Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 5 gennaio 2010 - Ricorso n. 4514/07 - Bongiorno e altri c. Italia

Traduzione a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata dall’esperto linguistico Ombretta Palumbo

Abstract
EQUO PROCESSO - PUBBLICITA' DELL'UDIENZA NEL PROCEDIMENTO DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE

La Corte - richiamando gli analoghi precedenti Bocellari e Rizza c. Italia del 2007 e Pierre c. Italia del 2008 – ha constatato la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione, osservando preliminarmente che lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione, sia in primo grado che in appello, è espressamente previsto dall’articolo 4, comma 6, della legge n. 1423 del 1956 e che le parti non hanno, in tal caso, la possibilità di chiedere e di ottenere una pubblica udienza. Tra l’altro, questo tipo di procedura riguarda l’applicazione di provvedimenti di confisca di beni e di capitali, il che mette direttamente e sostanzialmente in questione la situazione patrimoniale della persona interessata. In questa prospettiva, pertanto, non si può sostenere che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria per garantire il rispetto dei diritti dell’interessato. Pur riconoscendo, dunque, che la presenza di alcuni interessi superiori e l’alto grado di tecnicità possano a volte entrare in gioco in questo tipo di procedimenti, la Corte ha ritenuto essenziale - tenuto conto in particolare della posta in gioco nelle procedure relative all’applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che possono produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte - che le persone interessate si vedano almeno offrire la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello. A seguito della pronuncia in esame, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 93 dell’8 marzo 2010, proprio richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte europea nella sentenza Bongiorno e nei su menzionati precedenti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (recante misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), per violazione dell’art. 117, comma primo Cost., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica. La stessa Corte costituzionale ha peraltro precisato, nel corpo della motivazione, che in conformità alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, resta fermo il potere del giudice di disporre che si proceda in tutto o in parte senza la presenza del pubblico in rapporto a particolarità del caso concreto, che facciano emergere esigenze di tutela di valori contrapposti, nei limiti in cui, a norma dell’art. 472 cod. proc. pen., è legittimato lo svolgimento del dibattimento penale a porte chiuse. Sotto altro profilo, tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha escluso che la procedura relativa alla confisca di prevenzione costituisse una sanzione indeterminata, sproporzionata e contraria all’articolo 1 del Protocollo n° 1 della Convenzione, osservando come il fenomeno della criminalità organizzata abbia raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti, e che i guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato. Ne consegue che i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in particolare quello della confisca in esame, possono risultare indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni (analogamente, v. Arcuri e tre altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, 5 luglio 2001; Riela e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99, 4 settembre 2001; Raimondo c. Italia del 22 febbraio 1994, serie A no 281-A, p. 17, § 30).

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA BONGIORNO E ALTRI c. ITALIA
(Ricorso n. 4514/07)
SENTENZA
STRASBURGO - 5 gennaio 2010

Tale sentenza diventerà definitiva alle condizioni previste dall'articolo 44 § 2 della Convenzione, e potrà subire delle modifiche formali.
 
Nella causa Bongiorno e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunitasi in una camera alla presenza di:
Françoise Tulkens, presidente,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş, giudici,
e di Sally Dollé, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 1° dicembre 2009, Pronuncia la seguente decisione, approvata in tal data:

PROCEDIMENTO

1. All'origine della causa vi è un ricorso (n° 4514/07) contro la Repubblica italiana, presentato alla Corte il 24 gennaio 2007 da quattro cittadini italiani, le signore Francesca, Rosa e Margherita Bongiorno (“le ricorrenti”) e il signor Daniele Saponaro (“il ricorrente”) , ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. I ricorrenti sono rappresentati dall’Avv. A Amenduni, del foro di Bari. Il governo italiano ("il Governo") è stato rappresentato dal suo agente, la signora E. Spatafora, e dal suo coagente, il signor N. Lettieri.
3. Il 15 gennaio 2009, il presidente della seconda sezione ha deciso di comunicare il ricorso al Governo. Come previsto dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, la Corte ha altresì deciso che la sezione si sarebbe pronunciata contemporaneamente sulla ricevibilità e sul merito.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

4. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1971, 1974, 1976 e 1972 e risiedono a Fasano.
5. Il 1° giugno 2001, a causa dei sospetti che incombevano su S.B., padre delle ricorrenti e suocero del ricorrente, che facevano pensare che egli fosse membro di un’associazione a delinquere dedita al traffico illecito di tabacchi, la procura di Brindisi avviò una procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione istituite dalla legge no 575 del 1965, così come modificata dalla legge no 646 del 13 settembre 1982.
6. Con provvedimento del 14 ottobre 2002, la sezione misure di prevenzione del tribunale di Brindisi (più oltre “il tribunale”) ordinò di sequestrare diversi beni, tra i quali quattro immobili e quattro autoveicoli di proprietà dei ricorrenti.
7. Successivamente, il procedimento in tribunale si svolse in camera di consiglio. I ricorrenti, assistiti da un avvocato di fiducia, furono invitati a partecipare al procedimento in quanto terzi interessati dal provvedimento ed ebbero facoltà di presentare le loro deduzioni e i mezzi probatori.
8. Con provvedimento del 29 maggio 2003, il tribunale decise di sottoporre S.B. alle misure della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel comune di Fasano per un periodo di due anni. Il tribunale inoltre ordinò la confisca dei beni precedentemente sequestrati.
9. Il tribunale affermò che, alla luce di numerosi indizi a carico di S.B., era inevitabile constatare la sua partecipazione alle attività dell’associazione per delinquere e la sua pericolosità sociale. Per quanto attiene alla specifica posizione dei ricorrenti, il tribunale sostenne che le attività esercitate ed i redditi da loro dichiarati non potevano giustificare l’acquisto dei beni di cui erano proprietari.
10. I ricorrenti, nonché S.B., impugnarono l’ordinanza del 29 maggio 2003, sostenendo che il tribunale non aveva debitamente stabilito la provenienza illegittima dei loro beni confiscati. In particolare, la proprietà degli immobili confiscati era passata alle ricorrenti in seguito al decesso della loro madre, moglie di S.B.
I ricorrenti presero parte all’udienza in corte d’appello.
11. Con provvedimento del 26 maggio 2005, la sezione competente della corte d’appello di Lecce respinse il ricorso dei ricorrenti e confermò la confisca dei loro beni, sostenendo che mancava la prova della provenienza lecita dei beni confiscati e che, considerando il tipo di rapporti dei con S.B., si doveva dedurre che quest’ultimo poteva disporne direttamente od indirettamente.
12. Il 24 ottobre 2005, i ricorrenti presentarono ricorso per cassazione, contestando l’interpretazione che la corte d’appello aveva dato all’articolo 2 ter § 3 della legge no 575 del 1965 e sostenendo che la confisca dei loro beni non era giustificata.
13. Con sentenza del 13 giugno 2006, il cui testo fu depositato in cancelleria il 27 luglio 2006, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’appello di Lecce avesse motivato in modo logico ed esatto tutti i punti controversi, respinse i ricorsi dei ricorrenti.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

14. Il diritto interno pertinente è descritto nella causa Bocellari e Rizza c. Italia, no 399/02, §§ 25 e 26, 13 novembre 2007.

IN DIRITTO

I. SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE RELATIVAMENTE ALLA MANCATA PUBBLICITA’ DELLE UDIENZE

15. I ricorrenti denunciano la mancata pubblicità della procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione, e si appellano all’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti è così redatto:
«Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente (…) da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che deciderà (…) in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile (…). Il giudizio deve essere pubblico, ma l’ingresso nella sala di udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della moralità, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita delle parti in causa, o in quella misura ritenuta strettamente indispensabile dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità potesse ledere gli interessi della giustizia.
16. Il Governo si oppone a questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

17. Secondo il Governo, i ricorrenti non hanno sostenuto nel loro ricorso la mancata pubblicità delle udienze, ma soltanto la scelta del legislatore di trattare le procedure relative all’applicazione delle misure di prevenzione in camera di Consiglio. Inoltre, il Governo afferma che il motivo di ricorso è irricevibile in quanto gli interessati non hanno chiesto un’udienza pubblica alle autorità nazionali.
18. I ricorrenti contestano queste argomentazioni.
19. La Corte osserva anzitutto che, nel loro ricorso, gli interessati hanno denunciato lo svolgimento in camera di consiglio della loro causa, il che ha significato una violazione del loro diritto ad un equo processo garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione.
20. A parte ogni altra considerazione, la Corte ricorda che, essendo libera di qualificare giuridicamente i fatti di causa, non si considera vincolata dalla qualificazione attribuita agli stessi dai ricorrenti o dai governi. Ai sensi del principio jura novit curia, la Corte ha studiato d’ufficio più di un motivo di ricorso dal punto di vista di un articolo o di un paragrafo a cui le parti non si erano appellate. Un motivo di ricorso è caratterizzato dai fatti che denuncia e non dai semplici mezzi od argomentazioni di diritto invocati (Guerra e altri c. Italia, sentenza del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-I, p. 223, § 44, e Berktay c. Turchia, no 22493/93, § 168, 1° marzo 2001).
21. Per quanto attiene al secondo aspetto dell’eccezione del Governo, la Corte ricorda che nella causa Bocellari e Rizza (sentenza succitata, § 38) aveva constatato che:
«Lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure che riguardano l'applicazione delle misure di prevenzione, sia in primo grado che in appello, è espressamente previsto dall'articolo 4 della legge nº 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilità di domandare ed ottenere una pubblica udienza. Del resto, il Governo stesso esprime dubbi circa le possibilità di ottenere un esito positivo di un'eventuale istanza di dibattimento pubblico proveniente dalle parti.».
La Corte non vede alcun motivo per discostarsi da questa conclusione relativamente alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura che riguarda l’applicazione delle misure di prevenzione.
22. In considerazione di quanto sopra, la Corte respinge le eccezioni sollevate dal Governo, constatando tra l’altro che questa parte del ricorso non è palesemente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e che non sussiste alcun altro motivo di irricevibilità: essa deve quindi essere dichiarata ricevibile.

B. Sul merito

23. I ricorrenti sostengono che il procedimento controverso si è svolto in camera di consiglio, e quindi non è stato pubblico.
24. Il Governo afferma che i ricorrenti hanno usufruito di un equo procedimento, sostenendo che la pubblicità del dibattimento non è sempre un elemento fondamentale nella valutazione dell’equità di un procedimento, bensì acquista importanza dal punto di vista della Convenzione soltanto quando contribuisce in maniera reale ed effettiva ad un equo svolgimento del procedimento.
25. Per il Governo, il procedimento in camera di consiglio era, nella fattispecie, auspicabile a causa dell’oggetto del procedimento, essenzialmente tecnico e contabile. Inoltre, gli elementi della causa erano gli stessi di quelli del procedimento penale avviato nei confronti di S.B., che si era svolto pubblicamente.
26. Tenuto conto di questi elementi, il Governo sostiene che un’udienza orale che permetta alle parti interessate di intervenire e di esporre le proprie argomentazioni, anche senza dibattimento pubblico, soddisfa le condizioni richieste dall’articolo 6 della Convenzione.
27. La Corte osserva che questa fattispecie è simile alla causa Bocellari e Rizza succitata in cui ha esaminato la compatibilità delle procedure che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione con le esigenze dell’equo processo previste dall’articolo 6 della Convenzione (vedi altresì Perre e altri c. Italia, no 1905/05, 8 luglio 2008).
28. La Corte ha osservato che lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione, sia in primo grado che in appello, è espressamente previsto dall’articolo 4 della legge n° 1423 del 1956 e che le parti non hanno la possibilità di chiedere e di ottenere una pubblica udienza.
29. Tra l’altro, questo tipo di procedura riguarda l’applicazione di una misura di confisca di beni e di capitali, il che mette direttamente e sostanzialmente in questione la situazione patrimoniale della persona chiamata in giustizia. In quest’ambito, non si può sostenere che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria per garantire il rispetto dei diritti dell’interessato.
30. Pur riconoscendo che alcuni interessi superiori e l’alto grado di tecnicità possano a volte entrare in gioco in questo tipo di cause, la Corte ha ritenuto essenziale, tenuto conto in particolare della posta in gioco delle procedure relative all’applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che possono produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte, che le persone chiamate in giustizia si vedano almeno offrire la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello.
31. La Corte ritiene che questa causa non presenti elementi che la differenzino dalla causa Bocellari e Rizza.
32. La Corte ritiene perciò che vi sia stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.

II. SULLE ALTRE PRESUNTE VIOLAZIONI DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

33. Appellandosi all’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti denunciano l’iniquità della procedura che ha portato alla confisca dei loro beni in mancanza di qualsiasi condanna nei loro confronti. In particolare, sostengono che le autorità giudiziarie non hanno esaminato debitamente gli elementi di prova che dimostrano la legittima provenienza dei loro beni.
34. La Corte ricorda anzitutto che l’articolo 6 si applica alle procedure di applicazione delle misure di prevenzione dal punto di vista civile, in particolare in considerazione del loro oggetto «patrimoniale» (Arcuri c. Italia, succitata; Riela e altri c. Italia succitata; Bocellari e Rizza c. Italia (dec.), no 399/02, 28 ottobre 2004 e 16 marzo 2006)
35. La Corte ricorda inoltre che non è suo compito valutare i presunti errori di fatto o di diritto commessi da una giurisdizione interna, salvo che e nella misura in cui gli stessi possano aver leso i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione(vedi García Ruiz c. Spagna [GC], no 30544/96, § 28, CEDH 1999-I). Inoltre, l’ammissibilità delle prove è disciplinata principalmente dalle norme del diritto nazionale, e spetta in principio alle giurisdizioni interne, ed in particolare ai tribunali, interpretare tale legislazione (vedi, tra molte altre, Brualla Gómez de la Torre c. Spagna, sentenza del 19 dicembre 1997, Raccolta delle sentenze et decisioni 1997-VII, p. 2955, § 31). Il ruolo della Corte è soltanto quello di verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di quest’interpretazione (Edificaciones March Gallego S.A. c. Spagna, sentenza del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-I, p. 290, § 33).
36. Nella fattispecie, i ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, presero parte alla procedura ed ebbero la possibilità di presentare deduzioni e mezzi di prova da loro ritenuti necessari al fine di tutelare i propri interessi. La Corte osserva che la procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione si è svolta in contraddittorio dinanzi a tre giurisdizioni successive.
37. Inoltre, la Corte osserva che le giurisdizioni italiane non potevano basarsi su semplici sospetti: esse dovevano stabilire e valutare oggettivamente i fatti esposti dalle parti e nulla nel fascicolo fa pensare che abbiano valutato in modo arbitrario gli elementi che sono stati a loro sottoposti.
38. I giudizi nazionali si sono basati sulle informazioni raccolte su S.B., padre delle ricorrenti e suocero del ricorrente, da cui risultava che questi era membro di un’associazione per delinquere e aveva a disposizione risorse finanziarie sproporzionate rispetto alle sue entrate. I tribunali nazionali hanno inoltre analizzato la situazione finanziaria dei ricorrenti e la natura dei loro rapporti con S.B. e hanno concluso che l’acquisizione dei beni confiscati era stata possibile soltanto per mezzo dei guadagni illeciti di quest’ultimo, che de facto li gestiva. In più, conformemente all’articolo 2ter della legge del 1965, la presunzione non era incontrovertibile, in quanto poteva essere contraddetta dalla prova contraria (vedi diritto interno pertinente).
39. Ne segue che questo motivo di ricorso deve essere respinto in quanto palesemente infondato ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

III. SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N° 1

40. I ricorrenti ritengono che la misura di prevenzione della confisca abbia violato il loro diritto al rispetto dei beni, così come esso è garantito dall’articolo 1 del Protocollo n° 1, che è così redatto:
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità ed alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende.»
41. I ricorrenti sostengono che la procedura relativa alla confisca dei loro beni costituisce una sanzione indeterminata, sproporzionata e contraria all’articolo 1 del Protocollo n° 1.
42. La Corte constata che la confisca controversa ha sicuramente costituito un’ingerenza nel godimento del diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni. La Corte osserva inoltre che, anche se la misura in questione ha comportato una privazione di proprietà, quest’ultima rientra in una normativa sull’uso dei beni ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n° 1, che lascia agli Stati il diritto di adottare «quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale» (vedi Arcuri e tre altri c. Italia (dec.), no 52024/99, 5 luglio 2001; Riela e altri c. Italia (dec.), no 52439/99, 4 settembre 2001).
43. Per quanto riguarda il rispetto delle condizioni di questo comma, la Corte constata anzitutto che la confisca dei beni dei ricorrenti è stata ordinata conformemente all’articolo 2 ter della legge del 1965, e quindi si tratta di un’ingerenza prevista dalla legge.
44. Inoltre, la Corte constata che la confisca controversa mira ad impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata. Essa ritiene quindi che l’ingerenza che ne segue miri a raggiungere uno scopo che corrisponde all’interesse generale ((Arcuri ed altri tre c. Italia succitata; Riela ed altri c. Italia succitata; Raimondo c. Italia del 22 febbraio 1994, serie A no 281-A, p. 17, § 30).
45. Resta però da verificare se quest’ingerenza sia sproporzionata al legittimo scopo perseguito. In proposito, la Corte sottolinea che la misura controversa rientra nell’ambito di una politica di prevenzione della criminalità e ritiene che, nell’attuazione di tale politica, il legislatore debba avere un ampio margine di manovra per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema di interesse pubblico che richiede una normativa che sulla scelta delle modalità applicative di quest’ultima.
Tra l’altro, la Corte osserva che il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti.
I guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato. Quindi, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in particolare la confisca controversa, possono risultare indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni (vedi Arcuri ed altri tre c. Italia, succitata).
46. La Corte non può quindi ignorare le circostanze specifiche che hanno ispirato l’azione del legislatore italiano, ma le spetta comunque il compito di garantire che i diritti tutelati dalla Convenzione siano, in ogni caso, rispettati.
47. La Corte constata che nella fattispecie, l’articolo 2 ter della legge del 1965 prevede, in presenza di «indizi sufficienti», la presunzione che i beni della persona sospettata di appartenere ad un’associazione per delinquere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Questa stessa norma prevede espressamente la possibilità che i beni oggetto della misura di prevenzione, pur essendo in realtà a disposizione della persona sospettata di appartenere all’associazione per delinquere, appartengano formalmente a terzi.
48. Ogni sistema giuridico prevede presunzioni di fatto o di diritto. Evidentemente, la Convenzione non vi si oppone in linea di principio (vedi, mutatis mutandis, Salabiaku c. Francia, sentenza del 7 ottobre 1988, serie A no 141-A, § 28). Il diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni implica, tuttavia, l’esistenza di un’effettiva garanzia giurisdizionale.
49. In proposito, la Corte constata che la procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione si è svolta in contraddittorio dinanzi a tre successive giurisdizioni: tribunale, corte d’appello e Corte di cassazione. In particolare, i ricorrenti hanno avuto la possibilità, tramite il loro avvocato di fiducia, di sollevare le eccezioni e di presentare i mezzi di prova da loro ritenuti necessari per la tutela dei propri interessi, il che prova che i diritti della difesa sono stati rispettati.
Inoltre, la Corte osserva che le giurisdizioni italiane non potevano basarsi su semplici sospetti. Esse hanno accertato e valutato obiettivamente i fatti esposti dalle parti, e nulla nel fascicolo fa pensare che abbiano valutato arbitrariamente gli elementi che sono stati a loro sottoposti.
Le giurisdizioni si sono basate sulle informazioni raccolte su S.B. ed hanno valutato la situazione finanziaria dei ricorrenti e la natura del loro rapporto con quest’ultimo.
50. Tra l’altro, la Corte osserva che nei loro ricorsi in appello ed in cassazione, i ricorrenti avevano contestato la confisca dei beni. Le loro argomentazioni sono state quindi esaminate anche dalle giurisdizioni nazionali.
51. In questa situazione, tenuto conto della discrezionalità che hanno gli Stati quando disciplinano «l’uso dei beni conformemente all’interesse generale», soprattutto nell’ambito di una politica criminale che mira a combattere il fenomeno della grande criminalità, la Corte conclude che l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni non è sproporzionata rispetto al legittimo scopo perseguito.
52. Ne segue che questo motivo di ricorso deve essere respinto in quanto palesemente infondato ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

53. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa.»

A.  Danno

54.  I ricorrenti reclamano circa 406.000 EURO a titolo di pregiudizio materiale, ossia il rimborso del valore dei beni confiscati, e 100.000 EURO per il danno morale che avrebbero subito.
55.  Le Governo contesta queste pretese.
56.  La Corte non scorge il nesso di causalità tra la violazione constatata ed il danno materiale allegato e rigetta questa domanda. Quanto al pregiudizio morale subito dai ricorrenti, la Corte ritiene che questo sia sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione alla quale giunge (vedere, fra molte altre, le sentenze Yvon c. Francia, del 24 aprile 2003, no 44962/98, CEDH 2003-V e Bocellari, succitata, § 46).

B.  Spese

57.  I ricorrenti domandano altresì 30.000 EURO per le spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni intere e, producendo idonea documentazione, 23.000 EURO per quelle sostenute nel giudizio innanzi alla Corte.
58.  Il Governo si oppone e considera eccessive le somme richieste.
59.  Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle sue spese soltanto nella misura in cui ne siano provate la realtà, la necessità e la congruità del loro ammontare.
Nel caso di specie, la Corte considera che non si debbano rimborsare ai ricorrenti le spese per i giudizi interni in quanto non sono state affrontate per rimediare alla violazione constatata. Inoltre, gli interessati non hanno prodotto alcun giustificativo. Per quanto riguarda le spese che si riferiscono alla presente procedura, la corte giudica eccessiva la domanda dei ricorrenti e decide di concedere loro, congiuntamente, 3.000 EURO a questo titolo.
C.  Interessi moratori
60.  La Corte giudica appropriato calcolare il tasso degli interessi moratori in base al tasso di interesse della facilità del prestito marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITA’

1.  Dichiara il ricorso ricevibile in riferimento al motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 1, per quanto rigurda la mancanza di pubblicità delle udienze, e irricevibile per il resto;
2.  Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
3.  Dichiara
a)  che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti congiuntamente entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione 3.000 EURO (tre mila euro) per spese, più qualsiasi somma che potrà essere, dai ricorrenti, a titolo di imposta;
b)  che a decorrere dalla scadenza del suddetto termine e fino al versamento, questo ammontare dovrà essere maggiorato di un tasso semplice pari a quello della facilità del prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di ter punti percentuali;

4.  Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 5 gennaio 2010, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Sally Dollé
Cancelliere

Françoise Tulkens
Presidente