Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 12 ottobre 2017 - Ricorso n. 26073/13 - Causa Cafagna contro Italia

© Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli affari di giustizia, traduzione eseguita da Rita Carnevali, assistente linguistico e rivista con la dott.ssa Martina Scantambrulo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA CAFAGNA c. ITALIA
(Ricorso n. 26073/13)

SENTENZA

STRASBURGO
12 ottobre 2017

 

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Cafagna c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:

  • Kristina Pardalos, presidente,
  • Guido Raimondi,
  • Aleš Pejchal,
  • Krzysztof Wojtyczek,
  • Ksenija Turković,
  • Pauliine Koskelo,
  • Tim Eicke, juges,
  • e da Abel Campos, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 12 settembre 2017,

Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1.  All’origine della causa vi è un ricorso (n. 26073/13) presentato contro la Repubblica italiana con cui un cittadino di questo Stato, il sig. Gaetano Cafagna («il ricorrente»), ha adito la Corte il 27 marzo 2013 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2.  Il ricorrente è stato rappresentato dall’avv. G.R. Cioce, del foro di Barletta. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, M. Aversano.
3.  Il 16 marzo 2016 il ricorso è stato comunicato al Governo.

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

4.  Il ricorrente è nato nel 1970 e risiede a Barletta.
5.  Il 3 giugno 1996, C.C., un cittadino italiano, sporse denuncia nei confronti del ricorrente affermando che, per strada, quest’ultimo gli si era avvicinato con un complice per chiedergli del denaro, e precisando che conosceva il complice. Dichiarò che aveva accettato, che aveva tirato fuori il suo portafoglio ma che il complice glielo aveva strappato dalle mani prima di fuggire con il ricorrente. Aggiunse che li aveva inseguiti e che il ricorrente gli aveva dato un pungo sul viso.
6.  Lo stesso giorno, al momento del deposito della sua denuncia, che fu ricevuta dal carabiniere L.R., C.C. indicò che uno dei due aggressori si chiamava L.D. e lo riconobbe da una fotografia. Per quanto riguardava il ricorrente, egli spiegò ai Carabinieri che lo conosceva di vista. Successivamente, il carabiniere L.R presentò a C.C. varie fotografie ai fini dell’individuazione e quest’ultimo individuò formalmente il ricorrente come il suo secondo aggressore.
7.  Il 13 settembre 1996 il pubblico ministero chiese di procedere ad una audizione di C.C. e a ricognizione personale nell’ambito di un incidente probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari di Trani («il GIP»), in quanto, per il trascorrere del tempo, la testimonianza del denunciante rischiava di non essere più attendibile al momento del dibattimento.
8.  Non fu possibile notificare una prima citazione a comparire a C.C. in quanto quest’ultimo non era più a casa dei suoi genitori.
9.  Una seconda citazione a comparire del 18 dicembre 1996 e una terza del 3 gennaio 1997 furono consegnate alla madre di C.C. Tuttavia, quest’ultimo non si presentò all’udienza per l’incidente probatorio del 15 gennaio 1997. Il giudice ordinò allora il suo accompagnamento coatto all’udienza fissata per il 27 gennaio 1997. Tuttavia, né C.C. né il ricorrente comparvero. Una nuova udienza si tenne il 28 gennaio 1997 alla quale erano presenti C.C. e il ricorrente, ma non era presente il sostituto procuratore che partecipava al dibattimento nell’ambito di un altro procedimento penale.
10.  Il 22 settembre 1997 si svolse un altro incidente probatorio nel corso del quale il giudice rilevò che C.C. non aveva ricevuto la notifica della citazione a comparire perché da due mesi non viveva più a casa dei suoi genitori.
11.  All’udienza preliminare del 16 giugno 1998, il ricorrente fu rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Trani («il tribunale») per aver rubato il portafogli di C.C. e per aver sferrato un pugno sul viso di quest’ultimo con il concorso di L.D.
12.  All’udienza del 27 maggio 2003, C.C. non si presentò. Nel corso di questa udienza fu rilevato che C.C. non aveva ricevuto la notifica della citazione a comparire al domicilio che aveva indicato alle autorità, ossia presso i suoi genitori.
13.  Il 3 giugno 2003 la polizia redasse un verbale di vane ricerche perché C.C. non era stato trovato al domicilio che aveva indicato alle autorità. Secondo questo verbale, i genitori di C.C. avevano dichiarato che il figlio non viveva più con loro da tre anni e non sapevano dove egli si trovasse.
14.  All’udienza del 6 dicembre 2004, fu sentito il carabiniere L.R. il quale riferì al tribunale come si era svolto il riconoscimento fotografico. Fu sentito anche L.D. il quale dichiarò che non conosceva la persona che lo aveva accusato. L’udienza doveva essere dedicata, tra l’altro, all’audizione di C.C. Il procuratore informò il tribunale che quest’ultimo aveva lasciato la casa familiare dal 2000 e che da allora era irreperibile. Indicò anche che a carico di C.C. era stato emesso un mandato d’arresto a seguito della sua condanna pronunciata nell’ambito di un altro procedimento penale.
15.  Sulla base dell’articolo 512 del codice di procedura penale (CPP), il giudice ordinò che la deposizione fatta da C.C. ai Carabinieri il 3 giugno 1996, (paragrafo 5 supra) fosse versata al fascicolo per il dibattimento, nonostante la richiesta della difesa di eseguire ulteriori ricerche.
16.  Con sentenza dell’11 aprile 2005, il tribunale condannò il ricorrente e L.D. a un anno e quattro mesi di reclusione. Considerò che la deposizione precisa e circostanziata fatta da C.C. ai Carabinieri fosse sufficiente a stabilire la colpevolezza del ricorrente e di L.D.
17.  Il tribunale precisò che la circostanza secondo la quale un testimone era divenuto irreperibile significava una «impossibilità oggettiva» di interrogarlo al momento del dibattimento, fatto che, ai sensi dell’articolo 512 del CPP, letto alla luce dell’articolo 111 della Costituzione, permetteva secondo il tribunale di utilizzare ogni deposizione resa prima del processo per statuire sulla fondatezza delle accuse. Il tribunale ritenne che, in assenza di elementi che permettessero di pensare che C.C. si fosse volontariamente sottratto al processo, l’assenza di costui non aveva alcun carattere di prevedibilità.
18.  Il tribunale considerò infine che la condanna del ricorrente, sebbene fondata principalmente sulle dichiarazioni di C.C., da lui ritenute credibili e concordanti, si basava anche su altri elementi provenienti dalla testimonianza del carabiniere L.R, che aveva riferito su come si era svolto il riconoscimento fotografico.
19.  Il ricorrente interpose appello avverso questa sentenza contestando la valutazione delle prove a carico e l’uso della deposizione di C.C., che, a suo avviso, era l’unico elemento di prova utilizzato dal tribunale. Inoltre, contestò al tribunale di non aver valutato attentamente le dichiarazioni fatte da C.C. al momento della presentazione della denuncia.
20.  Con sentenza del 25 maggio 2011, la corte d’appello di Bari («la corte d’appello») confermò la sentenza del tribunale. In particolare, osservò che l’assenza di C.C. al dibattimento non era prevedibile né probabile. Inoltre, considerò che non vi fosse, tra il ricorrente e C.C., alcuna animosità tale da far dubitare dell’attendibilità della dichiarazione di quest’ultimo. Peraltro, essa ritenne che le dichiarazioni di C.C., soprattutto quelle relative al riconoscimento del ricorrente, fossero precise e corroborate dalle dichiarazioni del testimone L.R. che aveva ricevuto la denuncia di C.C.
21.  Il ricorrente propose ricorso per cassazione. Sulla base della giurisprudenza della Corte, denunciò, in particolare, una violazione dell’articolo 6 della Convenzione.
22.  Con sentenza del 17 ottobre 2012, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente. Senza fare riferimento all’articolo 6 della Convenzione, l’alta giurisdizione espose che C.C., condannato in contumacia nell’ambito di un altro procedimento penale, era irreperibile, che questa irreperibilità non era prevedibile all’epoca in cui rese le sue dichiarazioni ai carabinieri e che, di conseguenza, il tribunale aveva legittimamente ammesso a titolo di prova le dichiarazioni di C.C. Aggiunse che il ricorrente aveva preso atto di questa ammissione senza opporvisi.

II.  IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

23.  Il diritto interno pertinente è descritto nella sentenza Ben Moumen c. Italia, (n. 3977/13, §§28-30, 23 giugno 2016).

IN DIRITTO

I.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 §§ 1 E 3 d) DELLA CONVENZIONE

24.  Il ricorrente ritiene che il procedimento penale condotto nei suoi confronti non sia stato equo. Invoca l’articolo 6 §§ 1 e 3 d), della Convenzione, così formulato nelle sue parti pertinenti:
«1.  Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (...)
3.  In particolare, ogni accusato ha diritto di:
(...)
d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
(...)»

A.  Sulla ricevibilità

25.  Il Governo sostiene che il ricorrente, non essendosi opposto durante il dibattimento alla lettura delle dichiarazioni controverse, non si è avvalso di un rimedio accessibile, adeguato ed efficace offerto nel diritto interno per escludere questo materiale probatorio dal fascicolo dibattimentale.
26.  Il ricorrente contesta questo argomento e sostiene che, anche se si fosse opposto alla lettura delle dichiarazioni di C.C., queste ultime sarebbero state comunque versate al fascicolo dibattimentale.
27.  Per quanto riguarda la possibilità per il ricorrente di opporsi alla lettura delle dichiarazioni controverse, la Corte rammenta che, secondo la sua giurisprudenza, né la lettera né lo spirito dell'art. 6 §§ 1 e 3 d), della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare volontariamente alle garanzie di un processo equo, in modo esplicito o tacito, ma che tale rinuncia deve essere inequivocabile e non deve essere in contrasto con alcun interesse pubblico importante (Håkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie A n. 171-A, e Kwiatkowska c. Italia (dec.), n. 52868/99, 30 novembre 2000).
28.  Nel caso di specie, la Corte rileva che le dichiarazioni controverse sono state utilizzate conformemente alla legge interna, ossia l'articolo 512 del CPP, che impone al giudice di ordinare la lettura e l’acquisizione agli atti delle dichiarazioni che non possono essere ripetute a causa di una impossibilità oggettiva debitamente dimostrata. Essa ritiene pertanto che una eventuale opposizione del ricorrente all’acquisizione agli atti dei verbali in questione avrebbe avuto poche possibilità di essere accolta. In ogni caso, il fatto che non sia stata sollevata alcuna eccezione formale durante il dibattimento non può essere interpretato come una rinuncia tacita al diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico (Craxi c. Italia, n. 34896/97, 5 dicembre 2002, Bracci c. Italia (dec.), n. 36822/02, 2 dicembre 2004, e Majadallah c. Italia (dec.), n. 62094/00, 19 maggio 2005).
29.  Ne consegue che l'eccezione preliminare basata sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne o su una rinuncia tacita al diritto invocato dinanzi alla Corte non può essere accolta favorevolmente.
30.  Constatando che questo ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a), della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B.  Sul merito

1.  Tesi delle parti

31.  Il ricorrente sostiene di essere stato condannato sulla base della deposizione fatta ai carabinieri da C.C., il denunciante, senza che quest’ultimo sia stato sentito nel corso del dibattimento. Egli sostiene che le autorità non hanno fatto alcuna ricerca per ritrovare C.C. in luoghi diversi dall'indirizzo di casa dei suoi genitori. Secondo il ricorrente, visto che quest’ultimo era assente alla maggior parte delle date fissate per l’incidente probatorio, già dal 1997 era prevedibile il rischio che egli si sottraesse al dibattimento.
32.  Inoltre, il ricorrente sostiene che, contrariamente agli argomenti addotti dal Governo in merito alla mancanza di carattere determinante delle dichiarazioni di C.C., la sua condanna era proprio basata su queste affermazioni. Egli aggiunge di essersi avvalso, durante il dibattimento, della facoltà di non rispondere.
33.  Il Governo considera che l’ammissione come mezzi di prova delle dichiarazioni fatte da C.C. ai Carabinieri era riconosciuta nel diritto interno. Ritiene che le disposizioni in questione siano state interpretate dai giudici interni in maniera conforme alla Convenzione. In particolare cita la sentenza n. 27918 pronunciata il 14 luglio 2011 dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, secondo la quale le dichiarazioni di un testimone assente devono essere valutate con ogni opportuna cautela, non solo conducendo un’indagine sulla credibilità sia soggettiva che oggettiva di quest’ultimo, ma anche ponendo in relazione la testimonianza con altri elementi emergenti presentati al dibattimento.
34.  Secondo il Governo, la presente causa è simile alla causa Ben Moumen c. Italia (n. 3977/13, 23 giugno 2016), nella quale la Corte ha concluso che non vi era stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione.
35.  Il Governo spiega che al fine di convalidare la prova principale a carico – vale a dire la testimonianza di C.C. –, il tribunale ha preso in considerazione altre prove, quali le dichiarazioni del carabiniere L.R. che aveva ricevuto la denuncia di C.C. e aveva eseguito la procedura di riconoscimento fotografico del ricorrente e del suo coimputato.
36.  Il Governo sostiene che, nelle circostanze della causa, non si può ritenere che la deposizione di C.C. abbia costituito la base unica o determinante della condanna del ricorrente. Precisa che quest’ultimo ha avuto peraltro la possibilità di interrogare il suo coimputato, che non lo ha fatto e che non ha neanche prodotto elementi utili per la sua difesa. Aggiunge che i giudici nazionali hanno valutato attentamente l’esistenza di eventuali relazioni tra C.C. e il ricorrente. Ritiene pertanto che l’ammissione della deposizione di C.C. sia stata controbilanciata da sufficienti garanzie procedurali.

2.  Valutazione della Corte

a)  Principi generali

37.  La Corte rammenta che le esigenze del paragrafo 3 dell’articolo 6, della Convenzione rappresentano degli aspetti particolari del diritto ad un processo equo garantito dal paragrafo 1 di questa disposizione. Nell'esaminare una doglianza basata sull’articolo 6, la Corte deve essenzialmente stabilire se il procedimento penale sia stato equo (si veda, tra molte altre, Taxquet c. Belgio [GC], n. 926/05, § 84, CEDU 2010). A tal fine, essa considera la procedura nel suo complesso e verifica che siano stati rispettati non solo i diritti della difesa, ma anche gli interessi del pubblico e delle vittime a che gli autori del reato siano debitamente perseguiti (Gäfgen c. Germania [GC], n. 22978/05, § 175, CEDU 2010] e, se necessario, i diritti dei testimoni (si vedano, tra molte altre, Doorson c. Paesi Bassi, 26 marzo 1996, § 70, Recueil des arrêts et décisions 1996-II e Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito[GC], nn. 26766/05 e 22228/06, § 118, CEDU 2011). La Corte rammenta inoltre che, in questo contesto, l'ammissibilità delle prove è disciplinata dalle norme del diritto interno e dalle giurisdizioni nazionali e che il suo unico compito è quello di stabilire se il procedimento sia stato equo (Gäfgen, sopra citata, § 162 e le sentenze ivi menzionate).
38.  L' articolo 6 § 3 d), sancisce il principio secondo cui, prima che un imputato possa essere dichiarato colpevole, tutti gli elementi a carico devono, in linea di principio, essere prodotti dinanzi a lui in pubblica udienza, ai fini di un dibattimento in contraddittorio. Questo principio non è privo di eccezioni, ma è possibile accoglierle soltanto fatti salvi i diritti della difesa; di norma, questi ultimi richiedono che all'imputato sia data una possibilità adeguata e sufficiente per contestare le testimonianze a carico e interrogarne gli autori, sia al momento della loro deposizione che in una fase successiva (Lucà c. Italia, n. 33354/96, § 39, CEDU 2001-II, e Solakov c. l’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 47023/99, § 57, CEDU 2001 X).
39.  Alla luce dei principi stabiliti nella sentenza della Grande Camera Al  Khawaja Tahery (sopra citata), la Corte deve successivamente valutare se l’impossibilità per la difesa di esaminare o far esaminare un testimone a carico fosse giustificata da seri motivi; se le deposizioni del testimone assente abbiano costituito la prova unica o determinante della colpevolezza del ricorrente; e, infine, se esistessero sufficienti elementi di compensazione per gli inconvenienti connessi all’ammissione di tale prova per consentire una valutazione corretta ed equa della sua attendibilità (Vronchenko c. Estonia, n. 59632/09, § 57, 18 luglio 2013).
40.  Questi principi sono stati esplicitati nella sentenza Schatschaschwili c. Germania (n. 9154/10, §§ 111-131, CEDU 2015), nella quale la Grande Camera ha confermato che l'assenza di un motivo serio che giustificava la mancata comparizione di un testimone non poteva, di per sé, rendere iniquo un processo, che, ciò premesso, la mancanza di un motivo serio che giustificava l'assenza di un testimone a carico costituiva un fattore importante per valutare l'equità complessiva di un processo, e che tale elemento poteva far pendere l’ago della bilancia in favore di una costatazione di violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d). Inoltre, dal momento che la Corte si preoccupa di garantire che il procedimento nel suo complesso sia stato equo, essa deve verificare se esistessero sufficienti elementi compensativi, non solo nelle cause in cui le dichiarazioni di un testimone assente costituivano il fondamento unico o determinante della condanna dell'imputato, ma anche nelle cause in cui ritiene difficile discernere se questi elementi costituissero la prova unica o determinante ma è tuttavia convinta che avessero un peso certo e che la loro ammissione potesse aver causato delle difficoltà alla difesa. La portata dei fattori compensativi necessari perché il processo sia considerato equo dipende dall’importanza che assumono le dichiarazioni del testimone assente. Quanto maggiore sarà questa importanza, tanto più solidi dovranno essere gli elementi compensativi affinché il procedimento nel suo complesso sia considerato equo.

b)  Applicazione di questi principi al caso di specie

i.  Sul punto di stabilire se l’assenza di C.C. al processo fosse giustificata da un motivo serio

41.  La Corte osserva che, nel caso di specie, la mancata comparizione di C.C., che ha indotto il tribunale ad ammettere le sue dichiarazioni come prove, era spiegata dalla impossibilità per le autorità di mettersi in contatto con lui. In effetti, queste ultime avevano più volte e invano tentato di notificargli l’atto di citazione a comparire presso il domicilio che aveva indicato (quello dei suoi genitori), ed egli non si era presentato né alle udienze per l’incidente probatorio, fatta eccezione per l’udienza del 28 gennaio 1997 che non si tenne per via dell’assenza del procuratore (si veda il paragrafo 9 supra), né all’udienza del 27 maggio 2003 che doveva essere dedicata alla sua audizione (paragrafo 12 supra).
42.  La Corte rammenta che, quando l’assenza del testimone si spiega con la ragione addotta nella presente causa, essa esige che il giudice del merito abbia fatto tutto ciò che era possibile attendersi da lui per garantire la comparizione dell’interessato (Gabrielyan c. Armenia, n. 8088/05, § 78, 10 aprile 2012, e Tseber c. Repubblica ceca, n. 46203/08, § 48 , 22 novembre 2012, e Kostecki c. Polonia, n. 14932/09, §§ da 6-66, 4 giugno 2013). L’impossibilità per i giudici nazionali di prendere contatti con il testimone in questione o il fatto che egli abbia lasciato il territorio del paese in cui si svolge il procedimento sono stati considerati insufficienti, di per sé, per soddisfare l’articolo 6 § 3 d), il quale esige che gli Stati contraenti adottino misure positive per consentire all’imputato di esaminare o far esaminare i testimoni a carico (Gabrielyan, sopra citata, § 81, Tseber, sopra citata, § 48, e Lučić c. Croazia, n. 5699/11, § 79, 27 febbraio 2014).
43.  Tali misure rientrano nella diligenza che gli Stati contraenti devono dispiegare per assicurare l’effettivo godimento dei diritti garantiti dall’articolo 6 della Convenzione (Gabrielyan, sopra citata, § 81), in caso contrario l’assenza del testimone è imputabile alle autorità interne (Tseber, sopra citata, § 48, Lučić, sopra citata, § 79, e Schatschaschwili, sopra citata, § 120).
44.  Affinché si possa ritenere che le autorità abbiano compiuto ogni ragionevole sforzo per assicurare la comparizione di un testimone, occorre anche che i giudici nazionali abbiano svolto un controllo minuzioso dei motivi addotti per giustificare l’impossibilità del testimone di assistere al processo tenendo conto della particolare situazione dell'interessato (Nechto c. Russia, n. 24893/05, § 127, 24 gennaio 2012, Damir Sibgatullin c. Russia, n. 1413/05, § 56, 24 aprile 2012, Yevgeniy Ivanov c. Russia, n. 27100/03, § 47, 25 aprile 2013, e Schatschaschwili, sopra citata, § 122).
45.  Va osservato che, nel caso di specie, i giudici interni si sono limitati a indicare che l’assenza di C.C. non era prevedibile e che le ricerche condotte per ritrovarlo erano state vane (paragrafi 10, 12 e 17 supra). Il tribunale ha escluso la possibilità di effettuare ulteriori ricerche. Nel 1997 e nel 1998, C.C. è stato citato a comparire in vista dello svolgimento dell’incidente probatorio destinato a ricevere la sua testimonianza e a procedere ad un riconoscimento del ricorrente. Si è presentato una sola volta per un’incidente probatorio che è stato rinviato a causa dell’assenza del sostituto procuratore. Successivamente, all’udienza del 22 settembre 1997, il giudice ha indicato che C.C., non vivendo più a casa dei suoi genitori, non aveva ricevuto la notifica della citazione a comparire. Alla fine, al processo nel 2003, ossia più di sei anni dopo i fatti, le sole ricerche condotte dalla polizia erano state quelle fatte a casa dei genitori di C.C.
46.   In queste circostanze, e anche tenendo conto del lungo periodo di tempo trascorso tra la commissione dei fatti e il processo, la Corte ritiene che il Governo non abbia dimostrato che i giudici italiani hanno fatto tutti gli sforzi che si potevano ragionevolmente attendere da loro per assicurare la comparizione di C.C. (si vedano i paragrafi 9 e 41 supra) (si veda, mutatis mutandis , Rudnichenko, sopra citata , §§ 105-109, in cui la Corte ha concluso che la restrizione apportata al diritto del ricorrente di far interrogare un testimone assente non si basava su alcun motivo, valido o meno, dopo aver osservato, in particolare, che non era stata adottata nessuna misura per fare in modo che il testimone in questione potesse comparire ed essere interrogato).
47.  Tuttavia, come osservato sopra (paragrafo 40 supra), anche se è un elemento importante per la valutazione dell'equità complessiva del processo, l'assenza di un motivo serio che giustifichi la mancata partecipazione di C.C. non costituisce di per sé una violazione dell'articolo 6 della Convenzione. La Corte esaminerà pertanto se la deposizione di C.C. fosse la base unica o determinante della condanna del ricorrente e se esistessero elementi compensativi sufficienti per controbilanciare le difficoltà che l'impossibilità di controinterrogare questo testimone ha causato alla difesa.

ii.  L’importanza della deposizione di C.C. per la condanna del ricorrente

48.  La Corte constata che i giudici nazionali hanno basato la condanna del ricorrente esclusivamente o almeno in misura determinante sulle dichiarazioni fatte da C.C. al momento del deposito della sua denuncia nel 1996.
49.  Se è vero, come riconosce il Governo, che il tribunale ha preso in considerazione le dichiarazioni del carabiniere L.R. che aveva ricevuto la denuncia di C.C. e aveva effettuato la procedura di riconoscimento fotografico del ricorrente e del suo coimputato al fine di convalidare la prova principale, la Corte rileva, tuttavia, che non è stato possibile eseguire alcun confronto diretto tra il ricorrente e il suo accusatore, né durante il processo né nella fase delle indagini preliminari. In particolare, nel corso di quest’ultima, C.C. non si è presentato all’incidente probatorio che si è svolto dinanzi al GIP in presenza degli avvocati della difesa. La Corte ribadisce che l’unicità della prova pesa molto sulla bilancia e richiede sufficienti elementi per compensare le difficoltà che la sua ammissione fa subire alla difesa (Al-Khawaja e Tahery, sopra citata, §161).

iii.  Garanzie procedurali per controbilanciare le difficoltà causate alla difesa

50.  La Corte rammenta ancora una volta che, in ogni causa in cui si pone il problema dell'equità del procedimento in rapporto alla deposizione di un testimone assente, si tratta di stabilire se esistano sufficienti elementi di compensazione per gli inconvenienti che la sua ammissione fa subire alla difesa, in particolare solide garanzie procedurali che consentano una valutazione corretta ed equa dell'attendibilità di una prova di questo tipo. L'esame di tale questione permette di verificare se la deposizione del testimone assente sia sufficientemente attendibile, tenuto conto della sua importanza nella causa, affinché possa essere pronunciata una condanna (Al-Khawaja e Tahery, sopra citata, § 147).
51.  La Corte rammenta anche che, in questo contesto, il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico costituisce una garanzia del diritto all’equità del procedimento, in quanto non solo mira alla parità delle armi tra accusa e difesa, ma fornisce anche alla difesa e al sistema giudiziario uno strumento essenziale di controllo della credibilità e dell’attendibilità delle deposizioni incriminanti e, di conseguenza, del fondamento dei capi d’accusa (Tseber, sopra citata, § 59, e Sică c. Romania, n. 12036/05, § 69, 9 luglio 2013).
52.  Nella presente causa, la Corte osserva che C.C., denunciante e testimone unico, è stato sentito dai carabinieri, ma non è mai comparso dinanzi ai giudici di merito. Né i giudici di merito né il ricorrente o il suo rappresentante hanno potuto quindi osservarlo durante la sua audizione per valutarne la credibilità e l’attendibilità della deposizione (Tseber, sopra citata, § 60, Sică, sopra citata, § 70, Vronchenko c. Estonia, n. 59632/09, § 65, 18 luglio 2013, e Rosin c. Estonia, n. 26540/08, § 62, 19 dicembre 2013).
53.  La Corte osserva, inoltre, che i giudici nazionali si sono fondati, oltre che sulle dichiarazioni controverse, sulla testimonianza del carabiniere L.R. che aveva riferito in tribunale, all’udienza del 6 dicembre 2004, sulle modalità di svolgimento del riconoscimento fotografico dell’interessato e del suo coimputato.
54.  La Corte rileva inoltre che la corte d' appello ha valutato attentamente la credibilità di C.C., osservando che costui non aveva motivo di accusare il ricorrente e che, prima dei fatti delittuosi, non lo conosceva. Questi elementi hanno indotto la corte d'appello a ritenere che C.C. non avesse interesse a deporre in quel modo e che le sue dichiarazioni fossero pertanto sufficientemente attendibili.
55.  Premesso ciò, la Corte deve rammentare che un siffatto esame non può da solo compensare l’assenza di interrogatorio del testimone da parte della difesa (Damir Sibgatullin c. Russia , n. 1413/05, § 57, 24 aprile 2012). In effetti, per quanto rigoroso possa essere, l’esame effettuato dal giudice di merito costituisce uno strumento di controllo imperfetto in quanto non consente di disporre degli elementi che possono emergere da un confronto in pubblica udienza tra l'imputato e il suo accusatore (Tseber, sopra citata, § 65, e Riahi c. Belgio, n. 65400/10, § 41, 14 giugno 2016).
56.  Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che il carattere determinante delle deposizioni di C.C., in assenza di confronto con il ricorrente in pubblica udienza, porta a concludere che i giudici interni, per quanto rigoroso sia stato il loro esame, non hanno potuto valutare correttamente ed equamente l'attendibilità di questa prova.
57.  Di conseguenza, considerando l’equità del procedimento nel suo complesso, la Corte ritiene che i diritti della difesa del ricorrente abbiano in tal modo subìto una restrizione incompatibile con le esigenze di un processo equo. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d), della Convenzione

II.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

58.  Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A.  Danno

59.  Il ricorrente chiede a titolo di danno materiale 200 euro (EUR) per ogni mese di detenzione, per un totale di 3.200 EUR per il periodo di un anno e quattro mesi che ha trascorso in carcere. Chiede inoltre 100.000 EUR per danno morale.
60.  Il Governo è del parere che le richieste del ricorrente siano eccessive e totalmente prive di fondamento.
61.  La Corte non scorge alcun nesso di causalità fra la violazione constatata e il danno materiale dedotto e respinge questa richiesta. Al contrario, essa ritiene che il ricorrente abbia subìto un danno morale certo, che la constatazione di violazione che figura nella presente sentenza (paragrafo 57 supra) non è sufficiente a riparare. La Corte rammenta che, quando conclude che la condanna di un ricorrente è stata pronunciata nonostante l’esistenza di una violazione delle esigenze di equità del procedimento, un nuovo processo o la riapertura del procedimento, su richiesta dell’interessato, rappresenta, in linea di principio, un mezzo appropriato per correggere la violazione constatata (si vedano, mutatis mutandis , Somogyi c. Italia, n. 67972/01, § 86, CEDU 2004  IV, Krasniki c. Repubblica ceca , n. 51277/99, § 93, 28 febbraio 2006, e Tseber, sopra citata, § 75). Tenuto conto delle circostanze della causa e decidendo in via equitativa, come richiede l’articolo 41 della Convenzione, decide tuttavia di concedere all’interessato la somma di 3.000 EUR.

B.  Spese

62.  Il ricorrente, producendo la documentazione giustificativa, chiede anche 10.080 EUR di rimborso per le spese affrontate dinanzi alle giurisdizioni interne, e 4.920 EUR di rimborso per quelle affrontate dinanzi alla Corte.
63.  Il Governo contesta queste richieste sostenendo che la prova relativa alle spese effettivamente sostenute non è stata presentata.
64.  Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti di cui dispone e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la somma di 10.000 EUR per tutte le spese e l’accorda al ricorrente.

C.  Interessi moratori

65.  La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,

  1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara, con sei voti contro uno, che vi è stata violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione;
  3. Dichiara, con sei voti contro uno,
    1. che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
      1. 3.000 EUR (tremila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per danno morale,
      2. 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto dal ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
    2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Respinge, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 12 ottobre 2017, in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Abel Campos  
Cancelliere    

Kristina Pardalos
Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Wojtyczek.
K.P.
A.C.

OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK

  1. Non sono convinto dalla posizione della maggioranza nella presente causa.
  2. Il ricorrente fu rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Trani il 16 giugno 1998. Secondo il Governo, il suo processo cominciò il 27 maggio 2001 con lo svolgimento della prima udienza. Osservo incidentalmente che la maggioranza, nell’accertare i fatti, omette completamente gli sviluppi che hanno avuto luogo fra il 16 giugno 1998 e il 27 maggio 2003, data della prima udienza menzionata nella parte «circostanze del caso di specie» della sentenza.
    Comunque sia, si può constatare, nella presente causa, un ritardo nel giudicare il ricorrente, fatto che sembra in contraddizione con il diritto a un processo entro un termine ragionevole. Tuttavia, il ricorrente non ha presentato doglianze relative alla durata del procedimento. La Corte, pertanto, non era competente a esaminare la questione della durata del procedimento ed ha giustamente deciso di non esaminare tale questione.
  3. Il ricorrente lamenta la mancanza di equità del procedimento condotto nei suoi confronti perché il testimone chiave della causa non è stato sentito durante il dibattimento. La maggioranza constata, giustamente, che «C.C: denunciante e testimone unico, è stato sentito dai carabinieri, ma non è mai comparso dinanzi ai giudici di merito» (paragrafo 52, il grassetto è aggiunto).
    La dedotta mancanza di equità del processo dovuta alla mancata audizione del testimone dinanzi al giudice di merito deve essere valutata in primo luogo alla luce degli eventi verificatisi dopo l’inizio del processo. Ora, nella motivazione della sentenza, al paragrafo 45 la maggioranza prende in esame la fase istruttoria, che è durata fino al 16 giugno 1998. Il giudice delle indagini preliminari non è il giudice di merito. La motivazione della sentenza non spiega per quale motivo le fasi pre-processuali sarebbero pertinenti per valutare la doglianza del ricorrente quando il paragrafo 52 pone l’accento sulla comparizione del testimone dinanzi al giudice di merito. È possibile che la motivazione si basi implicitamente sull’idea che l’audizione del testimone prima del processo dinanzi a un giudice, in presenza dell’imputato, avrebbe rimediato al problema dell’assenza di audizione del testimone durante il processo dinanzi al giudice di merito. Se così fosse, questa considerazione avrebbe dovuto essere spiegata nel contesto di un’analisi dettagliata del procedimento penale italiano e in particolare di un’analisi della logica e della sequenza delle sue differenti fasi.
  4. All'udienza del 6 dicembre 2004, il procuratore informò il tribunale che il testimone C.C. aveva lasciato la casa familiare dal 2000 e che da allora era irreperibile. Indicò anche che era stato emesso un mandato di arresto nei confronti di C.C. a seguito della sua condanna in contumacia in un altro procedimento penale. Queste affermazioni non sono state contestate dal ricorrente. Non è quindi esatto affermare che «alla fine, al processo nel 2003, ossia più di sei anni dopo i fatti, le sole ricerche condotte dalla polizia erano state quelle fatte a casa dei genitori di C.C.» (paragrafo 45 in fine).
    Se, per diversi anni, le autorità italiane hanno tentato invano di localizzare e arrestare C.C. per incarcerarlo a seguito di una condanna penale in un’altra causa, è difficile contestare loro di non aver potuto assicurare la sua comparizione come testimone. È difficile ragionevolmente aspettarsi ancora più diligenza da parte dell’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale la persona ricercata deve testimoniare.
    Nella presente causa, vi era un ostacolo oggettivo all’audizione del testimone. Il giudice aveva l’obbligo di decidere sulla base delle prove disponibili, e soprattutto della testimonianza di C.C., raccolta prima del processo, valutate alla luce del principio della libera valutazione delle prove. I giudici italiani dei diversi gradi di giudizio hanno esaminato attentamente tale questione. Non vedo una ragione sufficiente per dissociarmi dalle loro conclusioni.
  5. Al paragrafo 50, la Corte «rammenta ancora una volta che, in ogni causa in cui si pone il problema dell'equità della procedura in rapporto alla deposizione di un testimone assente, si tratta di stabilire se esistano sufficienti elementi di compensazione per gli inconvenienti che la sua ammissione fa subire alla difesa, in particolare solide garanzie procedurali che consentano una valutazione corretta ed equa dell'attendibilità di una prova di questo tipo».
    Nel caso di specie il governo italiano, nelle sue osservazioni scritte, ha presentato un certo numero di elementi che, a suo parere, compensavano gli inconvenienti subìti dalla difesa. La Corte era tenuta ad applicare il test enunciato al paragrafo 50, nel valutare se gli elementi messi in evidenza dal Governo erano pertinenti e sufficienti. Ora, la maggioranza ha deciso di non rispondere agli argomenti del Governo. Essa si limita ad affermare al paragrafo 55 che « per quanto rigoroso possa essere, l’esame effettuato dal giudice di merito costituisce uno strumento di controllo imperfetto in quanto non consente di disporre degli elementi che possono emergere da un confronto in pubblica udienza tra l'imputato e il suo accusatore». Il test enunciato non è stato applicato dalla Corte.
    È evidente che, in assenza di audizione di un testimone in pubblica udienza non si può disporre di elementi che possono emergere da un confronto fra l’imputato e il suo accusatore. Tuttavia, secondo la metodologia indicata al paragrafo 50, la questione da esaminare era quella di stabilire se vi fossero elementi che avevano sufficientemente compensato gli inconvenienti che la sua ammissione aveva fatto subire alla difesa.
  6. La presente causa consente di trarre un insegnamento più generale. L’equità del processo penale può essere valutata solo nel contesto di tutte le norme che disciplinano la procedura penale, e in particolare dei principi fondamentali che definiscono il modello di procedura penale scelto. La maggioranza fa riferimento ai principi stabiliti nella sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], nn. 26766/05 e 22228/06, CEDU 2011, cui è allegata l’esposizione dell’opinione concordante del giudice Bratza e dell’opinione in parte concordante e parzialmente dissenziente dei giudici Sajó e Karakaş). Osservo, a questo riguardo, che i principi relativi all’audizione dei testimoni sono stati enunciati in questa causa nel contesto di un processo fondato sui principi del contraddittorio e del ruolo limitato del giudice. I principi del processo equo, elaborati per procedimenti penali di questo tipo, sono difficilmente applicabili ai procedimenti penali fondati sul ruolo attivo del giudice, con forti elementi inquisitori nella fase del processo. A mio avviso, la questione dell’equità del processo penale deve essere rivisitata dalla Corte alla luce dei principi fondamentali dei diversi procedimenti penali. Rilevo, in questo contesto, che il ruolo attivo del giudice è di per sé un elemento che può compensare talune forme di disparità delle armi tra le parti, fatto che è stato messo in evidenza molto giustamente nella sentenza Regner c. Repubblica ceca [GC], n. 35289/11, § 152, 19 settembre 2017, cui è allegata l’opinione concordante del giudice Wojtyczek l’opinione parzialmente dissenziente comune ai giudici Raimondi, Sicilianos, Spano, Ravarani e Pastor Vilanova, l’opinione parzialmente dissenziente comune ai giudici Lazarova Trajkovska e López Guerra, l’opinione parzialmente dissenziente del giudice Serghides e l’opinione dissenziente del giudice Sajó). Sebbene questa ultima sentenza riguardi la procedura del contenzioso amministrativo, le considerazioni esposte nella sua motivazione conservano la loro pertinenza per altre procedure.
    Va ricordato che la parità delle armi e il rispetto dei diritti delle parti non sono la finalità ultima del diritto ma lo strumento che serve, da una parte, la dignità e l’autonomia individuale e, dall’altra, la verità e la giustizia sostanziale. La questione fondamentale è sapere se le norme procedurali, previste come un sistema e applicate nel caso di specie, possano portare, nel rispetto della dignità umana, a una decisione basata sulla verità e ad evitare gli errori giudiziari.