Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 novembre 2007 - Ricorso n. 399/02 - Bocellari e Rizza c/Italia

CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO. CEDU-ART. 6 § 1)

Va riconosciuta la violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU) quando un giustiziabile, coinvolto in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, che si svolge, per legge, in camera di consiglio, non si veda, perlomeno, offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunale e delle corti d'appello.

SECONDA SEZIONE

CAUSA BOCELLARI E RIZZA c. ITALIA
(Ricorso nº 399/02)

SENTENZA
STRASBURGO, 13 novembre 2007

Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Essa può subire modifiche formali.

Nella causa Bocellari e Rizza c. Italia,

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da :

F. TULKENS, presidente,
A.B. BAKA,
I. CABRAL BARRETO,
M. UGREKHELIDZE,
V. ZAGREBELSKY,
A. MULARONI,
D. POPOVIC, giudici,

e da S. DOLLÉ, cancelliere di sezione,

Dopo averne deliberato in camera di consiglio il 16 ottobre 2007, emette la sentenza che segue, adottata in tale data:

PROCEDURA

  1. All'origine della causa vi è un ricorso (nº 399/02) diretto contro la Repubblica italiana con il quale i due cittadini di questo Stato, i signori Gianfranco Bocellari e Wilma Rizza ("i ricorrenti"), hanno adito la Corte il 17 dicembre 2001 ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ("la Convenzione").
  2. I ricorrenti sono rappresentati dall'avvocato M. de Stefano del foro di Roma. Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente I. M. Braguglia e dal suo cogente aggiunto N. Lettieri.
  3. I ricorrenti deducevano la mancanza di pubblicità della procedura per l'applicazione delle misure di prevenzione al primo ricorrente, sospettato di appartenere ad un'associazione di stampo mafioso, che aveva comportato la confisca dei loro beni.
  4. Con la decisione del 16 marzo 2006, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile.
  5. Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato osservazioni scritte sul merito della causa (articolo 59 § 1 del regolamento).

    IN FATTO

    I - LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE
     
  6. I ricorrenti sono nati nel 1960 e risiedono a Milano.

    Il processo penale a carico del primo ricorrente
     
  7. Nel 1997 furono avviate alcune azioni penali a carico del primo ricorrente, avvocato specializzato nel campo del diritto penale, per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, usura e riciclaggio di denaro.
  8. Il 20 maggio 1997 il giudice per le indagini preliminari di Milano dispose a carico del ricorrente la custodia cautelare in carcere. Il ricorrente fu arrestato lo stesso giorno. Il 4 marzo 1998 fu rinviato a giudizio innanzi al tribunale di Milano. Con la sentenza del 30 settembre 2000, il tribunale di Milano prosciolse il ricorrente dai capi di accusa di usura e riciclaggio di denaro e per i restanti capi di accusa lo condannò alla pena di otto anni e otto mesi di reclusione. Il ricorrente propose appello. Con la sentenza del 20 dicembre 2001, la corte d'appello di Milano prosciolse il ricorrente per non aver commesso il fatto. Il 17 settembre 2002, fu rigettato il ricorso in cassazione presentato dal procuratore e la sentenza del 20 dicembre 2001 divenne definitiva.

    Il sequestro e la confisca dei beni dei ricorrenti
  9. Parallelamente, a causa dei sospetti che pesavano sul ricorrente che facevano a pensare che egli fosse membro di un'organizzazione criminale finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la procura di Milano, il 2 marzo 1999, avviò un procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione previste dalla legge nº 575 de 1965, come modificata dalla legge no 646 del 13 settembre 1982. La procura richiese anche il sequestro preventivo di alcuni beni di cui il ricorrente disponeva.
  10. Con l'ordinanza del 10 marzo 1999, la sezione del tribunale di Milano specializzata nell'applicazione delle misure di prevenzione dispose il sequestro di numerosi beni, in particolare molti conti e titoli bancari di cui i due ricorrenti erano titolari, alcune auto di lusso, di cui una appartenente alla madre del ricorrente, e tre immobili appartenenti alla ricorrente, fra i quali figurava la casa familiare della coppia. Infine, il tribunale ordinò il sequestro di un libretto bancario di cui era titolare la figlia minorenne dei ricorrenti.
  11. Il tribunale precisò che era necessario fissare un'udienza alla quale il ricorrente aveva il diritto di partecipare. Inoltre, il tribunale invitò la ricorrente, a suo nome e per conto di sua figlia, e la madre del ricorrente ad intervenire nella procedura, in quanto terze persone interessate dalla misura. Gli interessati avevano facoltà di presentare osservazioni per difendere i loro interessi.
  12. In seguito, la procedura innanzi alla sezione specializzata nell'applicazione delle misure di prevenzione si svolse in camera di consiglio. I due ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, parteciparono alla procedura.
  13. L'udienza fu fissata al 4 giugno 1999. In tale giorno, i ricorrenti domandarono un rinvio per poter prendere visione degli atti depositati in cancelleria dalla procura e per preparare la loro difesa. L'udienza fu rinviata al 17 settembre 1999. Tale giorno, i ricorrenti domandarono un nuovo rinvio per poter organizzare la propria difesa. Il tribunale rinviò l'udienza al 12 novembre 1999. Peraltro, il termine per depositare le memorie difensive e i documenti pertinenti fu fissato all'11 ottobre 1999. Tale giorno, i ricorrenti depositarono una memoria e parecchi altri documenti riguardanti le loro attività professionali e la procura depositò i verbali di alcune intercettazioni telefoniche e dell'interrogatorio di un detenuto ascoltato come persona informata sui fatti.
  14. All'udienza del 12 novembre 1999, la procura depositò quattro faldoni di documenti riguardanti il processo penale contro il primo ricorrente. I ricorrenti vi si opposero. Il tribunale rigettò l'opposizione dei ricorrenti in quanto una gran parte dei documenti era già stata acquisita al fascicolo dalla difesa dei ricorrenti ed era già nota a questi ultimi.
  15. Con un'ordinanza dello stesso giorno, la sezione del tribunale di Milano specializzata nell'applicazione delle misure di prevenzione decise di sottoporre il primo ricorrente alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di Milano per una durata di cinque anni. La sezione dispose inoltre la confisca dei beni dei ricorrenti precedentemente sequestrati.
  16. Il tribunale ritenne necessario esaminare i fatti che erano oggetto del processo penale in corso contro il ricorrente per stabilire l'esistenza di seri indizi sulla sua appartenenza ad un'associazione di stampo mafioso che potesse giustificare l'applicazione di misure di prevenzione. Esso affermò che, alla luce dei numerosi indizi a carico del ricorrente, era necessario constatare la partecipazione del ricorrente all'attività dell'associazione per delinquere e il pericolo sociale da rappresentato.
  17. Il tribunale sottolineò che il ricorrente aveva mezzi finanziari sproporzionati rispetto alle sue attività professionali e ai redditi dichiarati.
  18. Esso osservò che era difficile ricostruire la cronologia delle varie attività professionali condotte dal ricorrente e da sua moglie. Ad ogni modo, esso affermò che aveva avuto luogo una interposizione fittizia e che la ricorrente era la titolare apparente degli immobili e dei conti bancari sequestrati, in realtà questi beni appartenevano al ricorrente.
  19. Il ricorrente propose appello avverso l'ordinanza del 12 novembre 1999. Egli sostenne che il tribunale non aveva debitamente provato la provenienza illecita dei beni confiscati, aveva commesso errori di fatto e non aveva provato la sua pericolosità sociale.
  20. Con l'ordinanza del 23 ottobre 2000, pronunciata in camera di consiglio alla presenza dei due ricorrenti, la competente sezione della corte d'appello di Milano modificò parzialmente l'ordinanza del 12 novembre 1999. In particolare, ridusse a quattro anni la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e l'obbligo di soggiorno nel comune di Milano del primo ricorrente e revocò la confisca del libretto bancario appartenente alla figlia dei ricorrenti e della casa familiare, in quanto quest'ultima era stata acquistata in epoca precedente alla data del commesso delitto di associazione per delinquere.
  21. La corte d'appello confermò la decisione di primo grado per il resto. In particolare essa osservò che la sezione specializzata del tribunale di Milano aveva concluso che il ricorrente costituiva un pericolo sociale a causa dei rapporti privilegiati che intratteneva con i suoi clienti, membri di un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Inoltre, in mancanza di una precisa documentazione riguardante i suoi mezzi finanziari, risultava impossibile valutare i reali profitti che il ricorrente aveva ricavato da alcune consultazioni in quanto avvocato. Essa osservò che l'articolo 2 ter § 3 della legge nº 575 de 1965 consentiva al tribunale di disporre la confisca dei beni sequestrati qualora non fosse stata dimostrata la loro legittima provenienza.
  22. L'autorità giudiziaria di appello ritenne che la sperequazione esistente tra il valore dei beni sequestrati e le attività illegali esercitate provava l'origine illecita dei fondi utilizzati. Poiché gli interessati non avevano fornito elementi che potessero provare il contrario, la corte d'appello ritenne che l'affermazione secondo la quale le somme versate per l'acquisto degli immobili provenissero dall'attività della seconda ricorrente e dall'attività di avvocato esercitata dal primo ricorrente non si fondava su nessun fatto oggettivo ed era poco credibile. Essa aggiunse anche che il 20 settembre 2000, il tribunale di Milano aveva condannato il ricorrente ad otto anni e otto mesi di reclusione. Sottolineando che questa condanna non era diventata definitiva, la corte appello ritenne che essa provava l'importanza degli indizi a carico del ricorrente.
  23. Il ricorrente propose ricorso per cassazione. Egli contestò l'interpretazione che la corte d'appello aveva dato al paragrafo 2 ter § 3 della legge nº 575 del 1965 e sostenne che la confisca aveva colpito indistintamente tutti beni immobiliari suoi e di sua moglie. Egli sostenne infine che la corte d'appello non aveva provato la realtà della sua pericolosità.
  24. Con la sentenza del 28 giugno 2001, il cui testo fu depositato in cancelleria il 5 settembre 2001, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d'appello di Milano avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, respinse il ricorso del ricorrente.

    IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
     
  25. La legge nº 1423 del 27 dicembre 1956 prevede l'applicazione di misure di prevenzione a carico di "persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità". Ai sensi dell'articolo 4 della citata legge, il tribunale decide in camera di consiglio dopo aver ascoltato il pubblico ministero e l'interessato, quest'ultimo può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato. La legge nº 575 del 31 maggio 1965 ha completato la legge del 1956 con alcune disposizioni dirette contro le persone sospettate di appartenere ad associazioni di stampo mafioso. Conformemente all'articolo 2 ter di questa legge, nel corso del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge nº 1423, " Il tribunale, anche d'ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali le persona nei confronti della quale è stato iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, e che sulla base di sufficienti indizi come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l'entità dei redditi apparenti o dichiarati, si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza (&). Il sequestro è revocato dal tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando è dimostrata la legittima provenienza dei beni. Se risulta che i beni sequestrati appartengono a terzi, questi sono chiamati dal tribunale, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento e possono, anche con l'assistenza di un difensore, nel termine stabilito dal tribunale, svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca."

    IN DIRITTO

    I - SULLA ALLEGATA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE
     
  26. I ricorrenti lamentano la mancanza di pubblicità nell'ambito del procedimento svoltosi innanzi alle sezioni del tribunale e della corte d'appello specializzate nell'applicazione delle misure di prevenzione. Essi invocano l'articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita:
    " Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente (&) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà (&) delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (&). La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità puO' pregiudicare gli interessi della giustizia.".

    Argomenti delle parti
  27. I ricorrenti sostengono che la mancanza di una pubblica udienza non era giustificata nella fattispecie. Essi innanzitutto fanno valere che nella fattispecie non sussisteva alcuna esigenza legata al rispetto della vita privata di terze persone in quanto nessun testimone era stato invitato a comparire nel procedimento. Quanto a loro, non hanno mai invocato la tutela della loro vita privata innanzi alle autorità competenti.
  28. Inoltre, essi sostengono che, contrariamente a quello che la Corte aveva rilevato nella causa Varela Assalino (Varela Assalino c. Portogallo (dec.), nº 64336/01, 25 aprile 2002), i fatti della causa non erano affatto provati nella fattispecie e la causa non era consacrata esclusivamente a questioni di diritto. Al contrario, durante il dibattimento controverso, la difesa dei ricorrenti è stata messa a confronto con gli stessi elementi a carico che erano l'oggetto del processo penale condotto parallelamente innanzi al tribunale di Milano e sui quali l'autorità giudiziaria fondò la condanna del primo ricorrente per il delitto di associazione per delinquere.
  29. Il Governo sottolinea che il diritto invocato dai ricorrenti non è un diritto assoluto ai sensi della Convenzione e fa riferimento alle deroghe alla pubblicità dei dibattimenti previsti dalla seconda frase dell'articolo 6 § 1 della Convenzione e precisate dalla giurisprudenza della Corte in materia (Schuler-Zgraggen c. Svizzera, sentenza del 24 giugno 1993, serie A nº 263, § 58).
  30. Esso afferma che nella fattispecie la mancanza di una pubblica udienza è giustificata dalla natura delle questioni da esaminare. Esso insiste sulla natura altamente tecnica delle procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, basate essenzialmente su documenti e nelle quali il pubblico non può esercitare alcun controllo. In effetti, queste procedure consistono soprattutto in indagini finanziarie approfondite, condotte tramite complesse perizie contabili presso banche e altri istituti di credito, allo scopo di ricostruire il patrimonio del prevenuto e determinare così l'eventuale origine illecita dei beni.
  31. Il Governo sostiene poi che in questo tipo di procedura sono spesso implicate terze persone in quanto prestanomi. Questi terzi non sono direttamente coinvolti nella procedura e sono invitati a comparire innanzi all'autorità giudiziaria soltanto perché formalmente titolari del diritto di proprietà su uno o più beni. Ora, la moglie, la figlia minorenne e la madre del ricorrente sono state interessate dalla confisca e sono state implicate, loro malgrado, nel procedimento. Il Governo ritiene che il rispetto della vita privata di queste persone costituisca una valida ragione per limitare la pubblicità del dibattimento e sostiene che la tutela di alcune categorie di persone, quali i minorenni, deve essere assicurata dallo Stato e può essere oggetto di rinuncia solo in situazioni particolari.
  32. Il Governo sottolinea infine che lo svolgimento in camera di consiglio delle procedure per l'applicazione della confisca è espressamente previsto dalla legge nº 1423 del 1956 e non dipende da una decisione discrezionale del tribunale. Esso aggiunge che un'eventuale domanda dei ricorrenti tesa ad ottenere la pubblicità del dibattimento sarebbe stata probabilmente respinta ai sensi di questa stessa legge.

    Valutazione della Corte
     
  33. La Corte ricorda che la pubblicità della procedura degli organi giudiziari di cui all'articolo 6 § 1 tutela i giustiziabili contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico (vedere, Riepan c. Austria, nº 35115/97, § 27, CEDH 2000 XII); essa costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti e nei tribunali. Con la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della giustizia, aiuta a realizzare lo scopo dell'articolo 6 § 1: il processo equo, la cui garanzia è annoverata fra i principi di ogni società democratica ai sensi della Convenzione (vedere fra molte altre, Tierce e altri c. Saint-Marin, nº 24954/94, 24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000 IX).
  34. L'articolo 6 § 1 tuttavia non pone ostacoli al fatto che le autorità giudiziarie decidano, viste le particolarità della causa sottoposta al loro esame, di derogare a questo principio: ai sensi stessi di questa norma, " (&) l'ingresso nella sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico per tutto o parte del processo nell'interesse della moralità, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita delle parti in causa, o in quella misura ritenuta strettamente indispensabile dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità potesse ledere gli interessi della giustizia"; l'udienza a porte chiuse, con chiusura totale o parziale, deve allora essere strettamente imposta dalle circostanze della causa (vedere per esempio, mutatis mutandis, la sentenza Diennet c. Francia, del 26 settembre 1995, Serie A nº 325-A, § 34).
  35. Peraltro, la Corte ha ritenuto che alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni sottoposte al giudice nell'ambito della procedura di cui si tratta (vedere, mutatis mutandis, la sentenza Miller c. Suède dell'8 febbraio 2005, nº 55853/00, § 29), possono giustificare il fare a meno di una pubblica udienza (vedere in particolare la sentenza Göç c. Turchia [GC], nº36590/97, CEDH 2002-V, § 47). Essa considera, ad esempio, che il contenzioso della sicurezza sociale, altamente tecnico, spesso si presta meglio agli scritti piuttosto che alle difese orali e che, l'organizzazione sistematica dei dibattimenti potendo costituire un ostacolo alla particolare diligenza richiesta in materia di sicurezza sociale, è comprensibile che in un tale campo le autorità nazionali tengano conto di imperativi di efficacia e di economia (vedere, per esempio, le sentenze Miller e Schuler-Zgraggen prima citate). E' tuttavia necessario sottolineare che, nella maggior parte delle cause riguardanti un procedimento innanzi alle autorità giudiziarie " civili " che decidono nel merito nelle quali essa è arrivata a questa conclusione, il ricorrente aveva avuto la possibilità di sollecitare la tenuta di una pubblica udienza.
  36. Come la Corte ha affermato nella causa Martinie (Martinie c. Francia [GC], nº 58675/00, CEDH 2006 &), la situazione è diversa quando, sia in appello che in primo grado, una procedura " civile " sul merito si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che il giustiziabile abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza pubblica facendo valere le particolarità della sua causa. Una procedura che si svolge in questo modo non può in linea di principio essere considerata conforme all'articolo 6 § 1 della Convenzione: salvo circostanze del tutto eccezionali, il giustiziabile deve almeno avere la possibilità di domandare la tenuta di dibattimenti pubblici, potendo essere tuttavia opposte le porte chiuse, a fronte di circostanze della causa e per i motivi sopra richiamati (vedere Martinie, sopra citata, § 42).
  37. Nella fattispecie, lo svolgimento in camera di consiglio delle procedura che riguardano l'applicazione di misure di prevenzione, sia in primo grado che in appello, è espressamente previsto dall'articolo 4 della legge nº 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilità di domandare ed ottenere una pubblica udienza. Del resto, il Governo stesso esprime dubbi circa le possibilità di successo di un'eventuale istanza di dibattito pubblico proveniente dalle parti.
  38. La Corte è sensibile al ragionamento del Governo secondo cui talvolta possono entrare in gioco in questo tipo di procedure degli interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di persone terze indirettamente interessate dal controllo finanziario. Peraltro, la Corte non dubita che una procedura che tenda essenzialmente al controllo delle finanze e dei movimenti di capitali possa presentare un elevato grado di tecnicità. Tuttavia, non bisogna perdere di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte.
  39. La Corte osserva che questo tipo di procedura riguarda l'applicazione della confisca di beni e capitali, cosa che direttamente e sostanzialmente coinvolge la situazione patrimoniale del giustiziabile. Davanti a tale posta in gioco, non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato (vedere Martinie, prima citata, § 43 e, à contrario, Jussila c. Finlandia [GC], nº 73053/01, § 48, CEDH 2006 &).
  40. Riassumendo, la Corte giudica essenziale che i giustiziabili coinvolti in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunale e delle corti d'appello. Nella fattispecie, i ricorrenti non hanno beneficiato di questa possibilità. Pertanto vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.

    II - SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
     
  41. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione,
    " Se la Corte dichiara che vi e stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa."

    A. Danni
     
  42. I ricorrenti reclamano 90.000 EURO per il danno morale subito a causa della ingiusta confisca dei loro beni. Essi affermano di essere pronti a rinunciare a questa somma se il Governo si impegna a riformare l'articolo 4 della legge nº 1423 del 1956 prevedendo la pubblicità delle udienze nelle procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione.
  43. Il Governo afferma che la constatazione di violazione costituisce di per sé una riparazione sufficiente.
  44. Per quel che riguarda le misure generali chieste dai ricorrenti, spetta in primo luogo allo Stato in causa, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, scegliere i mezzi da mettere in atto nel suo ordinamento giuridico interno al fine di assolvere al suo obbligo alla luce dell'articolo 46 della Convenzione (vedere, tra altre, Öcalan c. Turchia [GC], nº 46221/99, § 210, CEDH 2005-IV).
  45. Quanto al pregiudizio morale subito dai ricorrenti, la Corte ritiene che esso si trovi sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione alla quale essa perviene (vedere, fra numerose altre, le sentenze Remli c. Francia, del 23 aprile 1996, Recueil 1996-II, Mantovanelli c. Francia, del 18 marzo 1997, Recueil nº 1997-II, Kress, prima citata, Meftah e altri c. Francia, del 26 luglio 2002 (GC), nº 32911/96, 35237/97 et 34595/97, CEDH 2002-VII, Yvon c. Francia, del 24 aprile 2003, nº 44962/98, CEDH 2003-V e Martinie, prima citata).

    B - Spese legali
     
  46. La ricorrente chiede il rimborso delle spese affrontate innanzi alle autorità giudiziarie interne nel corso della procedura relativa all'applicazione della confisca, che quantifica in 5.000 euro. Inoltre, i due ricorrenti congiuntamente chiedono 5.000 euro per le spese della procedura innanzi alla Corte.
  47. Il Governo afferma che le somme della procedura nazionale non sono state dimostrate. Inoltre esso considera eccessivo l'ammontare delle spese legali della procedura innanzi alla Corte.
  48. La Corte ricorda che, quando essa conclude nella violazione della Convenzione, essa può concedere ai ricorrenti il pagamento non soltanto delle spese legali da loro affrontate innanzi ad essa, ma anche di quelle affrontate innanzi alle autorità giudiziarie interne per prevenire o far correggere da quest'ultime l'accertata violazione (vedere, per esempio, la sentenza Hertel c. Svizzera del 25 agosto 1998, Recueil 1998-VI), quando sia provata la loro necessità, siano prodotti i giustificativi e le somme richieste non siano irragionevoli.
  49. Essa ritiene che non c'è motivo di rimborsare alla ricorrente le spese affrontate innanzi alle autorità giudiziarie interne perché non sono state affrontate per rimediare alla violazione constatata. Inoltre l'interessata non ha prodotto alcun giustificativo.
  50. Per quanto riguarda le spese legali che si riferiscono alla presente procedura, la Corte giudica eccessiva la domanda dei ricorrenti e, deliberando in equità, decide di concedere loro, congiuntamente, 2000 euro a questo titolo.

    Interessi moratori
     
  51. La Corte giudica appropriato basare il tasso degli interessi di mora sul tasso di interesse dell'operazione di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL'UNANIMITA'

  1. Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione;
  2. Dichiara che la constatazione di violazione fornisce di per sé un'equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dai ricorrenti;
  3. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, 2.000 euro (duemila euro) per le spese legali, più qualsiasi eventuale somma dovuta a titolo di imposta;
    2. che a decorrere dalla scadenza del suddetto termine e fino a che non sarà versata, questa somma dovrà essere maggiorata dell'interesse semplice al tasso equivalente a quello dell'operazione di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta nel resto la domanda di equa soddisfazione.

Fatto in francese e poi comunicato per iscritto il 13 novembre 2007 ai sensi dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

S. DOLLÉ
Cancelliere

F. TULKENS
Presidente

Così ha concluso la Corte di Strasburgo lo scorso tredici novembre, pronunziando sul ricorso presentato contro lo Stato italiano, ai sensi dell'articolo 34 della CEDU, da due coniugi, cittadini italiani, Gianfranco Bocellari e Wilma Rizza.

Il primo ricorrente era stato, in precedenza, sottoposto ad un procedimeno penale per i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, usura e riciclaggio, riportando una condanna a pena detentiva in primo grado in relazione al solo reato associativo e venendo, poi, definitivamente prosciolto nei successivi gradi di giudizi.

Parallelamente, a causa dei sospetti di appartenenza del soggetto, esercente la professione di avvocato, ad un'organizzazione criminale finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la Procura di Milano aveva avviato un procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione previste dalla legge nº 575 de 1965, come modificata dalla legge no 646 del 13 settembre 1982, richiedendo anche il sequestro preventivo di alcuni beni di cui il ricorrente disponeva. Nel marzo 1999, il Tribunale per le misure di prevenzione di Milano accoglieva la richiesta, ordinando il sequestro di numerosi beni, anche della moglie, Wilma Rizza,e della figlia minorenne nonché della suocera, ritenuti riconducibili al Bocellari. I ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, si avvalevano della facoltà loro riservata dalla legge di presentare memorie scritte e venivano anche sentiti dai Giudici.

E così il Tribunale di Milano, dopo diverse udienze, decideva di sottoporre il Bocellari alla misura personale di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di Milano per cinque anni e, contestualmente, disponeva la confisca dei beni precedentemente sequestrati. Il ricorrente impugnava l'ordinanza e, con pronuncia emessa dopo l'udienza in camera di consiglio, presenti i due ricorrenti, la Corte d'appello di Milano modificava parzialmente il provvedimento del primo giudice, riducendo la durata della misura della sorveglianza speciale, e revocando il provvedimento per taluni beni, confermandolo nel resto.In particolare, veniva ribadita la valutazione circa la pericolosità del soggetto, a causa dei rapporti privilegiati che quegli intratteneva con i suoi clienti, membri di un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, e il fatto che egli non era riuscito a dimostrare la legittima provenienza dei propri beni.

Anche il successivo ricorso del Bocellari dinanzi alla Corte di Cassazione veniva respinto.

I coniugi, da ultimo, adivano la Corte europea dei diritti dell'uomo, lamentando, tra l'altro, la non equità del procedimento di prevenzione subito per la mancanza di pubblicità, ai sensi dell'art. 6 §1 della CEDU. In particolare, essi sostenevano che l'assenza di una pubblica udienza era ingiustificata nella fattispecie, in quanto non sussisteva alcuna esigenza legata al rispetto della vita privata di terze persone, visto che nessun testimone era stato invitato a comparire nel procedimento che li aveva riguardati ed essi stessi non avevano mai invocato la tutela della loro vita privata innanzi alle autorità competenti.

La Corte ammetteva il ricorso relativamente a questa sola, ultima doglianza, concludendo, all'esito dell'esame nel merito, per la sussistenza, nella fattispecie, della violazione della norma convenzionale invocata.

In particolare, la Corte, dopo aver richiamato le norme del diritto interno pertinente, riporta la propria giurisprudenza in materia di equo processo e pubblicità della procedura, requisito, quest'ultimo, che, conferendo trasparenza all'amministrazione della giustizia, aiuta a preservare la fiducia dei cittadini nelle corti e nei tribunali e, dunque, a realizzare lo scopo di cui all'art. 6 §1 della Convenzione. Purtuttavia, ammette la Corte, la norma convenzionale non pone un ostacolo assoluto per le autorità nazionali alla deroga a tale principio, tenuto conto della particolarità della causa e delle questioni sottoposte al loro esame, e, comunque, nelle ipotesi già elencate dalla medesima previsione. In questo quadro generale, all'interno del quale non sono escluse, dunque, benché circoscritte, motivate eccezioni al principio della pubblicità delle procedure, la Corte ricorda, però, che i propri, precedenti giudizi assolutori dell'equità dei procedimenti civili non pubblici si riferivano a casi ove il ricorrente aveva sempre usufruito della possibilità di sollecitare la tenuta di una pubblica udienza.

La situazione va valutata diversamente quando, sia in appello che in primo grado, una procedura "civile" sul merito si sia svolta a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che il giustiziabile abbia avuto la possibilità di sollecitare una pubblica udienza, facendo valere le particolarità della sua causa. Infatti, afferma la Corte, queste modalità di svolgimento della procedura non possono, in linea di principio, essere considerate conformi all'articolo 6 § 1 della Convenzione: in altri termini, fatte salve circostanze del tutto eccezionali, l'interessato deve, almeno, avere la possibilità di domandare la tenuta di un dibattimento pubblico, che gli può essere rifiutato a fronte dei motivi richiamati dallo stesso art. 6 della Convenzione. Secondo i Giudici di Strasburgo, però, la legislazione italiana, nello stabilire, sia in primo grado che in appello, lo svolgimento in camera di consiglio dei procedimenti di applicazione delle misure di prevenzione, non riconosce la possibilità alle parti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza.

Ciò, pure tenuto conto degli interessi che possono entrare in gioco in questo tipo di procedure (protezione della vita privata di minori o di persone terze, indirettamente interessate dal controllo finanziario) e della specificità dell'oggetto, che, sostanziandosi nel controllo di movimentazioni bancarie e finanziarie, presenta, indiscutibilmente, un elevato grado di tecnicità, non può esser considerato compatibile con la norma convenzionale. La Corte osserva, difatti, che questo tipo di procedura è finalizzata alla confisca di beni e capitali, e, dunque, provoca effetti rilevanti sulla situazione personale e patrimoniale delle persone coinvolte. Davanti a tale posta in gioco, sentenzia, non può affermarsi che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato. Ne consegue il riconoscimento dell'avvenuta violazione della Convenzione.