Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'8 gennaio 2008 - Ricorso n. 9870/04 - Ercolano c/Italia

Dedotta violazione degli artt. 1, 2, 3, 5 par.4 e 5 art.6 par.l, 2 e 3 a) e b) 8, 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

Il ricorso è dichiarato inammissibile.

CONSIGLIO D'EUROPA

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
SECONDA SEZIONE

DECISIONE SULLA RICEVIBILITA' del ricorso n. 9870/04 presentato da Aldo ERCOLANO contro l'Italia

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione), riunitasi in camera l'8 gennaio 2008 alla presenza di:

Françoise Tulkens, presidentessa,
AndrA's Baka,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Antonella Mularoni,
Danuté Jociené,
Dragoljub Popovic, giudici,
e di Sally Dollé, cancelliera di sezione,

Visto il ricorso succitato presentato il 13 marzo 2004,
Vista la decisione della Corte di avvalersi dell'articolo 29 § 3 della Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità e il merito della causa,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto,
Dopo aver deliberato, pronunzia la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, Aldo Ercolano, è un cittadino italiano, nato nel 1960 e detenuto a L'Aquila. Dinanzi alla Corte è rappresentato dall'Avv. A. Gaito, del foro di Roma. Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli.

  1. Le circostanze della fattispecie
    I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, possono riassumersi nel seguente modo.
    1. L'azione penale
      Detenuto dal 1994, il ricorrente è stato condannato all'ergastolo per diversi omicidi e per associazione a delinquere di stampo mafioso.
    2. Il regime detentivo speciale previsto dall'articolo 41bis della legge sull'ordinamento penitenziario
      Il 23 dicembre 2003, il ministro della Giustizia emanò un decreto che imponeva al ricorrente, in quanto ritenuto pericoloso, per un periodo di un anno, il regime detentivo speciale previsto dall'articolo 41bis, comma 2, della legge sull'ordinamento penitenziario - n° 354 del 26 luglio 1975 ("la legge n° 354/1975"). Modificata con legge n° 356 del 7 agosto 1992, questa norma permetteva la sospensione totale o parziale dell'applicazione del regime detentivo ordinario per motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza. Il suddetto decreto imponeva limitazioni quali la limitazione delle visite con i membri della famiglia (massimo una al mese per un'ora). Inoltre, tutta la corrispondenza del ricorrente doveva essere sottoposta a controllo previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria. Il ricorrente sostiene inoltre di essere stato soggetto a una serie di altre limitazioni e restrizioni che, secondo lui, avrebbero violato la sua dignità umana. In particolare, il ricorrente sostiene di essere stato perquisito e spogliato dopo ogni visita del suo avvocato, benché tali incontri si svolgessero in una sala d'udienza scelta dall'amministrazione penitenziaria e sotto la costante sorveglianza di agenti. In data imprecisata, il ricorrente impugnò il decreto del 23 dicembre 2003 dinanzi al Tribunale di sorveglianza de L'Aquila, contestando l'applicazione del regime speciale. Con decisione del 10 febbraio 2004, il Tribunale di sorveglianza respinse il ricorso in quanto l'applicazione del regime speciale era giustificata dalle informazioni raccolte dalla polizia e dalle autorità giudiziarie sul conto del ricorrente. Quest'ultimo adì la cassazione. Con sentenza del 28 ottobre 2004, ossia quasi due mesi prima della scadenza del decreto impugnato, la Corte di cassazione respinse il ricorso. Il ricorrente sostiene di essere soggetto al regime detentivo speciale dal 1994, ma ha presentato un solo decreto (del 23/12/2003).
  2. Il diritto interno e la pratica interni pertinenti
    La Corte ha riassunto il diritto e la pratica interni pertinenti relativi al regime detentivo speciale e alle vie di ricorso a disposizione dei detenuti in Ganci c. Italia (n° 41576/98, §§ 14-18, CEDU 2003-XI).


MOTIVI DI RICORSO
Appellandosi agli articoli 2 e 3 della Convenzione, il ricorrente sostiene che il regime detentivo a cui è soggetto da molto tempo costituisce una violazione del suo diritto alla vita ed un trattamento inumano e degradante.
Appellandosi agli articoli 6 §§ 2 e 3 a) e b), il ricorrente denuncia una violazione del suo diritto alla presunzione di innocenza in quanto il regime detentivo speciale è applicato in base a rapporti di polizia non contestabili.
Appellandosi agli articoli 5 §§ 4 e 5 e 6 § 1, il ricorrente denuncia il ritardo delle giurisdizioni nell'esaminare i suoi ricorsi avverso i decreti del ministro della Giustizia. Il ricorrente denuncia altresì la violazione dell'articolo 13, in quanto il suddetto ritardo lo priva di un effettivo ricorso interno contro le decisioni di proroga del regime detentivo speciale.
Appellandosi all'articolo 8 della Convenzione, il ricorrente denuncia la violazione del suo diritto al rispetto della propria vita familiare a causa delle limitazioni legate al regime detentivo.
Il ricorrente denuncia inoltre la violazione dell'articolo 1 della Convenzione.

IN DIRITTO

  1. Il ricorrente sostiene che il regime detentivo speciale rappresenti una violazione del suo diritto alla vita, e si appella agli articoli 1 e 2 della Convenzione, la cui parte pertinente è rispettivamente così formulata:
    "Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel Titolo 1 della (&) Convenzione."
    "Il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge. Non può essere volontariamente inflitta la morte ad alcuno, eccetto che in esecuzione di una sentenza capitale, pronunziata da un tribunale nel caso in cui un delitto è punito dalla legge con questa pena (&)"
    Il ricorrente non ha spiegato perché vi sarebbe violazione di tali articoli, e di conseguenza, poiché tali motivi di ricorso non sono stati motivati a sufficienza, la Corte ritiene che non possa essere individuata alcuna violazione di tali norme, e che perciò i motivi di ricorso debbano essere respinti in quanto palesemente infondati, ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
  2. Il ricorrente sostiene che il regime speciale detentivo previsto dall'articolo 41bis della legge sull'ordinamento penitenziario a cui è sottoposto nonché le perquisizioni personali costituiscano dei trattamenti contrari all'articolo 3 della Convenzione, così redatto: "Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti."
    Il ricorrente denuncia il fatto di subire trattamenti inumani nella misura in cui è sottoposto alle restrizioni di cui all'articolo 41bis della legge sull'ordinamento penitenziario nonché ad altre limitazioni quali le perquisizioni personali nel corso delle quali non è tutelata la sua intimità.
    Il Governo nega qualsiasi ingerenza nei diritti a cui si appella il ricorrente, e sottolinea che il ricorrente è sottoposto al regime speciale detentivo a causa della natura dei reati per cui è stato condannato ed al fine di impedire che egli intrattenga rapporti con organizzazioni criminose, e che le restrizioni imposte non raggiungono la soglia minima di gravità necessaria per l'applicabilità dell'articolo 3 della Convenzione.
    Il Governo sottolinea anzitutto che il ricorrente non ha presentato elementi di prova che permettano di concludere che fosse sottoposto a maltrattamenti. Inoltre, per quanto riguarda le perquisizioni personali, occorre sottolineare che si tratta di disagi necessari che si sono svolti nel rispetto della legge e della dignità umana, dopo che il ricorrente è stato in contatto con terzi e per motivi di sicurezza.
    Di conseguenza, il Governo conclude che il mantenimento del ricorrente in stato di regime speciale, che non ha mai significato il suo isolamento, è giustificato dalla necessità di prevenire ogni possibilità di interazione con terzi che possa minacciare la sicurezza e l'ordine pubblico.
    La Corte ricorda che l'articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata, la Convenzione vieta in termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti. L'articolo 3 non prevede limitazioni, e in ciò contrasta con la maggioranza delle clausole normative della Convenzione e dei Protocolli n° 1 e 4, e secondo l'articolo 15 § 2 non è soggetto ad alcuna deroga, anche in caso di un pericolo pubblico che minacci la vita della nazione (sentenze Labita c. Italia [GC], n° 26772/95, § 119, CEDU 2000-IV; Selmouni c. Francia [GC], n° 25803/94, § 95, CEDU 1999-V; Assenov e altri c. Bulgaria del 28 ottobre 1998, Raccolta delle sentenze e delle decisioni, 1998-VIII, p. 3288, § 93). Il divieto di tortura o di pene o trattamenti inumani o degradanti è assoluto, qualunque siano le azioni commesse dalla vittima (sentenza Chahal c. Regno Unito del 15 novembre 1996, Raccolta 1996-V, p. 1855, § 79). La natura del reato imputato al ricorrente (associazione a delinquere di stampo mafioso) è perciò irrilevante ai fini dell'analisi dal punto di vista dell'articolo 3.
    Un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità ai fini dell'applicabilità dell'articolo 3 della Convenzione. La valutazione di questo minimo è di per sé relativa, in quanto dipende dall'insieme dei dati del caso, e in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti psichici e mentali nonché, a volte, dal sesso, dall'età e dallo stato di salute della vittima. La Corte ha più volte ritenuto che il regime speciale di cui all'articolo 41bis succitato, che implica un semplice isolamento sociale relativo, non rappresenta, di per sé, un trattamento inumano o degradante (Indelicato c. Italia (dec.), n° 31143/96, 6 luglio 2000). Tuttavia, la Corte osserva che nella fattispecie il ricorrente sostiene di essere stato anche sottoposto a una serie di altre limitazioni e restrizioni (come numerose perquisizioni personali) che, secondo l'interessato, avrebbero violato la sua dignità umana. La Corte nota inoltre che, "quando un individuo è privato della sua libertà, l'uso nei suoi confronti della forza fisica, quando questa non sia resa strettamente necessaria dal suo comportamento, viola la dignità umana e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto garantito dall'articolo 3" (Labita c. Italia [GC], n° 26772/95, § 120, ECHR 2000; Indelicato c. Italia, n° 31143/96, 18 ottobre 2001). Tuttavia, la Corte ricorda che le denunce di maltrattamenti devono essere giustificate dinanzi ad essa da appropriati elementi probatori (vedi, mutatis mutandis, la sentenza Klaas c. Germania del 22 settembre 1993, serie A n° 269, p. 17, § 30). Per accertare i fatti denunciati, la Corte si avvale del criterio della prova "al di là di ogni ragionevole dubbio"; tale prova può comunque derivare da una serie di indizi o di presunzioni non contestati, sufficientemente gravi, precisi e concordanti (sentenza Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978, serie A n° 25, p. 65, § 161 in fine).
    In considerazione di quanto precede e tenuto conto delle osservazioni del Governo, la Corte ritiene come non accertata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la gravità degli atti denunciati dal ricorrente: infatti, il ricorrente non ha fornito alcuna prova che dimostri che gli atti denunciati fossero tali da causare sensazioni di paura e di angoscia, atti ad avvilire e ad umiliare il ricorrente, abbastanza seri e gravi da essere ritenuti inumani o degradanti.
    Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che tale parte del ricorso sia palesemente infondata ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
  3. Appellandosi all'articolo 6 §§ 2 e 3 a) e b), il ricorrente denuncia una violazione del suo diritto alla presunzione di innocenza in quanto il regime detentivo speciale si applica sulla base di rapporti di polizia non contestabili. In proposito, il ricorrente afferma di non aver potuto disporre delle facilitazioni necessarie alla preparazione della propria difesa. I paragrafi 2 e 3 della suddetta norma sono così redatti:
    "2. Ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
    3. Ogni accusato ha diritto soprattutto a:
    a) essere informato, nel più breve tempo, in una lingua che comprende e in maniera dettagliata, del contenuto dell'accusa elevata contro di lui;
    b) disporre del tempo e delle possibilità necessari a preparare la difesa.

    La Corte osserva che i paragrafi 2 e 3 dell'articolo 6 della Convenzione sono applicabili solo nell'ambito di un'accusa penale, mentre i decreti ministeriali riguardano le condizioni detentive (Ospina Vargas c. Italia (dec.), n° 40750/98, § 2). Ne segue che tale parte del ricorso è incompatibile ratione materiae con le norme della Convenzione e deve perciò essere respinta ai sensi dell'articolo 35 § 4 della Convenzione.
  4. Il ricorrente denuncia il ritardo con cui le giurisdizioni hanno esaminato i suoi ricorsi contro i decreti del ministro della Giustizia, e si appella agli articoli 5 §§ 4 e 5, 6 § 1.
    La Corte ricorda di aver già dovuto esaminare tale tipo di situazioni in altri ricorsi presentati contro l'Italia, ed ha ritenuto che i ricorrenti denunciassero in sostanza la violazione del loro diritto ad un tribunale, garantito dall'articolo 6 § 1 della Convenzione (Ganci succitata, §§ 23-31, e Bifulco c. Italia, n° 60915/00, §§ 21-24, 8 febbraio 2005). La parte pertinente di tale norma è così redatta:
    "Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata (&) da parte di un tribunale (&) che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei. (&)".
    La Corte ricorda che nella succitata sentenza Ganci c. Italia essa si è pronunciata sulla questione del diritto di accesso ad un tribunale e delle possibili ripercussioni dei ritardi controversi. Nel procedimento in questione, in considerazione della mancanza di qualsiasi decisione sul merito dei ricorsi presentati contro i decreti del ministro della Giustizia, la Corte ha accertato la violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
    Tuttavia, nella fattispecie, la Corte osserva che le due istanze delle giurisdizioni interne adite si sono pronunciate sul reclamo del ricorrente prima della scadenza del periodo di validità del decreto controverso (vedi, a contrario, Argenti, n° 56317/00, sentenza del 10 novembre 2005, §§ 44-45). Inoltre, si osserva che il ricorrente non ha informato la Corte sui ricorsi presentati contro i decreti anteriori o posteriori a quello del 23 dicembre 2003. Tale parte del ricorso è perciò palesemente infondata e deve essere respinta ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
  5. Il ricorrente denuncia altresì la violazione del diritto al rispetto della propria vita familiare a causa del regime detentivo speciale, e si appella all'articolo 8 della Convenzione, così redatto:
    "1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. "
    2. Non può aversi interferenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri."

    Il Governo si oppone a tale tesi.
    La Corte ricorda di aver già dovuto deliberare sul fatto di sapere se le limitazioni previste dall'applicazione dell'articolo 41bis in materia di vita privata e familiare di alcuni detenuti nonché l'allontanamento dal luogo di detenzione dal domicilio della famiglia di un detenuto costituiscano delle ingerenze ingiustificate dal punto di vista del paragrafo 2 dell'articolo 8 della Convenzione (vedi la sentenza Messina c. Italia (n° 2), n° 25498, §§ 59-74, CEDU 2000-X e Indelicato c. Italia (dec.), n° 31143/96, 6 luglio 2000).
    La Corte ricorda la sua giurisprudenza secondo cui il regime previsto dall'articolo 41bis tende a tagliare i legami esistenti tra la persona interessata e il suo ambiente criminoso di provenienza, per ridurre il rischio di veder utilizzare i contatti personali di tali detenuti con le strutture delle organizzazioni criminose del suddetto ambiente.
    Prima dell'introduzione del regime speciale, molti pericolosi detenuti riuscivano a conservare la loro posizione in seno all'organizzazione criminosa a cui appartenevano, a scambiare informazioni con gli altri detenuti e con l'esterno, ed a organizzare ed a far eseguire crimini.
    La Corte ha ritenuto che, tenuto conto della specificità del fenomeno della criminalità organizzata, soprattutto di stampo mafioso, e del fatto che spesso le visite familiari sono state il tramite di ordini e di istruzioni per il mondo esterno, le restrizioni, certo notevoli, delle visite e i controlli che ne accompagnano lo svolgimento, nonché l'allontanamento dalla famiglia non possono risultare sproporzionate rispetto ai legittimi scopi perseguiti (vedi Salvatore c. Italia (dec.), n° 37827/97, 9 gennaio 2001).
    Per concludere, la Corte ritiene che le limitazioni al diritto del ricorrente al rispetto della propria vita familiare non siano andate oltre quanto, ai sensi dell'articolo 8 § 2, è necessario, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione del crimine. Di conseguenza, tale motivo deve essere respinto in quanto palesemente infondato ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
  6. Infine, il ricorrente denuncia l'inefficacia del ricorso contro i decreti del ministro della Giustizia, e si appella in proposito all'articolo 13, così redatto:
    "Ogni persona i cui diritti e libertà riconosciuti nella (&) Convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti a una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio di funzioni ufficiali."

Ai sensi della giurisprudenza della Corte, l'interpretazione dell'articolo 13 della Convenzione non può essere quella di richiedere un ricorso interno per qualsiasi motivo, anche ingiustificato, che una persona possa presentare nell'ambito della Convenzione: deve trattarsi di un motivo di ricorso sostenibile in relazione a quest'ultima (Boyle e Rice c. Regno Unito, sentenza del 24 aprile 1988, serie A n° 131, p. 23, § 52).
Nel presente procedimento, la Corte ha appena concluso che tutti i motivi di ricorso sollevati dal ricorrente, dal punto di vista degli articoli 1, 2, 3, 5, 6 e 8, sono palesemente infondati rispetto alle norme della Convenzione, e quindi non sono "sostenibili" ai fini dell'articolo 13 (vedi, per esempio e tra molte altre, Walter c. Italia (dec.), n° 18059/06, 11 luglio 2006, e Al-Shari e altri c. Italia (dec.), n° 57/03, 5 luglio 2005). Ne segue che tale motivo di ricorso è palesemente infondato, ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione.
Occorre quindi porre fine all'applicazione dell'articolo 29 § 3 della Convenzione e dichiarare il ricorso irricevibile.

Per questi motivi, la Corte, all'unanimità

DICHIARA IL RICORSO INAMMISSIBILE.

Sally Dollé
Cancelliera

Françoise Tulkens
Presidentessa

La Corte Edu ha ritenuto inammissibile il ricorso in quanto tutti i motivi del ricorso sollevati dal ricorrente sono stati ritenuti palesemente infondati rispetto alle norme della Convenzione.