Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'11 gennaio 2007 - Ricorso n. 16098/05 - L. D. S. contro l'Italia

DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ del ricorso n. 16098/05 presentato da L. D. S. contro l'Italia

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (terza sezione), riunita l'11 gennaio 2007 in una camera composta da:

Sigg. B.M. Zupan?i?, presidente,
J. Hedigan,
C. Bîrsan,
V. Zagrebelsky,
E. Myjer,
David ThO'r Björgvinsson,
Sig.ra I. Ziemele, giudici,
e dal sig. V. Berger, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra citato presentato il 18 aprile 2005,
Vista la decisione della Corte di avvalersi dell'articolo 29 § 3 della Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità ed il merito della causa,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,
Dopo averne deliberato, rende la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, sig. L. d. S., è un cittadino italiano, nato nel 1941 e residente a P. Il ricorrente, che è avvocato, è stato autorizzato dal presidente della sezione ad assumere personalmente la difesa dei propri interessi. (articolo 36 § 2 in fine del regolamento). Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I. M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli, nonché dal suo cogente aggiunto, N. Lettieri.

  1. Le circostanze della fattispecie

    I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, posso essere riassunti come segue:

    1. La condanna del ricorrente e la revisione del suo processo

      Il ricorrente fu accusato di falsa testimonianza. In particolare, nel corso di un processo civile aveva dichiarato di non aver mai concluso un un contratto di locazione per iscritto con un certo signor D.
      Con una sentenza nel 12 dicembre 1984, il giudice di P. condannò il ricorrente a sei mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena. A carico del ricorrente pronunciò inoltre l'interdizione dai pubblici uffici. Il giudice ritenne che l'esistenza del contratto controverso era provata dalle dichiarazioni del signor D. e di sua moglie.
      Il ricorrente propose appello contestando la credibilità delle testimonianze a carico.
      Con una sentenza del 12 aprile 1986, il tribunale di P. confermò la condanna del ricorrente.
      Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma tale ricorso venne rigettato con una sentenza del 17 marzo 1988 il cui testo fu depositato in cancelleria il 4 ottobre 1988.
      Il ricorrente presentò in seguito alcune richieste di revisione, senza tuttavia ottenere la riapertura del suo processo.
      Il 1º giugno 1988, il ricorrente presentò una nuova richiesta di revisione. Egli sostenne che nuove prove dimostravano la sua innocenza. In particolare, da parecchi elementi risultava che il contratto in questione era stato firmato soltanto dal signor D., e non anche dal ricorrente.
      Con una ordinanza del 21 dicembre 1999, la corte d'appello di C. dichiarò la richiesta di revisione ammissibile. Con una sentenza del 10 luglio 2000, essa rigettò tuttavia la richiesta del ricorrente ritenendo che quest'ultimo tentasse essenzialmente di ottenere una nuova valutazione delle prove già prodotte nel corso del primo processo.
      Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma il ricorso venne respinto il 5 febbraio 2002.
      Nel frattempo, il signor D. aveva citato il ricorrente innazi al tribunale di P. al fine di ottenere il risarcimento per i danni morali e materiali provocati dalla falsa testimonianza. Con una sentenza del 20 febbraio 2000, il tribunale aveva accolto questa domanda e aveva condannato il ricorrente a pagare la somma di 3.000.000 di lire (circa 1549 euro) al signor D.
      Una nuova richiesta di revisione del ricorrente fu dichiarata inammissibile dalla corte d'appello di C. il 14 ottobre 2003.
      Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
      Con una sentenza del 4 marzo 2004, la Corte di cassazione annullò la decisione impugnata. Essa osservò che la richiesta di revisione era ammissibile se il condannato domandava una valutazione delle prove esistenti che non era mai stata effettuata dal giudice di merito.
      Il processo del ricorrente fu riaperto.
      Con una sentenza del 14 gennaio 2005, il cui testo fu depositato in cancelleria il 28 gennaio 2005, la corte d'appello di C. annullò la condanna del ricorrente e prosciolse quest'ultimo dall'accusa a suo carico perché il fatto non sussisteva.
      La corte d'appello osservò che nel corso dei procedimenti penali e civili, la circostanza che il contratto di locazione fosse stato firmato anche dal ricorrente non era mai stata evocata. Peraltro, quest'ultimo non aveva alcun interesse a rendere una falsa testimonianza. Dal momento che un contratto era "concluso per iscritto" soltanto se era firmato da tutte le parti, non si poteva ritenere che il ricorrente avesse mentito.
      Questa decisione divenne definitiva il 1º marzo 2005.

    2. Le osservazioni delle parti innanzi alla Corte e le espressioni utilizzate dal ricorrente.

      A seguito della comunicazione del ricorso, con una lettera del 22 giugno 2006, il Governo ha fatto pervenire alla Corte le sue osservazioni sulla ricevibilità e sulla fondatezza della causa. Il ricorrente ha replicato il 19 settembre 2006. Ricevuta questa corrispondenza, il Governo ha fatto notare alla Corte che il ricorrente aveva utilizzato delle espressioni "gratuitamente oltraggiose" nei confronti del suo coagente. Esso ha subito domandato che l'interessato venisse invitato a ritirarle.
      Il 31 ottobre 2006, il cancelliere di sezione ha inviato al ricorrente una lettera, le cui parti pertinenti recitano quanto segue:

      «(&) osservo che il Governo ha domandato alla Corte di ordinare alla prate ricorrente di ritirare le sue espressioni oltraggiose contenute nelle sue osservazioni pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006. Ora, dalla lettura delle osservazioni in questione emerge che lei ha effettivamente utilizzato delle parole che ledono l'onore e la reputazione del coagente del Governo. A semplice titolo di esempio, cito le seguenti espressioni : "secondo la infondata opinione del coagente che dimostra la sua volontà malefica di ingannare la Corte"; "secondo il parere interessato e subdolo del coagente&".

      A tale proposito, le ricordo che, se ogni ricorrente ha il diritto di criticare il contenuto delle osservazioni del Governo, resta comunque il fatto che la procedura innanzi alla Corte deve essere ispirata al rispetto per la parte avversa. Pertanto, la invito a farmi pervenire, entro il 1º dicembre 2006, una nuova versione delle sue osservazioni, dopo aver eliminato qualsiasi espressione offensiva. In mancanza di ciò, la corte provvederà d'ufficio a tale eliminazione. Essa potrà anche ritenere che la sua richiesta è abusiva ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e decidere di dichiararla irricevibile.

      Richiamo anche la sua attenzione sull'articolo 44D del regolamento della Corte, ai sensi del quale "se il rappresentante di una parte formula delle osservazioni abusive, frivole, vessatorie o prolisse, il presidente della camera può escluderlo dalla procedura, rifiutare di ammettere in tutto o in parte le osservazioni in causa o emettere qualsiasi ordinanza ritenuta idonea dal giudice, senza pregiudizio dell'articolo 35 § 3 della Convenzione»

      Con una lettera del 22 novembre 2006, il ricorrente ha invitato la Corte ad ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose che avrebbe utilizzato; soltanto in questo caso, il ricorrente sarebbe pronto a ritirarle, dopo averne esaminato il contenuto. Peraltro, il Governo avrebbe evitato di fornire tali indicazioni "al fine di non essere smentito clamorosamente e con ludibrio dal ricorrente". Quest'ultimo ritiene di non avere ecceduto nell'esercizio del suo diritto di critica di fronte "agli errori molto evidenti (&) deliberatamente inseriti, al fine di provocare la reazione legittima del ricorrente, nelle osservazioni del cogente". Secondo il parere del ricorrente, non ci si può nascondere dietro "il Galateo di Monsignor della Casa o l'etichetta formalista del vecchio re dei Borboni".
      Il ricorrente sostiene inoltre che il Governo dovrebbe essere costretto a ritirare tutte le sue citazione della giurisprudenza della Corte perché non vi sono indicazioni sulla data delle sentenze e sui numeri dei ricorsi. Questo costituisce una mancanza di deontologia. Infine, l'interpretazione data dal Governo alle disposizioni interne pertinenti sarebbe "falsa" ed il ricorrente si sentirebbe "personalmente offeso" dalle tesi giuridiche del Governo , di cui alcune sarebbero "provocatrici".

  2. Il diritto interno pertinente

    L'articolo 643 del codice di procedura penale ("il CPP") ammette la riparazione dell'errore giudiziario. Il primo comma di questa norma recita:

    "Chi è risultato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata della eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna."

    L'articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 (legge sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.) dispone:

    "Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.


    MOTIVI DI RICORSO

    Invocando l'articolo 3 del Protocollo n. 7, il ricorrente allega una violazione del suo diritto alla riparazione in caso di errore giudiziario.


    IN DIRITTO

    Il ricorrente lamenta di non poter ottenere una riparazione per l'errore giudiziario di cui è stato oggetto. Egli osserva che essendo stato condannato ad una pena la cui esecuzione è stata sospesa, non è stato privato della sua libertà. Quindi l'articolo 643 § 1 del CPP e l'articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 non devono essere applicati. Egli invoca l'articolo 3 del Protocollo n. 7 così formulato:

    "Qualora una condanna penale definitiva sia successivamente annullata o qualora la grazia sia concessa perchè un fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni comprovano che vi è stato un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna sarà risarcita, conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non sia provato che la mancata rivelazione in tempo utile del fatto non conosciuto le sia interamente o parzialmente imputabile"

    Il Governo si oppone a questa tesi.

  1. Argomenti delle parti

    1. Eccezione del Governo basata sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne

      Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Esso osserva che ai sensi dell'articolo 643 del CPP, il diritto al risarcimento è sottoposto a due condizioni, in particolare: che colui che presenta la domanda abbia subìto l'esecuzione di una pena o che abbia subìto conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna. Poiché queste condizioni non sono cumulabili, per ottenere il risarcimento è sufficiente una sola di esse.
      Ora, il ricorrente avrebbe potuto provare che la sua condanna aveva avuto delle ripercussioni "personali" o "familiari" indipendenti dall'esecuzione di una pena. Certo, la prova di tali ripercussioni in un caso come la presente fattispecie in cui la condanna non ha avuto alcuna conseguenza concreta avrebbe potuto presentare qualche difficoltà. Tuttavia, l'efficacia e l'adeguatezza di una via di ricorso non dipendono dalla certezza di un esito favorevole, essendo sufficiente, al contrario, che essa non sia destinata ad un sicuro insuccesso.
      Il Governo ritiene anche che per ottenere il risarcimento di qualsiasi pregiudizio materiale eventualmente subìto, il ricorrente avrebbe potuto avvalersi delle disposizioni della legge n. 117 del 1988, allegando il dolo o la colpa grave dei magistrati che hanno pronunciato la sua condanna.
      Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Egli osserva che l'articolo 643 del CPP prevede due condizioni cumulabili e non alternative per ottenere il risarcimento dell'errore giudiziario, ossia l'esecuzione della pena e l'esistenza di conseguenze personali e familiari per il condannato. Questo risulta chiaramente dalla congiunzione "e" che raccorda le due parti dell'articolo in questione e sarebbe confermato dalla giurisprudenza interna pertinente.
      Per quanto riguarda l'articolo 2 della legge n. 117 del 1988, si tratta di una norma che prevede il risarcimento dei danni "derivanti da una privazione della libertà personale". Peraltro, circa 50 giudici si sono occupati della causa del ricorrente. Quest'ultimo avrebbe dunque dovuto avviare 50 procedimenti diversi. Questi ultimi sarebbero durati a lungo, si sarebbero articolati su più gradi di giurisdizione e, probabilmente, sarebbero terminati con il rigetto delle pretese del richiedente. In effetti, nulla prova che i giudici in questione non abbiano agito in buona fede.

    2. Nel merito del motivo di ricorso

      Il Governo osserva che quando viene concessa la sospensione condizionale della pena, vi è sospensione dell'esecuzione di qualsiasi pena principale (detenzione o sanzione pecuniaria) nonché di qualsiasi pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici). Inoltre, l'articolo 175 del codice penale ("il CP") prevede che inflitta non venga fatta menzione della condannna nel certificato penale domandato dall'interessato.
      Nel caso di specie, il ricorrente ha beneficiato sia della sospensione condizionale dell'esecuzione della sua pena, sia della non menzione di quest'ultima. La sua condanna è quindi rimasta lettera morta. In effetti non è stata eseguita nessuna pena (né quella principale, né quella accessoria) e la non menzione nel casellario giudiziale ha posto l'interessato al riparo da qualsiasi conseguenza sul piano morale.
      Pertanto, le evenutali azioni per risarcimento avviate dal ricorrente avrebbero potuto scontrarsi con un rigetto nel merito per l'inesistenza di un danno o per mancanza di prove di un tale pregiudizio.
      Secondo il parere del Governo, non potrebbe esservi violazione dei principi della Convenzion per il semplice fatto che l'ordinamento giuridico interno rifiuta di risarcire un individuo per un pregiudizio inesistente o non provato. Nonostante le differenze nella la loro formulazione, gli articoli 3 del Protollo n. 7 e 643 del CPP sottopongno il diritto alla riparazione per errore giudiziario alle stesse condizioni. La prima disposizione esige che il condannato abbia "subìto una pena", ossia che quest'ultima sia stata eseguita; la seconda prevede che la riparazione sia "proporzionata alla durata della pena eventualmente scontata", presupponendo così l'applicazione della sanzione.
      Peraltro, l'articolo 3 del Protocollo n. 7 lascia agli Stati contraenti un ampio margine di valutazione per quanto riguarda le condizioni relative alla concessione del risarcimento, precisando che quest'ultimo è accordato "conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato". Le parti contraenti sarebbero quindi libere di adattare il risarcimento per errore giudiziario alla natura ed alle conseguenze di quest'ultima. Ora, l'articolo 643 del CPP andrebbe ben al di là di quanto richiesto dalla Convenzione perché permette, anche in assenza dell'esecuzione di una pena, di ottenere un risarcimento danni per le eventuali conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna.
      Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Esso sottolinea innanzitutto che la non menzione della condanna riguarda unicamente i certificati del casellario giudiziale richiesti dall'interessato. Tuttavia la condanna appare su qualsiasi altro certificato richiesto dalla magistratura, dalla pubblica amministrazione e dagli ordini professionali. Il ricorrente, un avvocato che esercita una libera professione, ha quindi subìto gravi conseguenze personali, familiari e professionali. Sarebbe pertanto sbagliato sostenere che la sua condanna sia "rimasta lettera morta".
      Certo, il ricorrente non è stato privato della sua libertà; rimane comunque il fatto che è stato ritenuto colpevole di un reato "molto grave", fatto che ha comportato una significativa perdita di clienti. Inoltre, la madre del ricorrente si è sentita responsabile delle vicissitudini giudiziarie di suo figlio e di conseguenza avrebbe contratto una malattia psicosomatica, ossia una forma di cancro, che ne ha provocato il decesso. Il ricorrente stesso avrebbe somatizzato la situazione e sarebbe per questo invecchiato precocemente.
      Secondo il parere del ricorrente, sarebbe anche sbagliato affermare che ogni pena accessoria, e soprattutto l'interdizione dai pubblici uffici", non sia stata eseguita nei suoi confronti. In realtà, in ragione della sua condanna, il ricorrente non ha potuto esercitare nessuna funzione pubblica.
      Il ricorrente contesta infine l'interpretazione data dal Governo all'articolo 3 del Protocollo n. 7, secondo la quale il diritto al risarcimento previsto da questa norma scaturirebbe soltanto qualora la pena fosse stata eseguita.

  2. Valutazione della Corte

    La Corte deve innanzitutto determinare se le espressioni utilizzate dal ricorrente nelle sue osservazioni di risposta pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006 costituissero un abuso del diritto di ricorso individuale.
    La Corte ricorda che se non vi è alcun dubbio che l'uso di un linguaggio offensivo nel procedimento innanzi alla Corte sia fuori luogo, salvo casi eccezionali, un ricorso può essere rigettato in quanto abusivo solo se sia stato basato consapevolmente su fatti inventati di sana pianta (Varbanov c. Bulgaria, n. 31365/96, § 36, CEDH 2000-X, e Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, p. 1206, §§ 53-54). Tuttavia, nel presente caso, la Corte ritiene che le affermazioni del ricorrente siano intollerabili e che l'interessato abbia superato i limiti di una critica normale, civica e legittima. Il comportamento del ricorrente potrebbe essere qualificato, in sostanza, di contempt of court (oltraggio alla corte; voir, mutatis mutandis, ?ehA'k c. République Tcheque (dec.), n. 67208/01, 18 maggio 2004).
    La Corte ha esaminato il contenuto delle osservazioni del Governo senza trovarvi alcuna espressione che, cono sostiene il ricorrrente, potresse essere considerata offensiva nei suoi confronti. Al contrario, il coagente del Governo si è limitato a dare la sua interpretazione sulle disposizioni interne pertinenti e sull'articolo 3 del Protocollo n. 7.
    Certo, il ricorrente ha il diritto di non condividere tale interpretazione e in effetti ha presentato numerosi argomenti giuridici e fattuali per contestarla. Tuttavia, in alcuni passaggi delle sue osservazioni di risposta l'interessato si è lasciato andare ad un attacco personale nei confronti del coagente, utilizzando delle espressioni che la Corte considera oltraggiose.
    La Corte attribuisce anche importanza al fatto che il ricorrente è un avvocato e che il cancelliere di sezione ha richiamato la sua attenzione sul carattere intollerabile delle sue osservazioni e lo ha invitato a ritirarle. Così, il ricorrente si è visto offrire la possibilità di eliminare dalle sue osservazioni qualsiasi espressione che, senza toccare la sostanza delle sue tesi, può essere considerata un attacco gratuito e personale nei confronti del rappresentante del Governo.
    Anziché cogliere questa occasione, il ricorrente ha domandato alla Corte di ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose, nonostante queste ultime risultassero chiaramente dalla lettera del cancelliere di sezione del 31 ottobre 2006. Si è successivamente lasciato andare ad una inutile polemica sulla deontologia del reappresentante del Governo, reiterando le sue affermazioni secondo le quali quest'ultimo avrebbe deliberatamente inserito degli errori nelle sue osservazioni al fine di provocare la parte avversa.
    Secondo il parere della Corte, la condotta del ricorrente è contraria alla vocazione del diritto di ricorso individuale, quale previsto dalle disposizioni degli articoli 34 e 35 della Convenzione. Essa è abusiva ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convezione (vedere, mutatis mutandis, Duringer e altri c. Francia (dec.), n. 61164/00, CEDH 2003-II, e ?ehA'k, decisione precitata).
    Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato irricevibile in quanto abusivo ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione.

    Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,

    Dichiara il ricorso irricevibile.

Vincent Berger
Cancelliere

Boštjan M. Zupančič
Presidente