Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 7 giugno 2005 - Ricorso n. 27549/02 - ... contro l'Italia

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - QUARTA SEZIONE

DECISIONE FINALE SULLA RICEVIBILITÀ del ricorso n. 27549/02 presentato da &&&&&&&&&&&& contro l'Italia

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (quarta sezione), riunita il 7 giugno 2005 in una camera composta da :

Nicolas Bratza, presidente,

G. Bonello,
M. Pellonpää,
K. Traja,
V. Zagrebelsky,
L. Garlicki,
L. Mijović, giudici,

e da M. O'Boyle, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra citato presentato il 18 luglio 2002,
Vista la decisione parziale del 2 settembre 2004,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,

Dopo averne deliberato, rende la seguente decisione :

IN FATTO

Il ricorrente, &&&&&&., è un cittadino italiano, nato nel 1952 e attualmente detenuto nel penitenziario di Larino (Campobasso). Egli è rappresentato innanzi alla Corte dall'avvocato M&&&&&&, del foro di Milano. Il governo convenuto era rappresentato dal suo agente I.M. Braguglia, e dal suo coagente F. Crisafulli.

I - LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

I fatti della causa, come sono stati esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.

Gli interrogatori effettuati durante distruzione e nel corso del dibattimento di primo grado

Nell'ambito di un procedimento per traffico di stupefacenti, l'11 aprile 1994 un rappresentante della procura della Repubblica di T&& interrogò X, un pentito che aveva reso delle dichiarazioni chiamando in causa la responsabilità di terze persone, appartenenti ad una organizzazione criminale diretta da un certo Y. Durante questo interrogatorio, X fece riferimento ad una riunione in cui si doveva decidere sull'importazione di cocaina, che avrebbe avuto luogo nel 1989 o nel 1990 e alla quale avrebbe partecipato anche un certo signor &&&&&., il cui nome "poteva essere" Antonio. Questa persona era latitante da parecchi anni e aveva un fratello che era stato arrestato per il rapimento della signorina &&&&&&, una ragazza di &&&...
Il 31 maggio 1994, alla presenza del rappresentante della procura, X riconobbe la persona in questione su una fotografia. Egli fu quindi formato che la fotografia era quella del ricorrente, &&&&&&&. X precisò di essersi sbagliato quando aveva indicato il nome Antonio, e dichiarò che in effetti la persona che aveva preso parte alla riunione controversa era il ricorrente.
All'interrogatorio del 16 giugno 1995 innanzi al rappresentante della procura, X dichiarò di aver visto il ricorrente unicamente durante la riunione citata sopra e di non averlo mai incontrato altrove.
Il ricorrente fu poi rinviato a giudizio innanzi alla corte di assise di T&&. Era accusato di far parte di una associazione per delinquere diretta da Y e di aver partecipato all'importazione in Italia di parecchie centinaia di chilogrammi di cocaina provenienti dal Brasile, da Panama e dal Venezuela.
Durante il dibattimento, X, che era stato rimesso in libertà e risiedeva in un appartamento di Milano, ricevette parecchie visite da parte del fratello del ricorrente, Z, che gli chiese spiegazioni in merito alle sue dichiarazioni. Z espresse dei dubbi, soprattutto per quanto riguarda l'identificazione della persona che figurava sulla fotografia, poiché il ricorrente in realtà non aveva mai incontrato X; Z suggerì che era probabile che Y avesse presentato a X una persona diversa dal ricorrente. Peraltro, le fotografie del ricorrente erano piuttosto vecchie e X avrebbe potuto dire di aver commesso un errore, incolpando, eventualmente, un altro dei fratelli ........................., Antonio.
X dichiarò quindi la sua disponibilità a modificare la sua versione, desiderando fare quello che i fratelli ......................... gli suggerivano. Aggiunse che non era necessario sapere se era vero che aveva parlato con il ricorrente.
X e Z decisero che il primo avrebbe modificato la sua versione durante il dibattimento, dichiarando di aver accusato il ricorrente per vendetta. Z promise a X tutto l'aiuto di cui aveva bisogno.
Tutte le conversazioni tra X e Z descritte sopra furono registrate dalle autorità. La loro trascrizione fu inserita nel fascicolo processuale del ricorrente.
Interrogato dal rappresentante della procura il 21 marzo 1997, X dichiarò che durante una udienza pubblica svoltasi innanzi al tribunale di Locri nell'ambito di un altro processo penale, egli non aveva riconosciuto il ricorrente, che eppure era presente personalmente in quanto imputato. X precisò che il ricorrente era molto diverso rispetto ai suoi ricordi. X si ricordava che il ricorrente era magro, mentre aveva visto tre persone robuste, tra le quali X non avrebbe saputo dire chi era Giuseppe .......................... Peraltro, X precisò che, temendo per la sicurezza della sua famiglia, si era impegnato con Z a non riconoscere il ricorrente e che per questo motivo non aveva osservato attentamente l'imputato. X confermò al rappresentante della procura che in realtà il ricorrente era la persona presente agli incontri con Y.
X confermò queste ultime dichiarazioni durante un altro interrogatorio davanti al rappresentante della procura, che si tenne il 16 giugno 1997.
Chiamato a testimoniare durante il dibattimento pubblico davanti alla corte di assise, X dichiarò di avvalersi della facoltà di non rispondere che gli veniva riconosciuta dalla legge italiana. Di conseguenza, con una ordinanza del 15 luglio 1997, la Corte d'assise, basandosi sull'articolo 513 § 2 del codice di procedura penale ("il CPP"), come era in vigore all'epoca dei fatti, utilizzò le dichiarazioni rese da X al rappresentante della procura per decidere sulla fondatezza delle accuse .

Il giudizio di primo grado

Con una sentenza del 3 aprile 1998, il cui testo fu depositato in cancelleria il 28 settembre 1998, la corte d'assise di T&&.. prosciolse il ricorrente. A carico di alcuni suoi coimputati furono pronunciate severe pene detentive.
La corte d'assise ritenne in particolare che X non era credibile, essendosi rifiutato di svelare parecchi dettagli nonché l'identità di alcuni personaggi, mantenendo allo stesso tempo dei contatti con un detenuto di cui desiderava organizzare l'evasione. Inoltre, X aveva progressivamente adattato le sue dichiarazioni ai fatti scoperti dalle autorità, contraddicendo le sue precedenti affermazioni. In realtà, la sua collaborazione era interessata, mirando ad escludere o a ridurre la sua responsabilità e quella delle persone che gli erano vicine. Per cui, la corte d'assise considerò che, anche se corroborate da altri elementi, le dichiarazioni di X non potevano costituire la prova della colpevolezza altrui. In mancanza di elementi distintivi, deboli e decisivi a carico delle persone accusate da X, la corte d'assise pronunciò il proscioglimento.
Per quanto riguarda il ricorrente, la corte d'assise rilevò che le accuse si basavano sulle dichiarazioni di X. Costui aveva riconosciuto il ricorrente da una fotografia. Tuttavia, questa foto era abbastanza vecchia e di cattiva qualità: vi si vedeva una persona dai capelli ricci mentre all'udienza il ricorrente sembrava calvo e affetto da un accentuato strabismo. Era vero che un altro pentito, A, aveva fatto delle dichiarazioni che riguardavano il ricorrente; queste ultime, tuttavia, differivano da quelle di X su alcuni punti significativi .
La procura da parte sua insistette sulla visita che Z aveva fatto a X per indurlo a ritrattare, cosa che avrebbe dimostrato che le accuse contro il ricorrente non erano calunnie. Tuttavia, agli occhi della corte d'assise, il clima di collaborazione finalizzato alla manipolazione delle prove fra Z e X non provava la veridicità delle affermazioni di quest'ultimo.
Secondo la corte d'assise, l'unica persona che accusava il ricorrente era X. Ora, le sue affermazioni erano poco credibili, contraddittorie e mancavano di elementi che potevano corroborarle. Inoltre, avrebbero potuto essere sollevati dei dubbi quanto alle modalità di riconoscimento dalla fotografia.

Il processo di appello

La procura propose appello avverso la sentenza del 3 aprile 1998.
Durante il dibattimento pubblico innanzi alla corte d'assise d'appello, X dichiarò ancora una volta di avvalersi della facoltà di non rispondere. Precisò che questa scelta poteva essere spiegata con la volontà di proteggere la sua famiglia, la cui sicurezza, nonostante le promesse che gli erano state fatte, non era assicurata dallo Stato. La corte d'assise d'appello prese atto della volontà di X e decise di utilizzare le dichiarazioni rese da questo testimone al rappresentante della procura.
Con una sentenza del 25 luglio 2000, il cui testo fu depositato in cancelleria il 19 marzo 2001, la corte d'assise d'appello di T&&.. condannò il ricorrente a 17 anni e sei mesi di reclusione e al pagamento di una multa di 190.000.000 di lire (circa 98.126 euro).
La corte d'assise d'appello ritenne in primo luogo che le dichiarazioni di X potevano essere utilizzate come prove di colpevolezza soltanto se corroborate e confermate da altri elementi. Avendo esaminato dettagliatamente il contenuto degli interrogatori di X, la corte d'assise d'appello osservò che dalle verifiche effettuate risultava che il ricorrente era effettivamente latitante dal 1983, essendo stato arrestato soltanto il 7 aprile 1995. Inoltre, il ricorrente stesso aveva confermato che un altro dei suoi fratelli, Vittorio, era implicato nel rapimento della signorina &&&&.
Era vero che X aveva, in primo tempo, attribuito in nome di "Antonio" alla persona di cui gli era stata mostrata la fotografia; tuttavia è evidentemente che si trattava di un errore, in quanto Antonio ......................... era detenuto dal 1989. Peraltro, se si trattava di una fotografia abbastanza vecchia, era proprio a causa della latitanza del ricorrente che aveva impedito di ottenere fotografie più recenti. Secondo la corte d'assise d'appello, lo strabismo di cui ricorrente era affetto non era una caratteristica fisica decisiva, e comunque sia X non era mai stato invitato a descrivere le sembianze dell'accusato.
Il riconoscimento dalla fotografia del ricorrente doveva pertanto essere ritenuto credibile. Inoltre, le registrazioni delle conversazioni fra X e Z dimostravano che i fratelli ......................... conoscevano Y e che X cercava di convincere il suo interlocutore che non era un pentito. Durante queste conversazioni X aveva affermato più volte di conoscere il ricorrente e di avergli parlato, sottolineando allo stesso tempo che era essenziale convincere i giudici della credibilità della sua ritrattazione. Peraltro, il progetto avanzato da Z di accusare Antonio ......................... presupponeva implicitamente l'ammissione che X conoscesse il ricorrente e che quest'ultimo era colpevole dei fatti che gli erano attribuiti. In effetti, in caso contrario (errore o calunnia da parte di X), Z avrebbe potuto limitarsi a esigere la verità.
A sua volta, A aveva dichiarato di essere stato indirettamente a conoscenza di alcuni fatti, relativi ai rapporti fra X, il ricorrente e la famiglia di Y, nonché del contesto che li circondava. Inoltre, uno dei fratelli del ricorrente, Vittorio, aveva riferito ad A sia la partecipazione del ricorrente all'associazione per delinquere diretta da Y sia alcuni problemi che erano sorti fra i due uomini. Era vero che Vittorio ........................., che aveva in un primo tempo confermato queste affermazioni, aveva poi ritrattato; tuttavia la ritrattazione in questione sembrava poco credibile. Infine, davanti alla corte d'assise d'appello era stata prodotta la deposizione resa in un altro processo penale da un capitano dei carabinieri, B. Dalle dichiarazioni di B risultava che effettivamente una disputa avesse opposto Y al ricorrente, almeno per un certo tempo.

Il ricorso per cassazione del ricorrente

Il ricorrente propose ricorso per cassazione, contestando, soprattutto, la credibilità accordata a X. Il ricorrente sostenne anche che la corte d'assise d'appello non aveva indicato in maniera sufficientemente precisa i motivi per i quali si discostava dall'opinione dei giudici di primo grado.
Con una sentenza del 14 febbraio 2002, il cui testo fu depositato in cancelleria il 14 giugno 2002, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d'assise d'appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, respinse ricorso del ricorrente.

Le dichiarazioni rese dopo la fine del processo

Il 3 febbraio 2003, l'avvocato M&&., difensore del ricorrente, si recò a casa di X al fine di ottenere informazioni ai sensi dell'articolo 391 bis § 5 del CPP, una norma che autorizza la difesa a effettuare indagini. Dal verbale redatto in questa circostanza emerge che X dichiarò all'avvocato M&&&& di non aver mai conosciuto il ricorrente, di non poterlo descrivere fisicamente e che il ricorrente non aveva avuto rapporti con Y. Egli precisò anche che le autorità avevano interpretato in maniera errata le sue conversazioni con Z.

II - IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNUI PERTINENTI

La lettura delle dichiarazioni rese da un coimputato o da una persona accusata in un procedimento connesso era disciplinato dall'articolo 513 del CPP. Per il fatto che erano state lette, queste dichiarazioni erano allegate al fascicolo per il dibattimento e potevano essere utilizzate per decidere sulla fondatezza dell'accusa.

Questa norma è così formulata:
"Il giudice, se l'imputato è contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.

Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'articolo 210, [si tratta di persone accusate in un procedimento connesso] il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio o la rogatoria internazionale. Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, il giudice, dopo aver ascoltato le parti, dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni.

Con la sentenza n° 254 del 3 giugno 1992, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l'articolo 513 § 2 nella parte in cui non prevedeva che "il giudice, dopo avere ascoltato le parti, ordina la lettura dei verbali delle dichiarazioni (...) rese dalle persone indicate all'articolo 210, qualora queste ultime si siano avvalse della facoltà di non rispondere".

La legge n° 267 del 7 agosto 1997 (entrata in vigore il 12 agosto 1997) ha modificato l'articolo 513, prevedendo che le dichiarazioni rese prima del dibattimento da un testimone a carico coimputato potevano essere utilizzate solo se era stato rispettato il principio del contraddittorio o, in mancanza, se l'accusato aveva acconsentito.

Tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità di questa legge nella parte in cui non prevedeva la possibilità di utilizzare per le contestazioni e in seguito per la decisione sulla fondatezza delle accuse i verbali delle dichiarazioni rese durante l'istruzione da un coimputato, quando costui si rifiutava di testimoniare e l'accusato non acconsentiva alla lettura delle dichiarazioni in questione (vedere la sentenza n° 361 del 26 ottobre 1998). È a seguito di questa sentenza che il Parlamento ha deciso di inserire il principio del processo equo nella Costituzione stessa. L'articolo 111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione le sue parti pertinenti, e così formulato:
" (...) Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato (...) abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico (...) La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita."

Con la legge no 63 del 2001, sono stati fatti in parecchi emendamenti al CPP per dare esecuzione ai principi consacrati nel nuovo articolo 111 della Costituzione.

Per quel che riguarda la forza probante delle dichiarazioni rese da un coimputato o da una persona accusata in un procedimento connesso, l'articolo 192 § 3 del CPP prevede che queste debbano essere "valutate con gli altri elementi di prova che ne confermano la credibilità" (le dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso (...) sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità

MOTIVI DI RICORSO

Invocando l'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, il ricorrente lamenta di non aver avuto l'occasione di interrogare X, fatto che avrebbe reso il suo processo iniquo.

IN DIRITTO

Il ricorrente lamenta l'iniquità del processo penale a suo carico. Egli sostiene di essere stato condannato dalla corte d'assise di appello di T&&.. sulla base di dichiarazioni rese prima del dibattimento da X, un testimone che non ha mai avuto la possibilità di interrogare o di far interrogare. Egli invoca l'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione che nelle sue parti pertinenti, è così formulato:

1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale (...) il quale deciderà (...), sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. (...)
3. In particolare, ogni accusato ha diritto a :
d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

A - ARGOMENTI DELLE PARTI

Il Governo

Il Governo ritiene che le norme interne pertinenti, come erano in vigore all'epoca del processo del ricorrente, erano compatibili con i principi della Convenzione. E' vero che per la decisione sulla fondatezza delle accuse il giudice poteva utilizzare le dichiarazioni rese al rappresentante della procura in assenza dell'accusato o del suo difensore. Tuttavia, le dichiarazioni in questione non potevano, da sole, fondare un verdetto di colpevolezza, dovendo essere confermate da altri elementi.
Nella fattispecie, le dichiarazioni di X sono state corroborate da "una lunga serie di altre prove", ossia: 1) il fatto che X avesse riferito alcuni "dettagli significativi" e veritieri della vita del ricorrente; 2) la circostanza che X avesse riconosciuto il ricorrente in fotografia; 3) le conversazioni tra Z e X, che dimostravano che quest'ultimo conosceva il ricorrente e che a giusto titolo l'aveva accusato; 4) le dichiarazioni di A, che indicavano l'esistenza di rapporti tra X, il ricorrente e Y.
Il Governo sottolinea che la scelta di X di avvalersi del suo diritto di non rispondere sia stata motivata dall'esigenza di proteggere la sua famiglia dalle rappresaglie. I timori di X erano giustificati dalle pressioni esercitate da Z, che erano sostanzialmente delle minacce. Ritenere che le dichiarazioni di X non potessero essere utilizzate equivarrebbe ad avvantaggiare gli accusati che tentavano di minacciare di influenzare i testimoni.
Il Governo ricorda infine che in mancanza di conclusioni manifestamente arbitrarie, la Corte non può sostituire la sua valutazione dei fatti e degli elementi di prova a quella dei giudici nazionali.

Il ricorrente

Il ricorrente sostiene che, come giustamente sottolineato dai giudici di primo grado, le affermazioni di X non erano credibili, essendo poco precise, contraddittorie e provenendo da una persona che non aveva mai svelato tutto quello che sapeva. Inoltre, le circostanze nelle quali X avrebbe riconosciuto il ricorrente sulla fotografia sarebbero dubbie, in quanto il testimone disponeva di un'immagine di cattiva qualità ed era stato suggestionato dal procuratore. Peraltro, in una pubblica udienza svoltasi innanzi al tribunale di Locri, X non ha riconosciuto il ricorrente ed ha sempre omesso di riferire due dei suoi tratti fisici più marcati, ossia il fatto che fosse calvo e che soffrisse di un forte strabismo. Occorre anche tener conto del fatto che l'avvocato che assisteva X era uno dei suoi coimputati e che X ed A si erano incontrati. Nonostante ciò, i giudici d'appello non avrebbero proceduto ad una seria verifica della credibilità di X.
Secondo il ricorrente, le disposizioni interne pertinenti in vigore all'epoca del suo processo erano manifestamente contrarie alla Convenzione, perché permettevano di fondare una condanna sulle dichiarazioni di una persona che l'accusato non aveva mai avuto occasione adeguata di interrogare o di far interrogare. Questo sarebbe confermato a posteriori dalla riforma dell'articolo 111 della costituzione e dall'adozione della legge N° 63 del 2001.
Peraltro, la scelta di X di mantenere il silenzio non sarebbe motivata dall'esigenza di proteggere la sua famiglia, perché nessun indizio poteva dimostrare che X fosse stato minacciato. In effetti, dalle conversazioni tra Z e X emergeva che quest'ultimo non conosceva il ricorrente, come risulta dalle dichiarazioni rese all'avvocato M&&&&. dopo la fine del processo. Ad ogni modo, tenuto conto delle opposte conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di primo e secondo grado su questo punto, a tal proposito sarebbe stato fondamentale porre delle questioni a X durante il dibattimento pubblico in appello, chiedendogli anche di riconoscere il ricorrente di persona.
Quanto alle dichiarazioni di A e di Vittorio ........................., non si tratterebbe di elementi che possano corroborare la versione di X. A aveva in effetti una conoscenza indiretta dei fatti, avendoli appresi durante alcune conversazioni con terzi. X e Vittorio ......................... non sono mai stati interrogati sul contenuto di queste conversazioni. Infine, le dichiarazioni di B avrebbero un carattere generale e la latitanza del ricorrente era largamente nota negli ambienti criminali.
Alla luce di quello che precede, il ricorrente ritiene che la sua condanna sia stata fondata in maniera determinante sulle dichiarazioni di X.

Valutazioni della Corte

Dal momento che le esigenze del paragrafo 3 rappresentano dei particolari aspetti di diritto ad un processo equo garantito dal paragrafo 1 dell'articolo 6, la Corte esaminerà le doglianze del ricorrente dal punto di vista di questi due testi combinati (vedere, fra molte altre, Van Geyseghem c. Belgio [GC], n° 26103/95, CEDH 1999-I, § 27).

La Corte rammenta che il suo compito, ai sensi dell'articolo 19 della Convenzione, è quello di garantire il rispetto degli impegni derivanti dalla Convenzione per gli Stati contraenti. In particolare, non le spetta, conoscere gli errori di fatto o di diritto presuntamente commessi da una autorità giudiziaria interna, a meno che e nella misura in cui questi avrebbero leso i diritti e libertà tutelati dalla Convenzione. Se l'articolo 6 garantisce il diritto ad un processo equo, non disciplina tuttavia l'ammissibilità delle prove in quanto tale, materia che spetta in primo luogo al diritto interno (Schenk c. Svizzera, sentenza del 12 luglio 1988, serie A n° 140, p. 29, §§ 45-46). La Corte non è quindi competente a pronunciarsi sul punto di sapere se alcune deposizioni di testimoni sono state a buon diritto ammesse come prove o sulla colpevolezza del ricorrente (vedere, fra molte altre, Lucà c. Italia, n° 33354/96, § 38, CEDH 2001-II; Khan c Regno Unito, n° 35394/97, § 34, CEDH 2000-V; GarcI'a Ruiz c. Spagna [GC], n° 30544/96, CEDH 1999-I, § 28). Non le spetta interpretare le conversazioni tra Z e X o stabilire se le affermazioni di X erano credibili e se il riconoscimento del ricorrente sulla fotografia era veritiero. La missione affidata alla Corte dalla Convenzione consiste unicamente nel ricercare se la procedura considerata nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, abbia assunto un carattere equo e se siano stati rispettati i diritti della difesa (De Lorenzo c. Italia (dec.), no 69264/01, 12 febbraio 2004).

Nella fattispecie, il ricorrente lamenta di non aver potuto interrogare o far interrogare X, un testimone che durante il dibattimento di primo e secondo grado si è avvalso della facoltà di non rispondere a lui riconosciuta dalla legge italiana.

X ha motivato la sua decisione di non testimoniare al processo con l'esigenza di proteggere la sua famiglia dalle rappresaglie di cui avrebbe potuto essere oggetto. Ora, emerge dalle intercettazioni delle conversazioni tra Z e X che quest'ultimo aveva ricevuto delle pressioni che miravano a fargli cambiare la sua versione dei fatti e ad accusare una terza persona al posto del ricorrente. Non spetta alla Corte pronunciarsi sulla natura di queste pressioni o valutare se esse nascondessero minacce implicite. Essa si limita a constatare che costituivano un elemento che poteva indurre a pensare che i timori di X non fossero manifestamente privi di fondamento o arbitrari. Ora, gli interessi dei testimoni e della loro vita, libertà o sicurezza sono per principio tutelati dalla Convenzione, fatto che implica che gli Stati contraenti devono organizzare il loro procedimento penale in maniera che i suddetti interessi non siano indebitamente messi in pericolo. Detto ciò, i principi del processo equo impongono anche che, in determinati casi, gli interessi della difesa siano confrontati con quelli dei testimoni (Doorson c. Paesi Bassi, sentenza del 26 marzo 1996, Recueil 1996-II p. 470, § 70, e Van Mechelen e altri, prima citata, p. 711, § 53).

A tal proposito, la Corte ricorda che gli elementi di prova devono per principio essere prodotti davanti all'accusato in pubblica udienza, in vista di un dibattito in contraddittorio. Questo principio non è senza eccezioni, ma le eccezioni si possono accettare solo fatti salvi i diritti della difesa; per regola generale, i paragrafi 1 et 3 d) dell'articolo 6 ordinano di concedere all'accusato una occasione adeguata e sufficiente per contestare una testimonianza a carico e per interrogarne l'autore, al momento della deposizione o successivamente (Van Mechelen e altri c Paesi Bassi, sentenza del 23 aprile 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-III, p. 711, § 51, e Lüdi c. Svizzera, sentenza del 15 giugno 1992, serie A no 238, p. 21, § 49). In particolare, i diritti della difesa sono limitati in maniera incompatibile con le garanzie dell'articolo 6 quando una condanna si fonda, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni di un testimone che l'accusato non ha avuto la possibilità di interrogare o far interrogare né a livello istruttorio, né durante il dibattimento (A.M. c. Italia, n° 37019/97, § 25, CEDH 1999-IX, e Saïdi c. Francia, sentenza del 20 settembre 1993, serie A n° 261-C, pp. 56-57, §§ 43-44).

La Corte rileva che nella presente fattispecie le dichiarazioni di X non costituivano affatto l'unico elemento di prova sul quale i giudici di merito hanno basato la condanna del ricorrente (vedere, mutatis mutandis e fra molte altre, Raniolo c. Italia (dec.), n° 62676/00, 21 marzo 2002; Sangiorgi c. Italia (dec.), no 70981/01, 5 settembre 2002; Sofri e altri c. Italia (dec.), n° 37235/97, CEDH 2003 - VIII; De Lorenzo, decisione prima citata; Chifari c. Italia (dec.), n° 36037/02, 13 maggio 2004). Vi si aggiungerebbero, in effetti, il contenuto delle conversazioni fra X e Z, gli accertamenti compiuti in merito alla latitanza del ricorrente ed alle vicissitudini giudiziarie di suo fratello Vittorio, nonché le affermazioni di quest'ultimo, di A e di B. Letti congiuntamente con le affermazioni di X, questi elementi hanno indotto la corte d'assise d'appello di T&&. a ritenere che il ricorrente fosse colpevole dei fatti a lui ascritti. A tal proposito, è opportuno sottolineare che nella sua sentenza del 25 luglio 2000, la corte d'assise d'appello ha precisato che le dichiarazioni di X potevano essere utilizzate come prove di colpevolezza soltanto nella misura in cui erano corroborate e confermate da altri elementi.

La Corte rammenta anche che un processo non cessa di essere equo quando la condanna si fonda, essenzialmente o in parte, sulle dichiarazioni dei testimoni coimputati (De Lorenzo, decisione prima citata; Natoli c. Italia (dec.), n° 4290/02, 27 novembre 2003; Bargiola c. Svizzera, no 17265/90, decisione della Commissione del 21 ottobre 1993, Décisions et rapports (DR) 75, pp. 76, 97-98).

Infine, dal momento che le affermazioni del ricorrente vertono sulla sostenuta incompatibilità tra le norme in vigore in Italia prima della riforma dell'articolo 111 della Costituzione e la Convenzione, la Corte ricorda che non le spetta esaminare in abstracto la legislazione e la prassi pertinenti, ma deve esaminare se il modo con cui esse hanno toccato il ricorrente abbia infranto la Convenzione (Padovani c. Italia, sentenza del 26 febbraio 1993, serie A n° 257-B, p. 20, § 24).

In queste condizioni, la Corte non può concludere che l'impossibilità di interrogare X abbia leso i diritti della difesa al punto di infrangere i paragrafi 1 e 3 d) dell'articolo 6 ( vedere mutatis mutandis e fra molte altre, Artner c. Austria, sentenza del 28 agosto 1992, serie A n° 242-A, pp. 10-11, §§ 22-24, e P.M. c. Italie (dec.), n° 43625/98, 8 marzo 2001).

Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,

Dichiara la parte restante del ricorso irricevibile.

Michael O'Boyle
Cancelliere

Nicolas Bratza
Presidente