Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 31 maggio 2016 - Ricorso n. 46190/13 - Giuseppe Castro e Graziella Lavenia c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale degli affari giuridici e legali traduzione traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico, e rivista con la dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

DECISIONE
Ricorso n. 46190/13
Giuseppe CASTRO e Graziella LAVENIA
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita il 31 maggio 2016 in una camera composta da:
Mirjana Lazarova Trajkovska, presidente,
Ledi Bianku,
Guido Raimondi,
Linos-Alexandre Sicilianos,
Paul Mahoney,
Aleš Pejchal,
Robert Spano, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 13 luglio 2013,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,
Dopo avere deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

  1. I ricorrenti, sig. Giuseppe Castro e sig.ra Graziella Lavenia, sono cittadini italiani nati rispettivamente nel 1960 e nel 1964 e residenti a Catania. Sono rappresentati dinanzi alla Corte dall’avv. V. Pirrone, del foro di Catania.
  2. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora
  3. I fatti di causa, così come sono stati esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.
    1. Il decesso del figlio dei ricorrenti
  4. I ricorrenti sono i genitori del sig. Carmelo Castro, nato il 13 agosto 1989 e morto il 28 marzo 2009 durante la sua detenzione.
  5. Il 24 marzo 2009 Carmelo Castro fu arrestato, interrogato e sottoposto a fermo. Fu rinchiuso nel penitenziario di Catania, dove è stato messo in una cella d’isolamento (n. 9) nel settore «Nicito» del carcere. Durante il suo interrogatorio, il figlio dei ricorrenti manifestò la sua intenzione di collaborare con le autorità e rese delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni suoi coimputati.
  6. Il 27 marzo 2009, alle ore 9.30, Carmelo Castro partecipò ad un’udienza dinanzi al giudice per le indagini preliminari (il «GIP») di Catania. Con ordinanza del medesimo giorno, il GIP sottopose il figlio dei ricorrenti a custodia cautelare e ordinò il suo internamento in isolamento «per ragioni di giustizia».
  7. Secondo i ricorrenti, durante la sua permanenza nel penitenziario di Catania – dal 24 al 28 marzo 2009 –, il loro figlio ha manifestato al personale dell’istituto penitenziario la sua difficile situazione, dovuta al fatto che si trattava della sua prima esperienza di privazione della libertà e alla specificità delle condizioni materiali del settore «Nicito», nonché il timore di subire ritorsioni per le dichiarazioni rese agli inquirenti.
  8. Gli elementi di seguito esposti risultano dai documenti prodotti dal Governo dinanzi alla Corte.
    Il 25 marzo 2009 Carmelo Castro aveva avuto un colloquio con la psicologa del carcere di Catania, A., che fece un’annotazione nel registro del servizio dei nuovi giunti. Secondo questa annotazione, il figlio dei ricorrenti era alla sua prima esperienza in carcere, egli sosteneva che i suoi complici lo avevano costretto a commettere il reato che gli era contestato e aveva il timore di ritorsioni a causa delle sue dichiarazioni alla polizia. Sempre secondo tale annotazione, occorreva prevedere nuovi colloqui e, inoltre, il detenuto era in grado di far fronte alla situazione e alle condizioni della detenzione.
    Lo stesso giorno, Carmelo Castro fu sottoposto a visita medica. Il medico che aveva effettuato la visita indicò che il paziente non aveva mostrato alcun proposito autolesionistico.
  9. Il 26 marzo 2009 il figlio dei ricorrenti ebbe un colloquio con una educatrice del carcere, B. autrice del documento contenente la seguente annotazione:
    «Soggetto alla prima esperienza privativa della libertà. Vive con i suoi genitori in Italia da circa 4 anni. Ha trascorso la sua gioventù in Germania. Appare molto provato dalla detenzione e dai fatti esposti alla collega psicologa, che egli conferma. Si segnala [il soggetto] all’educatrice del settore [del penitenziario] per controllo costante delle sue condizioni [di detenzione]. Mi informerò per sapere se l’alta sorveglianza è già stata disposta.»
  10. B. riassunse i punti essenziali del suo colloquio con Carmelo Castro in una nota del 1º aprile 2009. La stessa riteneva che, sebbene provato, costui sembrava in grado di adattarsi al regime carcerario e precisava che la psicologa del carcere condivideva questa opinione. Aggiungeva di essere stata informata verbalmente dall’amministrazione che, essendo posto in isolamento per ragioni di giustizia, il figlio dei ricorrenti era de facto sottoposto al regime di alta sorveglianza. Indicava altresì che il nome del giovane figurava in un elenco di persone la cui situazione sarebbe stata affrontata in una riunione del gruppo degli educatori in data 27 marzo 2009. A questo proposito, affermava che, all’esito di tale riunione, era stato deciso che Carmelo Castro doveva essere segnalato al consulente in psichiatria e che doveva essere preso in carico dall’educatore della sezione «sorveglianza e supporto».
  11. Sempre il 26 marzo 2009, Carmelo Castro fu sottoposto a visita medica. Lo stesso giorno ebbe un nuovo colloquio con A., la quale, in una nota del 2 aprile 2009, indicò che tale colloquio non consentiva di presumere che il figlio dei ricorrenti avesse l’intenzione di porre fine ai suoi giorni. Il 27 marzo 2009, Carmelo Castro fu sottoposto ad un altro controllo medico ed ebbe un colloquio con l’educatore responsabile del suo monitoraggio.
  12. Il 28 marzo 2009, verso le ore 8.30, Carmelo Castro fu esaminato dalla psichiatra del carcere, C., alla quale comunicò che soffriva di insonnia. C. gli prescrisse del «Lorazepam bed/time», un medicinale utilizzato per il trattamento dell’ansia associata a disturbi del sonno.
  13. Il figlio dei ricorrenti fu poi ricondotto nella sua cella. Rinunciò alla passeggiata nel cortile del carcere. Tre agenti penitenziari controllarono regolarmente il detenuto, senza rilevare nulla di anormale. Verso le ore 12.20, un agente penitenziario scoprì che il figlio dei ricorrenti si era impiccato con le lenzuola. Diede l’allarme e avvertì il medico di guardia. All’arrivo di quest’ultimo, aprì la cella. Molti funzionari e agenti penitenziari si recarono sul posto. Carmelo Castro fu slegato e trasportato dapprima all’infermeria del carcere, dove fu messo in atto un tentativo di rianimazione, poi al pronto soccorso dell’ospedale di Catania. Il trasporto fu effettuato con un’autovettura di servizio, e non in ambulanza.
  14. Inoltre, risulta da un certificato firmato da un medico dell’ospedale di Catania che il figlio dei ricorrenti era arrivato al pronto soccorso alle 12.30 e a quell’ora era già morto.
    1. L’apertura dell’indagine preliminare e la prima decisione di archiviazione
  15. Per il decesso di Carmelo Castro fu aperta un’indagine preliminare contro ignoti.
  16. Con ordinanza del 27 luglio 2010, il GIP di Catania decise di archiviare il caso.
  17. Il GIP rilevò anzitutto che la tesi dei ricorrenti, secondo cui il decesso del loro figlio era dovuto all’azione volontaria di terzi, non si basava su alcun elemento oggettivo dato che il ragazzo era stato messo in cella d’isolamento, che non aveva ingerito nessuna sostanza tossica e che sul suo corpo o sui suoi indumenti non era stata trovata nessuna traccia di aggressione. Il GIP rilevava che l’assenza di macchie ipostatiche sulle estremità del corpo del figlio dei ricorrenti si spiegava con il fatto che l’impiccagione era stata di breve durata.
  18. Quanto alla questione se potesse essere imputata una negligenza al personale del penitenziario, il GIP osservava che il regime di isolamento era stato adottato per motivi di giustizia, e non a seguito di comportamenti preoccupanti del detenuto. Notava che, in ogni caso, Carmelo Castro era stato oggetto di una costante attenzione da parte dell’educatrice, della psicologa e della psichiatra del carcere, non aveva manifestato alcun proposito autolesionistico e, il 28 marzo 2009, nel corso del suo colloquio con la psichiatra, era apparso più sereno e più tranquillo che al momento del suo arrivo in carcere. Il GIP osservava anche che al giovane era stato prescritto un medicinale, il Lorazepam, per trattare unicamente l’insonnia. Inoltre, riteneva che, a causa dell’assenza di sintomi significativi di sofferenza psichica, l’intervallo inferiore a tre ore tra la visita con la psichiatra e il controllo in cella non poteva essere considerato eccessivo. Per quanto riguarda le guardie carcerarie rilevava che queste avevano avuto contatti molto brevi con il figlio dei ricorrenti, limitati alla consegna dei pasti, e che essi non avevano quindi disposto di elementi chiari e univoci per valutare lo stato mentale di quest’ultimo.
  19. Il GIP riteneva infine che le affermazioni dei ricorrenti in merito a negligenze e ritardi nei soccorsi non si basassero su alcun elemento oggettivo. In proposito osservava che l’ora esatta del decesso rimaneva sconosciuta, che le operazioni di pronto soccorso, compreso il tentativo di rianimazione e il trasporto, erano durate circa dieci minuti e le tecniche di rianimazione erano state giustamente messe in atto prima di stabilire se Carmelo Castro fosse ancora in vita. Il GIP riteneva che la decisione di eseguire tali tecniche nell’infermeria del carcere e la scelta di trasportare il figlio dei ricorrenti all’ospedale civile, che si trovava a poche centinaia di metri di distanza, utilizzando a tal fine un’autovettura di servizio, e non un’ambulanza, fossero state corrette e ragionevoli.
    1. L’istanza di riapertura delle indagini
  20. In una memoria del 31 dicembre 2010, inviata alla procura di Catania, la ricorrente espresse dubbi quanto alle circostanze che hanno accompagnato il decesso di suo figlio e chiese nuove indagini, più approfondite, per determinare le eventuali responsabilità del personale e del medico del carcere.
  21. La ricorrente affermava, in particolare, che alcuni dei verbali dei colloqui sostenuti dal figlio erano manoscritti e illeggibili. In particolare indicava che, il 25 marzo 2009, il figlio aveva avuto un colloquio con la psicologa del carcere (paragrafo 8 supra) e che dal relativo verbale, che qualificava «quasi incomprensibile», si poteva dedurre che quest’ultimo aveva segnalato i suoi timori di ritorsioni e aveva affermato che i suoi coimputati lo avevano minacciato e costretto a commettere crimini. La ricorrente faceva altresì presente che, il 26 marzo 2009, suo figlio si era intrattenuto con una educatrice. Aggiungeva che quest’ultima lo aveva descritto come molto provato dalla detenzione e che necessitava di un controllo costante delle sue condizioni di detenzione e aveva segnalato che era opportuno verificare se il regime di altissima sorveglianza fosse già stato disposto (paragrafo 9 supra). La ricorrente indicava inoltre che, lo stesso giorno, suo figlio aveva avuto un secondo colloquio con la psicologa (paragrafo 11 supra) e che il verbale di tale incontro non figurava tra i documenti del fascicolo. Secondo la ricorrente, lo stesso discorso valeva per quanto riguardava il verbale di una riunione del personale di accoglienza, svoltasi il 27 marzo 2009, nel corso della quale era stato discusso il caso di suo figlio (paragrafo 10 supra), e del verbale della visita psichiatrica del 28 marzo 2009, giorno del decesso (paragrafo 12 supra). La ricorrente sosteneva anche che le registrazioni delle telecamere di sorveglianza erano introvabili. In tali circostanze, riteneva che fosse indispensabile interrogare le persone che avevano avuto contatti con il figlio all’interno del carcere.
  22. Secondo la ricorrente, rimaneva un’incertezza per quanto riguardava il reale stato fisico e mentale di suo figlio, ed esistevano delle contraddizioni tra l’ora del trasporto all’ospedale e l’ora del decesso. In particolare, la ricorrente affermava che il corpo del figlio presentava macchie ipostatiche e riteneva che ciò facesse pensare che, quando quest’ultimo era stato scoperto dall’agente penitenziario il 28 marzo 2009, verso le ore 12.20, egli fosse già deceduto. Ora, secondo la ricorrente, il medico del carcere aveva indicato che suo figlio si trovava in «stato di incoscienza» e «di arresto cardio-circolatorio» e che erano state tentate delle tecniche di rianimazione. Inoltre, a suo avviso, da un lato tali tecniche erano state interrotte senza spiegazione e dall’altro il trasporto al pronto soccorso dell’ospedale era stato effettuato con dei «mezzi ordinari», e non in ambulanza, e quindi senza assistenza medica e senza aiuto cardio-circolatorio e respiratorio. Inoltre, sempre a suo avviso, dal fascicolo non emergeva che il personale del carcere avesse sottoposto il figlio al controllo attento e costante che il suo stato avrebbe richiesto. Tenuto conto di tali elementi, la ricorrente riteneva che fosse opportuno richiedere la produzione di un registro dove era indicato se suo figlio era stato sottoposto al regime di alta sorveglianza.
  23. La ricorrente indicava anche che gli inquirenti avevano scartato l’ipotesi di un omicidio senza ordinare l’applicazione dei sigilli alla cella e il sequestro delle lenzuola utilizzate per l’impiccagione e senza rilevare la presenza di impronte digitali. Infine, sosteneva che le autorità incaricate dell’inchiesta non avevano esaminato la questione se, al momento dell’arresto, suo figlio avesse subìto violenze da parte dei carabinieri. Ora, in una fotografia scattata al suo arrivo al penitenziario di Catania, il giovane sarebbe apparso sofferente e con il viso gonfio.
  24. Il 17 gennaio 2011 il pubblico ministero accolse la richiesta della ricorrente e riaprì le indagini. In particolare, ordinò agli investigatori di misurare gli oggetti che erano stati usati per l’impiccagione, di raccogliere informazioni sullo stato fisico e mentale di Carmelo Castro e di stabilire se le misure di vigilanza adottate erano state adeguate.
    1. La seconda decisione di archiviazione
  25. Il 26 settembre 2012, il pubblico ministero di Catania richiese l’archiviazione dell’indagine che era stata riaperta relativamente al decesso del figlio dei ricorrenti.
  26. Il pubblico ministero osservava che le nuove indagini non avevano consentito di individuare alcun elemento in grado di contraddire le conclusioni alle quali era pervenuto il GIP di Catania nella sua ordinanza del 27 luglio 2010 (paragrafi 16-19 supra). Indicava che le verifiche effettuate nella cella e sulle lenzuola avevano confermato l’ipotesi del suicidio. Rilevava, peraltro, che non era possibile ravvisare alcuna colpa o negligenza a carico del personale penitenziario. A tal fine il procuratore osservava che, secondo il fascicolo, il figlio dei ricorrenti non poteva essere considerato un «soggetto a rischio immediato» e che non era stato necessario sottoporlo al regime di alta sorveglianza. Aggiungeva che l’agente penitenziario intervenuto nella cella e il medico del carcere avevano avuto un comportamento corretto e adeguato. Più in particolare, rilevava che un arresto cardio-circolatorio non implicava necessariamente il decesso del paziente, e riteneva pertanto che il medico avesse giustamente disposto il trasporto del giovane all’infermeria per tentare di rianimarlo. Precisava che, visto l’insuccesso di tale tentativo, Carmelo Castro era stato trasferito al pronto soccorso dell’ospedale civile con il mezzo di trasporto – nella fattispecie un’autovettura di servizio – che era immediatamente disponibile: aspettare l’arrivo di un’ambulanza avrebbe a suo avviso comportato una perdita di tempo prezioso.
  27. Il procuratore osservava inoltre che l’ora del decesso e l’ora in cui si era attivato il personale del carcere potevano essere ricostruite soltanto in base alle testimonianze dei soggetti intervenuti, dal momento che le telecamere di sorveglianza del settore «Nicito» erano fuori servizio dal mese di settembre 2008. Osservava inoltre che, per quanto riguardava l’ora del decesso, appariva una incongruenza tra il certificato di morte del pronto soccorso (che indicava 12.30) e il rapporto del medico di guardia presso l’istituto penitenziario (che indicava 12.35). A tale riguardo, rilevava tuttavia che, secondo il medico di guardia, l’ora da lui indicata si riferiva al momento della compilazione dell’atto, e non al momento della constatazione dell’arresto cardio-circolatorio. Infine, secondo il pubblico ministero, l’indisponibilità di «dati certi» riguardo l’ora del decesso e l’ora in cui fu soccorso rendeva impossibile stabilire un nesso di causalità tra un’eventuale condotta negligente del personale penitenziario e la morte del figlio dei ricorrenti.
  28. Il 5 novembre 2012 i ricorrenti proposero opposizione alla richiesta di archiviazione del procuratore.
    Il 9 gennaio 2013 si tenne un’udienza in camera di consiglio dinanzi al GIP di Catania.
  29. Con ordinanza del 14 gennaio 2013, notificata all’avvocato dei ricorrenti l’8 febbraio 2013 il GIP di Catania ordinò l’archiviazione dell’indagine relativa al decesso di Carmelo Castro.
  30. Il GIP confermava in sostanza le conclusioni contenute nell’ordinanza del 27 luglio 2010 (paragrafi 16-19 supra), che considerava logiche e basate su elementi pertinenti. Riteneva inoltre che dalle nuove indagini disposte dal pubblico ministero non era emerso nessun elemento nuovo in grado di confutare le conclusioni in questione. Osservava così che gli esami medico-legali avevano confermato la corrispondenza tra le lenzuola utilizzate per l’impiccagione e le tracce trovate nella regione cervicale del corpo di Carmelo Castro, che le tracce biologiche rilevate nella cella avevano potuto appartenere a diversi soggetti, e non necessariamente ad eventuali assassini, e che, inoltre, i periti avevano dimostrato che una persona poteva suicidarsi per impiccagione attaccando le lenzuola a un punto situato a un’altezza inferiore alla sua statura.
  31. Il GIP osservava altresì che non vi era motivo di ritenere che una connivenza del personale penitenziario avrebbe consentito a terzi di assassinare il figlio dei ricorrenti. Osservava anche che erano state raccolte diverse dichiarazioni (in particolare quelle di quattro agenti penitenziari, del medico di guardia, di A., di B. e di C.) e che tali testimonianze confermavano, da una parte, che Carmelo Castro era stato oggetto di una sorveglianza costante all’interno del carcere e, dall’altro, che quest’ultimo non aveva manifestato un disagio psicologico importante o allarmante. Aggiungeva che il figlio dei ricorrenti non era stato formalmente sottoposto al regime di «alta vigilanza», che non era stato considerato un «soggetto a rischio immediato» e che il suo collocamento in isolamento aveva avuto lo scopo di evitargli di essere a contatto con le persone nei confronti delle quali aveva rilasciato dichiarazioni accusatorie.
  32. Il GIP rilevava che, anche se Carmelo Castro era molto giovane e spaventato dalla privazione della libertà e dal fatto di aver denunciato altre persone, nulla lasciava presagire l’intenzione di porre fine ai suoi giorni. Osservava che, secondo A., che aveva incontrato il figlio dei ricorrenti due volte, il 25 e il 26 marzo 2009, quest’ultimo si aspettava una liberazione imminente e intendeva tornare in Germania, dove era cresciuto. Analogamente, osservava che, secondo B. nel corso del colloquio del 26 marzo 2009, Carmelo Castro era apparso provato dalla detenzione, aveva pianto e aveva chiesto rassicurazioni quanto alla possibilità di una liberazione dopo il suo interrogatorio, ma non aveva tuttavia manifestato propositi suicidi. Notava anche che una guardia penitenziaria aveva descritto il giovane come «molto tranquillo» e che altri agenti penitenziari avevano semplicemente rilevato che aveva rinunciato alla passeggiata e a un pasto. Infine, il GIP sottolineava che le incongruenze tra l’ora della impiccagione e l’ora del decesso erano state chiarite dal medico di guardia e che dal fascicolo non emergeva che dei comportamenti diversi nelle operazioni di soccorso avrebbero potuto impedire il decesso.
  33. In data non precisata, successiva al decesso del figlio dei ricorrenti, il magistrato di sorveglianza dichiarò che il settore «Nicito» dell’istituto penitenziario di Catania non poteva più essere utilizzato, dato lo stato di degrado in cui si trovava.
    1. L’indagine amministrativa
  34. Nel frattempo, le autorità penitenziarie avevano avviato un procedimento amministrativo per stabilire se nel decesso del figlio dei ricorrenti vi fossero responsabilità amministrative e/o disciplinari attribuibili al personale del carcere di Catania.
  35. Nel quadro di tale procedimento, furono sentite le persone che avevano avuto dei contatti con Carmelo Castro durante la sua detenzione. L’amministrazione giunse alla conclusione che il giovane aveva beneficiato di più colloqui ravvicinati con il personale del carcere e che nulla facesse pensare che soffrisse di depressione. Rilevava invece che il detenuto sembrava essere in grado di far fronte alle restrizioni della detenzione e che aveva mostrato un atteggiamento positivo, e indicava che in particolare quest’ultimo aveva espresso fiducia nei confronti delle autorità e l’intenzione di ritornare in Germania. Secondo l’amministrazione, le dichiarazioni di A., B. e del medico del carcere andavano nella stessa direzione, ossia quello dell’impossibilità di prevedere l’intenzione del figlio dei ricorrenti di porre fine ai suoi giorni. Pertanto, a parere dell’amministrazione, non poteva essere dimostrata alcuna responsabilità, sia pure di tipo amministrativo o disciplinare.
  36. Il rapporto dell’amministrazione penitenziaria, cui erano allegate, tra l’altro, le relazioni del medico e del responsabile dell’area trattamentale, nonché le note riguardanti i diversi colloqui, fu trasmesso alla procura.

    MOTIVI DI RICORSO
     
  37. Invocando l’articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti denunciano che le autorità si sono sottratte all’obbligo di proteggere la vita del loro figlio
  38. Ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione, lamentano di non aver potuto esperire un ricorso effettivo per far valere la doglianza relativa all’articolo 2 della Convenzione.

    IN DIRITTO
    1. Sul motivo di ricorso relativo all’articolo 2 della Convenzione
  39. I ricorrenti ritengono che l’amministrazione penitenziaria abbia omesso di vigilare sul loro figlio e in tal modo sia venuta meno al suo obbligo di proteggere la vita di quest’ultimo.
    Invocano l’articolo 2 della Convenzione, che, nella sue parti pertinenti, è così formulato:
    «1.  Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. (...).»
  40. Il Governo contesta la tesi dei ricorrenti.
    1. L’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
  41. Il Governo eccepisce anzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Indica che i ricorrenti hanno avviato dinanzi al tribunale di Catania un’azione per il risarcimento del danno subito in conseguenza del decesso del loro figlio e che tale procedimento è ancora pendente in primo grado. Il Governo afferma che i decreti di archiviazione di un’indagine, a differenza di una sentenza penale definitiva, non vincolano il giudice civile il quale così rimane libero di stabilire i fatti e l’eventuale responsabilità dell’amministrazione in maniera autonoma e indipendente.
  42. I ricorrenti ritengono che la procedura civile in questione non possa avere alcuna influenza sulla ricevibilità del loro ricorso. Sostengono che il pregiudizio da essi subito non possa essere sanato senza l’accertamento di una responsabilità penale. Ora, secondo loro, le ordinanze del GIP di Catania che disponevano l’archiviazione hanno precluso tale accertamento. Inoltre, i ricorrenti ritengono che non si possa tener conto di un rimedio volto unicamente ad ottenere un risarcimento pecuniario, come l’azione civile in questione.
  43. La Corte non ritiene necessario stabilire se, nelle circostanze particolari della presente causa, l’azione civile di risarcimento esercitata dai ricorrenti fosse un mezzo di ricorso che si possa considerare effettivo, in quanto tale censura è comunque irricevibile per le ragioni di seguito esposte.
    1. Sull’obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita
      1. Argomenti delle parti
        1. I ricorrenti
  44. Secondo i ricorrenti, le autorità erano al corrente dei rischi che il loro figlio correva, legati alle possibili ritorsioni da parte dei suoi coimputati e/o a tendenze suicide generate dallo stato di sofferenza fisica e mentale in cui sarebbe precipitato. I ricorrenti invocano i principi enunciati dalla Corte nelle sentenze Keenan c. Regno Unito (n. 27229/95, CEDU 2001-III) e Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito (n. 46477/99, CEDU 2002-II) e contestano la tesi del Governo secondo cui il loro ricorso costituirebbe un quarto grado di giudizio (paragrafo 48 infra).
  45. I ricorrenti ritengono che le autorità italiane siano responsabili di negligenze gravi e ripetute. In particolare, precisano che, secondo B., il loro figlio era molto preoccupato e provato dalla detenzione e aveva pianto, che si era visto prescrivere un trattamento farmacologico (del Lorazepam) da C. e che, secondo il detenuto incaricato di fornire i pasti, era crollato e si era rifiutato di mangiare il giorno del suo decesso.
  46. Peraltro, i ricorrenti ritengono che il settore della prigione in cui si trovava il loro figlio non consentiva di garantire la protezione dei detenuti, tenuto conto del fatto che le telecamere di sorveglianza, che essi qualificano come strumento fondamentale per scoraggiare le aggressioni tra detenuti, erano fuori servizio dal 2008 (paragrafo 27 supra).
  47. Inoltre, si sarebbero prodotte carenze durante le operazioni di soccorso. A tale riguardo, i ricorrenti indicano che la cella è stata aperta soltanto all’arrivo del medico di guardia e che solo in quel momento è stato possibile sganciare il corpo del figlio. Aggiungono che quest’ultimo è stato trasferito al pronto soccorso dell’Ospedale di Catania con un veicolo che non consentiva di fornire alcuna assistenza medica e che non disponeva di presidi cardio-circolatori e respiratori in quanto si trattava di un’auto di servizio e non di una ambulanza.
    1. Il Governo
  48. Il Governo ritiene che si tratti di un quarto grado di giudizio. A suo parere, i ricorrenti intendevano, essenzialmente, rimettere in discussione l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove effettuata dal GIP di Catania. A tal riguardo, il Governo indica che l’inchiesta è stata approfondita, che è stata riaperta e che le ordinanze che disponevano l’archiviazione erano ben motivate. Pertanto, a suo avviso, le conclusioni alle quali sono pervenute le autorità nazionali non possono essere considerate manifestamente arbitrarie.
  49. Ad ogni modo, il Governo ritiene che nel caso di specie non si possa riscontrare alcun inadempimento all’obbligo di proteggere la vita del figlio dei ricorrenti. Sostiene che la detenzione di Carmelo Castro nel penitenziario di Catania è durata solo qualche giorno e che il giovane è stato detenuto in isolamento e sottoposto a una vigilanza costante. Sostiene che, in quel momento, non vi erano motivi per ritenere che il figlio dei ricorrenti fosse affetto da disturbi mentali e che potesse avere tendenze suicide. Il Governo si riferisce, al riguardo, alle conclusioni cui è giunta la Corte nella causa Volk c. Slovenia (n. 62120/09, 13 dicembre 2012), nella quale ha escluso qualsiasi violazione dell’articolo 2 della Convenzione in un caso in cui un prigioniero aveva minacciato di suicidarsi.
  50. Il Governo ritiene che le autorità abbiano agito con la dovuta diligenza e che siano state attente alle esigenze del detenuto. Precisa che quest’ultimo è stato oggetto di numerosi colloqui e visite e che non ha mai manifestato alcuna intenzione di commettere atti autolesionistici. A suo avviso, la maggiore sorveglianza a cui il giovane è stato sottoposto era giustificata solo dal fatto che era stato internato in isolamento e che si trattava della sua prima esperienza privativa della libertà.
  51. Il Governo afferma che, il 28 marzo 2009, il figlio dei ricorrenti è rientrato nella sua cella intorno alle ore 9 e che nessuno dei tre agenti penitenziari presenti nel settore «Nicito» ha osservato che vi fosse qualcosa di anormale fino alle 12.20. Aggiunge che, dopo la scoperta della impiccagione di Carmelo Castro, il personale del carcere ha messo in atto tutto ciò che era ragionevolmente necessario per tentare di salvare la vita del giovane entro brevissimo termine e che quest’ultimo è stato trasferito all’ospedale al più presto a causa della mancanza di sofisticate attrezzature di rianimazione nel carcere di Catania.
  52. Alla luce di quanto precede, il Governo ritiene che nessun elemento concreto potesse condurre le autorità italiane a pensare che la vita di Carmelo Castro, che avrebbe mostrato un atteggiamento positivo e fiducioso nel futuro, fosse in pericolo. Pertanto, non vi sarebbe stato alcun motivo per adottare delle misure cautelative più ampie di quelle che erano state disposte. Secondo il Governo, il fatto che il suicidio si sia verificato dopo il pranzo e sia stato realizzato con un lenzuolo corrobora l’ipotesi che si trattasse di un gesto non premeditato e imprevedibile. Il Governo osserva infine che, nelle loro osservazioni in risposta, i ricorrenti non hanno contestato i fatti per come erano stati stabiliti nelle sue osservazioni.
    1. Valutazione della Corte
      1. Principi generali
  53. La Corte rammenta che la prima frase dell’articolo 2 § 1 della Convenzione costringe lo Stato non solo a evitare di provocare la morte in modo volontario e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Ciò comporta, da parte dello Stato il dovere fondamentale di garantire il diritto alla vita adottando una legislazione penale concreta che dissuada dal commettere offese contro la persona e si basi su un meccanismo di applicazione concepito per prevenire, reprimere e sanzionare le violazioni. In talune situazioni ben definite, l’articolo 2 della Convenzione può inoltre porre a carico delle autorità l’obbligo positivo di adottare preventivamente misure di ordine pratico per proteggere la persona la cui vita è minacciata dalle azioni criminali altrui o, in determinate circostanze particolari, dai propri comportamenti (Keenan, sopra citata, § 89, De Donder e De Clippel c. Belgio, n. 8595/06, § 68, 6 dicembre 2011, Ketreb c. Francia, n. 38447/09, § 71, 19 luglio 2012, e Volk, sopra citata, § 83).
  54. Tuttavia, occorre interpretare tale obbligo in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile o eccessivo, senza perdere di vista, in particolare, le difficoltà per la polizia di esercitare le sue funzioni nelle società contemporanee, l’imprevedibilità del comportamento umano e le scelte operative da fare in termini di priorità e di risorse. Pertanto, ogni asserita minaccia contro la vita non obbliga le autorità, avuto riguardo alla Convenzione, ad adottare misure concrete per prevenirne la realizzazione. Nelle circostanze particolari di rischio di atti autolesivi, la Corte ha dichiarato che, perché vi sia un obbligo positivo, deve essere stabilito che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere lì per lì che una determinata persona era minacciata in maniera effettiva e immediata nella sua vita e che esse non hanno adottato, nell’ambito dei loro poteri, le misure che, da un punto di vista ragionevole, avrebbero senza dubbio rimediato a tale rischio (Keenan, sopra citata, §§ 89 e 92, Taïs c. Francia, n. 39922/03, § 97, 1° giugno 2006, De Donder e De Clippel, sopra citata, § 69, e Volk, sopra citata, § 84).
  55. Ciò premesso, occorre anche tenere conto del fatto che i detenuti sono in situazione di vulnerabilità e che le autorità hanno il dovere di proteggerli (Keenan, sopra citata, § 91, Younger c. Regno Unito (dec.), n. 57420/00, CEDU 2003-I, Trubnikov c. Russia, n. 49790/99, § 68, 5 luglio 2005, Renolde c. Francia, n. 5608/05, § 83, CEDU 2008-V (estratti), Jasińska c. Polonia, n. 28326/05, § 60, 1° giugno 2010, e De Donder e De Clippel, sopra citata§ 70).
  56. La Corte rammenta inoltre che le autorità penitenziarie devono svolgere le proprie funzioni in modo compatibile con i diritti e le libertà della persona interessata. Misure e precauzioni generali possono essere adottate per ridurre il rischio di atti autolesivi senza travalicare l’autonomia individuale. Quanto a sapere se occorra adottare misure più rigorose nei confronti di un detenuto e se sia ragionevole applicarle, ciò dipende dalle circostanze della fattispecie (Keenan, sopra citata, § 92, Younger, decisione sopra citata, Trubnikov, sopra citata, § 70, De Donder e De Clippel, sopra citata, § 70, e Volk, sopra citata, § 85).
    1. Applicazione di questi principi al caso di specie
  57. A titolo preliminare, la Corte rileva che, dinanzi alle autorità nazionali, i ricorrenti hanno sostenuto che il decesso del loro figlio era dovuto all’azione criminale di terzi, e non a un atto autolesivo, ma che il pubblico ministero e il GIP di Catania hanno respinto gli argomenti degli interessati su questo punto. Per la Corte, nulla consente di ritenere che la versione dei fatti accolta dal GIP fosse difficilmente conciliabile con i risultati dell’autopsia o con qualsiasi altro documento del fascicolo (si vedano, a questo proposito, le affermazioni dei ricorrenti riportate al paragrafo 67). In tali circostanze, la Corte procederà supponendo che il decesso di Carmelo Castro è stato provocato da un atto suicida. Pertanto, deve esaminare se le autorità sapessero o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che il giovane si suicidasse e, in caso affermativo, se abbiano fatto tutto quanto era ragionevolmente possibile attendersi da loro per prevenire tale rischio.
  58. La Corte osserva che Carmelo Castro è stato incarcerato il 24 marzo 2009 e posto in una cella di isolamento nel settore «Nicito» del penitenziario di Catania (paragrafo 5 supra) e che si è suicidato il 28 marzo 2009 mediante impiccagione (paragrafo 13 supra). Ora, dai documenti prodotti dal Governo, la cui veridicità non è contestata dai ricorrenti, risulta che, per cinque giorni, Carmelo Castro ha incontrato più volte il personale del carcere: in particolare, il 25 marzo 2009, il ragazzo ha avuto un colloquio con la psicologa del carcere, A., ed è stato sottoposto ad un esame medico (paragrafo 8 supra); il 26 marzo 2009, ha avuto un nuovo colloquio con A., ha incontrato l’educatrice B. ed è stato sottoposto ad un altro controllo medico (paragrafi 9-11 supra); il 27 marzo 2009, si è svolto un terzo esame medico e un colloquio con l’educatore responsabile del suo monitoraggio (paragrafo 11 supra); lo stesso giorno, il suo caso è stato discusso nella riunione del gruppo degli educatori (paragrafo 9 supra); e, infine, il 28 marzo 2009, qualche ora prima del suo decesso, ha incontrato la psichiatra del carcere, C. (paragrafo 12 supra).
  59. La Corte rileva quindi, alla luce delle note relative ai colloqui suddetti, che Carmelo Castro si trovava in uno stato di vulnerabilità e di agitazione particolare: si trattava in effetti di un uomo molto giovane che, per la prima volta, doveva far fronte a una privazione della libertà e che temeva ritorsioni da parte dei suoi complici. La Corte rammenta di aver del resto già evidenziato che qualsiasi privazione della libertà fisica può comportare, per sua natura, dei disordini psichici e, di conseguenza, dei rischi di suicidio (Tanribilir c. Turchia, n. 21422/93, § 74, 16 novembre 2000, e De Donder e De Clippel, sopra citata, § 75). Ciò non toglie che, nel caso di specie, nessuna delle persone con cui ha parlato il figlio dei ricorrenti ha segnalato che quest’ultimo aveva espresso intenzioni suicide e/o presentava un rischio di autolesionismo. Al contrario, la psicologa A. e l’educatrice B. hanno ritenuto che Carmelo Castro fosse in grado di adattarsi al regime carcerario (paragrafi 8 e 9 supra), e la psichiatra C. si è limitata a rilevare problemi di insonnia e a prescrivere al ragazzo un medicinale contro i disturbi del sonno (paragrafo 12 supra).
  60. Per la Corte, tale assenza di segni precursori di suicidio permette di distinguere la presente causa dai casi Ketreb e Volk, sopra citati. Nella causa Ketreb, per concludere per la violazione dell’obbligo positivo di proteggere la vita derivante dall’articolo 2 della Convenzione, la Corte ha rilevato che il sig. Ketreb, che soffriva da tempo di un disturbo della personalità noto con il termine «stato borderline» ed era affetto da disforia ansiosa, per due volte aveva tentato il suicidio per impiccagione, era stato all’origine di violenti incidenti in carcere, compresi degli episodi di autolesionismo, e aveva apertamente e inequivocabilmente minacciato di suicidarsi (si vedano, in particolare, i paragrafi 75-99 della sentenza Ketreb). Nella causa Volk, che riguardava un detenuto tossicodipendente che aveva manifestato in due occasioni l’intenzione di suicidarsi o di compiere atti autolesionistici (si vedano, in particolare, i paragrafi 86 e 92 della sentenza Volk), la Corte ha ritenuto che le autorità slovene non avrebbero ragionevolmente potuto prevedere la decisione del sig. Volk di porre fine ai suoi giorni. Una conclusione analoga sembra imporsi a maggior ragione nella presente causa, nella quale Carmelo Castro non aveva né tentato né minacciato di suicidarsi.
  61. La Corte rileva inoltre che, nella presente causa, al figlio dei ricorrenti non sono mai stati diagnosticati disturbi psichiatrici. Non risulta dai documenti prodotti dinanzi ad essa che l’equipe medica o il personale del carcere abbiano, per negligenza, omesso di individuare tali disturbi (si veda, mutatis mutandis, Volk, sopra citata, § 86; si vedano anche, a contrario, Keenan, sopra citata, § 94, Renolde, sopra citata, § 122, De Donder e De Clippel, sopra citata, §§ 73 e 75-77, e Shumkova c. Russia, n. 9296/06, § 93, 14 febbraio 2012).
  62. Occorre anche notare che Carmelo Castro era stato internato in isolamento per evitare che fosse a contatto con persone nei confronti delle quali aveva reso dichiarazioni accusatorie, e che, inoltre, secondo l’educatrice B., era stato de facto sottoposto al regime di alta sorveglianza (paragrafi 10 e 11 supra). In tali circostanze, e tenuto conto dei numerosi colloqui con il personale specializzato del carcere di cui il figlio dei ricorrenti ha beneficiato nel corso del suo breve periodo di detenzione (paragrafo 58 supra), la Corte non può rilevare, nel caso di specie, alcuna omissione evidente che avrebbe impedito alle autorità di avere un quadro adeguato della situazione (si veda, mutatis mutandis, Volk, sopra citata, § 91).
  63. Inoltre, la Corte rileva che le telecamere di sorveglianza che si trovavano nel settore «Nicito» del carcere di Catania erano fuori servizio dal settembre 2008 (paragrafo 27 supra). La Corte non è tuttavia convinta che tale circostanza abbia potuto avere una qualsivoglia influenza sullo svolgimento degli eventi che hanno accompagnato il suicidio del figlio dei ricorrenti, anche se, successivamente al decesso di quest’ultimo, tale settore è stato considerato non più utilizzabile a causa del suo stato di degrado (paragrafo 33 supra). Va in effetti osservato che, secondo gli stessi ricorrenti, le telecamere in questione erano un mezzo per scoraggiare le aggressioni tra detenuti, e non gli atti autolesionistici (paragrafo 46 supra).
  64. Rimane da accertare se il modo in cui sono stati portati i soccorsi a Carmelo Castro sia stato conforme all’articolo 2 della Convenzione. A tale proposito, la Corte osserva che, secondo il fascicolo, l’agente penitenziario che, il 28 marzo 2009, verso le ore 12.20, ha scoperto che il figlio dei ricorrenti si era impiccato con delle lenzuola ha immediatamente dato l’allarme e informato il medico di guardia (paragrafo 13 supra). La Corte non può criticare, in quanto tali, né la condotta di questo agente penitenziario, che non si è avvicinato a Carmelo Castro prima dell’arrivo del medico, né la decisione, presa dopo il vano tentativo di rianimazione nell’infermeria del penitenziario, di trasportare il giovane al pronto soccorso dell’ospedale di Catania in un’autovettura di servizio. Infatti, come ha giustamente osservato il pubblico ministero di Catania, aspettare l’arrivo di un’ambulanza avrebbe comportato una perdita di tempo prezioso (paragrafo 26 supra). La Corte è altresì consapevole del fatto che il personale del carcere si è trovato di fronte ad una situazione di estrema urgenza che richiedeva di prendere decisioni rapide in un lasso di tempo ridotto.
  65. Tenuto conto di quanto esposto sopra, la Corte ritiene che nel caso di specie non possa essere rilevata alcuna apparente violazione dell’obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita sancito dall’articolo 2 della Convenzione.
  66. Ne consegue che questa parte del motivo di ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.
    1. Sull’obbligo procedurale di svolgere un’indagine effettiva
      1. Argomenti delle parti
        1. I ricorrenti
  67. I ricorrenti ritengono che l’indagine relativa al decesso del figlio non sia stata effettiva. Affermano che il GIP di Catania ha ordinato l’archiviazione del procedimento nonostante alcune lacune importanti ed evidenti nelle indagini e in presenza di dati contraddittori. In particolare, le presunte lacune riguardano un’impossibilità di ottenere alcuni verbali relativi alle visite mediche e ai colloqui con gli educatori. Quanto ai pretesi dati contraddittori, questi riguardano lo stato di salute fisica e mentale di Carmelo Castro, l’ora del decesso del giovane e l’ora del suo trasporto all’ospedale, nonché i risultati dell’autopsia  ̶  che sarebbero difficili da conciliare con la versione dei fatti accolta dal GIP.
    1. Il Governo
  68. Il Governo sostiene che sul decesso di Carmelo Castro è stata condotta un’indagine diligente, approfondita ed esaustiva. Indica che il pubblico ministero di Catania ha ordinato una perizia medica. Aggiunge che si è procurato le relazioni degli agenti penitenziari presenti al momento dei fatti, una nota del direttore del carcere di Catania e una relazione del 2 aprile 2009 redatta dal responsabile dell’area trattamentale in cui erano menzionati tutti i trattamenti – di qualsiasi ordine (cure mediche e sostegno psicologico) – di cui il detenuto aveva beneficiato. Il Governo precisa inoltre che le autorità hanno interrogato gli agenti penitenziari e il medico di guardia, ispezionato la cella occupata da Carmelo Castro e analizzato le lenzuola utilizzate da quest’ultimo, nonché i suoi indumenti. Afferma che tutti i verbali dei colloqui che il figlio dei ricorrenti ha avuto con il personale specializzato del carcere sono stati acquisiti al fascicolo dell’indagine.
  69. Inoltre, il Governo sostiene che le ordinanze di archiviazione del GIP di Catania sono state accuratamente motivate. Per quanto riguarda il malfunzionamento delle telecamere di sorveglianza del settore «Nicito», che erano fuori servizio dal 2008, ritiene che si tratti solo di un dettaglio che sarebbe irrilevante in quanto il decesso di Carmelo Castro era dovuto a un suicidio, e non ad un’eventuale azione di terzi. Il Governo afferma inoltre che i ricorrenti sono stati sufficientemente coinvolti nell’inchiesta e che le eccezioni da essi formulate avverso la prima ordinanza di archiviazione hanno anche portato, dopo un’udienza dinanzi al GIP, alla riapertura del fascicolo e ad ulteriori indagini. Aggiunge che i ricorrenti hanno avuto la possibilità di opporsi alla seconda richiesta di archiviazione del pubblico ministero, che ha portato allo svolgimento di una nuova udienza dinanzi al GIP. Sostiene inoltre che, se la procedura non fosse stata in contraddittorio, i ricorrenti avrebbero potuto ricorrere per cassazione. Infine, il Governo rinvia ai risultati dell’indagine amministrativa condotta dalle autorità penitenziarie (paragrafi 34-36 supra).
    1. Valutazione della Corte
      1. Principi generali
  70. La Corte rammenta che, in caso di morte di un uomo in circostanze tali da far sorgere la responsabilità dello Stato, l’articolo 2 della Convenzione implica per quest’ultimo l’obbligo di garantire, con tutti i mezzi di cui dispone, una risposta adeguata  ̶  giudiziaria o di altro tipo  ̶  in modo che il quadro legislativo e amministrativo istituito ai fini della protezione della vita sia effettivamente attuato e che, se del caso, le violazioni del diritto in gioco siano punite e sanzionate (Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 91, CEDU 2004-XII, e Volk, sopra citata, § 97).
  71. In tutti i casi in cui un detenuto muore in condizioni sospette e in cui le cause del decesso possono essere attribuite a un’azione o a un’omissione degli agenti o dei servizi pubblici, le autorità hanno l’obbligo di condurre d’ufficio una «indagine ufficiale ed effettiva» che consenta di stabilire le cause della morte e di identificarne gli eventuali responsabili e punirli; Si tratta essenzialmente, attraverso la suddetta indagine, di garantire l’applicazione effettiva delle leggi interne che tutelano il diritto alla vita e, nei casi in cui sono coinvolti agenti o organi dello Stato, di garantire che questi ultimi siano chiamati a rendere conto dei decessi avvenuti sotto la loro responsabilità (De Donder e De Clippel, sopra citata, §§ 61 e 85; si vedano anche Mahmut Kaya c. Turchia, n. 22535/93, §§ 106-107, CEDU 2000-III, İlhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 63, CEDU 2000-VII, McKerr c. Regno Unito, n. 28883/95, § 148, CEDU 2001-III, Kelly e altri c. Regno Unito, n. 30054/96, § 114, 4 maggio 2001, Shumkova, sopra citata, § 109, e Volk, sopra citata, § 98).
  72. L’effettività dell’indagine richiede in primo luogo che le persone responsabili della condotta in esame siano indipendenti da quelle eventualmente coinvolte nel decesso, dovendo le prime, da una parte non essere subordinate alle seconde da un punto di vista gerarchico o istituzionale e, d’altra parte, essere indipendenti in pratica. Esige inoltre che le autorità adottino le misure ragionevoli a loro disposizione per garantire l’acquisizione delle prove relative ai fatti in questione, comprese, tra l’altro, le deposizioni dei testimoni oculari, le perizie e, se del caso, un’autopsia idonea a fornire un resoconto completo e preciso delle lesioni e un’analisi oggettiva dei risultati clinici, in particolare della causa del decesso. Eventuali carenze dell’indagine che riducano la sua capacità di individuare la causa del decesso o le responsabilità rischiano di far concludere che essa non risponda a tale norma. Infine, una celerità e una diligenza ragionevoli si impongono agli investigatori, e i parenti della vittima devono essere coinvolti nel procedimento nella misura necessaria alla salvaguardia dei loro interessi legittimi (Trubnikov, sopra citata, §§ 86-88, e De Donder e De Clippel, sopra citata, § 86).
    1. Applicazione di questi principi al caso di specie
  73. Nel caso di specie, la Corte ritiene che le autorità avessero il dovere di svolgere una indagine effettiva sulle circostanze del decesso del figlio dei ricorrenti. Quest’ultimo si trovava, in quanto detenuto, sotto il controllo e la responsabilità delle autorità penitenziarie quando è deceduto in seguito a ciò che a prima vista sembrava essere un suicidio. L’inchiesta era necessaria, da un lato, per stabilire la causa della morte e per escludere la possibilità di un incidente o di un atto criminale e, dall’altro, una volta confermata la tesi del suicidio, per esaminare se le autorità fossero in qualche modo responsabili di non aver impedito un siffatto atto (si veda, mutatis mutandis, Volk, sopra citata, § 99).
  74. A tale proposito, la Corte osserva che è stata aperta un’indagine giudiziaria contro ignoti per il decesso di Carmelo Castro. Nulla fa pensare che le persone responsabili dell’inchiesta – ossia il personale della procura e della polizia di Catania – non fossero indipendenti da quelle eventualmente coinvolte nel decesso (si veda, mutatis mutandis, De Donder e De Clippel, sopra citata, §§ 86-87). I ricorrenti non hanno peraltro messo in dubbio l’indipendenza degli inquirenti. Non hanno neppure contestato le affermazioni del GIP e del Governo secondo cui il pubblico ministero aveva disposto: a) una perizia medica; b) l’interrogazione degli agenti penitenziari, del medico di guardia, di A., di B. e di C.; c) un’ispezione della cella occupata da Carmelo Castro; d) l’analisi delle lenzuola utilizzate da quest’ultimo nonché dei suoi abiti; ed e) l’acquisizione delle relazioni degli agenti penitenziari presenti al momento dei fatti, di una nota del direttore del carcere di Catania, dell’area trattamentale e delle note relative ai colloqui del figlio dei ricorrenti con il personale specializzato del carcere (paragrafi 17-18 e 68 supra). In tali circostanze, la Corte non può concludere che l’inchiesta presentasse evidenti carenze e/o che le autorità giudiziarie abbiano trascurato elementi essenziali della causa.
  75. La Corte osserva inoltre che le indagini non sono state caratterizzate da una durata eccessiva e che le autorità hanno pertanto agito con la rapidità richiesta in materia. Infatti, dopo la chiusura dell’istruttoria della procura, il GIP ha adottato la prima ordinanza di archiviazione il 27 luglio 2010 (paragrafo 16 supra), ossia un anno e quattro mesi dopo il decesso di Carmelo Castro.
  76. Occorre anche rilevare che, in questa prima ordinanza di archiviazione, il GIP ha esaminato tutti gli aspetti essenziali della causa e che, inoltre, esso ha esposto le ragioni per le quali respingeva la tesi dei ricorrenti secondo cui il decesso del loro figlio era dovuto all’azione volontaria di terzi (paragrafo 17 supra), riteneva che al personale del penitenziario non potesse essere imputata alcuna negligenza (paragrafo 18 supra) e osservava che le operazioni di soccorso erano state condotte in modo appropriato (paragrafo 19 supra).
  77. Quanto alla questione di stabilire se, nella loro qualità di genitori della vittima, i ricorrenti siano stati sufficientemente coinvolti nell’inchiesta, la Corte osserva che, dopo la prima ordinanza di archiviazione, la ricorrente ha chiesto la riapertura del fascicolo e nuove indagini, più approfondite, indicando per iscritto i punti che le sembravano dubbi e/o non sufficientemente chiariti (paragrafi 20-23 supra). Il pubblico ministero ha accolto tale domanda e ha ordinato nuove indagini. Queste ultime dovevano in particolare permettere di ottenere le dimensioni degli oggetti serviti per l’impiccagione, nonché informazioni sullo stato fisico e mentale di Carmelo Castro e sulle misure di vigilanza adottate nei confronti di quest’ultimo (paragrafo 24 supra). Per la Corte, la riapertura dell’indagine dimostra che le autorità giudiziarie hanno attentamente valutato i dubbi espressi dalla ricorrente. Anche se il pubblico ministero ha richiesto una nuova archiviazione dell’inchiesta in quanto le nuove indagini non avevano consentito di individuare alcun elemento in grado di contraddire le conclusioni del GIP (paragrafi 25-27 supra), ciò non toglie che i ricorrenti hanno avuto la possibilità, da una parte, di opporsi alla richiesta di archiviazione e, dall’altra, di esporre i motivi della loro opposizione per iscritto e nel corso dell’udienza che si è tenuta il 9 gennaio 2013 in camera di consiglio davanti al GIP di Catania (paragrafo 28 supra).
  78. La circostanza che, all’esito del riesame del fascicolo e dei nuovi elementi ottenuti a seguito della riapertura dell’indagine, il GIP abbia infine confermato le conclusioni contenute nell’ordinanza del 27 luglio 2010 (paragrafi 29-32 supra), non può, di per sé, pregiudicare il profilo procedurale dell’articolo 2 della Convenzione. A questo proposito, la Corte rammenta che tale disposizione non implica assolutamente il diritto per il ricorrente di far perseguire o condannare in sede penale dei terzi (Öneryıldız, sopra citata, § 96) o un obbligo di risultato sulla base del presupposto che ogni procedimento debba concludersi con una condanna, o con l’irrogazione di una pena determinata (Özel e altri c. Turchia, nn. 14350/05, 15245/05 e 16051/05, § 187, 17 novembre 2015).
  79. Infine, la Corte osserva che, parallelamente all’indagine penale, è stato avviato dalle autorità penitenziarie un procedimento per stabilire le eventuali responsabilità amministrative o disciplinari del personale penitenziario. Nel quadro di tale procedimento, dette autorità hanno sentito le persone che avevano avuto contatti con Carmelo Castro durante la sua detenzione ed hanno esaminato le relazioni e le annotazioni di queste ultime (paragrafi 34-36 supra).
  80. Considerata la quantità degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini nonché le attività del pubblico ministero e dell’amministrazione penitenziaria, la Corte ritiene che le autorità abbiano agito con la diligenza e la celerità richieste dal profilo procedurale dell’articolo 2 della Convenzione. Ritiene inoltre che i ricorrenti siano stati sufficientemente coinvolti nell’inchiesta.
  81. In tali circostanze, la Corte non può rilevare alcuna apparente violazione del profilo processuale dell’articolo 2 della Convenzione.
  82. Ne consegue che questa parte del motivo di ricorso è manifestamente infondata e deve essere respinta, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.
    1. Sul motivo di ricorso relativo all’articolo 13 della Convenzione
  83. I ricorrenti ritengono di non aver disposto, nel diritto italiano, di alcun ricorso effettivo per far valere il loro motivo di ricorso relativo all’articolo 2 della Convenzione.
    Essi invocano l’articolo 13 della stessa, così formulato:
    «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
  84. I ricorrenti sostengono che l’archiviazione del fascicolo ha impedito lo svolgimento di un processo pubblico, che avrebbe potuto portare a chiarire le circostanze del decesso del loro figlio e all’identificazione e alla punizione di eventuali responsabili. A loro avviso, le decisioni di archiviazione sono state adottate malgrado lacune e contraddizioni nei risultati dell’indagine. A tale riguardo, i ricorrenti denunciano, fra l’altro, l’assenza delle registrazioni delle telecamere di sorveglianza, l’incertezza che rimarrebbe sul reale stato fisico e mentale del loro figlio e le contraddizioni che esisterebbero tra l’ora del decesso di quest’ultimo e l’ora del trasporto all’ospedale.
  85. Il Governo contesta questa tesi.
  86. La Corte nota che gli argomenti dei ricorrenti dal punto di vista dell’articolo 13 della Convenzione si confondono con quelli che ha appena valutato dal punto di vista del profilo procedurale dell’articolo 2 (paragrafi 73-82 supra). Essa non può quindi che ribadire la sua conclusione secondo cui l’indagine condotta sulle circostanze del decesso di Carmelo Castro è stata diligente, approfondita ed effettiva
  87. Ne consegue che tale motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Fatta in francese poi comunicata per iscritto il 23 giugno 2016.

Abel Campos
Cancelliere

Mirjana Lazarova Trajkovska
Presidente