Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 7 marzo 2019 - Ricorso n. 22350/13 - Causa Sallusti contro Italia

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA SALLUSTI c. ITALIA

(Ricorso n. 22350/13)

SENTENZA

STRASBURGO

7 marzo 2019

La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni stabilite dall’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Sallusti c. Italia,
la Corte europea dei diritti dell’uomo (Prima Sezione), riunita in una Camera composta da:
Linos-Alexandre Sicilianos, Presidente,
Guido Raimondi,
Aleš Pejchal,
Krzysztof Wojtyczek,
Armen Harutyunyan,
Tim Eicke,
Jovan Ilievski, giudici,
e Abel Campos, cancelliere di Sezione,
dopo aver deliberato in camera di consiglio in data 12 febbraio 2019,
pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 22350/13) proposto contro la Repubblica italiana, con il quale in data 18 marzo 2013 un cittadino italiano, il Sig. Alessandro Sallusti (“il ricorrente”), ha adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ("la Convenzione").

2. Il ricorrente è stato rappresentato dall’avvocato V. Ramella, del foro di Milano. Il Governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo ex agente, Sig.ra E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, Sig.ra P. Accardo.

3. Il ricorrente ha sostenuto che la sua condanna per diffamazione a mezzo stampa e per omesso controllo del contenuto di articoli pubblicati in un giornale da lui diretto avevano violato il suo diritto alla libertà di espressione, garantito dall’articolo 10 della Convenzione.

4. Il summenzionato ricorso è stato comunicato al Governo in data 12 settembre 2016.

IN FATTO

5. Il ricorrente è nato nel 1957 e vive a Carate Urio (Como).

6. I fatti oggetto della causa, così come esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

A. La pubblicazione degli articoli

7. Il ricorrente è un rinomato giornalista italiano. All’epoca dei fatti, e precisamente dal gennaio 2007 al 15 luglio 2008, era direttore responsabile di Libero, un quotidiano nazionale che vendeva circa 125.000 copie al giorno.

8. Il 17 febbraio 2007 uno dei principali giornali italiani, La Stampa, pubblicò un articolo riguardante la vicenda di una tredicenne che aveva abortito. L’articolo asseriva che la ragazza era stata costretta ad abortire dai genitori e da G.C., il giudice tutelare che aveva autorizzato la procedura. Il giorno stesso fu successivamente comunicato che non erano state esercitate pressioni sull’adolescente e che la stessa aveva deciso da sola di interrompere la gravidanza. Tale precisazione fu ampiamente diffusa da diverse fonti: in particolare, il 17 febbraio 2007 l’Agenzia Nazionale della Stampa (ANSA) emise diversi dispacci che chiarivano gli eventi; i telegiornali di Rai2 e Rai3 (i canali televisivi nazionali pubblici italiani) riferirono che le notizie relative alle asserite pressioni esercitate sulla adolescente erano false; i giornali Corriere della Sera e La Repubblica riportarono in modo analogo i fatti relativi al caso.

9. Il 18 febbraio 2007 furono pubblicati due articoli su Libero concernenti gli avvenimenti relativi all’adolescente. Nonostante le precisazioni diffuse il giorno prima da altri mezzi di comunicazione, entrambi gli articoli riferivano che la ragazza era stata costretta ad abortire dai genitori e da G.C.

10. Il primo articolo, scritto da una persona ignota utilizzando lo pseudonimo di “Dreyfus”, era intitolato “Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita”.

11. Era del seguente tenore:

“Una adolescente di Torino è stata costretta dai genitori [ad abortire] (...) Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto! – decretando l’aborto coattivo. (...) Lei proprio non voleva. Si divincolava. (...) Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale. Aveva gridato invano: «Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io», (...) se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice. (...) la medicina e la magistratura sono complici [nell’aborto coattivo].”

12. Il secondo articolo, scritto dal giornalista A.M., era intitolato “Costretta ad abortire dai genitori e dal giudice”. Le parti pertinenti recitavano:

“Una tredicenne incinta abortisce ed è ricoverata in un centro psichiatrico (...) Dopo l’intervento la tredicenne ha accusato i familiari di averla costretta [ad abortire] (...)”

B. Il procedimento per diffamazione a carico del ricorrente

1. Il procedimento di primo grado

13. Il 27 aprile 2007 G.C. presentò una denuncia-querela al Tribunale di Milano nei confronti del ricorrente e di A.M.. Furono contestati al ricorrente il reato di diffamazione, aggravato in quanto il reato consisteva nell’attribuzione di un fatto determinato (articolo 595, commi 1 e 2, del codice penale), e di omesso controllo, in qualità di direttore responsabile del giornale, di quanto era stato pubblicato (articolo 57 del codice penale).

14. Con sentenza del 26 gennaio 2009, depositata nella pertinente cancelleria in data 20 marzo 2009, il Tribunale dichiarò il ricorrente colpevole di omesso controllo, in ordine all’articolo redatto da A.M., e di diffamazione aggravata in quanto, essendo il direttore del giornale, era responsabile dell’articolo pubblicato con lo pseudonimo di “Dreyfus”. Il ricorrente fu condannato al pagamento di una multa di 5.000 euro (EUR), di un risarcimento liquidato in EUR 10.000 e delle spese liquidate in EUR 2.500 (in solido con A.M.), nonché alla pubblicazione della sentenza su Libero.

15. Concluse: i) che entrambi gli articoli contenevano informazioni false e ii) che il contenuto di entrambi gli articoli aveva danneggiato gravemente la reputazione della vittima, eccedendo chiaramente i limiti del diritto del ricorrente di comunicare liberamente informazioni.

2. Il procedimento di appello

16. Il ricorrente propose appello.

17. Con sentenza del 17 giugno 2011, depositata nella pertinente cancelleria in data 24 giugno 2011, la Corte di appello di Milano riformò parzialmente la sentenza di primo grado. Sottolineò che gli articoli in questione avevano riferito informazioni false, in quanto la tredicenne aveva deciso autonomamente di interrompere la gravidanza. Conseguentemente, la Corte di appello ritenne che la pena inflitta fosse eccessivamente mite, in particolare alla luce della gravità del reato commesso e della constatazione che l’appellante era recidivo. La Corte di appello rideterminò la pena in un anno e due mesi di reclusione e confermò la multa di EUR 5.000. Non sospese l’esecuzione della pena e dispose che la condanna dovesse essere menzionata nel certificato del casellario giudiziale del ricorrente. In aggiunta, anche il risarcimento fu aumentato da EUR 10.000 a EUR 30.000.

3. Il ricorso per cassazione

18. Il ricorrente presentò ricorso per cassazione.

19. Con sentenza del 26 settembre 2012, depositata nella pertinente cancelleria in data 23 ottobre 2012, la Corte di Cassazione confermò le conclusioni della Corte di appello, valutando, inter alia, la compatibilità della condanna e della pena inflitta alla luce della giurisprudenza della Corte. In particolare, la Corte di Cassazione tentò di giustificare l’irrogazione di una pena detentiva, sostenendo che il caso presentava circostanze eccezionali. In particolare, l’irrogazione della pena detentiva era stata giustificata da una serie di fattori concorrenti, quali la sussistenza della circostanza aggravante della “attribuzione di un fatto determinato”; la personalità del ricorrente, i suoi precedenti penali (in quanto il ricorrente era recidivo) e il fatto che la pubblicazione di informazioni false aveva leso la reputazione di G.C., un magistrato.

20. Con ordinanza del 30 novembre 2012, depositata in pari data nella pertinente cancelleria, il Tribunale di Sorveglianza di Milano dispose che il ricorrente espiasse la pena agli arresti domiciliari, in quanto non sussisteva il pericolo di fuga.

21. In data imprecisata, invocando l’articolo 87 comma 11 della Costituzione, il ricorrente chiese al Presidente della Repubblica italiana di commutare la pena detentiva residua in una pena pecuniaria.

22. Con provvedimento del 21 dicembre 2012 la domanda del ricorrente fu accolta e la sua pena detentiva fu commutata in una pena pecuniaria pari a EUR 15.532.

23. Nell’adottare la decisione di commutare la pena detentiva del ricorrente il Presidente condivise gli orientamenti critici espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine all’irrogazione di pene detentive ai giornalisti. Espresse inoltre preoccupazione per la riforma in atto della legislazione in materia di diffamazione, che era ancora pendente a causa della difficoltà di individuare un equilibrio tra l’esigenza di attenuare il rigore sanzionatorio e la contemporanea garanzia di più efficaci misure risarcitorie.

24. Il ricorrente trascorse ventuno giorni agli arresti domiciliari, ovvero dal 30 novembre 2012 al 21 dicembre 2012, data in cui fu scarcerato (si vedano i paragrafi 20-22).

II. Il DIRITTO INTERNO PERTINENTE

25. L’articolo 87 della Costituzione enuncia i poteri del Presidente della Repubblica italiana. In particolare, il comma 11 prevede:

“Può concedere grazia e commutare le pene.”

26. L’articolo 174 del codice penale prevede:

“L’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna.”

27. L’articolo 57 del codice penale, intitolato “Reati commessi col mezzo della stampa periodica”, prevede:

“Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo.”

28. L’articolo 595 del codice penale definisce il reato di diffamazione. Le parti pertinenti di tale articolo recitano:

“Chiunque (...), comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a EUR 1.032.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a EUR 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in un atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a EUR 516.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, (…) le pene sono aumentate.”

29. L’articolo 13 della Legge 8 febbraio 1948 n. 47 (in prosieguo “Disposizioni sulla stampa”), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 43 del 20 febbraio 1948, per quanto pertinente, recita:

“Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa (…).”

30. Nelle sue osservazioni il Governo ha sottolineato che una riforma delle disposizioni di legge in materia di diffamazione (Disegno di legge n. 925) era attualmente in fase di revisione per una seconda lettura da parte della Commissione Permanente Giustizia del Senato. Tra le altre cose, il disegno di legge propone di abolire la pena della reclusione per il reato di diffamazione e di sostituirla con una pena pecuniaria.

III. DOCUMENTI DEL CONSIGLIO D’EUROPA

31. In data 24 gennaio 2013 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa adottò la Risoluzione 1920 (2013) intitolata “Lo stato della libertà dei mezzi di informazione in Europa”. In tale documento, con riferimento alla pena di quattordici mesi di reclusione inflitta al ricorrente, l’Assemblea chiese alla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (in prosieguo “la Commissione di Venezia”) di redigere un parere sulla questione della compatibilità della legislazione italiana in materia di diffamazione con l’articolo 10 della Convenzione.

32. In data 9 novembre 2013 la Commissione di Venezia, mediante il Parere n. 715/2013 (“Parere sulla legislazione italiana in materia di diffamazione”) osservò che era in corso una riforma della legislazione in materia di diffamazione (si veda il paragrafo 30 supra): le modifiche proposte prevedevano, inter alia, la limitazione del ricorso a disposizioni penali, l’abolizione della reclusione quale possibile pena e un importo massimo per le sanzioni pecuniarie, che mancava nell’articolo 595 commi 3 e 4 del codice penale (abrogato dal Disegno di legge). La Commissione di Venezia era dell’opinione che [le sanzioni pecuniarie di importo elevato costituissero “una minaccia avente un effetto dissuasivo quasi pari alla reclusione”] ma ricordò anche che ciò doveva essere considerato “un notevole miglioramento, in conformità agli inviti del Consiglio d’Europa a sanzioni più miti per il reato di diffamazione”.
33. La Commissione di Venezia, tuttavia, benché soddisfatta delle modifiche proposte, osservò che il disegno di legge, presentato nel 2013, era ancora prendente dinanzi alla Commissione Permanente Giustizia del Senato.

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE

34. Il ricorrente ha sostenuto che la sua condanna per diffamazione a mezzo stampa e per omesso controllo sul contenuto dell’articolo diffamatorio aveva violato l’articolo 10 della Convenzione, il quale recita:

“1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, ala sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.”

A. Sulla ricevibilità

35. La Corte osserva che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3, lettera a) della Convenzione e rileva inoltre non incorre in altri motivi di irricevibilità. Deve pertanto essere dichiarato ricevibile.

B. Sul merito

1. Osservazioni delle parti

a) Il ricorrente

36. Il ricorrente ha contestato la sua condanna per diffamazione. Ha affermato di essere stato condannato soltanto perché il Pubblico ministero non aveva svolto una appropriata indagine finalizzata a identificare l’autore dell’articolo anonimo. Il ricorrente ha sostenuto che la condanna del direttore responsabile di un giornale aveva avuto l’effetto negativo di impedire la pubblicazione di notizie di interesse pubblico. Il ricorrente ha inoltre sostenuto che “il giorno in cui era stato pubblicato l’articolo egli era assente e non sapeva nulla dell’articolo contestato”.

37. Passando alla proporzionalità del reato commesso alla sanzione inflitta, il ricorrente ha osservato quanto segue.

38. Ha sostenuto innanzitutto che i tribunali interni non avevano adottato un approccio omogeneo in ordine al tipo di sanzione da infliggere: in particolare, il tribunale di primo grado non aveva ritenuto “necessaria” la detenzione, considerando che l’irrogazione di una pena pecuniaria fosse appropriata e sufficiente; in secondo luogo, il ricorrente ha sostenuto che l’assenza di responsabilità soggettiva, poiché il reato era stato commesso da un’altra persona, non poteva giustificare la “crudeltà” della sanzione.

39. Il ricorrente ha inoltre sostenuto che la sanzione inflittagli aveva danneggiato gravemente la sua carriera. Il procedimento a suo carico aveva provocato la sua sospensione dall’esercizio della professione di giornalista per tre mesi. Era stato inoltre costretto a rassegnare le dimissioni dall’incarico di direttore responsabile di un altro giornale, Il Giornale, e, complessivamente, la sua capacità professionale era stata inevitabilmente danneggiata.

40. Il ricorrente ha inoltre affermato di aver avuto problemi di salute in conseguenza della condanna.

41. Il ricorrente ha infine ribadito le motivazioni addotte dal Presidente della Repubblica italiana, che aveva adottato la decisione di commutare la sua pena detentiva in una sanzione pecuniaria (si vedano i paragrafi 21-23 supra).

b) Il Governo

42. Il Governo ha sostenuto che gli articoli in questione erano chiaramente diffamatori in quanto, oltre a riferire informazioni false, erano finalizzati principalmente a “offuscare e ledere la reputazione delle persone coinvolte nei fatti oggetto della causa”.

43. Il Governo ha inoltre sostenuto che il diritto alla libertà di espressione e a comunicare informazioni invocato dal ricorrente aveva violato il diritto alla protezione della reputazione altrui in quanto il ricorrente non si era limitato a ledere la reputazione di G.C., bensì aveva soprattutto, violato il diritto alla vita privata di una tredicenne la quale “in un drammatico momento della sua adolescenza aveva chiesto l’intervento di un giudice”, nonché di tutte le persone coinvolte.

44. Passando alla responsabilità del ricorrente, il Governo, dopo aver sottolineato che quale direttore responsabile egli era pienamente responsabile del contenuto dell’articolo pubblicato utilizzando uno pseudonimo, ha ribadito le motivazioni addotte dai tribunali interni, in particolare dalla Corte di Cassazione, nell’infliggere al ricorrente la pena detentiva (si veda il paragrafo 19 supra).

45. In conclusione, il Governo, invocando quanto già dichiarato in precedenza dalla Corte nella causa Fatullayev c. Azerbaigian, (n. 40984/07, § 95, 22 aprile 2010), ha affermato che il ricorrente non poteva invocare le salvaguardie concesse ai giornalisti dall’articolo 10, in quanto non aveva agito in buona fede e, fatto ancora più grave, aveva fornito informazioni inattendibili e false. Alla luce delle osservazioni di cui sopra, il Governo ritiene che l’inflizione della pena della detenzione fosse stata proporzionata.

2. La valutazione della Corte

a) Sulla questione di sapere se vi fosse stata un’ingerenza

46. Le parti con contestano che la condanna del ricorrente costituisse un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione di cui all’articolo 10 § 1 della Convenzione.

47. Deve pertanto essere determinato se essa fosse “prevista dalla legge”, se perseguisse uno o più fini legittimi esposti in tale paragrafo e se fosse “necessaria in una società democratica” per conseguire il fine o i fini pertinenti (si veda Peruzzi c. Italia, n. 39294/09, § 42, 30 giugno 2015, e i precedenti ivi citati).

b) Sulla questione di sapere se l’ingerenza fosse giustificata: “prevista dalla legge” e “fine legittimo”

48. Le parti convengono analogamente che l’ingerenza fosse prescritta dalla legge, ovvero dagli articoli 57 e 595 del codice penale e dall’articolo 13 delle Disposizioni sulla stampa (si vedano i paragrafi 26-28 supra).

49. Passando alla legittimità del fine perseguito, non spetta alla Corte valutare se la condanna del ricorrente perseguisse il fine legittimo di proteggere la magistratura, in quanto la Corte può accettare che l’ingerenza perseguiva in ogni caso il fine legittimo di proteggere la reputazione e i diritti di altri, ovvero della tredicenne e dei suoi genitori nonché di G.C. (si veda Belpietro c. Italia, n. 43612/10, §§ 45, 24 settembre 2013).

50. La posizione delle parti diverge sulla questione di sapere se l’ingerenza in questione fosse stata “necessaria in una società democratica” e proporzionata alla sanzione inflitta. La Corte deve pertanto determinare se tale requisito, enunciato nel secondo paragrafo dell’articolo 10, sia stato soddisfatto nel caso di specie.

c) “Necessaria in una società democratica”

i) Principi generali

51. I principi generali relativi alla necessità di un’ingerenza nella libertà di espressione sono riassunti nelle cause Morice c. Francia [GC], n. 29369/10, §§ 124-139, CEDU 2015 e Belpietro (sopra citata, §§ 47-54).

52. In particolare, la Corte sottolinea che il criterio della “necessità in una società democratica” esige che essa determini se l’ingerenza lamentata corrispondesse a una “pressante esigenza sociale”, se i motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza fossero “pertinenti e sufficienti” e se la sanzione inflitta fosse “proporzionata al fine legittimo perseguito” (si veda Belpietro, sopra citata, §§ 49-50).

ii) Sull’applicazione dei summenzionati principi al caso di specie

53. Nel caso di specie i tribunali nazionali hanno ritenuto che il contenuto degli articoli avesse dato al pubblico informazioni sbagliate, avendo fornito informazioni false nonostante le rettifiche divulgate il giorno prima della loro pubblicazione. Inoltre, secondo la Corte, il ricorrente aveva infangato gravemente l’onore di G.C. e il suo diritto alla vita privata, nonché quello di tutte le persone coinvolte.

54. La Corte non vede motivo per discostarsi dalle conclusioni di cui sopra.

55. In particolare, non può considerare arbitraria o manifestamente errata la valutazione compiuta dalle autorità nazionali, secondo cui gli articoli pubblicati dal ricorrente avevano attribuito a G.C. un comportamento che implicava un abuso dei suoi poteri ufficiali. La Corte osserva inoltre che il caso concerneva una minore e conteneva anche dichiarazioni diffamatorie nei confronti dei suoi genitori e dei medici.

56. In aggiunta, la Corte concorda con il Governo sul fatto che il ricorrente non aveva osservato l’etica del giornalismo, riferendo informazioni false senza controllarne prima la veridicità.

57. La Corte sottolinea inoltre, come ha ritenuto in precedenza (si veda Belpietro, sopra citata, §§ 58-59), che il direttore di un giornale non può essere dispensato dall’obbligo di esercitare un controllo sugli articoli pubblicati da esso ed è responsabile del loro contenuto.

58. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, e visto il margine di apprezzamento lasciato agli Stati contraenti in tale materia, la Corte ritiene che le autorità interne avessero il diritto di considerare necessario limitare l’esercizio del diritto del ricorrente alla libertà di espressione e che conseguentemente la sua condanna per diffamazione e omesso controllo soddisfaceva una “pressante esigenza sociale”. Ciò che rimane da determinare è se l’ingerenza in questione fosse proporzionata al fine legittimo perseguito, alla luce delle sanzioni inflitte.

59. Benché l’irrogazione delle pene sia in linea di principio una materia di competenza dei tribunali nazionali, la Corte ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (si veda, Cumpănă e Mazăre c. Romania, [GC], n. 33348/96, § 115, CEDU 2004-XI). A tale riguardo, la Corte rileva le recenti iniziative legislative da parte delle autorità italiane finalizzate, in linea con le recenti pronunce della Corte contro l’Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato di diffamazione, e a introdurre un’importante misura positiva, ovvero l’abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione (si veda il paragrafo 29).

60. Nel caso di specie, diversamente da quanto avvenuto nelle cause Belpietro e Ricci (Ricci c. Italia, n. 30210/06, §§ 59-61, 8 ottobre 2013), il ricorrente, oltre a essere stato condannato a pagare un risarcimento al magistrato interessato, ha effettivamente trascorso ventuno giorni agli arresti domiciliari prima dell’intervento del Presidente della Repubblica italiana (si vedano i paragrafi 21-24 supra).

61. A tale riguardo può essere pertinente rilevare che in due cause simili (si vedano Belpietro, sopra citata, §§ 61-63, e Ricci, sopra citata, §§ 59-61) l’irrogazione di una pena detentiva (ancorché sospesa) ha condotto la Corte a constatare la violazione dell’articolo 10. In particolare, nella causa Belpietro, il ricorrente, che era all’epoca direttore responsabile del quotidiano Il Giornale, era stato accusato di diffamazione per aver omesso di esercitare il necessario controllo su un articolo pubblicato sul quotidiano da un’altra persona. In tale occasione la Corte ha ritenuto che una pena detentiva potesse essere giustificata qualora sussistessero circostanze eccezionali, che in tale causa non sussistevano in quanto la stessa riguardava l’assenza di controllo in relazione alla diffamazione.

62. La Corte ritiene che, date le circostanze del caso di specie, l’inflizione di una pena detentiva non fosse giustificata. Tale sanzione, per sua stessa natura, ha inevitabilmente un effetto dissuasivo (si veda, mutatis mutandis, Kapsis e Danikas c. Grecia, n. 52137/12, § 40, 19 gennaio 2017). Il fatto che la pena detentiva del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto la singola commutazione di una pena detentiva in una sanzione pecuniaria è una misura soggetta al potere discrezionale del Presidente della Repubblica italiana. Inoltre, mentre tale atto di clemenza esime i condannati dall’espiazione della pena, esso non estingue gli effetti penali della loro condanna (si veda il paragrafo 26 supra; si vedano altresì Cumpănă e Mazăre c. Romania, sopra citata, § 116, e Marchenko c. Ucraina, n. 4063/04, § 52, 19 febbraio 2009).

63. Le considerazioni di cui sopra sono sufficienti a permettere alla Corte di concludere che la sanzione penale inflitta al ricorrente è stata per natura e severità manifestamente sproporzionata al fine legittimo invocato.

64. La Corte conclude che nel caso di specie i tribunali interni hanno ecceduto quella che avrebbe costituito una “necessaria” restrizione della libertà di espressione del ricorrente. L’ingerenza non era pertanto “necessaria in una società democratica”.

65. Vi è conseguentemente stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

66. L’articolo 41 della Convenzione prevede:

“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.”

A. Danno

67. Il ricorrente ha chiesto EUR 100.000 per il danno patrimoniale e non patrimoniale.

68. Il Governo ha contestato tale richiesta. Ha ribadito che “non vi era alcuna possibilità” per la richiesta del ricorrente in quanto egli aveva violato gravemente i diritti fondamentali di una minore, dei suoi genitori e di G.C.

69. La Corte rigetta la domanda del ricorrente relativa al danno patrimoniale perché non provata, in quanto egli non ha prodotto alcuna informazione pertinente. D’altra parte, in considerazione del fatto che il ricorrente deve aver patito angoscia e sofferenze a causa dei fatti che hanno condotto alla constatazione della violazione dell’articolo 10 della Convenzione, la Corte gli accorda la somma di EUR 12.000 a titolo di danno non patrimoniale.

B. Spese

70. Il ricorrente ha inoltre chiesto EUR 14.591,20 per le spese sostenute dinanzi alla Corte.

71. Il Governo non ha commentato la richiesta del ricorrente.

72. Secondo la giurisprudenza della Corte un ricorrente ha diritto al rimborso delle spese soltanto nella misura in cui ne siano dimostrate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, visti i documenti di cui è in possesso e i summenzionati criteri, la Corte ritiene ragionevole accordare la somma di EUR 5.000 per il procedimento dinanzi alla Corte.

C. Interessi moratori

73. La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione;
  3. Ritiene,
    1. che lo Stato convenuto debba versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza diverrà definitiva in conformità all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
      1. EUR 12.000 (dodicimila euro), oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno non patrimoniale;
      2. EUR 5.000 (cinquemila euro), oltre l’importo eventualmente dovuto dal ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, maggiorato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta la domanda di equa soddisfazione del ricorrente per il resto.

Fatta in inglese, poi notificata per iscritto in data 7 marzo 2019, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento della Corte.

Linos-Alexandre Sicilianos
Presidente

Abel Campos
Cancelliere