Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 novembre 2007 - Ricorso n. 65039/01 - Schiavone c/Italia

Dedotta violazione degli artt. 3, 8, 9, 13 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo.
Il ricorso è dichiarato inammissibile.

SECONDA SEZIONE
DECISIONE SULLA RICEVIBILITA' Del ricorso n° 65039/01 Presentato da Francesco SCHIAVONE contro l'Italia
 
La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione) riunita il 13 novembre 2007 in una camera composta da:

F. TULKENS, presidente,
A.B. BAKA,
I. CABRAL BARRETO,
V. ZAGREBELSKY,
A. MULARONI,
D. JOCIENE,
D. POPOVIC, giudici,

e da F. ELENS-PASSOS, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il summenzionato ricorso introdotto il 16 giugno 1999,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,
Dopo averne deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, M. Francesco Schiavone, è un cittadino italiano, nato nel 1954 ed attualmente detenuto nel carcere di Viterbo. Innanzi alla Corte è rappresentato dall'avocato Senese del foro di Napoli. Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo cogente aggiunto, N. Lettieri.

Le circostanze della fattispecie
I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, possono riassumersi come segue :
Dall'11 luglio 1998, il ricorrente è in carcere in virtù di parecchie ordinanze di custodia cautelare in carcere adottate nell'ambito delle indagini concernenti la mafia. Il ricorrente è stato condannato all'ergastolo con sentenze non definitive tra l'altro per omicidio e associazione per delinquere di stampo mafioso. Il ricorrente fu dapprima rinchiuso nel penitenziario di L'Aquila e poi, a decorrere dal 23 febbraio 2001, in quello di Viterbo.
Data la sua appartenenza alla mafia e tenuto conto della sua pericolosità, fin dall'inizio della privazione della sua libertà, il ricorrente fu sottoposto al regime di detenzione speciale previsto dall'articolo 41 bis della legge sull'ordinamento penitenziario ("la legge n° 354 del 1975"). Questa norma, così come modificata dalla legge n° 356 del 7 agosto 1992, permette la sospensione totale o parziale dell'applicazione del regime normale di carcerazione quando lo esigono ragioni di sicurezza e di ordine pubblico. Il regime speciale fu applicato in virtù di parecchi decreti del Ministro della Giustizia, regolarmente rinnovati a intervalli di sei mesi.
I decreti in questione imponevano le seguenti restrizioni:
Innanzi alla Corte, il ricorrente ha affermato che non ha l'intenzione di contestare il regime previsto dall'articolo 41 bis della legge n° 354 del 1975 in quanto tale, ma di lamentare alcune "restrizioni addizionali" che gli sono state imposte e che non dipendevano dalla sottoposizione al regime in questione.
Il ricorrente afferma di aver subito le seguenti restrizioni addizionali:

Il ricorrente afferma anche di essere stato detenuto in una sezione del carcere creata soltanto per lui, che successivamente avrebbe condiviso con altri due detenuti.
In data non precisata, un altro detenuto, X, introdusse un ricorso contro la sua assegnazione ad una sezione del penitenziario di L'Aquila dove erano ospitate soltanto tre persone e dove le parti destinate alla permanenza all'aperto erano di esigue dimensioni.
Con un'ordinanza del 22 marzo 1999, il magistrato di sorveglianza di L'aquila osservò che la sezione in cui X era stato collocato era stata creata "per le esigenze relative alla detenzione del detenuto Schiavone Francesco (&), che, in un primo tempo, è stato il solo ad occuparla. In un secondo tempo, al fine di assicurare momenti di socializzazione per il detenuto Schiavone Francesco (&) è stato disposta l'assegnazione alla citata sezione (&) di altri due detenuti, scelti fra i detenuti sottoposti, come il signor Schiavone, al regime previsto dall'articolo 41 bis (&), che non fossero particolarmente pericolosi". Ora, l'assegnazione di un detenuto ad una sezione del carcere doveva essere fatta tenendo conto dell'esigenza di proteggerlo da influenze negative. Nella fattispecie, X era in custodia cautelare e la sua assegnazione era unicamente giustificata dalla necessità di evitare la collocazione in isolamento di un altro detenuto, ossia il ricorrente, considerato molto pericoloso.
Per quanto riguarda gli spazi per l'uscita all'aria aperta, il penitenziario di L'Aquila aveva precisato che si trattava di un passaggio di 2,7 su 5,9 metri. Si rendevano necessari dei lavori di ristrutturazione per raddoppiare questo spazio.
Il magistrato di sorveglianza dispose la notifica di una copia della sua ordinanza all'ufficio centrale per i detenuti del Ministero della Giustizia.
Il ricorrente precisa di aver subìto delle restrizioni rispetto al numero di visite dei suoi familiari. Egli dichiara di aver potuto incontrare sua moglie ed i suoi figli molto raramente e di essere stato separato da loro da una parete di vetro, fatto che rendeva gli incontri estremamente difficili e penosi.
Secondo una nota del 28 ottobre 2004 del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, ai detenuti sottoposti al regime speciale non venivano imposte alcune restrizioni se non quelle indicate nei decreti ministeriali. Essi hanno la possibilità di incontrare gli altri detenuti sottoposti al citato regime. Contrariamente a quanto afferma il ricorrente, non gli gli è stata applicata nessuna "restrizione addizionale". L'interessato ha domandato al magistrato di sorveglianza di L'Aquila di annullare un pretesa decisione che lo collocava in isolamento; tuttavia, il suo ricorso è stato respinto il 12 ottobre 1998 in quanto il ricorrente era sottoposto allo stesso regime applicato a tutti i detenuti sottoposti al regime speciale e nei suoi confronti non era stata emessa nessuna decisione che lo mettesse in isolamento. Il Ministero della Giustizia precisa anche che le perquisizioni e le perquisizioni personali che si prefiggevano di proteggere l'ordine e la sicurezza all'interno del penitenziario, sono eseguite in modo tale da rispettare la dignità umana. In particolare, le autorità hanno fatto ricorso ad esami radiografici o domandato al detenuto di effettuare degli esercizi a terra. L'ispezione rettale è effettuata soltanto se non è praticabile nessun altro mezzo.
Il ricorrente impugnò i decreti ministeriali adottati il 14 luglio 1998, 30 dicembre 1999, 28 giugno 2000, 23 dicembre 2000, 21 giugno 2001 e 19 dicembre 2001 innanzi al tribunale di sorveglianza. Quattro dei suoi ricorsi furono esaminati e rigettati; gli altri due furono dichiarati inammissibili perché il periodo di validità del decreto contestato era scaduto.
Il 20 febbraio 2004, il giudice per le indagini preliminari ("il GIP") di Viterbo emise una nuova ordinanza di custodia cautelare a carico del ricorrente, accusato di estorsione e rapina a mano armata aggravate.

  • limitazione dei colloqui con i membri della sua famiglia (al massimo uno al mese per un'ora);
  • divieto di colloqui con terze persone;
  • divieto di usare il telefono;
  • divieto di ricevere o di inviare all'esterno delle somme di denaro superiori a una determinata cifra;
  • divieto di ricevere dall'esterno pacchi contenenti cose diverse da biancheria e abiti;
  • divieto di eleggere un rappresentante dei detenuti e di essere eletto a questo titolo;
  • divieto di permanere all'aperto più di quattro ore al giorno e in compagnia di più di cinque persone.
  • numerose perquisizioni, durante le quali è stato costretto a spogliarsi competamente e ad effettuare esercizi a terra, le perquisizioni venivano eseguite prima e dopo i colloqui con i suoi familiari, il suo avvocato, il magistrato di sorveglianza e ogni volta che partecipava alle udienze tramite videoconferenza;
  • l'isolamento completo che comportava una mancanza quasi totale della possibilità di lavorare e di praticare attività sportive e ricreative;
  • l'accesso alle docce limitato a due volte a settimana e il divieto di tenere nella sua cella più di due maglioni, due tute, due camicie, cinque magliette, cinque mutande e cinque paia di calzini al mese;
  • la mancanza di pulizia della cella e l'impossibilità a causa delle sue limitate risorse economiche di acquistare cose di prima necessità (detersivi e strofinacci);
  • la mancanza stessa di intimità per i suoi bisogni corporali;
  • la prassi degli agenti di custodia di battere due volte al giorni i randelli contro le sbarre della cella;
  • il divieto di acquistare alimenti precotti e di utilizzare fornelli e rasoi nella cella;
  • il divieto di seguire dei corsi per corrispondenza o di assistere agli uffici religiosi nonché di frequentare un programma di rieducazione stabilito e modificato a partire dall'osservazione scientifica della sua personalità;
  • la corta durata della permanenza all'aperto e la circostanza che quest'ultima doveva aver luogo in un corridoio di 2,7 su 5,9 metri.

Il diritto e la prassi interni pertinenti
La Corte ha riassunto il diritto e la prassi interni pertinenti relativi al regime di detenzione speciale ed alle vie di ricorso a disposizione dei detenuti nella sentenza Ganci c. Italia (no 41576/98, §§ 14-18, CEDH 2003-XI).


MOTIVI DI RICORSO

Invocando l'articolo 3 della Convenzione, il ricorrente lamenta le condizioni della sua detenzione.
Invocando l'articolo 8 della Convenzione il ricorrente lamenta le restrizioni del numero di visite dei membri della sua famiglia e le modalità di queste visite.
Invocando l'articolo 14 della Convenzione, il ricorrente sostiene di essere stato discriminato rispetto ad altri detenuti sottoposti al regime speciale.
Invocando l'articolo 9 della Convenzione, il ricorente lamenta di non poter professare la sua religione.
Invocando l'articolo 13 della Convenzione, il ricorrente lamenta la mancanza, nel diritto italiano, di un ricorso effettivo per contestare le limitazioni della sua libertà non previste dalla legge n° 354 del 1975.

IN DIRITTO

Il ricorrente sostiene che l'applicazione del regime speciale previsto dall'articolo 41 bis della legge n° 354 del 1975, associato ad un totale isolamento e ad altre numerose restrizioni e limitazioni non previste dalla citata legge, abbia costituito un trattamento contrario all'articolo 3 della Convenzione. Questa norma recita: « Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti. »

Argomenti delle parti

Il Governo
Il Governo nota innanzitutto che il ricorso è stato presentato il 16 giugno 1999. Pertanto, tutte le decisioni adottate dalle autorità nazionali prima del 16 dicembre 1999 che non sono state impugnate nel diritto interno non devono essere prese in considerazione. Lo stesso discorso vale per il periodo successivo al 16 giugno 1999, per il quale il ricorrente non ha presentato alcuna specifica doglianza.
In seguito il Governo osserva che nella fattispecie i decreti che impongono il regime di detenzione speciale erano debitamente motivati e si basavano su solidi elementi che dimostravano la necessità di adottare tali misure per proteggere la sicurezza e l'ordine pubblico. A tal proposito, è opportuno sottolineare che il 20 febbraio 2004 è stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare a carico del ricorrente per fatti che "probabilmente" si erano verificati quando l'interessato era già sottoposto al citato regime speciale.
Le restrizioni e le limitazioni addizionali (in particolare, l'isolamento) di cui il ricorrente si lamenta in realtà non hanno mai avuto luogo. Per quanto riguarda gli altri inconvenienti denunciati (limitazione degli accessi alle docce, divieto di utilizzare fornelli, spazi esigui per l'uscita all'aperto, pulizia della cella non soddisfacente), il Governo rileva che è vero che le carceri italiane non dispongono di "suites a cinque stelle"; resta comunque il fatto che, anche a voler supporre che siano reali, questi inconvenienti non possono costituire un trattamento contrario all'articolo 3 della Convenzione. Infine, le limitazioni in questione sono strettamente necessarie a contrastare la pericolosità sociale del ricorrente ed il Comitato per la prevenzione della tortura ha sempre ritenuto che i penitenziari italiani non si discostano dagli standard europei.

Il ricorrente
Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Esso rileva che i trattamenti che denunciava, ossia le "restrizioni addizionali" rispetto al regime speciale, sono state sospese "in maniera opportuna" soltanto dopo l'introduzione del presente ricorso. L'esistenza di queste restrizioni è confermata dall'ordinanza del 23 marzo 1999, dove il magistrato di sorveglianza di L'Aquila ha affermato che la sezione della quale si trovava X era stata creata per esigenze legate alla detenzione del ricorrente, che per un certo tempo ne è stato l'unico occupante.
Il Governo non ha fornito alcuna spiegazione su questo punto ed ha anche omesso di giustificare le perquisizioni e le perquisizioni personali subìte dal ricorrente dopo i colloqui resi sicuri da una parete di vetro e che si erano svolti sotto il controllo a vista della polizia.

Valutazione della Corte

Per ricadere sotto l'effetto dell'articolo 3, un cattivo trattamento deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa per natura; essa dipende da tutti gli elementi della causa, soprattutto dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o mentali nonché, talvolta, dal sesso, dall'età, dallo stato di salute della vittima. (Irlanda c. Regno Unito, sentenza del 18 gennaio 1978, serie A no 25, p. 65, § 162).
In altri ricorsi diretti contro l'Italia, la Corte si è posta la questione di sapere se l'applicazione prolungata dell'articolo 41 bis costituisse una violazione dell'articolo 3. In tal modo, essa ha fatto astrazione della natura del reato attribuito ai ricorrenti, perché la proibizione della tortura o delle pene o trattamenti inumani o degradanti è assoluta, qualsiasi siano i comportamenti della vittima (Labita c. Italia [GC], no 26772/95, § 119, CEDH 2000 IV).
Nelle cause Gallico (no 53723/00, §§ 20-23, 28 giugno 2005) e Campisi (no 24358/02, §§ 37-41, 11 luglio 2006), tenuto conto degli argomenti invocati per giustificare il mantenimento delle limitazioni imposte ai ricorrenti, essa ha ritenuto che l'applicazione del regime speciale per durate rispettivamente di dodici e cinque anni non aveva comportato sofferenze o umiliazioni che andassero al di là di quelle che inevitabilmente comporta una determinata forma di trattamento - nella fattispecie prolungato - o di pena legittima. Agli occhi della Corte, la stessa conclusione si impone nella presente fatispecie dove il ricorrente è stato sottoposto al regime incriminato dal luglio 1998. Ad ogni modo, il ricorrente ha indicato che non desidera contestare il regime speciale in quanto tale.
Resta da verificare se le "restrizioni addizionali" denunciate dal ricorrente abbiano raggiunto la soglia di gravità necessaria per far ricadere il trattamento considerato nel suo complesso nell'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione.
A tale proposito, la Corte nota subito che il Governo nega l'esistenza di una parte di queste restrizioni, quali la prassi degli agenti di custodia di battere con i manganelli sulle sbarre della cella ed il divieto di assistere agli uffici religiosi. Poiché il ricorrente non ha fornito alcun elemento che possa provare la realtà delle sue affermazioni, la Corte non potrà prenderle in considerazione. E' pertanto opportuno limitare l'analisi alle restrizioni la cui esistenza è implicitamente ammessa dalle autorità o emerge dai documenti prodotti dalle parti. Si tratta, in particolare, dell'isolamento subìto dal ricorrente, delle dimensioni del corridoio destinato alla permanenza all'aperto e delle ripetute perquisizioni personali cui il ricorrente è stato sottoposto.
In effetti, nella sua ordinanza del 22 marzo 1999, il magistrato di sorveglianza di L'Aaquila ha osservato che "in un primo tempo", il ricorrente era stato l'unico ad occupare la sezione del penitenziario nella quale era stato collocato. Tuttavia, in una data che non è stata precisata, altri due detenuti sono stati assegnati alla stessa sezione "al fine di assicurare dei momenti di socializzazione" al ricorrente.
Ai sensi della giurisprudenza della Corte, l'isolamento sensoriale completo combinato con un isolamento sociale totale può distruggere la personalità e costituisce una forma di trattamento inumano che non può essere giustificato da esigenze di sicurezza o da qualsiasi altra ragione. Al contrario, il divieto di contatti con altri detenuti per ragioni di sicurezza, di disciplina e di protezione non costituisce di per sé una forma di pena o trattamento inumani (Öcalan c. Turchia [GC], no 46221/99, § 191, CEDH 2005-IV, e Ramirez Sanchez c. Francia [GC], no 59450/00, § 123, 4 luglio 2006).
Nella fattispecie, il ricorrente è stato incarcerato l'11 luglio 1998 ed è stato mantenuto in un isolamento de facto per un certo tempo. In una data anteriore al 22 marzo 1999, condivideva la sezione del penitenziario con altri due detenuti. L'isolamento in questione è durato quindi meno di otto mesi. In questo periodo, l'interessato ha continuato a ricevere le visite dei membri della sua famiglia e del suo avvocato (vedere, mutatis mutandis, Ramirez Sanchez succitata, § 131). Tenuto conto della durata del trattamento denunciato, nonché del comportamento delle autorità italiane, che si sono preoccupate di sistemare altri due detenuti nella stessa sezione del carcere, la Corte ritiene che l'isolamento, parziale e relativo, al quale il ricorrente ha dovuto far fronte non abbia raggiunto il livello di gravità necessario per ricadere sotto l'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione.
La stessa considerazione vale per il fatto, sottolineato nell'ordinanza del magistrato di sorveglianza di L'Aquila prima citata, che lo spazio per la permanenza all'aperto era un corridoio di 2, 7 su 5, 9 metri. Benché spiacevole, questa circostanza non può far passare la privazione della libertà del ricorrente per "inumana" o "degradante". Il magistrato di sorveglianza ha peraltro sollecitato l'ingrandimento dello spazio in questione.
La Corte nota anche che l'affermazione del ricorrente secondo la quale egli avrebbe subìto numerose perquisizioni durante le quali è stato costretto a spogliarsi e ad effettuare esercizi in terra, sembra confermata dalla nota del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia del 28 ottobre 2004, che dà prova delle modalità di esecuzione delle perquisizioni in questione.
Ora, la Corte ha ritenuto che una persona che viene obbligata a sottoporsi a perquisizioni personali può sentirsi soltanto per questo fatto lesa nella sua intimità e nella sua dignità, più particolarmente quando ciò comporta che si debba svestire davanti ad altri e più ancora quanto le vengano fatte assumere posture imbarazzanti (Frérot c. Francia, no 70204/01, § 38, 12 giugno 2007).
Un simile trattamento non è pertanto di per sé illegittimo: perquisizioni personali, anche integrali, possono talvolta rilevarsi necessarie per assicurare la sicurezza in un carcere - ivi comprese quelle del detenuto stesso - difendere l'ordine o prevenire i reati (Valaainas c. Lituania, no 44558/98, § 117, CEDH 2001-VIII, e Iwanczuk c. Polonia, no 25196/94, § 59, 15 novembre 2001).
Rimane comunque il fatto che le perquisizioni personali, oltre che essere «necessarie» per raggiungere uno di questi scopi (Ramirez Sanchez succitata, § 119), devono essere eseguite secondo «adeguate modalità» (Valaainas loc. cit.), in modo tale che il livello di sofferenza o l'umiliazione subìta dai detenuti non oltrepassi quello che inevitabilmente comporta questa forma di trattamento legittimo. In mancanza di ciò, essa infrangerebbe l'articolo 3 della Convenzione.
Inoltre va da sé che più è importante l'intrusione nell'intimità del detenuto perquisito personalmente (soprattutto quando queste modalità includono l'obbligo di svestirsi innanzi ad altri e quando l'interessato deve inoltre adottare posture imbarazzanti), maggiore è la vigilanza che si impone (Frérot loc. cit.).
Nella fattispecie, il ricorrente afferma di aver subìto perquisizioni prima e dopo i colloqui con i suoi familiari, il suo avvocato, il magistrato di sorveglianza e tutte le volte in cui ha partecipato alle udienze tramite videoconferenza. In tali circostanze, il ricorrente aveva inevitabilmente dei contatti con l'esterno, fatto che giustificava il timore delle autorità che potesse dare o ricevere oggetti proibiti. Tenuto conto della pericolosità del ricorrente, derivante dalle condanne pronunciate a suo carico per gravi delitti e per la sua appartenenza alla mafia, la Corte ritiene che queste perquisizioni siano state imposte nel contesto di eventi che caratterizzavano la loro necessità per quanto riguardava la sicurezza o la prevenzione dei reati (Frérot succitata, § 45). Inoltre, non si può vedere nella fattispecie una « routine » paragonabile a quella condannata dalla Corte nelle cause Van der Ven c. Paesi Bassi (no 50901/99, §§ 62-63, CEDH 2003-II) e Lorsé c. Paesi Bassi (no 52750/99, § 74, 4 febbraio 2003), nelle quali i ricorrenti erano stati sistematicamente sottoposti una volta a settimana ad una perquisizione integrale che ogni volta includeva l'ispezione rettale.
Per quanto riguarda le «modalità pratiche » delle ispezioni personali, esse sono descritte nella nota del Ministero della Giustizia del 28 ottobre 2004. Questo documento precisa che le autorità fanno ricorso a esami radiologici o domandano al detenuto di eseguire degli esercizi in terra. L'ispezione rettale viene eseguita soltanto se non è praticabile nessun altro mezzo.
Nella fattispecie il ricorrente non afferma di essere stato sottoposto a ispezioni rettali, visive o tramite palpazione. Egli sostiene invece di essere stato invitato a svestirsi e ad effettuare degli esercizi in terra. Benché questo abbia potuto obbligarlo ad adottare posture imbarazzanti, la Corte non può concludere che l'interessato sia stato umiliato o ridotto ad un lievllo incompatibile con la tutela della sua dignità umana. Peraltro, il ricorrente non sostiene di essere stato vittima di agenti di custodia irrispettosi o che avrebbero dato prova di un comportamento tale da dimostrare che perseguissero lo scopo di umiliarlo (vedere, a contrario, Valaainas succitata, § 117, e Iwanczuk succitata, §§ 57-60).
In queste circostanze, la Corte ritiene che i trattamenti denunciati dal ricorrente, considerati nel loro complesso ed alla luce delle innegabili esigenze di tutela della sicurezza all'interno del penitenziario, non hanno raggiunto il livello di gravità richiesto per ricadere nell'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Il ricorrente ritiene che le restrizioni del numero di visite dei suoi familiari e le modalità di queste visite abbiano violato il suo diritto al rispetto della sua vita familiare, così come garantito dall'articolo 8 della Convenzione.
Questa norma recita :
« 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare,del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell.esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell.ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. »
Il Governo sostiene che le restrizioni denunciate dal ricorrente sono giustificate dalla necessità di evitare che l'interessato possa utilizzare il suo potere criminale per continuare a partecipare alle attività dell'associazione per delinquere alla quale appartiene. La Corte ricorda che ogni detenzione regolare rispetto all'articolo 5 della Convenzione comporta per sua natura una restrizione della vita privata e familiare dell'interessato. E' tuttavia essenziale per il rispetto della vita familiare che l'amministrazione penitenziaria aiuti il detenuto a mantenere un contatto con i suoi congiunti (Messina c. Italie (no 2), no 25498/94, § 61, CEDH 2000-X). Nella fattispecie, il ricorrente era sottoposto ad un regime di detenzione speciale che comportava limitazioni del numero delle visite familiari (non più di una al mese per una durata massima di un'ora) e imponeva delle misure di controllo di questi incontri (i detenuti erano separati dai visitatori da una parete di vetro).
La Corte ritiene che queste restrizioni costituiscono un'ingerenza nell'esercizio da parte del ricorrente del diritto al rispetto della sua vita familiare, garantito dall'articolo 8 § 1 della Convenzione.
Tale ingerenza non infrange la Convenzione se è «prevista dalla legge», persegua uno o degli scopi legittimi rispetto al paragrafo 2 dell'articolo 8 e possa considerarsi una misura «necessaria in una società democratica».
La Corte nota che le misure di sicurezza sono state disposte a carico del ricorrente conformemente all'articolo 41bis della legge n° 354 del 1975 ed erano quindi «previste dalla legge». Essa ritiene inoltre che le misure perseguissero degli scopi legittimi dal punto di vista del paragrafo 2 dell'articolo 8 della Convenzione, ossia la difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonché la prevenzione dei reati (Messina (no 2) succitata, § 64).
Per quanto riguarda la necessità dell'ingerenza, la Corte ricorda che un'ingerenza, per essere considerata necessaria «in una società democratica», deve fondarsi su un bisogno sociale imperioso ed in particolare rimanere proporzionata allo scopo legittimo ricercato (vedere, tra altre, McLeod c. Regno Unito, sentenza del 23 settembre 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-VII, p. 2791, § 52). La Corte ha già dovuto pronunciarsi sulla compatibilità del regime in questione con l'articolo 8. Essa si è così espressa (Messina (no 2) succitata §§ 66-67) :
«66. Ora, la Corte rileva che il regime previsto dall'articolo 41 bis mira a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate ed il loro ambiente criminale di origine, al fine di rendere minimo il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali. In effetti, la Corte nota in particolare, come indicato dal Governo, che prima dell'introduzione del regime speciale, i membri della mafia incarcerati riuscivano a mantenere la loro posizione all'interno dell'organizzazione criminale, a scambiare informazioni con gli altri detenuti e con l'esterno, ad organizzare e a fare eseguire crimini all'interno ed all'esterno degli istituti penitenziari interessati. In questo contesto, la Corte tiene conto della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso, dove le relazioni familiari svolgono spesso un ruolo principale. Peraltro, in numerosi Stati parti della Convenzione, esistono regimi di sicurezza rafforzati nei confronti dei detenuti pericolosi. Questi regimi sono basati anche sull'allontanamento dalla comunità penitenziaria, accompagnata da un rafforzamento dei controlli.
67. In queste circostanze, la Corte ritiene che, di fronte alle condizioni molto critiche delle inchieste sulla mafia condotte dalle autorità italiane, il legislatore italiano poteva ragionevolmente ritenere che le misure incriminate si imponessero per raggiungere lo scopo legittimo.»
La Corte nota che, in ogni decreto, per giustificare il mantenimento delle restrizioni, il Ministro della Giustizia ha sempre fatto riferimento alla situazione personale del ricorrente per come era evoluta dopo l'adozione del decreto precedente.
La Corte è del parere che devono essere qui evocate le ragioni che l'hanno indotta a concludere che il motivo basato dall'articolo 3 era manifestamente infondato e che la inducono a decidere nello stesso senso (vedere, mutatis mutandis, Viola c. Italie, no 8316/02, §§ 35-36, 29 juin 2006). Essa ritiene quindi che le restrizioni al diritto del ricorrrente al rispetto della sua vita familiare non siano andate oltre quello che, in una società democratica, è necessario per la difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica e per la prevenzione dei reati, ai sensi dell'articolo 8 § 2 della Convenzione.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Il ricorrente ritiene di essere stato trattato diversamente rispetto ad altri detenuti sottoposti al regime speciale. Egli invoca l'articolo 14 della Convenzione così formulato:
« Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l.origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. »
Il ricorrente sottolinea che a causa della sua pericolosità, è stato detenuto in una sezione del carcere creata appositamente per lui. La Corte ricorda che la discriminazione vietata dall'articolo 14 della Convenzione discende dal fatto di trattare in maniera differente, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole, delle persone poste in materia in situazioni paragonabili (Willis c. Regno Unito, no 36042/97, § 48, CEDH 2002-IV). Qualsiasi differenza di trattamento tuttavia non comporta automaticamente una violazione di questo articolo. Occorre provare che delle persone poste in situazioni analoghe o paragonabili in materia godano di un trattamento preferenziale e che questa distinzione sia discriminatoria (Zarb Adami c. Malta, no 17209/02, § 71, 20 giugno 2006, e Unal Tekeli c. Turchia, no 29865/96, § 49, 16 novembre 2004).
Nella fattispecie, il ricorrente non ha dimostrato di essere stato trattato diversamente rispetto a persone che si trovavano in una situazione analoga alla sua, ossia rispetto ad altri detenuti sottoposti al regime di detenzione speciale e ritenuti particolarmente pericolosi.
Pertanto, nella fattispecie non può essere rilevata nessuna parvenza di violazione dell'articolo 14 della Convenzione. Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Il ricorente lamenta di non poter professare la sua religione. Egli invoca l'articolo 9 della Convenzione così formulato:
« 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l.insegnamento, le pratiche e l.osservanza dei riti.
2 La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell.ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui. »
La Corte ricorda che l'articolo 9 della Convenzione garantisce ad ogni persona il diritto alla libertà di religione, il quale implica il diritto di professare la sua religione attraverso il culto, l'insegnamento, le pratiche religiose ed il compimento dei riti (Kalaç c. Turchia, sentenza del 1° luglio 1997, Recueil 1997-IV, p. 1209, § 27).
Nella fattispecie, il ricorrente sostiene che fra le «restrizioni addizionali» che gli sono state imposte figurava anche il divieto di assistere agli uffici religiosi. Tuttavia, questa affermazione è smentita dalla nota del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia del 28 ottobre 2004, secondo la quale ai detenuti sottoposti al regime speciale vengono imposte soltanto le restrizioni indicate nei decreti ministeriali. Ora, i decreti ministeriali pronunciati a carico del ricorrente non menzionano alcuna restrizione della sua facoltà di professare la sua religione. Inoltre, il ricorrente non ha dimostrato di aver voluto assisere ad uffici religiosi e di esserne stato impedito.
In queste circostanze la Corte ritiene che le affermazioni del ricorrente non siano state sostenute (vedere, mutatis mutandis, Gallico c. Italia (dec.), no 53723/00, 23 settembre 2004
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Il ricorrente afferma di non disporre, nel diritto italiano, di alcun ricorso effettivo per contestare le restrizioni alla sua libertà non previste dalla legge n° 354 del 1975.
Egli invoca l'articolo 13 della Convenzione che recita :
« Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un.istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell.esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
La Corte ricorda che l'articolo 13 non può essere interpretato come una norma che richiede un ricorso interno per qualsiasi doglianza, per quanto ingiustificata, che una persona può presentare nell'ambito della Convenzione: deve trattarsi di un motivo di ricorso difendibile riguardo a quest'ultima (Boyle e Rice c. Regno Unito, sentenza del 24 aprile 1988, serie A no 131, p. 23, § 52). Nella presente causa, la Corte ha appena concluso che le doglianze del ricorrente basate sulle clausole «normative» degli articoli 3, 8, 9 e 14 della Convenzione sono manifestamente infondate.
Ora, le considerazioni sugli elementi di fatto che hanno indotto la Corte a rigettare le allegazioni del ricorrente dal punto di vista delle clausole normative invocate la inducono a concludere, dal punto di vista dell'articolo 13, che non si era in presenza di un motivo di ricorso difendibile (vedere, per esempio e fra molte altreWalter c. Italia (dec.), no 18059/06, 11 luglio 2006, e Al-Shari e altri c. Italia (dec.), no 57/03, 5 luglio 2005). L'articolo 13 non è quindi applicabile.
Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 54 § 4.

 

Per questi motivi, la Corte, all'unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.

F. ELENS-PASSOS
Cancelliere aggiunto

F. TULKENS
Presidente

Quanto alla lamentata violazione dell'art. 3 della Convenzione la Corte ha ritenuto che "i trattamenti denunciati dal ricorrente, considerati nel loro complesso ed alla luce delle innegabili esigenze di tutela della sicurezza all'interno del penitenziario, non hanno raggiunto il livello di gravità per ricadere nell'ambito dell'art. 3 della Convenzione".
In ordine alla presunta violazione dell'art.. 8 della Convenzione, , la Corte ha ritenuto che le restrizioni "al diritto del ricorrente al rispetto della sua vita familiare non siano andate oltre quello che, in una società democratica, è necessario per la difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica e per la prevenzione dei reati"
Per quanto attiene la violazione dell'art. 9 della Convenzione la Corte ha ritenuto manifestamente infondato il motivo del ricorso ritenendo non sostenute le affermazioni del ricorrente. In ordine alla presunta violazione dell'an 14 della Convenzione la Corte ha ritenuto che "il ricorrente non ha dimostrato di essere stato trattato diversamente rispetto a persone che si trovavano in una situazione analoga alla sua, ossia rispetto ad altri detenuti sottoposti al regime di detenzione speciale e ritenuti particolarmente pericolosi"
Infine, sulla presunta violazione dell'art. 13 della Convenzione sulla mancanza di un alcun ricorso effettivo per contestare le restrizioni della sua libertà non previste dalla legge 354/75, la Corte ricorda che "l'art. 13 non può essere interpretato come una norma che richiede un ricorso interno per qualsiasi doglianza per quanto ingiustifìcata, che un persona può presentare nell'ambito della Convenzion: deve trattarsi di un motivo di ricorso difendibile riguardo a quest'ultima".
La Corte Edu ha ritenuto irricevibile il ricorso.