Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 2 febbraio 2010 - Ricorsi n. 30506/07 - Leone c. Italia

Traduzione a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata dall’esperto linguistico Rita Pucci

Abstract
EQUO PROCESSO -PUBBLICITA' DELL'UDIENZA NEL PROCEDIMENTO DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE

L'art. 4, comma 6, della legge n. 1423 del 1956 in materia di misure di prevenzione - che si applica anche per le misure previste dalla successiva legge n. 575 del 1965 nei confronti di persone sospettate di far parte di associazioni criminose - prevede un procedimento in camera di consiglio. L'ordinanza che commina la misura è dunque assunta senza la possibilità per gli interessati di richiedere lo svolgimento di un'udienza pubblica. Adita dai ricorrenti - le cui impugnazioni erano state respinte dalle autorità giudiziarie nazionali - la Corte ha constatato l'analogia del caso con vari precedenti (Bocellari e Rizza c. Italia, del 2007 e Pierre c. Italia del 2008) ha constatato la violazione dell'art. 6, comma 1, CEDU, relativo al diritto ad un processo equo, sotto il profilo della pubblicità delle udienze, ritenendo essenziale che a coloro che sono soggetti ad un procedimento sanzionatorio sia offerta la possibilità di chiedere un procedimento pubblico. La Corte ha invece ritenuto infondate le altre doglianze inerenti al giusto processo, in particolare sottolineando che le misure di prevenzione patrimoniali previste dalla legislazione italiana non trovano applicazione solo sulla base di sospetti a carico del destinatario ma anche sull'oggettiva sproporzione tra i beni posseduti e le fonti di legittimo reddito dimostrabile. La Corte condanna l'Italia alla sola rifusione delle spese e non al ristoro di danni materiali.


CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
SECONDA SEZIONE
CASO LEONE c/ITALIA
(Ricorso n. 30506/07)
SENTENZA
STRASBURGO - 2 febbraio 2010


La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire variazioni di forma.
 
Nel caso Leone c/Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Nona Tsotsoria, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,

Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 12 gennaio 2010, Pronuncia la presente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDIMENTO

1.  All’origine della causa vi è un ricorso (n. 30506/07) nei confronti della Repubblica italiana con cui tre cittadini di quello Stato, i sigg. Pietro e Donato Leone e la sig.ra Fosca Immacolata Motolese (« i ricorrenti »), hanno adito la Corte il 13 luglio 2007 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (« la Convenzione »).
2.  I ricorrenti sono rappresentati dall’Avv. Luigi Esposito, avvocato in Taranto. Il governo italiano (« il Governo ») è stato rappresentato dal suo agente, sig.ra E. Spatafora, e dal suo co-agente, sig. N. Lettieri.
3.  Il 9 marzo 2009, il presidente della seconda sezione ha deciso di comunicare il ricorso al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sull’ammissibilità e sul merito.

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO

4.  I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1937, nel 1963 e nel 1940 e risiedono a San Giorgio Jonico.
5.  Il 4 gennaio 2001, a causa dei sospetti che volevano M.A., genero del primo ricorrente e della terza ricorrente e cognato del secondo ricorrente, affiliato ad un’organizzazione criminale finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, la procura di Taranto avviò la procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge n. 575 del 1965, come modificata dalla legge n. 646 del 13 settembre 1982.
6.  Con ordinanza del 12 giugno 2002, la sezione del tribunale di Taranto specializzata nell’applicazione delle misure di prevenzione (di seguito « il tribunale ») ordinò il sequestro di numerosi beni. Nell’elenco dei beni sequestrati figuravano edifici, diverse automobili e un conto bancario appartenente ai ricorrenti.
7.  In seguito, la procedura dinanzi al tribunale si svolse in camera di consiglio. I ricorrenti, assistiti da avvocati di fiducia, furono invitati a parteciparvi in qualità di terze persone interessate dalla misura ed ebbero la facoltà di presentare memorie e mezzi di prova.
8.  Con ordinanza del 12 giugno 2002, il tribunale decise di applicare nei confronti di M.A. una misura di libertà sotto controllo di polizia per un periodo di tre anni. Il tribunale ordinò inoltre la confisca dei beni sequestrati in precedenza.
Il tribunale affermò che, alla luce dei numerosi indizi a carico di M.A., si doveva constatare la partecipazione di questi alle attività dell’associazione per delinquere e il pericolo sociale da lui rappresentato. Quanto alla specifica posizione dei ricorrenti, il tribunale sostenne tra l’altro che le attività esercitate ed i redditi dichiarati dagli stessi, verificati mediante una consulenza tecnica, non potevano giustificare l’acquisizione dei beni di cui erano proprietari.
9.  I ricorrenti, nonché M.A., interposero appello avverso l’ordinanza del tribunale. Addussero che questo aveva sbagliato a presupporre l’esistenza di una convivenza con M.A. e che non aveva stabilito debitamente la provenienza illecita dei loro beni confiscati.
10.  Con ordinanza del 3 ottobre 2005, la competente sezione della corte d’appello di Lecce rigettò il ricorso dei ricorrenti e confermò la confisca dei loro beni. Essa affermò che mancava la prova della provenienza lecita dei beni confiscati e che, alla luce della natura dei rapporti dei ricorrenti con M.A., si doveva concludere che quest’ultimo poteva disporne direttamente od indirettamente. D’altra parte, il tribunale non aveva ritenuto che i ricorrenti convivessero con M.A.
11.  I ricorrenti proposero ricorso per cassazione. Essi contestarono l’interpretazione data dalla corte d’appello all’articolo 2 ter § 3 della legge n. 575 del 1965 e sostennero che la confisca dei loro beni non era giustificata.
12.  Con sentenza del 16 gennaio 2007, il cui testo fu depositato in cancelleria il 7 febbraio 2007, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’appello di Lecce avesse motivato in modo logico e corretto tutti i punti controversi, rigettò i ricorsi dei ricorrenti.

II.  IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

13.  Il diritto interno pertinente è descritto nel caso Bocellari e Rizza c/Italia, n. 399/02, §§ 25 e 26, 13 novembre 2007.

IN DIRITTO

I.  SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE QUANTO AL DIFETTO DI PUBBLICITA’ DELLE UDIENZE

14.  I ricorrenti lamentano la mancanza di pubblicità della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione. Invocano l’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle parti pertinenti, recita:
 « Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente (…), da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale si pronuncerà sulle controversie sui suoi diritti ed obblighi di carattere civile (…). La sentenza deve essere emessa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigano gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa arrecare pregiudizio agli interessi della giustizia. »
15.  Il Governo si oppone a questa tesi.

A.  Sull’ammissibilità

16.  Il Governo eccepisce la tardività del ricorso sotto un duplice aspetto. Innanzitutto, esso ritiene che i ricorrenti avrebbero dovuto presentare il ricorso entro il termine di sei mesi a decorrere dal 3 ottobre 2005, data della sentenza della corte d’appello di Lecce. Sostenendo che il difetto di pubblicità delle udienze nel procedimento di Cassazione non può essere lamentato dinanzi alla Corte, esso sostiene che quest’ultima fase del procedimento nazionale non dovrebbe essere presa in considerazione nel calcolo del termine dei sei mesi. In secondo luogo, il Governo rileva che, sebbene la prima comunicazione dei ricorrenti con la Corte risalga al 13 luglio 2007, il modulo di ricorso reca la data del 23 gennaio 2008. Esso invita la Corte a considerare quest’ultima data come la data di presentazione del ricorso ed a rigettare quest’ultimo in quanto tardivo.
17.  Infine, il Governo sostiene che questa parte del ricorso sia inammissibile in conseguenza della mancata richiesta di una pubblica udienza da parte degli interessati alle autorità nazionali.
18.  Per quanto riguarda il primo aspetto dell’eccezione di tardività sollevata dal Governo, la Corte rammenta di potere essere investita di un caso, in virtù dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, solo « entro il termine di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva » vale a dire dall’atto di chiusura del processo di « esaurimento dei mezzi d’impugnazione interni », ai sensi della stessa disposizione (Kadiÿis c/Lettonia (n. 2) (dec.), n. 62393/00, 25 settembre 2003).
Nel caso di specie, essa osserva che il procedimento controverso si è svolto in tre fasi, conformemente alle regole del sistema giudiziario italiano, ed è terminato dinanzi alla Corte di cassazione. La Corte ritiene che la « decisione interna definitiva » sia la sentenza dell’alta corte italiana del 16 gennaio 2007, depositata in cancelleria il 7 febbraio 2007.
19.  Quanto al secondo aspetto dell’eccezione, la Corte constata che il ricorso è stato presentato in una prima missiva del 13 luglio 2007, con la quale gli interessati avevano sollevato in modo dettagliato le loro doglianze. In seguito, il 23 gennaio 2008, essi hanno inviato il modulo di ricorso debitamente compilato.
Al riguardo, la Corte rammenta la prassi costante degli organi della Convenzione, secondo la quale la data di presentazione di un ricorso è quella della prima missiva con la quale il ricorrente formula la doglianza che intende sollevare (Nee c/Irlanda (dec.), n. 52787/99, 30 gennaio 2003, e Ataman c/Turchia (dec.), n. 46252/99, 11 settembre 2001). Certo, uno scarto troppo rilevante tra il momento della prima comunicazione inviata alla Corte e la formalizzazione del ricorso potrebbe porre problemi quanto alla determinazione della data di presentazione dello stesso.
Tuttavia, la Corte ritiene che il tempo impiegato dai ricorrenti per formalizzare il ricorso non sia irragionevole. Pertanto, nel caso di specie, la data da prendere in considerazione come data di presentazione del ricorso è quella della prima missiva summenzionata.
Ne consegue che i due aspetti dell’eccezione di tardività sollevata dal Governo non possono essere ritenuti accettabili.
20.  Quanto all’ultima eccezione sollevata dal Governo, la Corte rammenta di avere constatato nel caso Bocellari e Rizza (sentenza succitata, § 38) che:
« Lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure finalizzate all’applicazione delle misure di prevenzione, sia in primo grado sia in appello, è espressamente previsto dall’articolo 4 della legge n. 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilità di chiedere ed ottenere una pubblica udienza. Del resto, il Governo stesso esprime dubbi quanto alle possibilità di successo di un’eventuale domanda di pubblico dibattimento proveniente dalle parti. »
Essa non vede motivi per discostarsi da tale conclusione quanto alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione.
21.  Alla luce di quanto precede, la Corte rigetta le eccezioni sollevate dal Governo. D’altra parte, essa constata che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e non si oppone a nessun altro motivo d’inammissibilità. E’ quindi opportuno dichiararla ammissibile.

B.  Sul merito

22.  I ricorrenti adducono che la procedura controversa si è svolta in camera di consiglio, quindi in modo non pubblico.
23.  Il Governo afferma che i ricorrenti hanno beneficiato di una procedura equa. Esso sostiene che la pubblicità del dibattimento non è sempre un elemento cruciale nella valutazione dell’equità del procedimento. Al contrario, essa assume importanza ai sensi della Convenzione solo quando contribuisce in modo reale ed effettivo all’equo svolgimento del procedimento.
24.  Per il Governo, nella fattispecie, la procedura in camera di consiglio era auspicabile in ragione del suo oggetto, essenzialmente tecnico e contabile. Inoltre, gli elementi della causa erano gli stessi di quelli del procedimento penale principale, svoltosi pubblicamente.
25.  Tenuto conto di tali elementi, il Governo sostiene che un’udienza orale che consentiva alle parti interessate di intervenire e di esporre le loro argomentazioni, anche senza un pubblico dibattimento, rispondeva ai requisiti previsti dall’articolo 6 della Convenzione.
26.  La Corte osserva che il presente caso è simile al succitato caso Bocellari e Rizza in cui essa ha esaminato la compatibilità delle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione con le esigenze del processo equo previste dall’articolo 6 della Convenzione (si veda anche Perre ed altri c/Italia, n. 1905/05, 8 luglio 2008).
27.  La Corte ha osservato che lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione, sia in primo grado sia in appello, è espressamente previsto dall’articolo 4 della legge n. 1423 del 1956 e che le parti non hanno la possibilità di chiedere ed ottenere una pubblica udienza.
28.  Del resto, questo genere di procedura è finalizzata all’applicazione di una misura di confisca di beni e di capitali, la qual cosa chiama direttamente e sostanzialmente in causa la situazione patrimoniale della parte in giudizio. Pertanto, non si può sostenere che il controllo del pubblico non è una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.
29.  Pur ammettendo che in questo genere di procedura possano talvolta entrare in gioco interessi superiori e un elevato grado di tecnicità, la Corte ha giudicato fondamentale, tenuto conto in particolare della posta in gioco delle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che esse possono produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte, che le parti in causa si vedano offrire per lo meno la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello.
30.  La Corte ritiene che il presente caso non presenti elementi tali da distinguerlo dal caso Bocellari e Rizza.
31.  Essa conclude, pertanto, per la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

II.  SULLE ALTRE ADDOTTE VIOLAZIONI DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

32.  Invocando l’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti lamentano l’iniquità della procedura che ha portato alla confisca dei loro beni in assenza di condanna nei loro confronti. In particolare, adducono che le autorità giudiziarie non hanno esaminato debitamente gli elementi di prova che dimostrano la provenienza legittima dei loro beni.
33.  La Corte rammenta innanzitutto che l’articolo 6 si applica alle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione nella sua parte civile, tenuto conto in particolare del loro oggetto « patrimoniale » (Arcuri c/Italia, succitata; Riela ed altri c/Italia succitata; Bocellari e Rizza c/Italia (dec.), n. 399/02, 28 ottobre 2004 e 16 marzo 2006).
34.  Essa rammenta poi di non avere il compito di conoscere degli errori di fatto o di diritto assertivamente commessi da un organo giudiziario interno, salvo il caso e nella misura in cui essi potrebbero avere leso i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione (si veda García Ruiz c/Spagna [GC], n. 30544/96, § 28, CEDU 1999-I). Inoltre, l’ammissibilità delle prove dipende essenzialmente dalle norme del diritto nazionale e spetta in linea di principio ai giudici interni, in particolare ai tribunali, di interpretare tale legislazione (si veda, tra molte altre, Brualla Gómez de la Torre c/Spagna, sentenza del 19 dicembre 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VII, p. 2955, § 31). Il ruolo della Corte è limitato alla verifica della compatibilità con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione (Edificaciones March Gallego S.A. c/Spagna, sentenza del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-I, p. 290, § 33).
35.  Nel caso di specie, i ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, parteciparono alla procedura ed ebbero la possibilità di presentare le memorie e i mezzi di prova da essi ritenuti necessari per tutelare i loro interessi. La Corte osserva che la procedura riguardante l’applicazione delle misure di prevenzione si è svolta in contraddittorio dinanzi a tre organi di giudizio successivi.
36.  La Corte osserva inoltre che i giudici italiani non potevano basarsi su semplici sospetti. Essi dovevano accertare e valutare oggettivamente i fatti esposti dalle parti e niente nel fascicolo lascia pensare ad una valutazione arbitraria degli elementi sottoposti alla loro attenzione.
37.  I giudici nazionali si sono basati sulle informazioni raccolte su M.A., genero del primo ricorrente e della terza ricorrente e cognato del secondo ricorrente, secondo le quali egli era affiliato ad un’associazione per delinquere e disponeva di risorse finanziarie sproporzionate rispetto ai suoi redditi. I giudici nazionali hanno poi analizzato la situazione finanziaria dei ricorrenti e la natura dei loro rapporti con M.A. ed hanno concluso che l’acquisizione dei beni confiscati era potuta avvenire solo attraverso l’impiego di proventi illeciti di questi, che li gestiva de facto. Inoltre, conformemente all’articolo 2ter della legge del 1965, la presunzione non era irrefragabile, potendo essere contraddetta dalla prova del contrario (si veda il diritto interno pertinente).
38.  Ne consegue che questa doglianza deve essere rigettata come manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

III.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

39.  Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di riparare solo in parte alle conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »

A.  Danni

40.  I ricorrenti chiedono 1.161.452 EUR circa a titolo di risarcimento del danno materiale, vale a dire il rimborso del valore dei beni confiscati, e 50.000 EUR per il danno morale subito.
41.  Il Governo contesta queste pretese.
42.  La Corte non vede alcun nesso di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale addotto e rigetta questa domanda. Quanto al danno morale subito dai ricorrenti, a giudizio della Corte, nelle circostanze particolari del caso di specie, esso è riparato sufficientemente dalla constatazione di violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione alla quale essa è giunta (si vedano, tra molte altre, le sentenze Yvon c/Francia, del 24 aprile 2003, n. 44962/98, CEDU 2003-V e Bocellari, succitata, § 46).

B.  Spese

43.  Giustificativi alla mano, i ricorrenti chiedono 14.000 EUR per il rimborso della perizia tecnica stabilita a livello nazionale. Chiedono inoltre 10.000 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte.
44.  Il Governo si oppone a tali richieste.
45.  Stando alla giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese solo qualora siano accertate la loro realtà, la loro necessità e la ragionevolezza del loro tasso.
Nel caso di specie, la Corte ritiene che non sia opportuno rimborsare ai ricorrenti le spese sostenute dinanzi ai giudici interni, in quanto non sono state sostenute per rimediare alla violazione constatata. Per quanto riguarda le spese relative al presente procedimento, la Corte ritiene eccessiva la richiesta dei ricorrenti e decide di concedere loro, congiuntamente, 3.000 EUR a tale titolo.

C.  Interessi moratori

46.  La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITA’,

1.  Dichiara il ricorso ammissibile quanto alla doglianza relativa all’articolo 6 § 1, relativamente al difetto di pubblicità delle udienze, ed inammissibile nel resto;

2.  Afferma che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;

3.  Afferma

a)  che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, congiuntamente, entro tre mesi dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 3.000 EUR (tremila euro) per spese, oltre ad ogni importo che possa essere dovuto dai ricorrenti, a titolo d’imposta;
b)  che, a partire dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;

4.  Rigetta la domanda di equa soddisfazione nel resto.

Redatta in francese, poi comunicata per iscritto il 2 febbraio 2010, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Françoise Tulkens
Presidente

Françoise Elens-Passos
Cancelliere aggiunto