Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 gennaio 2009 - Ricorso n. 75909/01 - Sud Fondi srl ed altri c. Italia

Traduzione a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, effettuata dall’esperto linguistico Martina Scantamburlo

Abstract

Diritto alla protezione della proprietà – Confisca – Violazioni dell’art. 1 Protocollo n. 1 e art. 7 Cedu.

 La confisca di beni costituisce una ingerenza nel godimento del diritto al rispetto dei propri beni (nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale).
L’art. 7 § 1 Cedu sancisce, in particolare, il principio di legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege). La legge, quindi, deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono.
La Corte ha, dunque, il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo al procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione legale che rendeva l’atto punibile e che la pena imposta non abbia ecceduto i limiti fissati da tale disposizione.

CONSIGLIO D’EUROPA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA SUD FONDI SRL E ALTRE 2 c. ITALIA (Ricorso n. 75909/01)
SENTENZA
STRASBURGO 20 gennaio 2009

Questa sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire alcune lievi modifiche formali.
 
Nella causa Sud Fondi Srl e altre 2 c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
    Françoise Tulkens, presidente,
    Ireneu Cabral Barreto,
   Vladimiro Zagrebelsky,
   Danutė Jočienė,
   Dragoljub Popović,
   András Sajó,
   Işıl Karakaş, giudici,
e da Sally Dollé, cancelliere di sezione,
   Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 16 dicembre 2008,
   Pronuncia la seguente sentenza, adottata in questa data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 75909/01) presentato contro la Repubblica italiana e con cui tre società con sede in tale Stato, la Sud Fondi srl, la MABAR srl e la IEMA srl («le ricorrenti»), hanno adito la Corte il 25 settembre 2001 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). Dagli atti risulta che la prima ricorrente è in liquidazione.
2. Le ricorrenti sono rappresentate dall’Avv. A. Giardina, dall’Avv. Francesca Pietrangeli e dall’Avv. Pasquale Medina, del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente aggiunto, N. Lettieri.
3. Le ricorrenti sostenevano in particolare che la confisca di cui sono state oggetto è incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione e con l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
4. Con decisione in data 23 settembre 2004 la Corte ha dichiarato il ricorso parzialmente irricevibile. Il 30 agosto 2007 la Corte ha dichiarato il resto del ricorso ricevibile.
5. Sia le ricorrenti che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito della causa (articolo 59 § 1 del regolamento).

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DELLA PRESENTE CAUSA
6. Le ricorrenti, tre società con sede a Bari, erano proprietarie delle costruzioni e dei terreni oggetto del ricorso.
A. L’adozione delle convenzioni di lottizzazione
7. La società Sud Fondi srl (infra «la prima ricorrente») era proprietaria di un terreno situato a Bari, sulla costa di Punta Perotti, classificato come edificabile dal piano regolatore generale, e destinato ad essere utilizzato nel settore terziario dalle disposizioni tecniche dello stesso piano regolatore generale.
8. Con il decreto n. 1042 dell’11 maggio 1992 il Consiglio comunale di Bari approvò il piano di lottizzazione presentato da questa società relativamente ad un parte del suo terreno, la cui superficie complessiva era di 58.410 metri quadrati. Tale piano – che era stato pre-adottato il 20 marzo 1990 – prevedeva la costruzione di un complesso multifunzionale, ossia di abitazioni, uffici e negozi.
9. Il 3 novembre 1993 la prima ricorrente e il Comune di Bari conclusero una convenzione di lottizzazione avente ad oggetto la costruzione di un complesso di 199.327 metri cubi; come contropartita la ricorrente avrebbe ceduto al Comune 36.571 metri quadrati di detto terreno.
10. Il 19 ottobre 1995 l’amministrazione comunale di Bari rilasciò i permessi di costruire.
11. Il 14 febbraio 1996 la prima ricorrente avviò i lavori di costruzione, che furono in gran parte terminati prima del 17 marzo 1997.
12. Con il decreto n. 1034 dell’11 maggio 1992 il Consiglio comunale di Bari approvò un piano di lottizzazione (che era stato pre-adottato il 20 marzo 1990) relativo alla costruzione di un complesso multifunzionale da realizzare su un terreno di 41.885 metri quadrati classificato come edificabile dal piano regolatore generale e limitrofo a quello di proprietà della società Sud Fondi srl. Le società MABAR srl e IMCAR srl erano proprietarie, rispettivamente, di 13.095 metri quadrati e 2.726 metri quadrati di tale terreno.
13. Il 1° dicembre 1993 la società MABAR srl (infra «la seconda ricorrente») concluse con l’amministrazione comunale di Bari una convenzione di lottizzazione che prevedeva la costruzione di abitazioni e uffici per 45.610 metri cubi; essa avrebbe ceduto al comune 6.539 metri quadrati di terreno.
14. Il 3 ottobre 1995 il Comune di Bari rilasciò il permesso di costruire.
15. La seconda ricorrente avviò i lavori di costruzione; dal fascicolo risulta che il 17 marzo 1997 erano state realizzate solo le fondamenta degli edifici.
16. Il 21 giugno 1993 la società IMCAR srl concluse con l’amministrazione comunale di Bari una convenzione di lottizzazione che prevedeva la costruzione di un complesso di 9.150 metri cubi, nonché la cessione al comune di 1.319 metri quadrati di terreno. Il 28 marzo 1994 la società IMCAR srl vendette il proprio terreno alla società IEMA srl.
17. Il 14 luglio 1995 il Comune di Bari rilasciò alla società IEMA srl (infra «la terza ricorrente») un permesso di costruire delle abitazioni, degli uffici e un hotel.
18. La terza ricorrente avviò i lavori di costruzione. Dal fascicolo risulta che il 17 marzo 1997 una parte del complesso era stata terminata.
19. Nel frattempo, il 10 febbraio 1997, la Sovrintendenza per i beni culturali e ambientali si era lamentata presso il sindaco di Bari del fatto che le zone costiere sottoposte a vincolo paesaggistico, risultanti dai documenti allegati al piano di attuazione, non coincidevano con le zone segnate in rosso sulla planimetria che era stata trasmessa nel 1984.
20. Dagli atti risulta che, al momento dell’approvazione dei piani di lottizzazione controversi, non era in vigore alcun piano di attuazione del piano regolatore generale di Bari. Infatti il piano di attuazione del 9 settembre 1986, in vigore al momento della pre-adozione dei piani, era scaduto il 9 settembre 1991. Precedentemente il comune di Bari aveva elaborato un altro piano di attuazione, in vigore dal 29 dicembre 1980 al 29 dicembre 1985.
B. Il procedimento penale
21. A seguito della pubblicazione di un articolo di stampa riguardante i lavori di costruzione effettuati vicino al mare a «Punta Perotti», il 27 aprile 1996, il procuratore della Repubblica di Bari aprì un’inchiesta penale.
22. Il 17 marzo 1997 il procuratore della Repubblica dispose il sequestro conservativo di tutte le costruzioni controverse. Inoltre furono iscritti nel registro degli indagati i nomi di Michele Matarrese Senior, Domenico Andidero e Antonio Quiselli, in qualità di rappresentanti rispettivamente delle società Sud Fondi srl, MABAR srl e IEMA srl, nonché i nomi di altre tre persone, in qualità di direttori e responsabili dei lavori di costruzione. Il procuratore della Repubblica riteneva che la località denominata «Punta Perotti» fosse un sito naturale protetto e che, di conseguenza, la costruzione del complesso fosse illegale.
23. Le ricorrenti impugnarono il sequestro conservativo dinanzi alla Corte di cassazione.
24. Con decisione in data 17 novembre 1997 la Corte di cassazione annullò il provvedimento e ordinò la restituzione di tutte le costruzioni ai proprietari, in quanto il sito non era sottoposto ad alcun divieto di costruire dal piano regolatore.
25. Con sentenza in data 10 febbraio 1999 il tribunale di Bari riconobbe il carattere illegale degli immobili costruiti a «Punta Perotti» in quanto non conformi alla legge no 431 del 1985 («legge Galasso»), che vietava di rilasciare permessi di costruire riguardanti i siti di interesse naturale, tra i quali vi sono le zone costiere. Tuttavia, poiché nella fattispecie l’amministrazione locale aveva rilasciato i permessi di costruire, e vista la difficoltà di coordinamento tra la legge no 431 del 1985 e la legislazione regionale, che risultava lacunosa, il tribunale ritenne che non si potesse attribuire agli imputati né colpa né intenzione. Di conseguenza, il tribunale assolse gli imputati perché il fatto non costituisce reato.
26. In questa stessa sentenza, ritenendo che i piani di lottizzazione fossero materialmente contrari alla legge no 47 del 1985 e di natura illegale, il tribunale di Bari dispose, ai sensi dell’articolo 19 di tale legge, la confisca di tutti i terreni lottizzati a «Punta Perotti», nonché degli immobili che vi erano stati costruiti, e la loro acquisizione al patrimonio del Comune di Bari.
27. Con decreto in data 30 giugno 1999 il Ministro dei beni culturali stabilì un divieto di costruire nella zona costiera nei pressi della città di Bari, ivi compresa «Punta Perotti», in quanto si trattava di un sito di alto interesse naturale. Questo provvedimento fu annullato l’anno seguente dal tribunale amministrativo regionale.
28. Il Procuratore della Repubblica interpose appello avverso la sentenza del tribunale di Bari, chiedendo la condanna degli imputati.
29. Con sentenza in data 5 giugno 2000 la corte d’appello riformò la decisione di primo grado. Essa considerò che il rilascio dei permessi di costruire era legale, in assenza di divieti di costruire a «Punta Perotti» e dato che non vi era alcuna apparente illegalità nella procedura di adozione e approvazione delle convenzioni di lottizzazione.
30. Pertanto la corte d’appello assolse gli imputati perché il fatto non sussiste e revocò il provvedimento di confisca di tutte le costruzioni e i terreni.
31. Il 27 ottobre 2000 il Procuratore della Repubblica presentò ricorso per cassazione.
32. Con sentenza in data 29 gennaio 2001, depositata in cancelleria il 26 marzo 2001, la Corte di cassazione cassò senza rinvio la decisione della corte d’appello. Essa riconobbe l’illegalità materiale dei piani di lottizzazione, in quanto i terreni interessati erano soggetti a un divieto assoluto di costruire e ad un vincolo paesaggistico, imposti dalla legge. A questo riguardo, la corte rilevò che al momento dell’adozione dei piani di lottizzazione (il 20 marzo 1990), la legge regionale no 30 del 1990 in materia di tutela delle aree di particolare interesse ambientale paesaggistico non era ancora in vigore. Di conseguenza, le disposizioni applicabili nella fattispecie erano quelle della legge regionale no 56 del 1980 (in materia urbanistica) e la legge nazionale no 431 del 1985 (in materia di tutela ambientale).
33. Orbene, la legge no 56 del 1980 imponeva un divieto di costruire ai sensi dell’articolo 51 F) al quale le circostanze della presente causa non permettevano di derogare. I piani di lottizzazione, infatti, riguardavano dei terreni non situati nell’agglomerato urbano. Inoltre, al momento dell’adozione delle convenzioni di lottizzazione i terreni in questione erano inclusi in un piano di attuazione del piano regolatore generale che era posteriore all’entrata in vigore della legge regionale no 56 del 1980.
34. Infine, la Corte di cassazione osservò che nel marzo 1992, ossia al momento dell’approvazione dei piani di lottizzazione, non era in vigore alcun piano di attuazione. A tale riguardo, la Corte ricordò la propria giurisprudenza secondo la quale bisognava che un piano di attuazione fosse in vigore al momento dell’approvazione dei piani di lottizzazione (Corte di cassazione, Sezione 3, 21.197, Volpe; 9.6.97, Varvara; 24.3.98, Lucifero). Questo perché – sempre secondo la giurisprudenza – una volta scaduto un piano di attuazione, il divieto di costruire a cui il programma aveva posto fine ritornava a produrre i suoi effetti. Di conseguenza, bisognava considerare che al momento dell’approvazione dei piani di lottizzazione sussisteva il divieto di costruire sui terreni in questione.
35. La Corte di cassazione stabilì anche che sussisteva un vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 1 della legge nazionale no 431 del 1985. Nella fattispecie, mancava il parere di conformità alla tutela ambientale da parte delle autorità competenti (ossia non vi era né il nulla osta rilasciato dalle autorità nazionali e attestante la conformità alla tutela ambientale – ai sensi dell’articolo 28 della legge no 1150/1942 – né il parere preliminare delle autorità regionali previsto dagli articoli 21 e 27 della legge no 1150/1942 o il parere del comitato urbanistico regionale previsto dagli articoli 21 e 27 della legge regionale no 56/1980).
36. Infine, la Corte di cassazione osservò che i piani di lottizzazione riguardavano solo 41.885 metri quadrati mentre, secondo le disposizioni tecniche del piano regolatore generale della città di Bari, la superficie minima era fissata a 50.000 metri quadrati.
37. Alla luce di queste considerazioni, pertanto, la Corte di cassazione decise che i piani di lottizzazione e i permessi di costruire rilasciati erano di natura illegale. Gli imputati furono assolti in quanto non potevano essere attribuiti loro né colpa né intenzione di commettere i fatti delittuosi e in quanto essi avevano commesso un «errore inevitabile e scusabile» nell’interpretazione di disposizioni regionali «oscure e mal formulate» e che interferivano con la legge nazionale. La Corte di cassazione tenne conto anche del comportamento delle autorità amministrative, e in particolare del fatto che, nel momento in cui avevano ottenuto i permessi di costruire, le ricorrenti erano state rassicurate dal direttore dell’ufficio comunale competente; che i vincoli paesaggistici contro i quali si scontrava il progetto edilizio non erano indicati nel piano urbanistico; che l’amministrazione nazionale competente non era intervenuta. Infine, la Corte di cassazione affermò che in assenza di un’inchiesta riguardante i motivi dei comportamenti degli organi pubblici non era permesso fare supposizioni. 38. Con la stessa sentenza, la Corte di cassazione ordinò la confisca di tutte le costruzioni e dei terreni in quanto, conformemente alla propria giurisprudenza, l’applicazione dell’articolo 19 della legge no 47 del 1985 era obbligatoria in caso di lottizzazione abusiva, anche in assenza di una condanna penale dei costruttori.
C. Gli sviluppi successivi all’esito del procedimento penale
39. Il 23 aprile 2001 l'amministrazione comunale comunicò alle ricorrenti che, a seguito della sentenza della Corte di cassazione del 29 gennaio 2001, la proprietà dei terreni di dette società situati a «Punta Perotti» era stata trasferita al comune.
40. Il 27 giugno 2001, l'amministrazione comunale di Bari procedette all’occupazione materiale dei terreni.
41. Anche dei terzi i cui terreni erano interessati dal piano di lottizzazione si videro privare dei terreni per effetto della confisca.
42. Le ricorrenti e dei terzi che non erano mai stati oggetto di procedimento penale presentarono un ricorso in opposizione per tentare di bloccare l’esecuzione della sentenza della Corte di cassazione penale che aveva disposto la confisca. Il ricorso delle ricorrenti fu rigettato dal tribunale di Bari e poi dalla Corte di cassazione il 27 gennaio 2005. Anche lo Stato presentò un ricorso in opposizione per evitare che dei beni ad esso appartenenti fossero confiscati a beneficio del comune di Bari. Con decisione in data 9 maggio 2005 la Corte di cassazione rigettò il ricorso, in quanto la confisca doveva riguardare tutta la zona interessata dal piano di lottizzazione, ivi compresi i lotti non edificati e i lotti che non erano stati ancora venduti, dato che tutti questi terreni avevano perduto la loro vocazione e destinazione d’origine a causa del piano di lottizzazione in questione.
43. Nell’aprile del 2006 gli immobili costruiti dalle ricorrenti furono demoliti.
44. Nel frattempo, il 28 gennaio 2006, la ricorrente Sud Fondi aveva adito il tribunale civile di Bari presentando una domanda di risarcimento contro il Ministero dei beni culturali, la regione Puglia e il comune di Bari, autorità alle quali essa rimproverava sostanzialmente di aver accordato dei permessi di costruire senza la diligenza richiesta e di avere assicurato che tutta la pratica era conforme alla legge. La ricorrente chiedeva la somma di 150.000.000 EUR, corrispondente al valore attuale del terreno confiscato, più 134.530.910,69 EUR per l’ulteriore danno, 152.332.517,44 EUR per il mancato guadagno e 25.822.844,95 EUR per il danno immateriale. Inoltre, i suoi soci (Matarrese) chiedevano un risarcimento per oltraggio alla loro reputazione.
45. Le parti hanno indicato che la ricorrente MABAR ha intentato un procedimento separato per chiedere il risarcimento nei confronti delle stesse autorità, e che la ricorrente IEMA non ha adito i tribunali nazionali, limitandosi a inviare una lettera alle autorità interessate.
46. Il 28 marzo, il 7 aprile e il 7 giugno 2006 le ricorrenti hanno depositato degli articoli di stampa riguardanti la demolizione degli edifici e in cui veniva menzionato un procedimento per risarcimento intentato dalla famiglia Matarrese. In particolare, un articolo apparso il 26 aprile 2006 su “La Stampa” informava i lettori che una domanda di risarcimento per la somma di 570 milioni di euro era stata presentata al comune di Bari, e che quest’ultimo aveva risposto chiedendo un risarcimento per la somma di 105 milioni di euro per oltraggio all’immagine della città.
47. Il 10 marzo 2008 il Governo ha trasmesso un articolo di stampa, apparso in data non precisata, da cui risulta che dopo la decisione sulla ricevibilità, la Corte ha invitato le parti a trovare un accordo amichevole o a sottoporle una domanda di risarcimento. L'articolo indica che «se Matarrese (Sud Fondi) sembra avere intenzione di chiedere alcune centinaia di milioni di euro, il Governo non intende nemmeno fare una proposta (......). L'articolo indica poi: «Non daremo un euro e non aderiamo alla proposta» e poi: La difesa del Governo a Strasburgo (è un magistrato) si lamenta per non avere ricevuto tutta la documentazione sulla causa (...). In particolare, non le sarebbe pervenuta la notizia che era stato intentato un procedimento per ottenere un risarcimento a livello nazionale. Altrimenti, tale notizia avrebbe potuto portare la Corte a decidere diversamente sulla ricevibilità del ricorso.
48. Il 9 aprile 2008, nell’ambito di un procedimento penale non riguardante le ricorrenti, la corte d’appello di Bari – avendo preso nota del fatto che il presente ricorso era stato dichiarato ricevibile dalla Corte – ha adito la Corte costituzionale affinché questa si pronunci sulla legalità della confisca inflitta automaticamente anche nel caso in cui non sia stata constatata alcuna responsabilità penale.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
A. Le disposizioni che permettono di valutare il carattere abusivo della lottizzazione
La legge no 1497 del 1939
49. La protezione delle bellezze naturali è regolata dalla legge n. 1497 del 29 giugno 1939, che prevede il diritto dello Stato di imporre un vincolo paesaggistico sui siti da proteggere.
Il Decreto del Presidente della Repubblica no 616 del 1977
50. Con il Decreto del Presidente della Repubblica, DPR no 616 del 1977, lo Stato ha delegato alle Regioni le funzioni amministrative in materia di protezione delle bellezze naturali.
La legge n° 431 dell’8 agosto 1985 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale).
51. L’articolo 1 di questa legge sottopone a «vincolo paesaggistico ed ambientale ai sensi della legge no 1497 del 1939, tra l’altro, i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare.»
Da ciò deriva l’obbligo di chiedere alle autorità competenti un parere di conformità alla tutela ambientale di qualsiasi progetto di modificazione dell’assetto del territorio.
«Tali vincoli non si applicano ai terreni compresi nelle «zone urbane A e B». Per quanto riguarda i terreni compresi in altre zone, questi vincoli non si applicano a quelli compresi in un piano di attuazione.»
Con questa legge, il legislatore ha sottoposto il territorio a una protezione generalizzata. Chiunque non rispetti i vincoli previsti dall’articolo 1 è punito in particolare ai sensi dell’articolo 20 della legge no 47 del 1985 (sanzioni previste in materia urbanistica, v. infra).
La legge n° 10 del 27 gennaio 1977 (Norme per la edificabilità dei suoli)
52. La legge no 10 del 27 gennaio 1977 prevede all’articolo 13 che i piani regolatori generali possono essere realizzati a condizione che esista un piano o programma di attuazione. Tale programma di attuazione deve delimitare le zone nelle quali le disposizioni dei piani regolatori generali devono essere attuate.
Sono le Regioni a dover decidere il contenuto e la procedura di formazione dei piani di attuazione e a stabilire la lista dei comuni esonerati dall’obbligo di dotarsi di un piano di attuazione.
Quando un comune è obbligato ad adottare un piano di attuazione, i permessi di costruire possono essere rilasciati dal sindaco solo se riguardano aree incluse nel programma di attuazione (fatte salve le eccezioni previste dalla legge) e se il progetto è conforme ai piano regolatore generale.
Ai sensi dell’articolo 9, i comuni esonerati dall’obbligo di adottare un piano di attuazione possono rilasciare dei permessi di costruire.
La legge della Regione Puglia no 56 del 31 maggio 1980
53. La legge regionale no 56 del 31 maggio 1980, nel suo articolo 51 comma f), dispone:
«... Fino all’entrata in vigore dei piani territoriali...
F) È vietata qualsiasi opera di edificazione entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo ,o dal ciglio più elevato sul mare.
Per gli strumenti urbanistici vigenti o adottati alla data di entrata in vigore della presente legge,è consentita la edificazione solo nelle zone omogenee a,b e c dei centri abitati e negli insediamenti turistici;è altresì consentita la realizzazione di opere pubbliche ed il completamento degli insediamenti industriali ed artigianali in atto alla data di entrata in vigore della presente legge»
L'articolo 18 della legge no 47 del 1985
54. La legge no 47 del 27 febbraio 1985 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) definisce la «lottizzazione abusiva» nel suo articolo 18:
«Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio,
a) quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; (...)»
55. Questa disposizione è stata interpretata in un primo tempo nel senso di escludere il carattere abusivo di una lottizzazione quando le autorità competenti hanno rilasciato i permessi richiesti (Corte di Cassazione, Sezione 3, sentenza no 6094/1991, Ligresti; 18 ottobre 1988, Brulotti).
Essa è stata poi interpretata nel senso che, anche se è autorizzata dalle autorità competenti, una lottizzazione non conforme alle vigenti disposizioni in materia urbanistica è abusiva (v. la sentenza della Corte di cassazione nella presente causa, preceduta da Corte di cassazione, sezione 3, 16 novembre 1995, Pellicani, e 13 marzo 1987, Ginevoli; confermata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sentenza no 5115 del 2002, Spiga).
B. La confisca
Principi generali di diritto penale
56. a) L'articolo 27 § 1 della Costituzione italiana prevede che «la responsabilità penale è personale». La Corte costituzionale ha affermato a più riprese che non può esservi responsabilità oggettiva in materia penale (v., tra le altre, Corte costituzionale, sentenza no 1 del 10 gennaio 1997, e infra, «altri casi di confisca». L'articolo 27 § 3 della Costituzione prevede che «le pene ... devono tendere alla rieducazione del condannato».
b) L'articolo 25 della Costituzione prevede, al secondo e al terzo comma, che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» e che «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».
c) L'articolo 1 del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite ». L'articolo 199 del codice penale, riguardante le misure di sicurezza, prevede che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa preveduti.
d) L'articolo 42, 1° comma del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà». La stessa norma è stabilita dall’articolo 3 della legge del 25 novembre 1989 no 689 per quanto riguarda gli illeciti amministrativi.
e) L'articolo 5 del codice penale prevede che «Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale». La Corte costituzionale (sentenza n. 364 del 1988) ha stabilito che questo principio non si applica quando si tratta di un errore inevitabile, tanto che questo articolo deve ormai essere letto come segue: «Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale, a meno che non si tratti di un errore inevitabile». La Corte costituzionale ha indicato come possibile origine dell’inevitabilità oggettiva dell’errore sulla legge penale l’«assoluta oscurità del testo legislativo», le «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare, lo stato «gravemente caotico» della giurisprudenza.
La confisca prevista dal codice penale
57. Ai sensi dell’articolo 240 del codice penale:
«1° comma: Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
2° comma: È sempre ordinata la confisca:
1. delle cose che costituiscono il prezzo del reato;
2. delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato.
3° comma: Le disposizioni della prima parte e del n. 1 del capoverso precedente non si applicano se la cosa appartiene a persona estranea al reato.
4° comma: La disposizione del n. 2 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa.»
58. In quanto misura di sicurezza, la confisca è regolata dall’articolo 199 del codice penale che prevede che «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa preveduti».
Altri casi di confisca / La giurisprudenza della Corte costituzionale
59. In materia di dogane e di contrabbando, le disposizioni applicabili prevedono la possibilità di confiscare beni materialmente illeciti, anche se questi ultimi sono detenuti da terzi. Con la sentenza no 229 del 1974, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità delle disposizioni pertinenti con la Costituzione (in particolare l’articolo 27), sulla base del ragionamento seguente:
«Possono, invero, esservi delle cose nelle quali é insita una illiceità oggettiva in senso assoluto, che prescinde, pertanto, dal rapporto col soggetto che ne dispone, e che debbono essere confiscate presso chiunque le detenga a qualsiasi titolo (... ).
Perché la confisca obbligatoria delle cose appartenenti a persone estranee al contrabbando non configuri, a carico di queste, una mera responsabilità oggettiva, in base alla quale, per il solo fatto della appartenenza ad essi delle cose coinvolte, subiscano conseguenze patrimoniali in dipendenza dell'illecito finanziario commesso da altri, occorre che sia rilevabile nei loro confronti un quid senza il quale, il reato (…) non sarebbe avvenuto o comunque non sarebbe stato agevolato. Occorre, in conclusione, che emerga nei loro confronti almeno un difetto di vigilanza.»
60. La Corte costituzionale ha ribadito questo principio nelle sentenze no 1 del 1997 e no 2 del 1987, in materia di dogane e di esportazione di opere d’arte.
La confisca nella presente causa (articolo 19 della legge no 47 del 28 febbraio 1985)
61. L’articolo 19 della legge no 47 del 28 febbraio 1985 prevede la confisca delle opere abusivamente costruite e dei terreni abusivamente lottizzati quando le giurisdizioni penali hanno stabilito con sentenza definitiva che la lottizzazione è abusiva. La sentenza penale è titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari.
L'articolo 20 della legge no 47 del 28 febbraio 1985
62. Questa disposizione prevede delle sanzioni definite «sanzioni penali». Tra queste non compare la confisca.
In caso di lottizzazione abusiva – così come definita all’articolo 18 della stessa legge – le sanzioni previste sono l’arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 100 milioni di lire italiane (circa 516.460 euro).
L'articolo 44 del codice dell’edilizia (DPR no 380 del 2001)
63. Il Decreto del Presidente della Repubblica no 380 del 6 giugno 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ha codificato le disposizioni esistenti in particolare in materia di diritto di costruire. Al momento della codificazione, gli articoli 19 e 20 della legge no 47 del 1985 di cui sopra sono stati unificati in un’unica disposizione, ossia l’articolo 44 del codice, che si intitola:
«Art. 44 (L) – Sanzioni penali
(...)
2. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite.»
La giurisprudenza relativa alla confisca per lottizzazione abusiva
64. In un primo tempo, le giurisdizioni nazionali avevano classificato la confisca applicabile in caso di lottizzazione abusiva come una sanzione penale. Pertanto, essa poteva essere applicata solo ai beni dell’imputato riconosciuto colpevole del reato di lottizzazione abusiva, conformemente all’articolo 240 del codice penale (Corte di Cassazione, Sez. 3, 18 ottobre 1988, Brunotti; 8 maggio 1991, Ligresti; Sezioni Unite, 3 febbraio 1990, Cancilleri).
65. Con sentenza in data 12 novembre 1990 la Sezione 3 della Corte di cassazione (causa Licastro) affermò che la confisca costituiva una sanzione amministrativa e obbligatoria, indipendente dalla condanna penale. Essa poteva dunque essere pronunciata nei confronti di terzi, poiché all’origine della confisca vi è una situazione (una costruzione, una lottizzazione) che deve essere materialmente abusiva, indipendentemente dall’elemento morale. Perciò la confisca può essere disposta quanto l’autore viene assolto perché il fatto non costituisce reato. Non può invece essere disposta se l’autore viene assolto perché il fatto non sussiste.
66. Questa giurisprudenza fu ampiamente seguita (Corte di Cassazione, Sezione 3, sentenza del 16 novembre 1995, Besana; no 12471, no 1880 del 25 giugno 1999, Negro; 15 maggio 1997 no 331, Sucato; 23 dicembre 1997 no 3900, Farano; no 777 del 6 maggio 1999, Iacoangeli). Con l'ordinanza no 187 del 1998, la Corte costituzionale ha riconosciuto la natura amministrativa della confisca.
Pur essendo considerata una sanzione amministrativa dalla giurisprudenza, la confisca non può essere annullata da un giudice amministrativo, poiché la competenza in materia appartiene unicamente al giudice penale (Corte di Cassazione Sez. 3, sentenza 10 novembre 1995, Zandomenighi).
La confisca di beni si giustifica poiché questi costituiscono gli «oggetti materiali del reato». In quanto tali, i terreni non sono «pericolosi», ma lo diventano quando mettono in pericolo il potere decisionale riservato all’autorità amministrativa (Corte di Cassazione, Sez. 3, no 1298/2000, Petrachi e altri).
Se l’amministrazione regolarizza ex post la lottizzazione, la confisca deve essere revocata (Corte di Cassazione,sentenza del 14 dicembre 2000 no 12999, Lanza; 21 gennaio 2002, no 1966, Venuti).
Lo scopo della confisca è quello di rendere indisponibile una cosa di cui si presume sia conosciuta la pericolosità: i terreni che sono oggetto di una lottizzazione abusiva e gli immobili abusivamente costruiti. In tal modo si evita che tali immobili vengano messi sul mercato immobiliare. Quanto ai terreni, si evita che vengano commessi altri reati e non si lascia spazio a eventuali pressioni sugli amministratori locali affinché regolarizzino la situazione (Corte di Cassazione, Sez. 3, 8 febbraio 2002, Montalto).

IN DIRITTO

I. SULLE ECCEZIONI PRELIMINARI DEL GOVERNO
67. Nelle sue osservazioni del 5 dicembre 2007 il Governo ha sollevato un’eccezione di mancato previo esaurimento delle vie di ricorso interne. Esso avrebbe appreso grazie ad alcuni articoli di stampa che le società Sud Fondi e MABAR, prima della decisione sulla ricevibilità, avevano avviato un procedimento per ottenere un risarcimento a livello interno nei confronti del comune di Bari, della Regione Puglia e dello Stato. Il Governo ha precisato che la ricorrente IEMA non aveva intentato alcun ricorso e aveva intimato alla pubblica amministrazione di risarcirla per un importo di 47 milioni di euro. Secondo il Governo, i procedimenti intentati sono identici a quello avviato a Strasburgo sia per quanto riguarda il petitum che la causa petendi. La Corte dovrebbe pertanto radiare il ricorso dal ruolo o dichiararlo irricevibile.
68. Il Governo osserva poi che «le ricorrenti sono portatrici di più verità» poiché a livello europeo esse rivendicano il loro diritto di costruire mentre a livello nazionale ammettono di aver commesso un errore causato dal comportamento dell’amministrazione. Di conseguenza le ricorrenti chiedono che venga dichiarata la responsabilità dello Stato italiano per motivi tra loro contraddittori dinanzi alla Corte e dinanzi ai giudici nazionali.
69. Il 14 gennaio 2008 il Governo ha denunciato un abuso di procedura da parte delle ricorrenti in quanto queste ultime non avevano informato la Corte che avevano chiesto dei risarcimenti a livello nazionale. Esse avrebbero voluto nascondere queste informazioni alla Corte, e ciò non si concilia con l’articolo 47 § 6 del Regolamento della Corte, secondo il quale le parti devono informare quest’ultima di qualsiasi fatto pertinente per l’esame della causa. Dal momento che le ricorrenti hanno trasmesso delle comunicazioni incomplete e dunque ingannevoli, la Corte dovrebbe radiare il ricorso dal ruolo o dichiararlo irricevibile in quanto abusivo. Su questo punto il Governo fa riferimento alla causa Hadrabova e altri c. Repubblica ceca (dec.), 25 settembre 2007.
70. Il 10 marzo 2008 il Governo ha denunciato un secondo abuso delle ricorrenti relativo ad un articolo di stampa (v. paragrafo 47 supra) pubblicato in un data non conosciuta. Secondo il Governo, tale articolo rivela il non rispetto della segretezza del procedimento da parte delle ricorrenti e conferma il carattere abusivo del ricorso.
71. Le ricorrenti si oppongono agli argomenti del Governo.
72. Per quanto attiene all’eccezione di mancato previo esaurimento delle vie di ricorso, esse osservano che è stata presentata tardivamente, poiché il Governo non poteva ignorare l’esistenza di tali procedimenti già da molto prima della decisione sulla ricevibilità, visto che le società Sud Fondi e MABAR hanno citato in giudizio degli enti pubblici (il comune di Bari, il Ministero dei beni culturali e la Regione Puglia) il 28 gennaio 2006. Lo Stato ha depositato una memoria di costituzione in risposta il 18 aprile 2006. Non è dunque serio da parte del Governo sostenere che non era al corrente di tali procedimenti prima della decisione sulla ricevibilità. Di conseguenza, esse chiedono alla Corte di rigettare questa eccezione, che è stata sollevata solo il 5 dicembre 2007. In ogni caso, le ricorrenti osservano che la società IEMA non ha intentato ricorsi e dunque non è interessata da questa eccezione.
73. Inoltre, le ricorrenti osservano che il Governo non ha dimostrato l’accessibilità e l’efficacia dei ricorsi intentati rispetto alle violazioni addotte. Esse sostengono che la possibilità di intentare un ricorso per ottenere un risarcimento, così come esse hanno fatto, esiste solo a partire dalla sentenza della Corte costituzionale no 204 del 2004. Poiché l'accesso a questo rimedio era inesistente al momento in cui è stato presentato il ricorso, esso non costituisce un ricorso da esperire. Inoltre, poiché le ricorrenti hanno già esaurito la via penale, un ricorso civile non è un rimedio da esperire. Per di più, esse osservano che gli argomenti sostenuti dal Governo dinanzi al tribunale civile di Bari, ossia l’assenza di giurisdizione e la prescrizione del diritto ad una riparazione, non si conciliano con l’argomento sollevato dinanzi alla Corte, secondo il quale il ricorso intentato è efficace e dunque deve essere esperito. Infine, i ricorsi presentati a livello interno non mirano a ripetere il ricorso presentato a Strasburgo, poiché non riguardano il procedimento penale che si è concluso con la confisca dei beni, e dunque non sono volti a ottenere la riparazione delle violazioni della Convenzione. I ricorsi interni si basano sulla responsabilità extracontrattuale delle amministrazioni che per molti anni hanno certificato la natura edificabile dei terreni in causa e hanno rilasciato dei permessi di costruire.
74. Quanto al presunto carattere abusivo del ricorso, le ricorrenti osservano che nella causa Hadrabova citata dal Governo, la parte ricorrente aveva già ottenuto sul piano nazionale un risarcimento per lo stesso motivo invocato dinanzi alla Corte e lo aveva tenuto nascosto. Orbene, nella fattispecie lo Stato italiano non ha pagato alcun risarcimento. Inoltre, le informazioni passate sotto silenzio nella causa Hadrabova riguardavano l’esistenza di un procedimento avente lo stesso oggetto rispetto a quello pendente a Strasburgo, mentre nella fattispecie si tratta di due procedimenti diversi. Inoltre, le ricorrenti sostengono di non avere mai avuto l’intenzione di nascondere alla Corte l’esistenza di tali procedimenti i quali, peraltro, venivano menzionati negli articoli di stampa che esse hanno inviato alla Corte. Semplicemente, poiché lo scopo dei procedimenti nazionali non è lo stesso di quello del procedimento a Strasburgo, esse non ritenevano necessario inviare una lettera ad hoc.
75. Per quanto riguarda la pretesa divulgazione di informazioni confidenziali, le ricorrenti negano di avere fatto rivelazioni alla stampa riguardo al fatto che il Governo aveva rifiutato la composizione amichevole, visto che il rifiuto non era stato loro notificato dalle autorità italiane. In ogni caso, esse osservano che non hanno il controllo delle informazioni che si trovano nella stampa.
76. Infine, le ricorrenti desiderano criticare il contenuto di alcuni passaggi delle osservazioni del Governo (paragrafi 97, 145 e 159 infra), che definiscono offensive. Esse ritengono importante sottolineare la propria buona fede, sia per quanto riguarda il procedimento a Strasburgo che a livello nazionale.
77. La Corte ricorda che, ai sensi dell’articolo 55 del suo regolamento, «Se la Parte contraente convenuta intende sollevare un’eccezione di irricevibilità, deve farlo, per quanto la natura dell’eccezione e le circostanze lo permettano, nelle osservazioni scritte o orali sulla ricevibilità del ricorso (...)».
78. Nella fattispecie, la Corte ritiene che prima della decisione sulla ricevibilità del 30 agosto 2007, il Governo non poteva non essere al corrente delle domande di risarcimento delle ricorrenti debitamente notificate nel 2006 nei confronti di enti pubblici tra cui il Ministero dei beni culturali. Dunque, per quanto attiene alle eccezioni riguardanti le procedure intentate a livello nazionale per ottenere un risarcimento, vi è decadenza dai termini.
79. La Corte ricorda poi che essa può rigettare un ricorso che considera irricevibile «in ogni stato del procedimento» (articolo 35 § 4 della Convenzione). Dei fatti nuovi che vengano portati a sua conoscenza possono condurla, anche allo stadio dell’esame sul merito, a ritornare sulla decisione con cui il ricorso è stato dichiarato ricevibile e a dichiararlo successivamente irricevibile, in applicazione dell’articolo 35 § 4 della Convenzione (v., per esempio, Medeanu c. Romania (dec.), no 29958/96, dell’8 aprile 2003; İlhan c. Turchia [GC], no 22277/93, § 52, CEDU 2000-VII; Azinas c. Cipro [GC], no 56679/00, §§ 37-43, CEDU 2004-III). Essa può anche cercare di stabilire, anche ad uno stadio avanzato del procedimento, se il ricorso si presti all’applicazione dell’articolo 37 della Convenzione. Per concludere che la controversia è stata risolta ai sensi dell’articolo 37 § 1 b) e che il mantenimento del ricorso dal parte del ricorrente non è dunque più oggettivamente giustificato, la Corte deve esaminare, da una parte, la questione di stabilire se i fatti per i quali il ricorrente si lamenta direttamente persistono o meno e, dall’altra, se le conseguenze che potrebbero derivare da un’eventuale violazione della Convenzione a causa di tali fatti siano state anch’esse rimosse (Pisano c. Italia [GC] (radiazione), no 36732/97, § 42, 24 ottobre 2002).
80. Nella fattispecie la Corte non rileva l’esistenza di un «fatto nuovo» sopraggiunto dopo la ricevibilità che potrebbe indurla a ritornare sulla sua decisione sulla ricevibilità. Inoltre, essa osserva che la controversia non è stata risolta, e quindi non è opportuno radiare il ricorso dal ruolo.
81. La Corte ricorda infine che un ricorso può essere rigettato in quanto abusivo se è stato basato consapevolmente su fatti erronei (v., tra le altre, Kérétchavili c. Georgia, no 5667/02, 2 maggio 2006; Varbanov c. Bulgaria, no 31365/96, § 37, CEDU 2000-X; Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, §§ 53-54, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996-IV; Řehàk c. Repubblica ceca (dec.), no 67208/01, 18 maggio 2004), al fine di indurre deliberatamente la Corte in errore (Assenov e altri c. Bulgaria, decisione della Commissione, no 24760/94, 27 giugno 1996; Varbanov c. Bulgaria, no 31365/96, § 36, CEDU 2000 X).
82. La Corte, pur deplorando che le ricorrenti non l’abbiano formalmente informata delle azioni intentate presso i tribunali interni, non ritiene accertato che esse abbiano tentato di indurla in errore. Il ricorso non è dunque abusivo.
83. Pertanto, le eccezioni del Governo devono essere rigettate.

II. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE
84. Le ricorrenti denunciano l’illegalità della confisca che ha colpito i loro beni in quanto questa sanzione sarebbe stata inflitta in un caso non previsto dalla legge. Esse sostengono che vi è stata una violazione dell’articolo 7 della Convenzione, che recita:
«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato commesso.
2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.»
A. Sull’applicabilità dell’articolo 7 della Convenzione
85. La Corte ricorda che, nella sua decisione del 30 agosto 2007, ha ritenuto che la confisca controversa si traduca una pena e, pertanto, trova applicazione l’articolo 7 della Convenzione.
B. Sull’osservanza dell’articolo 7 della Convenzione
1. Argomenti delle ricorrenti
86. Le ricorrenti sostengono che il carattere abusivo della lottizzazione non era «previsto dalla legge». I loro dubbi circa l’accessibilità e la prevedibilità delle disposizioni applicabili sarebbero confermati dalla sentenza della Corte di cassazione, che ha constatato che gli imputati si erano trovati in una situazione di «ignoranza inevitabile»; questi ultimi sono stati assolti per l’«errore scusabile» commesso nell’interpretazione del diritto applicabile, tenuto conto della legislazione regionale oscura, dell’ottenimento dei permessi di costruire, delle assicurazioni ricevute da parte delle autorità locali per quanto riguarda la regolarità dei loro progetti e dell’inerzia delle autorità competenti in materia di tutela paesaggistica fino al 1997. Sulla questione di sapere se, una volta accordati tutti i permessi di costruire, una lottizzazione potesse o meno essere definita abusiva, la giurisprudenza ha inoltre avuto molte esitazioni che sono state risolte solo l’8 febbraio 2002 dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Ciò dimostra dunque che fino al 2001 vi era incertezza, e che il fatto di avere definito abusiva la lottizzazione delle ricorrenti prima della decisione delle Sezioni Unite costituisce un’interpretazione non letterale, estensiva, e dunque imprevedibile e incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione.
87. Le ricorrenti sostengono poi che in ogni caso non vi era illegalità materiale nella fattispecie, poiché le lottizzazioni non si scontravano con limitazioni imposte sui loro terreni. Su questo punto fanno riferimento alla sentenza della corte d’appello di Bari, che non aveva constatato alcuna illegalità materiale, considerando che non vi erano divieti di costruire sui terreni in questione. Inoltre, il fatto che il ministero dei beni culturali abbia adottato un decreto il 30 giugno 1999 sottoponendo i terreni in questione a dei vincoli dimostrerebbe che, anteriormente, su detti terreni non gravava alcun vincolo. Infine, il piano «urbanistico territoriale tematico», adottato il 15 dicembre 2000 con decisione del consiglio regionale della Regione Puglia no 1748, confermerebbe che non vi era alcun divieto di costruire.
88. Per quanto concerne la legalità della sanzione loro inflitta, le ricorrenti sostengono che, per essere legale, una pena deve essere prevedibile, ossia deve essere possibile prevedere ragionevolmente al momento della commissione del reato le conseguenze che ne derivano a livello della sanzione, sia per quanto riguarda il tipo di sanzione che la misura della stessa. Inoltre, per essere compatibile con l’articolo 7 della Convenzione, una pena deve essere riconducibile ad un comportamento biasimevole. Le ricorrenti ritengono che nessuna di tali condizioni sia stata soddisfatta.
89. Nel momento in cui sono stati rilasciati i permessi di costruire e all’epoca della costruzione degli edifici, era impossibile per le ricorrenti prevedere l’applicazione della confisca. Infatti, poiché la legge no 47 del 1985 non prevede in maniera esplicita la possibilità di confiscare i beni di terzi in caso di assoluzione degli imputati, la confisca inflitta nella fattispecie sarebbe «non prevista dalla legge». Per infliggere la confisca, le giurisdizioni nazionali hanno dato un’interpretazione non letterale dell’articolo 19 della legge no 47/1985 e ciò è arbitrario in quanto si è in ambito penale e l’interpretazione per analogia a pregiudizio dell’interessato non può essere utilizzata. Inoltre, una tale interpretazione è contraria all’articolo 240 del codice penale, che stabilisce il regime generale delle confische.
90. Anche a voler supporre che l’interpretazione che ha portato a confiscare i beni di una persona assolta possa essere definita un’interpretazione letterale, resta comunque da dimostrare che il carattere abusivo della lottizzazione era effettivamente previsto dalla legge. Su questo punto le ricorrenti ricordano che il carattere abusivo della lottizzazione in questione era tutt’altro che palese, essendo stata pronunciata un’assoluzione perché la legislazione era talmente complessa che l’ignoranza della legge era inevitabile e scusabile.
91. Le ricorrenti osservano poi che la sanzione non è riconducibile ad un comportamento biasimevole, visto che la confisca è stata disposta nei confronti di esse, che sono dei «terzi» rispetto agli imputati, e tenuto conto soprattutto dell’assoluzione di questi ultimi e delle motivazioni della stessa. A questo riguardo le ricorrenti invocano il principio della «responsabilità penale personale» previsto dalla Costituzione, secondo il quale è vietato rispondere penalmente del fatto commesso da altri. Questo principio costituisce solo un aspetto complementare del divieto dell’analogia in malam partem e dell’obbligo di elencare in maniera limitativa i casi ai quali si applica una sanzione penale (principio di tassatività).
92. Le ricorrenti ricordano infine che, fino al 1990, la confisca era stata classificata dalle giurisdizioni nazionali tra le sanzioni penali. Per questo, essa poteva colpire unicamente i beni dell’imputato (Corte di Cassazione, Sezione 3, 16 novembre 1995, Befana; 24 febbraio 1999, Iacoangeli). È solo a partire dal 1990 che la giurisprudenza si è evoluta nel senso di considerare la confisca come una sanzione amministrativa, che in quanto tale può essere inflitta indipendentemente dalla condanna penale e anche nei confronti di terzi. Secondo le ricorrenti, questo cambiamento radicale della giurisprudenza ha avuto luogo solo per permettere la confisca dei beni di terzi in caso di assoluzione degli imputati, come nella fattispecie.
93. Infine, le ricorrenti osservano che lo Stato sostiene dinanzi alla Corte una tesi diversa rispetto a quella sostenuta a livello nazionale dagli avvocati che hanno assunto la difesa della Regione Puglia e dell’Automobile Club Italiano, che ha contestato la legalità della confisca nei loro confronti in quanto inflitta a soggetti estranei al procedimento penale.
94. In conclusione, la confisca della presente causa è contraria al divieto della responsabilità penale per fatto commesso da altri ed è pertanto arbitraria.
95. Per di più, le ricorrenti ricordano la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale una confisca può riguardare i beni dei terzi estranei al reato solo «quando a questi ultimi si può attribuire un quid senza il quale il reato non sarebbe avvenuto o non sarebbe stato agevolato». Le incorrenti invocano poi il principio secondo il quale una persona giuridica non può essere penalmente responsabile (societas delinquere non potest).
2. Argomenti del Governo
96. Il Governo sostiene che sia il reato che la confisca erano «previsti dalla legge», ossia da disposizioni accessibili e prevedibili. Nella fattispecie non si pone alcun problema di retroattività né di interpretazione estensiva.
97. Vi era illegalità materiale, in quanto i terreni in questione erano interessati dalle limitazioni ex lege, previste, da una parte, dall’articolo 51 f) della legge regionale n° 56 del 1980 e, dall’altra, dalla legge n° 431 del 1985 in vigore dal 15 settembre 1985. Questi vincoli esistevano prima del decreto ministeriale del 30 giugno 1999 con cui alcune parti del territorio del comune di Bari venivano dichiarate zone di grande interesse paesaggistico. Essi erano accessibili e prevedibili, in quanto pubblicati. Dovevano essere chiari per le ricorrenti, che non sono assimilabili a un comune cittadino ma sono dei professionisti del settore dell’edilizia, dai quali era dunque ragionevole aspettarsi una diligenza speciale (Chorherr c. Austria, 25 agosto 1993, § 25, serie A no 266 B; Open Door e Dublin Well Woman c. Irlanda, 29 ottobre 1992, § 60, serie A no 246 A). Il Governo ammette che l’amministrazione si è comportata come se fosse tutto in ordine. Tuttavia, il comportamento di quest’ultima non sarebbbe stato trasparente e conforme alle norme di buona amministrazione.
98. Per quanto riguarda la confisca, essa è prevista dall’articolo 19 della legge no 47 del 1985. Questa disposizione era accessibile e prevedibile.
99. Quanto all’interpretazione di tale disposizione da parte delle giurisdizioni nazionali, secondo il Governo non si è trattato di un’interpretazione estensiva a pregiudizio delle ricorrenti. Nella fattispecie, l’interpretazione giudiziaria è stata coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (su questo punto il Governo fa riferimento in particolare a S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 36, serie A no 335 B; Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 82, CEDU 2001 II). Al riguardo, il Governo osserva che l’articolo 19 della legge n° 47 del 1985 non esige la condanna dell’autore del reato, ma solo la constatazione dell’illegalità della lottizzazione. Se il legislatore nazionale avesse voluto prevedere la confisca solo nel caso di un imputato condannato, nel testo dell’articolo 19 della legge no 47/1985 dopo la parola «decisione» vi sarebbe stata la parola «condanna». Il fatto che tale disposizione non specifichi che la confisca può aver luogo solo in caso di condanna permette al giudice penale di ordinare la confisca nel caso di un’assoluzione in cui egli abbia comunque constatato l’illegalità materiale di una lottizzazione. Si tratta infatti di una sanzione reale e non personale. È dunque possibile confiscare nel caso di un’assoluzione come quella della presente causa, in cui è assente l’elemento morale. In conclusione, vi è stata una interpretazione della legge in senso letterale, poiché, nella fattispecie, dopo aver constatato l’elemento materiale del reatto, ossia l’illegalità della lottizzazione, la confisca viene applicata in maniera legittima.
100. Il Governo osserva che la Convenzione non esige che vi sia un legame necessario tra l’accusa in materia penale e le ripercussioni sui diritti patrimoniali, ossia nulla impedisce di adottare dei provvedimenti di confisca anche se questi vengono classificati come sanzioni penali risultanti da un atto che non ha comportato l’imputazione del soggetto, estraneo al procedimento penale (che non è stato oggetto di imputazione nel corso del procedimento penale). Su questo punto, il Governo si riferisce a tre sentenze della Corte (AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, serie A no 108, Air Canada c. Regno Unito, 5 maggio 1995, serie A no 316 A e Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi c. Irlanda [GC], no 45036/98, CEDU 2005 VI) e osserva che in queste cause le ricorrenti avevano subito la confisca dei loro beni anche se l’accusa penale non era stata formulata contro di loro e non avevano commesso alcun reato.
101. Secondo il Governo la confisca potrebbe tradursi in una «misura di sicurezza patrimoniale» disciplinata dal secondo comma, punto 2 dell’articolo 240 del codice penale. Tale disposizione indica che «il giudice ordina sempre la confisca delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non vi è stata condanna penale». Il Governo osserva che tutte le misure di sicurezza, così come le pene, vengono disposte nel rispetto del principio di legalità, e rinvia al secondo comma dell’articolo 199 del codice penale, che prevede che «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa preveduti». La possibilità di confiscare le costruzioni abusive è prevista dal secondo comma dell’articolo 240 del codice penale, nella misura in cui tali costruzioni costituiscono delle «cose la cui fabbricazione costituisce reato». Essa è anche prevista dall’articolo 19 della legge n° 47 del 1985. La possibilità di confiscare i suoli che sono oggetto di una lottizzazione abusiva è unicamente prevista dall’articolo 19 della legge n° 47 del 1985. In effetti, i suoli non sono «intrinsecamente pericolosi». Il fatto che la confisca sia stata ordinata nei confronti delle società ricorrenti, terze rispetto agli imputati, è giustificato dalla natura «reale» della sanzione. Secondo il Governo non vi è conflitto con il principio di «responsabilità personale» ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, in quanto la confisca non ha una finalità repressiva ma preventiva. Si tratta di rendere indisponibile per il possessore una cosa di cui si presume o si conosce la pericolosità, di evitare di mettere sul mercato delle costruzioni abusive, e di impedire la commissione di ulteriori reati.
102. Nemmeno l’interpretazione dell’articolo 19 della legge n° 47 del 1985 era imprevedibile. Al riguardo, il Governo rinvia all’ampia giurisprudenza in materia e sostiene che la Corte di cassazione aveva già affermato nel 1987 (sentenza no 614 del 13 marzo 1987, Ginevoli) che una costruzione autorizzata ma non conforme alle disposizioni in materia urbanistica poteva essere oggetto di sequestro. Inoltre, la sentenza Ligresti del 1991 della Corte di cassazione avrebbe affermato che tutti i permessi di costruire devono essere oggetto di un test di compatibilità e devono dunque passare per illeciti e inesistenti se si rivelano contrari alla legge. Il Governo osserva poi che se è vero che l’interpretazione giudiziaria in materia penale deve essere ragionevolmente prevedibile, i cambiamenti radicali di giurisprudenza costituiscono una materia sottratta alla giurisdizione della Corte, che non può né confrontare le decisioni rese dai tribunali nazionali né vietare la possibilità di uno stravolgimento giurisprudenziale.
103. Per di più, il Governo osserva che a partire dal 2001 (decreto legislativo no 231/01), una società può essere oggetto di una misura patrimoniale conseguente ad un atto commesso dal suo rappresentante legale.
104. In conclusione, il Governo chiede alla Corte di rigettare il ricorso in quanto «irricevibile e/o infondato.»
3. Valutazione della Corte
a) Richiamo dei principi pertinenti applicabili
105. La garanzia che sancisce l’articolo 7, elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’articolo 15 non autorizza alcuna deroga allo stesso in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, esso deve essere interpretato e applicato in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (sentenze S.W. e C.R. c. Regno Unito del 22 novembre 1995, serie A nn. 335-B e 335-C, p. 41, § 34, e p. 68, § 32, rispettivamente).
106. L’articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio di legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege). Se vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a pregiudizio dell’imputato, ad esempio per analogia (v., tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000 VII).
107. Ne consegue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, e se necessario con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omissioni implicano la sua responsabilità penale.
108. La nozione di «diritto» («law») utilizzata nell’articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della Convenzione; essa comprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale e implica delle condizioni qualitative, tra le quali quelle dell’accessibilità e della prevedibilità (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Raccolta 1996 V; S.W. c. Regno Unito, § 35, 22 novembre 1995; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, §§ 40-41, serie A no 260 A). Per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione legale, in qualsiasi sistema giuridico, ivi compreso il diritto penale, esiste immancabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà sempre chiarire i punti oscuri ed adattarsi ai cambiamenti di situazione. Del resto, è solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte di diritto, contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale (Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29, serie A no 176 A). Non si può interpretare l’articolo 7 della Convenzione nel senso che esso vieta di chiarire gradualmente le norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria da una causa all’altra, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU 2001 II).
109. La portata della nozione di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo in questione, dall’ambito che esso ricopre nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto. Questo vale in particolare per i professionisti, abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell’esercizio del loro mestiere. Da essi ci si può pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione i rischi che quest’ultimo comporta (Pessino c. Francia, n° 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006).
110. La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo al procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione legale che rendeva l’atto punibile, e che la pena imposta non abbia ecceduto i limiti fissati da tale disposizione (Murphy c. Regno Unito, ricorso no 4681/70, decisione della Commissione del 3 e 4 ottobre 1972, Raccolta delle decisioni 43; Coëme e altri, sentenza già cit., § 145).
b) L’applicazione di questi principi nella presente causa
111. Nelle loro voluminose osservazioni, le parti hanno proceduto ad uno scambio di argomenti riguardanti la «prevedibilità» del carattere abusivo della lottizzazione in questione, nonché la prevedibilità della confisca rispetto all’evoluzione della giurisprudenza delle corti nazionali. La Corte non ritiene di dover fornire un resoconto dettagliato delle decisioni citate nella presente sentenza, poiché non ha il compito di giudicare il carattere imprevedibile del reato in abstracto. In effetti, essa si baserà sulle conclusioni della Corte di cassazione che, nella presente causa, ha pronunciato un’assoluzione nei confronti dei rappresentanti delle società ricorrenti, accusati di lottizzazione abusiva.
112. Secondo l’Alta giurisdizione nazionale, gli imputati hanno commesso un errore inevitabile e scusabile nell’interpretazione delle norme violate; la legge regionale applicabile, unita alla legge nazionale, era «oscura e mal formulata»; la sua interferenza con la legge nazionale in materia aveva prodotto una giurisprudenza contraddittoria; i responsabili del comune di Bari avevano autorizzato la lottizzazione e rassicurato le ricorrenti quanto alla sua regolarità; a tutto ciò si era aggiunta l’inerzia delle autorità incaricate della tutela dell’ambiente. La presunzione di conoscenza della legge (articolo 5 del codice penale) non era più valida e, conformemente alla sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (paragrafo 56 e) supra) e alla sentenza delle Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione n. 8154 del 18 luglio 1994, l'elemento morale del reato (articoli 42 e seguenti del codice penale) doveva essere escluso poiché, prima ancora di poter esaminare se sussistesse dolo o colpa per negligenza o imprudenza, bisognava escludere la «coscienza e volontà» di violare la legge penale. In questo contesto, nel contempo legale e fattuale, l’errore degli imputati sulla legalità della lottizzazione, secondo la Corte di cassazione, era inevitabile.
113. Non spetta alla Corte concludere diversamente, e ancora meno fare delle ipotesi sui motivi che hanno spinto l’amministrazione comunale di Bari a gestire in questo modo una questione così importante e sui motivi per cui la Procura di Bari non ha condotto un’inchiesta efficace al riguardo (paragrafo 37 supra).
114. Si deve dunque riconoscere che le condizioni di accessibilità e prevedibilità della legge, nelle circostanze specifiche della presente causa, non sono soddisfatte. In altri termini, dal momento che la base giuridica del reato non rispondeva ai criteri di chiarezza, accessibilità e prevedibilità, era impossibile prevedere che sarebbe stata inflitta una sanzione. Ciò vale sia per le società ricorrenti, che hanno realizzato la lottizzazione abusiva, che per i rappresentanti delle stesse, imputati nell’ambito del processo penale.
115. Un ordine di idee complementare merita di essere sviluppato. A livello interno la definizione di «amministrativa» (paragrafi 65-66) data alla confisca controversa permette di sottrarre la sanzione in questione ai principi costituzionali che regolano la materia penale. L’articolo 27/1 della Costituzione prevede che la «responsabilità penale è personale» e l’interpretazione giurisprudenziale che ne viene data precisa che un elemento morale è sempre necessario. Inoltre l’articolo 27/3 della Costituzione («Le pene .... devono tendere alla rieducazione del condannato») si applicherebbe difficilmente a una persona condannata senza che possa essere chiamata in causa la sua responsabilità penale.
116. Per quanto riguarda la Convenzione, l’articolo 7 non menziona espressamente il legame morale esistente tra l’elemento materiale del reato e la persona che ne viene considerata l’autore. Tuttavia, la logica della pena e della punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «persona colpevole» (nella versione francese) vanno nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato. In caso contrario, la pena non sarebbe giustificata. Sarebbe del resto incoerente, da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra, permettere che si consideri una persona come «colpevole» e «punirla» quando essa non era in grado di conoscere la legge penale, a causa di un errore insormontabile che non può assolutamente essere imputato a colui o colei che né è vittima.
117. Sotto il profilo dell’articolo 7, per i motivi sopra trattati, un quadro legislativo che non permette ad un imputato di conoscere il senso e la portata della legge penale è lacunoso non solo rispetto alle condizioni generali di «qualità» della «legge» ma anche rispetto alle esigenze specifiche della legalità penale.
118. Per tutti questi motivi, di conseguenza, la confisca in questione non era prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Essa si traduce perciò in una sanzione arbitraria. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.

III. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1.
119. Le ricorrenti denunciano l’illegalità e il carattere sproporzionato della confisca che ha colpito i loro beni. Esse sostengono che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 che, nella parte pertinente, recita:
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale (...).»
A. Sull’applicabilità dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
1. Tesi delle parti
120. Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte (Giannetaki E. & S. Metaforiki Ltd e Giannetakis c. Grecia, no 29829/05, §§ 15-19, 6 dicembre 2007; Mamidakis c. Grecia, no 35533/04, §§ 17 e 48, 11 gennaio 2007), le ricorrenti sostengono che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 è applicabile nella presente causa e che la Corte può esaminare una ingerenza nel diritto al rispetto dei beni sotto il profilo di questa disposizione anche se si tratta di una pena (Valico S.r.l. c. Italia (dec.), no 70074/01, CEDU 2006 ...; Phillips c. Regno Unito, no 41087/98, § 50, CEDU 2001 VII). In ogni caso, nulla impedisce che la Corte esamini un motivo di ricorso sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 quando tale motivo verte su una legislazione riguardante i diritti patrimoniali.
121. Per le ricorrenti, la situazione denunciata si traduce in una privazione di beni, che ricade nella seconda frase del primo comma, visto che la confisca è una pena inflitta a seguito dell’assoluzione degli imputati, al fine di privare le ricorrenti dei loro beni in maniera definitiva. Esse chiedono alla Corte di considerare la situazione denunciata come una espropriazione di fatto. Al riguardo, fanno notare che la presente causa si distingue da quelle in cui la Corte ha concluso che confisca derivava dalla regolamentazione dell’uso dei beni, poiché in questo caso non si tratta di una pena inflitta a dei terzi estranei a un processo penale che si è concluso con la condanna dei colpevoli. In effetti, si tratta di una pena applicata a seguito dell’assoluzione degli imputati (v., a contrario AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, serie A no 108; C.M. c. Francia (dec.), no 28078/95, CEDU 2001 VII). Non si tratta nemmeno di una misura cautelare patrimoniale (a contrario, Arcuri c. Italia (dec.), no 52024/99, CEDU 2001 VII), ma di una pena.
122. Per il Governo, visto che la Corte ha definito la confisca come una sanzione penale, non si può speculare sull’applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Affermare che anche il principio del rispetto del diritto di proprietà dovrebbe rientrare nel campo di valutazione della Corte sarebbe come pretendere di esaminare la detenzione regolare sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, poiché ad esempio la privazione della libertà impedisce al detenuto di guadagnarsi da vivere, impedendogli di continuare ad esercitare la sua professione. Si finirebbe con lo speculare sulla proporzionalità della risposta repressiva rispetto al reato commesso. D’altra parte, solo in materia di libertà di espressione la Convenzione si occupa di garantire un rapporto di proporzionalità tra reato e sanzione; per il resto, la misura della pena o la proporzionalità di quest’ultima rispetto al reato restano fuori dal campo di applicazione della Convenzione, in quanto si tratta di una materia che costituisce uno dei terreni prediletti della sovranità degli Stati contraenti.
123. Peraltro, il Governo osserva che si tratta di motivi di ricorso identici, e che ciò è dimostrato dalla circostanza che le ricorrenti riprendono sostanzialmente gli stessi argomenti già proposti sotto il profilo dell’articolo 7 della Convenzione. Il Governo rinvia alle considerazioni già fatte in questo capitolo.
2. Valutazione della Corte
124. Non vi sono elementi nella giurisprudenza della Corte che portino a ritenere che la presente causa debba essere esaminata unicamente dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione. I due diritti in questione hanno un oggetto diverso (cfr. Valico S.r.l. c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006 ...). Inoltre, nulla impedisce in linea di principio di esaminare un motivo di ricorso sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 quando tale motivo si riferisce a una legislazione riguardante i diritti patrimoniali (J.A. Pye (Oxford) Ltd e J.A. Pye (Oxford) Land Ltd c. Regno Unito, n. 44302/02, § 60). L’articolo 1 del Protocollo n. 1 tutela dei «beni», nozione che può includere sia dei «beni attuali» che dei valori patrimoniali, ivi compresi dei crediti, in virtù dei quali il ricorrente può pretendere di avere almeno una «speranza legittima» di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà. Invece, esso non garantisce un diritto a acquisire dei beni (Kopecký c. Slovacchia [GC], n. 44912/98, § 35, CEDU 2004-IX). Quando vi è una controversia sulla questione di stabilire se un ricorrente ha un interesse patrimoniale in base al quale egli può richiedere la protezione dell’articolo 1 del Protocollo no 1, la Corte è chiamata a definire la situazione giuridica dell’interessato (Beyeler c. Italia, già cit.).
125. Agli occhi della Corte, la confisca dei terreni e degli edifici controversi di cui le ricorrenti erano proprietarie ha costituito una ingerenza nel godimento del loro diritto al rispetto dei beni. Non si può che concludere che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 è applicabile. Resta da stabilire se questa situazione rientra nelle previsioni della prima o della seconda norma di tale disposizione.
126. L’articolo 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: «la prima, che si esprime nella prima frase del primo comma e riveste un carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, contenuta nella seconda frase dello stesso comma, riguarda la privazione della proprietà e la sottopone ad alcune condizioni; per quanto riguarda la terza, contenuta nel secondo comma, essa riconosce agli Stati il potere, tra l’altro, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale (...). Non si tratta per questo di norme prive di rapporto tra esse. La seconda e la terza riguardano degli esempi particolari di violazioni del diritto di proprietà; pertanto, esse devono essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima» (v., tra le altre, James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 37, serie A n. 98, e Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 55, CEDU 1999-II).
127. Le ricorrenti si sono chiaramente espresse sulla norma applicabile, chiedendo alla Corte di esaminare la causa sotto il profilo della «privazione dei beni».
128. La Corte osserva che la presente causa si distingue dalla causa Agosi c. Regno Unito (sentenza del 24 ottobre 1986, serie A n.108), in cui la confisca è stata disposta nei confronti di beni che costituivano l’oggetto del reato (objectum sceleris), a seguito della condanna degli imputati, perché nella fattispecie, invece, la confisca è stata disposta a seguito di una assoluzione. Per lo stesso motivo, la presente causa si distingue da C.M. c. Francia ([dec.], n. 28078/95, CEDU 2001 VII) o da Air Canada c. Regno Unito (sentenza del 5 maggio 1995, serie A n. 316 A), in cui la confisca, ordinata dopo la condanna degli imputati, aveva colpito dei beni che costituivano l’instrumentum sceleris e che si trovavano in possesso di terzi. Per quanto riguarda i proventi di un’attività criminale (productum sceleris), la Corte ricorda che ha esaminato una causa in cui la confisca aveva seguito la condanna del ricorrente (v. Phillips c Regno Unito, n. 41087/98, §§ 9-18, CEDU 2001-VII) nonché alcune cause in cui la confisca era stata disposta indipendentemente dall’esistenza di un procedimento penale, poiché il patrimonio dei ricorrenti era presumibilmente di origine illecita (v. Riela e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99,4 settembre 2001; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, 5 luglio 2001; Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, Serie A n. 281-A, § 29) o veniva presumibilmente utilizzato per attività illecite (Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002). Nella prima causa sopra citata, la Corte ha dichiarato che la confisca costituiva una pena ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Phillips, sentenza già cit., § 51, e, mutatis mutandis, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, serie A n. 307-A, § 35), mentre nelle altre cause ha affermato che si trattava della regolamentazione dell’uso dei beni.
129. Nella presente causa, la Corte ritiene che non sia necessario determinare se la confisca ricade nella prima o nella seconda categoria, poiché in ogni caso è il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 a trovare applicazione (Frizen c. Russia, n. 58254/00, § 31, 24 marzo 2005).
B. Sull’osservanza dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
130. Le ricorrenti sostengono che la confisca controversa non poggia su una «base legale» ai sensi della Convenzione. Al riguardo, rinviano agli argomenti esposti per la discussione sull’articolo 7 della Convenzione. Esse osservano poi che l’amministrazione ha tratto beneficio da una situazione illegale, mentre è necessario mantenere un certo grado di «sicurezza giuridica». Inoltre, esse indicano che non vi è alcun rimedio nazionale che possa far ottenere loro la restituzione dei beni confiscati, e pertanto la situazione è definitiva.
131. Nel caso in cui la Corte esaminasse il loro motivo sotto il profilo della proporzionalità, le ricorrenti osservano che il reato per il quale sono state perseguite e assolte era quello di «lottizzazione materiale», ossia implicava l’attività di costruzione. La sanzione inflitta sarebbe sproporzionata per i motivi seguenti. In primo luogo, la portata della sanzione: solo il 15% dei terreni confiscati era edificato. In secondo luogo, l’innocenza delle ricorrenti, dato che si deve tenere conto dell’«atteggiamento del proprietario, e in particolare del grado di colpa o di prudenza dallo stesso dimostrato» (Agosi, già cit., §§ 54-55 e 58-60); Air Canada, già cit., §§ 44-46). Inoltre, le procedure applicabili nella fattispecie non permettevano in alcun modo di tenere conto del grado di colpa o di prudenza delle ricorrenti o, almeno, del rapporto tra la condotta delle stesse e il reato in questione. In ultimo luogo, l’assenza totale di risarcimento non si può giustificare sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (N.A. e altri c. Turchia, n. 37451/97, CEDU 2005 X dell’11 ottobre 2005; Papachelas c. Grecia [GC], n. 31423/96, CEDU 1999 II). Le ricorrenti fanno notare per di più che le autorità nazionali non sono intervenute all’inizio dei lavori di costruzione, ma hanno aspettato a lungo, in modo che l’impatto della confisca che ne è derivato, ossia il danno subito, è molto importante.
132. Il Governo contesta le tesi delle ricorrenti e osserva che la confisca mirava a garantire «il buono e ben ordinato assetto del territorio, ambito in cui gli Stati godono di un largo margine discrezionale».
133. Nessun onere esorbitante può essere riconosciuto ad una confisca che colpisce sia le costruzioni che i terreni, edificati o meno. Infatti, la lottizzazione abusiva di un terreno presuppone una trasformazione urbanistica, nozione che riguarda la totalità del terreno e non solo la parte edificata. Non si tratta di un caso di semplice costruzione, ma di un progetto che implica anche delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (ai sensi della legge n. 847/1964 e della legge n. 865/1971). Se la confisca riguardasse soltanto la parte destinata a essere edificata, l’amministrazione sarebbe obbligata a seguire il progetto stabilito dal privato, e l’ordine urbanistico violato non potrebbe essere ristabilito poiché l’amministrazione diventerebbe proprietaria solo di una porzione del terreno e il privato resterebbe proprietario solo delle porzioni destinate all’urbanizzazione primaria e secondaria. Di conseguenza, la confisca era proporzionata.
134. Il fatto che lo stesso comune che aveva rilasciato i permessi illegittimi sia divenuto proprietario dei terreni non riveste alcuna importanza particolare: il patrimonio è infatti quello della collettività degli abitanti della città, e non quello degli amministratori responsabili della procedura amministrativa denunciata. Del resto, le circostanze della causa evidenziano nella fattispecie «che la posizione dell’individuo di fronte al potere non è stata certo quella di un privato schiacciato da uno Stato leviathan ma, piuttosto, quella di un privato che ha concluso un accordo contra legem (un accordo contra legem non essendo, ontologicamente, nient’altro che l’incontro tra una domanda volta a ottenere qualcosa di vietato e una risposta positiva a tale domanda) con un determinato settore dello Stato, che ha operato a scapito della legge e degli interessi della collettività.(...)», come avrebbero riconosciuto le giurisdizioni nazionali.
135. In conclusione, il Governo chiede alla Corte di rigettare il ricorso in quanto irricevibile e/o infondato.
136. La Corte ricorda che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, anzitutto e soprattutto, che un’ingerenza della pubblica autorità nel godimento del diritto al rispetto di beni sia legale: la seconda frase del primo comma di tale articolo autorizza una privazione di proprietà solo «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce agli Stati il diritto di regolamentare l’uso dei beni facendo entrare in vigore delle «leggi». Inoltre, la preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è inerente a tutti gli articoli della Convenzione (Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 58, CEDU 1999 II; Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Raccolta 1996 III). Ne consegue che la necessità di stabilire se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69, serie A n. 52; Ex-re di Grecia e altri c. Grecia [GC], n. 25701/94, § 89, CEDU 2000 XII) può farsi sentire solo quando è risultato che l’ingerenza in questione ha rispettato il principio della legalità e non era arbitraria.
137. La Corte ha appena constatato che il reato rispetto al quale la confisca è stata inflitta alle ricorrenti non aveva alcuna base legale ai sensi della Convenzione e che la sanzione inflitta alle stesse era arbitraria (paragrafi 114 e 118 supra). Questa conclusione la porta ad affermare che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni delle ricorrenti era arbitrario e che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
138. In linea di principio questa conclusione dispensa la Corte dall’esaminare se vi sia stata rottura del «giusto equilibrio» sopra evocato (paragrafo 136 supra; v., tra molte altre, Carbonara e Ventura c. Italia, n. 24638/94, § 62, CEDU 2000 VI). Tuttavia, tenuto conto della gravità dei fatti denunciati nella presente causa, la Corte ritiene opportuno fare alcune considerazioni sull’equilibrio che deve regnare tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, tenendo presente che ci deve essere un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Air Canada già cit., § 36).
139. La Corte osserva anzitutto che la buona fede e l’assenza di responsabilità delle ricorrenti non hanno potuto svolgere alcun ruolo (a contrario, Agosi, già cit., §§ 54-55 e 58-60; Air Canada, già cit., §§ 44-46) e che le procedure applicabili nella fattispecie non permettevano in alcun modo di tenere conto del grado di colpa o di imprudenza né, a dir poco, del rapporto tra la condotta delle ricorrenti e il reato controverso.
140. La Corte ritiene poi che la portata della confisca (85% di terreni non edificati), in assenza di un qualsiasi indennizzo, non si giustifica rispetto allo scopo annunciato, ossia mettere i lotti interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche. Sarebbe stato ampiamente sufficiente prevedere la demolizione delle opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e dichiarare inefficace il progetto di lottizzazione.
141. Infine, la Corte osserva che il comune di Bari – responsabile di avere accordato dei permessi di costruire illegali – è l’ente che è divenuto proprietario dei beni confiscati, il che è paradossale.
142. Tenuto conto di questi elementi, vi è stata rottura del giusto equilibrio e violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 anche per questo motivo.

IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

143. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno materiale
144.  Le ricorrenti hanno formulato le loro richieste basandosi su due perizie, realizzate nel 2007 dal Real Estate Advisory Group (REAG). La prima perizia ha stabilito il valore di mercato dei beni confiscati; la seconda perizia ha determinato i costi effettivamente sostenuti dalle ricorrenti fino alla confisca.
145. Le richieste delle ricorrenti si possono riassumere come segue:

SUD FONDI
terreno di 59.761 metri quadrati  Valore 2007: 260.200.000 EUR
volume di costruzione 289.803,656 metri cubi  Valore 2007: 14.200.000 EUR
Costi sostenuti fino alla confisca 92.267.508, 49 EUR + indicizzazio¬ne + interessi
TOTALE RICHIESTO 274.400.000 EUR

IEMA
un terreno di 2.717 metri quadrati,
un secondo terreno di 1.407 metri quadrati Valore 2007: 10.500.000 EUR
Volumi di costruzione rispettivi 13.585 / 13.559 metri cubi Valore 2007: 2.800.000 EUR
Costi sostenuti fino alla confisca 3.597.370, 51 EUR + indicizzazio¬ne + interessi
TOTALE RICHIESTO 13.300.000 EUR + 305.920,28 EUR per costi previsti

MABAR
un terreno di 13.077 metri quadrati,
un secondo terreno di 6.556 metri quadrati Valore 2007: 61.000.000 EUR
Volumi di costruzione 65.385/65.157,80 metri cubi Valore 2007: 4.200.000 EUR
Costi sostenuti fino alla confisca 10.550.579,12 EUR
TOTALE RICHIESTO  65.200.000 EUR

146. Le ricorrenti chiedono l’esonero fiscale sugli importi che la Corte accorderà loro.
147. Per il Governo, è fondamentale tenere conto del fatto che le ricorrenti hanno chiesto più o meno lo stesso importo a titolo di risarcimento a livello nazionale, così come a titolo dell’equa soddisfazione. Questa situazione impedisce di accordare qualsiasi importo a titolo dell’equa soddisfazione, poiché ciò porterebbe ad un risultato irragionevole, ingiusto e incompatibile con lo spirito della Convenzione e si tradurrebbe in una fortuna ingiustificata per le ricorrenti. Il Governo fa notare che la domanda di risarcimento presentata dalle ricorrenti a livello nazionale è tuttora pendente. Se la Corte accordasse una somma alle ricorrenti, queste potrebbero essere risarcite due volte.
148. Il Governo osserva poi che i criteri di indennizzo proposti dalle ricorrenti sono assolutamente sproporzionati e non sono afferenti alla presente causa, mentre la Corte ha sempre ritenuto che lo Stato interessato è libero di scegliere i mezzi di cui si avvarrà per uniformarsi ad una sentenza che lo riguarda. Inoltre, le ricorrenti chiedono una riparazione, quando invece non hanno rispettato la teoria delle «mani pulite». Pur ammettendo che è possibile nella fattispecie intravedere una mancanza di trasparenza nell’attività dell’amministrazione, se vi è co-responsabilità delle ricorrenti o dei terzi implicati nella procedura amministrativa, ciò è oggetto di procedimenti nazionali in corso e dunque il problema dovrà essere risolto in tale ambito nazionale.
149. La Corte considera che, nelle circostanze della causa, la questione dell’applicazione dell’articolo 41 non è matura per quanto riguarda il danno materiale, data la complessità della causa e l’eventualità che le parti trovino una forma di riparazione a livello nazionale. Pertanto, è opportuno riservare questa questione e fissare la procedura successiva tenendo conto di un eventuale accordo tra lo Stato convenuto e la ricorrente (articolo 75 § 1 del regolamento).

B. Danno morale
150. Le ricorrenti chiedono una somma a titolo del danno morale che avrebbero subito per il comportamento dello Stato. La società SUD FONDI chiede il versamento di 25.000.000 EUR, mentre le società IEMA e MABAR chiedono rispettivamente 4.000.000 EUR e 6.000.000 EUR.
151. Il Governo si oppone a che vengano accordate somme a questo titolo e riprende essenzialmente gli argomenti proposti per quanto riguarda il danno materiale.
152. La Corte ricorda che non si deve scartare in linea generale la possibilità di accordare una riparazione per il danno morale che le persone giuridiche sostengono di aver subito; ciò dipende dalle circostanze di ciascun singolo caso (Comingersoll c. Portogallo [GC], n. 35382/97, CEDU 2000-IV, §§ 32-35). La Corte non può dunque escludere, alla luce della propria giurisprudenza, che vi possa essere, per una società commerciale, un danno diverso da quello materiale che richieda una riparazione pecuniaria.
153. Nella presente causa, la mancanza di un quadro giuridico prevedibile per la confisca e il persistere di questa situazione devono aver cagionato, alle ricorrenti così come agli amministratori e ai soci delle stesse, dei disagi notevoli, quantomeno nella conduzione degli affari correnti delle società. Al riguardo, si può dunque ritenere che le società ricorrenti hanno subito una situazione che giustifica che venga accordato un indennizzo.
154. Deliberando equamente, come esige l’articolo 41, la Corte accorda a ciascuna ricorrente la somma di 10.000 EUR, ossia una somma totale di 30.000 EUR.

C. Spese
155. Con i documenti giustificativi a sostegno, le ricorrenti chiedono il rimborso delle spese sostenute nell’ambito del procedimento nazionale, che ammontano rispettivamente a 202.805,38 EUR per la società MABAR, 160.248, 34 EUR per la società IEMA e 221.130,94 EUR per la società SUD FONDI.
156. Esse chiedono anche il rimborso delle spese sostenute dinanzi alla Corte, che ammontano a 129.024 EUR per la società MABAR, a 55.296 EUR per la società IEMA e 197.202,48 EUR per la società SUD FONDI, inclusi i contributi sociali del 2%. Le ricorrenti chiedono inoltre il rimborso delle spese di perizia per l’importo di 12.500 EUR per MABAR, 6.500 EUR per IEMA e 26.500 EUR per SUD FONDI.
157. Secondo il Governo, a prescindere dall’infondatezza del petitum richiesto, le spese reclamate sono eccessive.
158. La Corte ricorda che l’attribuzione di somme per le spese a titolo dell’articolo 41 presuppone che siano dimostrate la realtà, la necessità e la ragionevolezza dell’importo delle stesse (Iatridis c. Grecia (equa soddisfazione) già cit., § 54). Inoltre, le spese di giustizia possono essere percepite solo nella misura in cui si riferiscono alla violazione constatata (Van de Hurk c. Olanda, sentenza del 19 aprile 1994, serie A n. 288, § 66).
159. La Corte ritiene che il procedimento penale nazionale riguardasse la responsabilità penale personale degli amministratori delle società ricorrenti. Tali spese non possono pertanto essere rimborsate. Quanto alle spese relative al procedimento dinanzi alla Corte, non sembrano esservi dubbi sulla necessità delle stesse né sul fatto che siano state effettivamente sostenute a questo titolo. Tuttavia, essa considera troppo elevati gli onorari totali rivendicati. Pertanto ritiene opportuno rimborsarli solo in parte.
160. Tenuto conto delle circostanze della causa, e deliberando equamente come esige l’articolo 41 della Convenzione, la Corte ritiene ragionevole accordare 30.000 EUR alla società SUD FONDI, 30.000 EUR alla società MABAR e 30.000 EUR alla società IEMA, per un totale di 90.000 EUR, per le spese sostenute dinanzi alla Corte.

D. Interessi moratori
161. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

1. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione;

2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1;

3. Dichiara

  1. che lo Stato convenuto deve versare alle ricorrenti, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la presente sentenza diventerà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, rispettivamente le somme seguenti
    (i) alla ricorrente SUD FONDI
    - 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale e 
    - 30.000 EUR (trentamila euro), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
    (ii) alla ricorrente IEMA:
    - 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale e
    - 30.000 EUR (trentamila euro), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
    (iii) alla ricorrente MABAR: 
    - 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale e
    - 30.000 EUR (trentamila euro), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
  2. che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;

4. Dichiara che la questione dell’articolo 41 della Convenzione non è matura per quanto riguarda il danno materiale; di conseguenza,

  1. si riserva tale questione;
  2. invita il Governo e le ricorrenti a informarla, entro sei mesi, di qualsiasi accordo al quale eventualmente giungano;
  3. si riserva la procedura e delega al presidente l’incarico di fissarla, se necessario;

5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatto in francese, e poi comunicato per iscritto il 20 gennaio 2009, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
 

 Sally Dollé 
 Cancelliere 

Françoise Tulkens
Presidente

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Trattasi di ricorso instaurato dalle tre sociètà ricorrenti a causa di una confisca di costruzioni e terreni, di cui esse erano proprietarie, in una zona di Bari denominata “Punta Perotti”.
Le società ricorrenti avevano iniziato a lottizzare a seguito di autorizzazioni rilasciate dalle autorità preposte all’esito di procedimenti amministrativi formalmente regolari.
In data 27 aprile 1996, a seguito della pubblicazione di un articolo di stampa relativo a lavori di costruzione in corso a “Punta Perotti”, il Procuratore della Repubblica di Bari aprì un’inchiesta penale, disponendo il sequestro conservativo di tutte le costruzioni.
All’esito dei vari gradi di giudizio, i rappresentanti delle tre società sottoposti a procedimento penale furono assolti dal reato di lottizzazione abusiva perché “il fatto non costituisce reato”, in quanto gli stessi erano stati indotti in errore dalla oscura formulazione delle leggi e dal comportamento degli amministratori pubblici che avevano rilasciato le autorizzazioni, provocando in tal modo un cattivo funzionamento dell’apparato ordinamentale.
Con la stessa sentenza il supremo giudice nazionale dispose la confisca dei terreni e delle costruzioni, pur in assenza di una condanna penale dei costruttori.
La Corte Edu ha, dunque, constatato la violazione degli articoli 7 e 1 Protocollo n. 1 della Convenzione in relazione all’applicazione da parte del giudice nazionale dell’istituto della confisca ed ha ravvisato la violazione del diritto al rispetto della proprietà, in quanto la confisca dei beni si rivelò una misura sproporzionata.
Di conseguenza, la Corte ha condannato lo Stato italiano a versare complessivamente alle tre società ricorrenti Euro 30.000 per il danno morale ed Euro 90.000 per le spese di procedimento, riservandosi di pronunciarsi sul danno materiale dopo sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, anche nell’eventualità che si possa giungere ad un accordo tra le parti.