Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 agosto 2002 - Ricorso n. 34908/97 - ... contro l'Italia

[Traduzione non ufficiale]
Decisione sull'ammissibilità del 29 agosto 2002 X c/ Italia
Articolo 6 par. 1 CEDU-Equo processo-Durata ragionevole della procedura.
Articolo 8e art. 2 del Protocollo addizionale n.2
Dichiarato irricevibile

Adozione

CONSIGLIO D'EUROPA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
PRIMA SEZIONE

DECISIONE SULL'AMMISSIBILITA'
del ricorso n° 34908/97
presentato da X c/ l'Italia

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (prima sezione), riunitasi il 29 agosto 2002 in camera alla presenza di

C. L. Rozakis, presidente,
F. Tulkens,
P. Lorenzen,
N. Vajic,
E. Levits,
A. Kovler,
V. Zagrebelsky, giudici,
e di E. Fribergh, cancelliere della Sezione,

Visto il ricorso succitato presentato dinanzi alla Commissione europea dei Diritti dell'Uomo il 3 luglio 1995,
Visto l'articolo 5 § 2 del Protocollo n° 11 della Convenzione, che ha trasferito alla competente Corte la competenza per esaminare il ricorso,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dalla ricorrente,

Dopo aver deliberato, pronunzia la seguente decisione:

IN FATTO

  1. Le circostanze della fattispecie

    La ricorrente è nata nel &.. ed è residente a && (Italia). E' rappresentata dinanzi alla Corte dall'Avv. &&., del foro di (&&&).
    I fatti della causa, così come sono stati esposti dalla ricorrente, possono essere riassunti come segue.
    La ricorrente, incinta di tre mesi al momento della morte di suo marito, nel novembre 1979, partorì nel maggio 1980 una bambina, A. Tuttavia, essendo già madre di cinque bambini minorenni, e dovendo riprendere a lavorare (gestione di due negozi), decise di chiamare una baby-sitter. Quest'ultima rinunciò al lavoro per motivi di salute, e quindi la ricorrente, nel novembre 1980, affidò A. a tempo pieno ad una balia che abitava vicino ad uno dei suoi negozi per poter visitare regolarmente la bambina.
    A partire da aprile 1984, la ricorrente non pagò più la balia in quanto sembrava che questa si rifiutasse di far tornare A. nella sua famiglia naturale.
    Nel febbraio 1985, la ricorrente ebbe un'altra bambina.
    L'11 aprile 1985, la balia e il marito si rivolsero al tribunale per minori di (&&.) e dichiararono che la madre naturale si era praticamente disinteressata della bambina, contribuendo in maniera molto relativa al suo mantenimento. Già genitori di sette bambini, chiesero di poter tenere A., che consideravano come figlia loro.
    Il 17 maggio 1985, nell'ambito del procedimento per l'adottabilità di A., il Tribunale sospese provvisoriamente la potestà parentale della ricorrente, nominò il comune di (&&.) come tutore di A. e gli impose di mantenere la bambina presso la famiglia affidataria e di organizzare delle visite con la madre naturale. Ai servizi competenti fu anche affidata un'indagine sociale.
    Il 21 giugno 1985 la ricorrente fu ascoltata da uno dei giudici del Tribunale per minori.
    Il 30 luglio 1985, il Tribunale confermò la decisione provvisoria del 15 maggio 1985 e l'11 luglio 1986 ordinò di interrompere i contatti tra la bambina e la madre. La ricorrente e due dei suoi figli, diventati maggiorenni, impugnarono tale decisione, ma il 5 febbraio 1987 Tribunale ne respinse il ricorso. Basandosi sulle dichiarazioni della famiglia affidataria, la giurisdizione rilevò che la ricorrente era andata a trovare la bambina sedici volte in quattro anni e che dal 1985 si era disinteressata di A. Il Tribunale osservò inoltre che perfino dopo la ripresa dei contatti ordinata nel maggio 1985, la bambina sembrava estranea ai suoi fratelli, con cui aveva avuto dei rapporti sporadici. Il fatto di separarla dalla famiglia affidataria avrebbe avuto delle conseguenze negative irrimediabili, anche in considerazione della personalità della madre, praticamente "incapace di comprendere e soddisfare le necessità affettive ed educative della bambina".
    Il 10 aprile 1987, la ricorrente e i suoi due figli maggiori investirono la Corte d'Appello di (&), sezione minorile, sostenendo che il Tribunale si era limitato a far riferimento alle dichiarazioni della famiglia affidataria senza tener conto della situazione familiare dei richiedenti in seguito alla morte del loro marito e padre. La loro richiesta fu respinta il 2 giugno 1988, mentre l'8 marzo 1989 la Corte di Cassazione cassò la sentenza del 2 giugno 1988 e rinviò il procedimento dinanzi alla stessa giurisdizione d'appello. Il testo della sentenza fu depositato il 23 giugno 1990. La Corte osservò che i giudici di merito non avevano assolutamente considerato la posizione della famiglia naturale della bambina, e chiese alla giurisdizione che aveva deciso il rinvio di valutare in particolare la disponibilità della madre ad occuparsi della figlia, e il comportamento eventualmente colpevole della famiglia affidataria nei rapporti della bambina con la madre.
    Il 7 febbraio 1991, la Corte d'Appello confermò la sentenza impugnata. Investita dalla ricorrente e da quattro dei suoi figli, la Corte di Cassazione, il 10 marzo 1992, cassò quest'ultima sentenza per le stesse ragioni precedenti e rinviò il procedimento dinanzi alla Corte d'Appello di (&..). Il testo della sentenza fu depositato il 26 giugno 1992.
    Il 5 aprile 1993, la Corte d'Appello di (&..) ordinò alla famiglia affidataria di restituire la bambina alla sua famiglia naturale fissando le modalità di un progressivo ritorno sotto il controllo dei servizi sociali. Basandosi su una perizia ordinata nel 1988 dalla Corte d'Appello di (&..), la Corte d'Appello di (&..) notò le difficoltà oggettive che la ricorrente dovette affrontare dalla gravidanza in poi (morte del marito, problemi relativi alla successione, conduzione dei suoi due negozi), e ritenne che il fatto di aver sistemato A. in una famiglia affidataria non poteva esser visto come un rifiuto della madre di esercitare il suo ruolo genitoriale, ma come la necessaria conseguenza delle difficoltà constatate.
    Il 17 giugno 1993, i servizi sociali comunicarono al Tribunale che la bambina rifiutava di piegarsi alla decisione giudiziaria. In seguito riuscirono ad organizzare degli incontri al fine di avvicinare la bambina alla sua famiglia naturale, che però si svolsero in un clima molto teso a causa del comportamento di A. L'ultimo incontro ebbe luogo il 23 giugno 1993. Inoltre, dopo aver vissuto per un breve periodo con la sua famiglia naturale, A. fuggì da scuola per raggiungere la famiglia affidataria.
    Il 26 aprile 1994, la ricorrente intimò alla famiglia affidataria di restituirle la bambina, quindi si rivolse al Pretore di (&..) al fine di ottenere l'esecuzione forzata della sentenza della Corte d'Appello di (&..) appellandosi all'articolo 612 del codice di procedura civile ("CPC").
    Con provvedimento del 13 giugno 1994, il Tribunale per minori di (&..), investito il 30 marzo 1994 da A. e dalla sua balia, affidò la custodia di A. al comune di (&..), con mantenimento presso la famiglia affidataria. Considerando A. come una persona che poteva ormai "capire la realtà e sentire i propri desideri e le proprie esigenze", il Tribunale prese atto del rifiuto della bambina di ritornare nella sua famiglia naturale da lei sentita estranea. Ritenendo che il ritorno ordinato dalla Corte d'Appello potesse essere eseguito soltanto alla fine di un lungo periodo di tempo e con un adeguato sostegno, la giurisdizione ordinò al comune di organizzare le visite tra gli interessati nonché una psicoterapia della bambina.
    La ricorrente presentò allora ricorso dinanzi alla Corte d'Appello di (&..). Il 18 ottobre 1994, il Tribunale per minori dichiarò provvisoriamente esecutoria la sua decisione del 13 giugno passato.
    Il 10 dicembre 1994, ritenendo che la decisione del Tribunale dovesse prevalere su quella della Corte d'Appello di (&..) a causa in particolare della cattiva evoluzione della situazione e per evitare il deteriorarsi dei rapporti tra le parti in causa, il Pretore di (&..), deliberando sul ricorso contro l'esecuzione presentato dalla balia ai sensi degli articoli 615 e 617 CPC in data imprecisata, sospese l'esecuzione della sentenza della Corte d'Appello di (&..) e fissò alle parti un termine di tre mesi per riprendere il procedimento nel merito dinanzi al Tribunale per minori.
    Il 22 dicembre 1994, la Corte d'Appello di (&..) annullò la sentenza del Tribunale per minori del 13 giugno 1994 a causa dell'incapacità di stare in giudizio delle parti richiedenti. Il testo della sentenza fu depositato l'11 gennaio 1995.
    Il 27 settembre 1995, il Tribunale per minori affidò nuovamente A. al comune di (&..) e ordinò un'indagine sociale per decidere se fosse ridiventata possibile una ripresa dei rapporti tra la bambina e la sua famiglia naturale. Il Tribunale osservò che se ogni madre ha il diritto di far crescere e di educare il proprio figlio, questo diritto non può essere esercitato attraverso una violenza fisica e psichica sul bambino. A., che provava una grande sofferenza dalla sua più tenera età a causa di una sensazione di abbandono, aveva tutto l'interesse a non essere strappata dalla famiglia affidataria visto il profondo affetto che aveva maturato.
    Il 30 ottobre 1995, la ricorrente impugnò tale sentenza dinanzi alla Corte d'Appello di (&&) che respinse il ricorso il 15 febbraio 1996. La Corte d'Appello, constatando il rifiuto della minore rispetto alla sua famiglia naturale e la sua incapacità a "gestire l'esito di una battaglia da lei considerata conclusa, ma che era ripresa con grande impeto", notando inoltre che la stessa A. aveva voluto la designazione di un tutore per rappresentarla e che secondo la psicologa incaricata di seguirla, la bambina "aveva raggiunto una certa serenità dopo l'interruzione dei contatti con la sua famiglia d'origine", chiese al comune di (&..) di fare un lavoro di mediazione tra le due famiglie.
    Stando alle informazioni fornite alla Corte dall'avvocato della ricorrente il 29 settembre 2000, la situazione non è molto cambiata dal 1996.
     
  2. Il diritto interno pertinente

    L'articolo 333 del codice civile ("CC") prevede che se il comportamento di uno o dei due genitori non è abbastanza grave per giustificare la decadenza della potestà parentale, ma è comunque dannoso per il bambino, il giudice può prendere qualsiasi decisione pertinente e perfino ordinare l'allontanamento del bambino dalla sua famiglia.
    La Corte di Cassazione ha precisato, nella sua sentenza n° 2641/1982, che anche dopo l'annullamento, in seguito al ricorso dei genitori, della decisione di adottabilità di un bambino, il giudice non deve automaticamente ordinare il ritorno di quest'ultimo nella sua famiglia, ma ha l'obbligo di verificare se nel frattempo il bambino si è adattato ed è ormai legato alla famiglia affidataria, considerandola ormai sua, e quindi se il suo ritorno non danneggerebbe il suo equilibrio, la sua salute fisica e mentale, la sua educazione e il suo futuro. Il giudice può adottare, ai sensi dell'articolo 333 CC, ogni misura idonea nell'interesse del minore.
    La stessa giurisdizione considera applicabile ai procedimenti relativi a decisioni che riguardano la custodia e l'affidamento dei minori, l'articolo 612 CPC relativo all'esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare. Gli articoli 615 e 617 disciplinano il ricorso all'esecuzione forzata.

MOTIVI DI RICORSO

Appellandosi all'articolo 6 § 1, 8 e 12 della Convenzione, la ricorrente denuncia la durata del procedimento nonché la mancata esecuzione della sentenza della Corte d'Appello di (&..), la violazione del diritto al rispetto della vita familiare e infine la violazione del suo diritto e dovere di occuparsi dell'educazione e del mantenimento di sua figlia.

IN DIRITTO

  1. La ricorrente denuncia la durata del procedimento, appellandosi all'articolo 6 § 1 della Convenzione, così formulato:
    "1. Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata (&) in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale (&) che deciderà (&) in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile (&)".
    La Corte ricorda che secondo la "legge Pinto" le persone che abbiano subito un danno materiale o morale possono investire la competente Corte d'Appello al fine di far constatare la violazione della Convenzione relativamente al rispetto del tempo ragionevole dell'articolo 6 § 1, e chiedere l'assegnazione di una somma a titolo di equo soddisfacimento.
    La Corte ha già constatato in diverse sentenze sull'ammissibilità (vedi, tra gli altri, i ricorsi n° 69789/01, (&&.) c/Italia del 6 settembre 2001, CEDH 2001-IX, e n° 34969/97, (&..) c. Italia dell'8 novembre 2001, CEDH 2001-XII), che il rimedio introdotto dalla legge Pinto è un ricorso che il ricorrente deve tentare prima che la Corte si pronunci sull'ammissibilità del ricorso, e questo qualunque sia la data di presentazione del ricorso dinanzi alla Corte.
    Non intravedendo alcuna circostanza che possa far decidere diversamente nella fattispecie, la Corte ritiene che tale parte del ricorso debba essere respinta per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ai sensi dell'articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.
  2. Nelle sue osservazioni del 21 aprile 2001, in risposta a quelle del Governo, la ricorrente afferma per la prima volta che i giudici che hanno deliberato dopo l'annullamento della decisione che dichiarava l'adottabilità di A. non sono stati imparziali ai sensi dell'articolo 6 § 1.
    La Corte, tuttavia, non è chiamata ad esprimersi sul fatto di sapere se il fatto denunciato dalla ricorrente risulti una violazione della Convenzione. Infatti, ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, essa deve essere adita entro sei mesi dalla data della decisione interna definitiva. Nella fattispecie, l'ultima decisione giudiziaria risale al 15 febbraio 1996, ossia più di sei mesi prima dalla presentazione del nuovo motivo di ricorso della ricorrente.
    La Corte può quindi soltanto respingere questa parte del ricorso, ai sensi dell'articolo 35 § 4 della Convenzione.
  3. La ricorrente denuncia il fatto che, malgrado la sentenza della Corte d'Appello di (&..) del 5 aprile 1993, sua figlia non è tornata a casa, da cui essa deduce che vi è stata violazione del suo diritto ad un tribunale, al rispetto della sua vita familiare e alla possibilità di educare e mantenere sua figlia. Le relative norme sono così formulate:
    Articolo 6 § 1
    "Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata (&) da parte di un tribunale (&) che deciderà (&) in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile (&)".
    Articolo 8
    "1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
    2. Non può aversi interferenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca un misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri."
    Articolo 2 del Protocollo n° 1
    "A nessuno può essere interdetto il diritto all'istruzione. Lo Stato, nell'attività che svolge nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori di assicurare questa educazione e questo insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche."
    Secondo il Governo, nella fattispecie non vi sarebbe stata nessuna contestazione di un diritto di natura civile ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione in quanto le competenti giurisdizioni non sarebbero chiamate a decidere tra due richieste opposte, ma delibererebbero nell'interesse del bambino. Non si può quindi parlare di mancata esecuzione della sentenza controversa in quanto in materia di volontaria giurisdizione le sentenze dei Tribunali per minori non diventano definitive, e perciò le tre norme appellate dalla ricorrente non sarebbero state violate. Il Governo sottolinea che in tutti i casi A. era tornata nella sua famiglia naturale ma dopo qualche giorno era fuggita da scuola per raggiungere la sua famiglia affidataria. Fu quindi solo dopo la constatazione del fallimento dell'esecuzione della sentenza della Corte d'Appello di (&..) che le autorità intervennero per sospendere l'esecuzione in corso, mantenere la custodia e l'affidamento della bambina e avviare un lavoro di mediazione tra la ricorrente e la balia.
    La ricorrente denuncia il "kidnapping di stato" di sua figlia, affidata alla famiglia affidataria anche dopo la sentenza d'appello che annullava la decisione che dichiarava l'adottabilità di A.
    Per quanto attiene all'eccezione del Governo relativa alla natura del diritto in causa nella procedura controversa, la Corte si limita a sottolineare che nella sua richiesta del 26 aprile 1994, la ricorrente sollecitò l'esecuzione della sentenza della Corte d'Appello di (&&) che aveva ordinato il ritorno della bambina nella sua famiglia naturale. Questo ritorno, che avrebbe dovuto essere preparato e seguito dai competenti servizi sociali, tendeva a ristabilire i rapporti familiari tra A. e la sua famiglia naturale. Secondo la Corte, questi rapporti rientrano indiscutibilmente nella nozione di diritto di carattere civile ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, il quale quindi nella fattispecie è applicabile. L'eccezione del Governo non può essere ritenuta fondata.
    Sul merito, la Corte ricorda la sua giurisprudenza secondo cui l'articolo 6 garantisce ad ognuno il diritto che la sua causa sia esaminata da parte di un tribunale in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sancendo perciò il "diritto ad un tribunale". Tuttavia, tale diritto sarebbe fittizio se l'ordine giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria non diventi esecutiva a danno di una parte. Se tale articolo dovesse riguardare soltanto l'accesso al giudice e allo svolgimento dell' istanza, ciò rischierebbe di creare delle situazioni incompatibili con il principio di preminenza del diritto che gli Stati contraenti si sono impegnati a rispettare nel ratificare la Convenzione. L'esecuzione di una sentenza, di qualunque giurisdizione essa sia, deve perciò essere considerata come parte integrante del "processo" ai sensi dell'articolo 6 (sentenza Hornsby c. Grecia del 19 marzo 1997, Recueil 1997-II, p. 510, § 40) e non può essere impedita, invalidata né ritardata in maniera eccessiva (sentenza &.. c. Italia [GC], n° 22774/93, § 74, CEDH 1999-V).
    I fatti del presente ricorso non si prestano però a una rigida applicazione di quest'ultimo principio. La Corte ricorda che il ritorno di A. nella famiglia della ricorrente non è stato possibile soprattutto a causa del rifiuto della bambina di piegarsi alla sentenza della Corte d'Appello di (&..). Le autorità nazionali, davanti a una difficile situazione con, da una parte, A. che, dopo aver vissuto per un breve periodo con la sua famiglia naturale, fugge da scuola per ritornare dalla sua nutrice, e, dall'altra, la ricorrente che avvia l'esecuzione forzata della sentenza d'appello, scelsero una soluzione di compromesso. Il 13 giugno 1994 il Tribunale per minori, tenendo conto dell'età della bambina, ormai capace di capire la realtà e di aver coscienza dei propri desideri ed esigenze, decise di affidare la tutela di A. al comune di (&..) con mantenimento presso la famiglia affidataria. Secondo il Tribunale, il ritorno di A. poteva essere effettuato soltanto alla fine di un lungo periodo di tempo e con un appropriato sostegno. In seguito, dato che la situazione non era assolutamente migliorata, il Pretore di (&..)sospese l'esecuzione della sentenza d'appello. La tutela e l'affidamento di A. furono di nuovo ordinati e confermati rispettivamente dal Tribunale per minori (settembre 1995) e dalla Corte d'Appello di (&..) (febbraio 1996). Le suddette giurisdizioni continuarono a tentare di riavvicinare A. e la famiglia della ricorrente, chiedendo ai servizi sociali di decidere se fosse ridiventata possibile una ripresa dei rapporti e di effettuare un lavoro di mediazione tra le due famiglie. Secondo gli elementi del fascicolo, A. non è ritornata a vivere con la ricorrente.
    La Corte attribuisce grande importanza al comportamento delle autorità nazionali competenti in seguito alla sentenza della Corte d'Appello di (&..), un comportamento destinato evidentemente a permettere il ritorno di A. nella famiglia della ricorrente nelle migliori condizioni possibili e senza esercitare violenza fisica e psichica sulla bambina. La Corte, tenendo conto delle difficili circostanze della causa, ritiene che le suddette autorità abbiano preso ogni misura necessaria ai fini dell'esecuzione della sentenza controversa, che si potesse ragionevolmente avere il diritto di aspettarsi da essa.
    Di conseguenza, il motivo della mancata esecuzione della suddetta sentenza risulta palesemente infondato e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
    Per quanto attiene alla presunta violazione dell'articolo 8, la Corte ricorda che per un genitore e per il figlio stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare e che delle misure prese dalle autorità che lo impediscano costituiscono un'ingerenza nel diritto tutelato dall'articolo 8 (vedi, tra le altre, la sentenza (&..) c. Italia del 9 giugno 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-IV, § 51, e (&.) c. Italia, decisione del 5 aprile 2001, n° 34803/97). I fatti della causa costituiscono un'ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto della sua vita familiare, quale esso è garantito dall'articolo 8 § 1 della Convenzione.
    Tale ingerenza disconosce questo articolo a meno che non sia prevista dalla legge, che non abbia uno o più scopi legittimi relativamente al paragrafo 2 dell'articolo 8 e che non possa passare per una misura necessaria in una società democratica (vedi la sentenza (&.)succitata, § 52).
    Nella fattispecie, la situazione controversa deriva dall'applicazione dell'articolo 333 del codice civile, ai sensi del quale quando il comportamento di un genitore è dannoso per il bambino, il giudice può prendere tutte le misure da lui ritenute opportune. La Corte ricorda che le parole "prevista dalla legge" impongono non solo che la misura incriminata abbia una base in diritto interno, ma riguardano altresì la qualità della legge in causa: perciò quest'ultima deve essere accessibile alle persone chiamate in giustizia e prevedibile. In particolare, una norma è "prevedibile" quando è redatta in modo preciso ed offre una certa garanzia contro violazioni arbitrarie del potere pubblico. La Corte ha tuttavia già ritenuto che esistano delle situazioni, soprattutto in materia di affidamento dei bambini - appunto ai fini di assicurare un'efficace protezione di questi ultimi - in cui tutte le circostanze non possono essere previste esattamente dal legislatore (vedi, per esempio, le sentenze Eriksson c. Svezia del 22 giugno 1989, serie A n° 156, pp. 24 e 25, §§ 59 e 60, e &.. succitata, § 54). Il testo dell'articolo 333 CC è sicuramente molto generale, il che lascia alle autorità nazionali un ampio potere discrezionale, soprattutto per quanto attiene alla determinazione delle misure necessarie alla protezione del bambino. Tuttavia, in materia di revoca di una decisione sull'adottabilità di un bambino, la stessa Corte di Cassazione ha interpretato l'articolo 333 CC nel senso che dà al giudice competente il potere di prendere tutte le misure appropriate nell'esclusivo interesse del minore. Inoltre, garanzie contro le ingerenze arbitrarie derivano dal fatto che l'applicazione di questa norma rientra nel controllo dei Tribunali. In tali circostanze, la Corte ritiene che l'ingerenza avesse una base legale, abbastanza prevedibile ed accessibile.
    La Corte osserva che le autorità nazionali sono intervenute per difendere il minore: lo stesso testo delle decisioni controverse dimostra chiaramente che ciò che ha guidato i giudici sono stati l'interesse del bambino e la tutela del suo sviluppo psichico, e la procedura dei giudici ha sempre mirato al ritorno nella famiglia della ricorrente.
    Di conseguenza, l'ingerenza perseguiva uno scopo legittimo, e cioè la protezione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi del paragrafo 2 dell'articolo 8.
    Resta da valutare la questione di sapere se l'ingerenza fosse necessaria in una società democratica.
    A tale scopo, la Corte ricorda che occorre esaminare, alla luce di tutto il procedimento, se i motivi invocati per giustificare le misure controverse fossero pertinenti e sufficienti ai fini del paragrafo 2 dell'articolo 8 (sentenze Olsson c. Svezia (n° 1) del 24 marzo 1988, serie A n° 130, p. 32, § 68; &.. c. Italia [GC], n° 39221/98 e n° 41963/98, § 148, CEDH 2000). In tale contesto, la Corte non ha il compito di sostituirsi alle autorità interne per regolamentare la presa in carico di minori da parte dell'amministrazione pubblica e i diritti dei genitori di tali minori, ma di valutare alla luce della Convenzione le decisioni da loro emesse nell'esercizio del loro potere discrezionale (sentenza && succitata, § 59).
    La Corte ricorda poi che occorre normalmente considerare la presa in carico di un minore come una misura temporanea da sospendere non appena la situazione lo permetta e qualsiasi atto esecutivo deve mirare ad uno scopo finale: riunire il genitore naturale e il bambino. Al riguardo, un giusto equilibrio va trovato tra gli interessi del bambino a restare in affidamento e quello del genitore a vivere con lui. Nell'eseguire tale compito, la Corte attribuisce un'importanza particolare all'interesse superiore del minore che, secondo la sua natura e gravità, può prevalere su quello del genitore. In particolare, l'articolo 8 non può autorizzare il genitore a veder prendere misure nocive per la salute e lo sviluppo del bambino (sentenza Johansen c. Norvegia del 7 agosto 1996, Recueil 1996-III, § 78).
    Riferendosi alla conclusione relativa al motivo relativo al diritto ad un Tribunale, secondo cui il ritorno di A. nella famiglia della ricorrente è stato impedito soprattutto dal rifiuto della bambina ad accondiscendere alla sentenza della Corte d'Appello di (&.), la Corte ritiene che i motivi avanzati per giustificare le decisioni di affidare A. al comune di (&..) e di mantenerla nella famiglia affidataria fossero pertinenti e sufficienti ai sensi del paragrafo 2 dell'articolo 8 della Convenzione. Di conseguenza, essa non vede alcuna violazione del diritto al rispetto della vita familiare della ricorrente, quale esso è tutelato dall'articolo 8 della Convenzione.
    Ne deriva che tale parte del ricorso deve essere respinta in quanto palesemente infondata, ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
    Infine, per quanto attiene all'ultimo motivo di ricorso della ricorrente, viste le sue conclusioni nell'ambito degli articoli 6 (diritto ad un tribunale) e 8 della Convenzione, la Corte non vede neanche qui elementi suscettibili di sollevare un problema relativamente al diritto della ricorrente a crescere ed istruire sua figlia - motivo tra l'altro non sufficientemente argomentato. Questo è quindi palesemente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all'unanimità
Dichiara il ricorso inammissibile.

Erik Fribergh
Cancelliere

Christos Rozakis
Presidente