorità prima del decesso. Non si può perciò considerare che queste ultime disponessero di elementi tali da condurle a ritenere che A. corresse, rispetto a qualsiasi altro detenuto tossicodipendente, un rischio potenzialmente più elevato di subire delle conseguenze letali dall'uso di droghe ed altre sostanze (si veda, mutatis mutandis, Marro, decisione sopra citata, §§ 43 44).

85. Per quanto riguarda i precedenti comportamentali della vittima, la Corte osserva che le autorità penitenziarie sono intervenute senza indugio allo scopo di chiarire le circostanze nelle quali avevano avuto luogo gli episodi del 18 marzo e del 12 maggio 2005, e che le stesse hanno adottato misure di precauzione con particolare riguardo alle modalità di somministrazione dei farmaci (paragrafo 8 supra). Per quanto riguarda i fatti avvenuti il 12 maggio 2005, ossia l'inalazione di gas da parte di A., riferita da un agente penitenziario, la Corte osserva che il nipote del ricorrente è stato immediatamente preso in carico da un medico e che è stata condotta un'indagine da parte del consiglio di disciplina del carcere. La Corte non può considerare che le conclusioni del consiglio di disciplina, motivate alla luce delle dichiarazioni dell'interessato e della relazione redatta dal medico che attestava l'assenza di segni evidenti di intossicazione da gas, fossero irragionevoli o ingiustificate, e che le autorità abbiano avuto torto a non mettere in atto misure di restrizione particolari come un accesso limitato alle cartucce di gas o un potenziamento della sorveglianza.

86. A questo proposito, la Corte rammenta che le autorità devono adempiere alle loro funzioni rispettando la dignità e la libertà dell'uomo. Perciò, la Corte ha ammesso che delle misure eccessivamente restrittive e che violano l'autonomia individuale della persona senza una giustificazione adeguata possono sollevare dei problemi in riferimento agli articoli 3, 5 e 8 della Convenzione (Keenan, sopra citata, § 92, e Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 112).

87. Inoltre, è opportuno osservare che A. non aveva dato alcun segno di sofferenza fisica o mentale nei giorni immediatamente precedenti il suo decesso. Per di più, il suo consumo di cartucce di gas, che era sempre stato equiparabile a quello degli altri detenuti del carcere, non era aumentato durante questo stesso periodo (paragrafo 27 supra). La Corte ne deduce che le autorità non avevano alcun motivo di prevedere un rischio immediato che il nipote del ricorrente agisse in maniera tale da mettere in pericolo la propria vita o la propria integrità fisica.

88. Tenuto conto di quanto precede, e tenendo presente che l'obbligo positivo che incombeva allo Stato deve essere interpretato in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile o eccessivo, la Corte conclude che non è stato accertato, da una parte, che le autorità sapessero o avrebbero dovuto sapere che sussisteva un rischio reale e immediato per la vita di A. e, dall'altra, che non abbiano adottato le misure che si poteva ragionevolmente attendersi da esse.

89. Pertanto, non vi è stata violazione dell'elemento sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione nelle circostanze del caso di specie.

b) Sull’obbligo procedurale di condurre un’indagine effettiva

i. Principi generali

90. La Corte rammenta che, quando vi è stato il decesso di una persona in circostanze per le quali lo Stato può essere considerato responsabile, l'articolo 2 della Convenzione implica per quest'ultimo il dovere di assicurare, con ogni mezzo di cui dispone, una reazione adeguata – giudiziaria o di altro tipo – affinché il quadro legislativo e amministrativo instaurato ai fini della protezione della vita sia effettivamente attuato e affinché, se del caso, le violazioni del diritto in questione siano represse e sanzionate (Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 91, CEDU 2004-XII, e Volk c. Slovenia, n. 62120/09, § 97, 13 dicembre 2012).

91. In tutti i casi in cui un detenuto decede in condizioni sospette e in cui la causa di tale decesso è riconducibile a un'azione o a un’omissione degli agenti o dei servizi pubblici, le autorità hanno l'obbligo di condurre d'ufficio una «indagine ufficiale ed effettiva» di natura tale da permettere di accertare la causa del decesso e, se del caso, di individuarne gli eventuali responsabili e di permettere che siano sanzionati; si tratta essenzialmente, per mezzo di una tale indagine, di assicurare l'applicazione effettiva delle leggi interne che proteggono il diritto alla vita e, nelle cause in cui sono implicati degli agenti o degli organi dello Stato, di garantire che questi ultimi debbano rendere conto dei decessi avvenuti sotto la loro responsabilità (De Donder e De Clippel, sopra citata, §§ 61 e 85; si vedano anche Mahmut Kaya c. Turchia, n. 22535/93, §§ 106-107, CEDU 2000-III, Ä°lhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 63, CEDU 2000-VII, McKerr c. Regno Unito, n. 28883/95, § 148, CEDU 2001-III, Kelly e altri c. Regno Unito, n. 30054/96, § 114, 4 maggio 2001, Shumkova c. Russia, n. 9296/06, § 109, 14 febbraio 2012, e Volk, sopra citata, § 98).

92. L'obbligo procedurale derivante dall'articolo 2 esige in particolare che l'indagine sia condotta con una ragionevole celerità (Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia [GC], n. 24014/05, § 178, 14 aprile 2015 e Troubnikov, sopra citata, § 88). Una risposta rapida delle autorità quando si tratta di indagare su un decesso potenzialmente causato dall'azione o dall'omissione di agenti o di servizi pubblici può, in genere, essere considerato essenziale per preservare la fiducia del pubblico nel rispetto del principio di legalità e per evitare qualsiasi parvenza di connivenza o di tolleranza relativamente ad atti illegali (mutatis mutandis, Armani Da Silva c. Regno Unito [GC], n. 5878/08, § 237, 30 marzo 2016). Perciò, il semplice trascorrere del tempo può non solo nuocere ad una indagine, ma anche compromettere definitivamente le possibilità che quest'ultima abbia esito positivo (mutatis mutandis, Mocanu e altri c. Romania [GC], nn. 10865/09 e altri 2, § 337, CEDU 2014 (estratti).

ii. Applicazione al caso di specie

93. Nella fattispecie, la Corte ritiene che le autorità avessero il dovere di condurre un'indagine effettiva sulle circostanze del decesso del nipote del ricorrente. Quest'ultimo si trovava, in quanto detenuto, sotto il controllo e la responsabilità delle autorità penitenziarie quando è deceduto in circostanze sospette. L'indagine era necessaria, da una parte, per stabilire la causa della morte e per escludere la possibilità di un incidente o di un atto criminale e, dall'altra, per verificare se le autorità fossero in qualche modo responsabili di non avere impedito un tale atto (si vedano, mutatis mutandis, Volk, sopra citata, § 99, e Castro e Lavenia c. Italia (dec.), n. 46190/13, 31 maggio 2016, § 73).

94. La Corte osserva che il ricorrente lamenta la mancanza di celerità e di effettività dell’indagine, che ha determinato a suo parere l'archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione e, di conseguenza, l'impossibilità di far perseguire i responsabili del decesso del nipote.

95. La Corte rileva che alcuni agenti della polizia penitenziaria sono intervenuti sul posto immediatamente dopo i fatti e hanno condotto le prime indagini allo scopo di raccogliere tutti gli elementi di prova pertinenti. Lo stesso giorno il procuratore ha avviato un'indagine penale. L'autopsia sul corpo della vittima è stata condotta il giorno dopo il decesso e ha dato luogo a una prima perizia medico-legale, la cui relazione è stata depositata sette mesi dopo.

96. La Corte rileva inoltre che, alla luce delle conclusioni di questa prima perizia, le indagini sono state orientate in un primo tempo verso la tesi della morte causata da terzi a seguito dell'utilizzo di un dissuasore a impulso elettrico, soprattutto alla luce della presenza sul corpo della vittima di ferite compatibili con una elettrocuzione. Soltanto all’esito di una seconda perizia disposta dalla procura il 13 luglio 2006 le autorità inquirenti hanno optato per la tesi dell'intossicazione da gas derivante da un atto volontario della vittima. Questa tesi era peraltro corroborata dagli altri elementi raccolti nel corso dell’indagine come le testimonianze di S.R. e dei vari rappresentanti della amministrazione penitenziaria, il contenuto della cartella clinica e del registro penitenziario delle sanzioni disciplinari. La seconda parte dell’indagine preliminare, a decorrere in particolare dalla decisione del giudice per le indagini preliminari del 1° ottobre 2009, è stata pertanto dedicata alla ricerca di elementi che potessero confermare la tesi della negligenza dei rappresentanti dell'amministrazione penitenziaria.

97. La Corte considera anzitutto che le conclusioni errate della prima perizia medico-legale relative alla causa del decesso non possano determinare l’ineffettività dell'inchiesta (si veda, a contrario, Tanlı c. Turchia, n. 26129/95, §§ 150-153, CEDU 2001 III (estratti)). Infatti, esse non sono il risultato di lacune nell'organizzazione e nella realizzazione dell’autopsia e non hanno impedito né un'analisi meticolosa, obiettiva e imparziale di tutti gli elementi pertinenti, né di tenere conto di tutte le possibili piste di indagine. Peraltro, il ricorrente non indica che vi siano state lacune palesi nell’indagine, né sembra considerare che le autorità inquirenti abbiano trascurato degli elementi fondamentali della causa.

98. Inoltre, la Corte non perde di vista che l'autopsia suddetta si è svolta in presenza di un perito scelto dal ricorrente, il quale non ha in alcun momento contestato le conclusioni dei periti nominati dalla procura, e ha sostenuto a sua volta, durante la prima fase dell’indagine, la tesi del decesso causato dall'azione di terzi basandosi su queste stesse conclusioni (paragrafo 15 supra).

99. Per quanto riguarda la celerità dell'inchiesta, la Corte constata che quest’ultima è durata circa sette anni e sette mesi. Essa osserva inoltre con il ricorrente che l'indagine ha avuto un rallentamento significativo soprattutto nella sua ultima fase, ossia tra la decisione del giudice per le indagini preliminari che disponeva il proseguimento delle indagini, in data 1° ottobre 2009, e la seconda richiesta di archiviazione formulata il 25 luglio 2012, sebbene alcuni atti procedurali siano stati compiuti durante questo periodo dall’autorità inquirente (si vedano i paragrafi 24 e 25 supra).

100. Comunque sia, in considerazione dell’entità degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini e dell'attività della procura e dell’amministrazione penitenziaria, la Corte ritiene che il rallentamento suddetto non sia sufficiente per mettere in discussione l’effettività dell'indagine nel suo complesso (a contrario, tra altre, Fernandes de Oliveira, sopra citata, § 139).

101. Per quanto riguarda, in particolare, l'estinzione dell’azione penale, la Corte osserva che il giudice per le indagini preliminari, pur avendo disposto l'archiviazione del procedimento in quanto i fatti erano prescritti, ha indicato che le indagini condotte non avevano fatto emergere negligenze da parte delle autorità penitenziarie, che potessero portare a ritenerle responsabili per le loro azioni od omissioni. Pertanto, nulla lascia intendere che la prescrizione dei fatti, sebbene deplorevole, abbia impedito de facto il compimento di atti di indagine fondamentali per la ricerca della verità o abbia reso impossibile la condanna dei responsabili del decesso di A., in violazione delle esigenze procedurali dell’articolo 2 della Convenzione. A questo proposito, la Corte rammenta che questa disposizione non implica in alcun modo il diritto per un ricorrente di far perseguire o condannare penalmente dei terzi (Öneryıldız, sopra citata, § 96) né un obbligo di risultato che presupponga che qualsiasi azione penale deve chiudersi con una condanna, o addirittura con la pronuncia di una determinata pena (Özel e altri c. Turchia, nn. 14350/05, 15245/05 e 16051/05, § 187, 17 novembre 2015, e Nicolae Virgiliu Tănase, sopra citata, § 185).

102. Tenuto conto di quanto precede, la Corte ritiene che le autorità italiane abbiano agito con la diligenza richiesta dall'elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione. Essa ritiene inoltre che il ricorrente sia stato sufficientemente coinvolto nel processo investigativo, soprattutto ai fini della sua partecipazione ad alcuni atti procedurali e alla possibilità di opporsi alle richieste di archiviazione della procura (paragrafi 12, 14, 15, 22 e 28). Inoltre, il rallentamento osservato nel corso di quest'ultima non è sufficiente per far concludere che lo Stato convenuto sia responsabile a titolo dell’obbligo procedurale che ad esso deriva dall'articolo 2 della Convenzione. Pertanto, non vi è stata violazione dell'elemento procedurale dell'articolo 2 della Convenzione nelle circostanze del caso di specie.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

  1. Dichiara, a maggioranza, che la ricorrente Carmela Parziale non può affermare di essere «vittima» ai fini dell’articolo 34 della Convenzione;
  2. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile per quanto riguarda il ricorrente Gian Paolo Fabris;
  3. Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’elemento sostanziale dell’articolo 2 della Convenzione;
  4. Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 19 marzo 2020, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Abel Campos Cancelliere

Ksenija Turkovic Presidente