Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 1° settembre 2015 - Ricorso n. 37648/02 - Paolello c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico e rivista dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 37648/02

Orazio PAOLELLO
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita il 1° settembre 2015 in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
George Nicolaou,
Ledi Bianku,
Paul Mahoney,
Krzysztof Wojtyczek,
Yonko Grozev, giudici,
e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 10 ottobre 2002,
Viste le osservazioni presentate dal Governo convenuto e quelle di risposta del ricorrente,
Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

1. Il ricorrente, sig. Orazio Paolello, un cittadino italiano nato nel 1966, ha adito la Corte il 10 ottobre 2002. Dinanzi alla Corte è stato rappresentato dall’avvocato M. Modà con studio in Bra.

2. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, F. Crisafulli.

A. Le circostanze del caso di specie

3. I fatti di causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

1. I procedimenti penali

4.  Detenuto dal dicembre 1993, il ricorrente è stato condannato a pesanti pene nell’ambito di numerosi procedimenti penali in cui era accusato di reati connessi ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso operante in Sicilia di cui era uno dei capi. Attualmente è detenuto a Caltanissetta.

5. Il 25 luglio 2003 il ricorrente fu oggetto di un provvedimento di cumulo delle pene adottato dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Gela riguardante 24 condanne definitive (fra cui molte all’ergastolo). La pena principale fu l’ergastolo con un periodo di isolamento diurno di tre anni.

6. In seguito ad altre due condanne definitive a 24 e a 7 anni riportate nel settembre e nell’ottobre del 2003, lo stesso procuratore adottò un nuovo provvedimento di cumulo con il quale la pena principale dell’ergastolo assorbiva i 31 anni di reclusione supplementari.

2. Il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario

7. Il 30 gennaio 1994, il Ministro della Giustizia adottò un importante decreto con il quale imponeva al ricorrente e ad altri 47 detenuti considerati tutti pericolosi, per un periodo di un anno, il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis, comma 2, della legge sull’ordinamento penitenziario – n. 354 del 26 luglio 1975 («la legge n. 354/1975»). Modificata dalla legge n. 356 del 7 agosto 1992, questa norma permetteva la sospensione totale o parziale del regime detentivo ordinario qualora ricorressero gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica.

Questo decreto imponeva le seguenti restrizioni:

  • divieto di utilizzare il telefono;
  • divieto di comunicare con un altro detenuto o internato (anche se si trattava di congiunto o di convivente);
  • divieto di avere colloqui con terze persone;
  • limitazione delle visite dei familiari (al massimo una al mese per un’ora);
  • divieto di ricevere somme di denaro superiori ad un determinato importo mensile;
  • divieto di ricevere dall’esterno più di un pacco al mese di un determinato peso contenente biancheria e abiti e divieto di ricevere pacchi contenenti altre cose;
  • divieto di organizzare attività culturali, ricreative e sportive;
  • divieto di eleggere un rappresentante dei detenuti e di essere eletto come rappresentante;
  • divieto di esercitare attività artigianali;
  • divieto di acquistare alimenti che richiedono cottura;
  • limitazione della passeggiata ad una durata non superiore a due ore al giorno.

Inoltre, tutta la corrispondenza del ricorrente in arrivo e in uscita doveva essere sottoposta al controllo previa autorizzazione delle autorità giudiziarie competenti.

8.  Il ricorrente sostiene anche di essere stato sottoposto a una serie di altre limitazioni e restrizioni che, secondo lui, avrebbero leso la sua dignità umana. In particolare si tratterebbe di:

  1. perquisizione personale completamente nudo, prima e dopo ogni colloquio, con il suo difensore, o con i suoi familiari, anche se l’incontro si era svolto in un cella sorvegliata dal personale dall’amministrazione penitenziaria e nonostante egli fosse stato separato dal suo interlocutore da un vetro blindato e il loro contatto fosse stato unicamente visivo;
  2. obbligo di eseguire, nudo, delle flessioni dinanzi agli agenti della polizia penitenziaria affinché questi ultimi potessero controllare se, durante il colloquio come precedentemente descritto, avesse potuto nascondere eventuali oggetti nell’orifizio anale;
  3. ispezione delle piante dei piedi, della cavità orale e della cavità anale con l’uso di un rilevatore di metalli, dopo ogni partecipazione all’udienza, nonostante tale partecipazione si fosse svolta in una sala d’udienza o a distanza in videoconferenza, in un luogo scelto dall’amministrazione penitenziaria e sotto la costante sorveglianza di agenti;
  4. riprese, 24 ore su 24, tramite telecamere a circuito chiuso, della sua cella.

9. L’applicazione del regime speciale al ricorrente fu prorogata per periodi successivi di sei mesi fino a dicembre 2002, poi di un anno fino a dicembre 2004 almeno. Le restrizioni furono tuttavia attenuate, una prima volta nel febbraio 1995, con l’eliminazione del divieto di comunicare con un altro detenuto o internato; nel febbraio 1997, con l’autorizzazione, da una parte, di un colloquio telefonico di un’ora al mese con i suoi familiari in assenza di una loro visita e, dall’altra parte, con la possibilità di ricevere due pacchi al mese e due pacchi annuali straordinari e di acquistare alimenti che richiedevano cottura; e ancora nel febbraio 1998, con la eliminazione della limitazione del tempo della passeggiata. Tuttavia quest’ultima limitazione fu reintrodotta il 28 dicembre 2002, ma in modo più lieve perché il Ministro della Giustizia limitò il periodo di tempo al di fuori della cella, in gruppi di cinque persone al massimo, a quattro ore al giorno di cui due ore all’aria aperta. Alla stessa data furono eliminati i divieti di organizzare attività culturali, ricreative e sportive e di esercitare attività artigianali.

10. Il ricorrente sostiene di aver impugnato tutti i decreti ministeriali dinanzi al tribunale di sorveglianza e poi dinanzi alla Corte di cassazione; tuttavia nel fascicolo del ricorso questa affermazione trova conferma soltanto per 14 dei 19 decreti, per quanto riguarda i ricorsi in primo grado. Si tratta rispettivamente di:

  • ricorso del 9 febbraio 1995 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Palermo avverso il decreto del 1° febbraio 1995, rigettato il 23 maggio in quanto il giudice adito all’epoca non aveva il potere di revocare l’applicazione delle misure imposte con decisione ministeriale;
  • ricorso in una data imprecisata dinanzi al tribunale di sorveglianza di Venezia avverso il decreto dell’8 febbraio 1996, rigettato il 28 giugno per incompetenza ratione loci;
  • ricorso dell’8 agosto 1996 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Perugia avverso il decreto del 5 agosto 1996, il cui esito non è noto;
  • ricorso del 15 febbraio 1997 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Perugia avverso il decreto del 10 febbraio 1997, rigettato il 20 settembre per mancanza di interesse in quanto il periodo di validità della decisione contestata era scaduto;
  • ricorso del 1° agosto 1997 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Perugia avverso il decreto del 31 luglio 1997, rigettato il 16 febbraio 1998 per mancanza di interesse in quanto il periodo di validità della decisione contestata era scaduto;
  • ricorso del 3 agosto 1998 dinanzi al tribunale di sorveglianza di L’Aquila avverso il decreto del 30 luglio 1998, rigettato il 19 gennaio 1999, in quanto i motivi indicati dal Ministro giustificavano pienamente l’applicazione del regime speciale (il giudice rilevava, tra l’altro, che il ricorrente era stato condannato all’ergastolo 10 volte - di cui quattro volte in via definitiva -, ed era accusato di fatti molto gravi commessi nell’ambito di 10 procedimenti pendenti in primo grado);
  • ricorso in una data non precisata dinanzi al tribunale di sorveglianza di L’Aquila avverso il decreto del 22 luglio 1999, rigettato il 17 dicembre 1999, in quanto i motivi indicati dal Ministro giustificavano pienamente l’applicazione del regime speciale (il giudice rilevava, tra l’altro, che il ricorrente era stato condannato all’ergastolo 11 volte, di cui 8 in via definitiva);
  • ricorso in una data non precisata dinanzi al tribunale di sorveglianza di L’Aquila avverso il decreto del 30 dicembre1999 riguardante le modalità di visita dei familiari, rigettato l’11 febbraio 2000 in quanto il penitenziario di L’Aquila non era dotato del materiale necessario per permettere le registrazioni video degli incontri senza pareti di separazione tra i detenuti e i visitatori;
  • ricorso in una data non precisata dinanzi al tribunale di sorveglianza di L’Aquila averso il decreto del 23 dicembre 2000, rigettato il 19 aprile 2001, in quanto i motivi indicati dal Ministro giustificavano pienamente l’applicazione del regime speciale (il giudice rilevava, tra l’altro, che il ricorrente era stato condannato all’ergastolo 12 volte, di cui 8 otto in via definitiva);
  • ricorso in una data non precisata dinanzi al tribunale di sorveglianza di Trieste avverso il decreto del 21 giugno 2001, rigettato il 2 ottobre in quanto i motivi indicati dal Ministro giustificavano pienamente l’applicazione del regime speciale (il giudice rilevava, tra l’altro, i 55 procedimenti penali avviati a carico del ricorrente);
  • ricorso del 22 giugno 2002 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Trieste avvero il decreto del 17 giugno 2002, rigettato il 3 settembre in quanto i motivi indicati dal Ministro giustificavano pienamente l’applicazione del regime speciale.

11. Dal fascicolo risulta inoltre che il ricorrente impugnò (in date non precisate) il decreto del 23 dicembre 2002 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Trieste e a quello di Torino. Il primo giudice rigettò il ricorso il 30 aprile 2003 ritenendo l’applicazione del regime speciale pienamente giustificata, il secondo giunse alla stessa conclusione il 10 dicembre 2003, ma revocando le limitazioni riguardanti il numero di visite dei familiari del ricorrente e il numero di pacchi che potevano essere ricevuti da quest’ultimo.

12. Queste due limitazioni furono però reintrodotte con il decreto del 23 dicembre 2003. Con una decisione integrativa del suddetto decreto, datata 3 febbraio 2004, il Ministro della Giustizia precisò che la reintroduzione delle due limitazioni era necessaria tenuto contro che la elevata pericolosità del ricorrente giustificava la riduzione al minimo dei contatti con l’esterno; accordare il beneficio di due visite mensili e la possibilità di ricevere pacchi senza alcuna restrizione avrebbe posto il ricorrente in una posizione di superiorità rispetto agli altri detenuti con gravi conseguenze per l’ordine e la sicurezza dell’istituto penitenziario. Il ricorrente presentò due ricorsi per cassazione (di cui la Corte non conosce l’esito) avverso le decisioni di rigetto del tribunale di sorveglianza di Trieste del 3 settembre 2002 e del 30 aprile 2003.

3. Il controllo della corrispondenza del ricorrente

13. Dagli atti del fascicolo risulta che la corrispondenza del ricorrente è stata sottoposta al controllo delle autorità penitenziare su preventiva autorizzazione dei magistrati di sorveglianza competenti.

I seguenti documenti recano il timbro non datato che prova il controllo:

  • il formulario di ricorso alla Corte;
  • 12 decreti ministeriali che imponevano il regime speciale di detenzione;
  • l’elenco degli eventi giudiziari che riguardano il ricorrente stilato dalle autorità penitenziarie del carcere di Novara;
  • la sentenza del giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta del 16 ottobre 1999;
  • la sentenza della corte d’assise d’appello di Caltanissetta del 20 luglio 2000;
  • la sentenza della corte d’appello di Caltanissetta del 10 ottobre 2000;
  • la lettera dell’avvocato del ricorrente del 14 luglio 2001;
  • le comunicazioni del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al ricorrente del 18 settembre e dell’8 e 30 ottobre 2001;
  • l’istanza del ricorrente volta ad ottenere l’autorizzazione a seguire un corso di formazione del 25 agosto 2001;
  • la dichiarazione del ricorrente del 2 gennaio 2003 con la quale egli rinunciava ad effettuare le ore di passeggiata in compagnia di altri detenuti;
  • la dichiarazione dell’ufficio dello stato civile del comune di Gela del 18 febbraio 2003;
  • la memoria integrativa del legale del ricorrente a sostegno del ricorso proposto avverso il decreto ministeriale del 23 dicembre 2003 dinanzi al tribunale di sorveglianza di Trieste;
  • l’ordine di esecuzione delle pene emesso dal procuratore di Gela il 4 marzo 2004;
  • la fotocopia della circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria n. 3470/5920;
  • due documenti (il primo del 30 maggio 2000, il secondo non datato) contenenti alcune considerazioni di detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione sulle restrizioni imposte da quest’ultimo.

B. Il diritto interno pertinente

14. La Corte ha riassunto il diritto e la prassi interni pertinenti riguardanti il regime speciale di detenzione applicato nel caso di specie e il controllo della corrispondenza nella sua sentenza Enea c. Italia ([GC], n. 74912/01, §§ 30-42, CEDU 2009).

MOTIVI DI RICORSO

15.  Invocando l’articolo 3 della Convenzione il ricorrente sostiene che l’applicazione del regime speciale di detenzione lo sottopone da molto tempo a «pene inumane e degradanti e superiori a quelle previste dalla legge all’epoca in cui i fatti attribuitigli sono stati commessi» Inoltre, egli sarebbe obbligato a sottoporsi, prima e dopo gli incontri con i suoi familiari e il suo avvocato, a ispezioni nel corso delle quali non viene preservata la sua intimità e sarebbe costantemente filmato nella sua cella.

16.  Invocando l’articolo 8, il ricorrente lamenta l’applicazione di restrizioni ininterrotte al diritto al rispetto della sua vita familiare in ragione delle limitazioni e delle modalità delle visite dei familiari nonché per la distanza esistente tra il carcere in cui è detenuto e il luogo di abitazione della sua famiglia. Egli lamenta anche la violazione del diritto al rispetto della sua corrispondenza.

17. Invocando l’articolo 13, il ricorrente lamenta infine di non aver potuto disporre di un ricorso interno effettivo in ragione del fatto che «il ritardo con il quale il tribunale di sorveglianza ha esaminato il suo ricorso lo ha privato della possibilità di ricorrere in cassazione.»

IN DIRITTO

A. Articolo 3 della Convenzione

18.  Il ricorrente sostiene che il fatto di essere sottoposto dal 1994 al regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario, nonché le perquisizioni personali che ha subito e la videosorveglianza della sua cella costituiscono dei trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione. Ai sensi di questa disposizione:

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

19. Il Governo ritiene che le restrizioni imposte al ricorrente dal regime speciale di detenzione non abbiano raggiunto il livello minimo di gravità richiesto per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3 della Convenzione. Esso considera queste restrizioni strettamente necessarie per impedire al ricorrente, socialmente pericoloso, di mantenere dei contatti con l’organizzazione criminale di cui fa parte.

20. Per quanto riguarda le perquisizioni personali, il Governo osserva che queste ultime sono state limitate alle sole occasioni in cui il detenuto è entrato in contatto diretto e fisico con terze persone venute dall’esterno, senza alcuna separazione o protezione.

21. Il Governo sottolinea che i detenuti sono sottoposti a perquisizione personale quando ciò risulti necessario ad uno scopo legittimo, ossia la tutela dell’ordine e della sicurezza nelle carceri. Nota anche che esse sono proporzionate allo scopo perseguito dal momento che una perquisizione superficiale non sarebbe sufficiente a eliminare i rischi di presenza di oggetti vietati nelle cavità corporali. Sottolinea poi che queste perquisizioni sono eseguite in maniera discreta e in condizioni idonee ad assicurare il rispetto della dignità della persona.

22. Per quanto riguarda la videosorveglianza della cella, il Governo afferma che si tratta di una misura precauzionale volta a preservare l’ordine e utile per intervenire nel caso un pericolo minacci il detenuto. Si tratterebbe di un metodo di sorveglianza meno intrusivo dei controlli visivi tradizionali (attraverso lo spioncino o tramite accesso diretto alla cella). Questa misura perseguirebbe uno scopo legittimo, che non aggraverebbe in maniera significativa le limitazioni della libertà individuale e del rispetto della vita privata necessariamente inerenti allo stato detentivo.

23. Secondo il ricorrente, le restrizioni che egli subisce ledono chiaramente l’articolo 3 della Convenzione.

24. Secondo la giurisprudenza della Corte, per rientrare nell'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa; dipende nel complesso dagli elementi della causa, in particolare dalla durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o psicologici nonché, talvolta, dal sesso, dall'età e dallo stato di salute della vittima (si vedano, fra molte altre, le sentenze Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 162; Van der Ven c. Paesi Bassi, n. 50901/99/, CEDU 2003-II, § 47, 4 febbraio 2003; Lorsé c. Paesi Bassi, n. 52750/99, § 59, 4 febbraio 2003; Frérot c. Francia, n. 70204/01, § 35, 12 giugno 2007; Cavallo c. Italia, n. 9786/03, 4 marzo 2008, § 24; Idalov c. Russia [GC], n. 5826/03, § 95, 22 maggio 2012).

25. Affinché una pena e il trattamento cui essa si accompagna possano essere qualificati «inumani» o «degradanti», la sofferenza o l'umiliazione provocate devono in ogni caso andare al di là di quelle che comporta inevitabilmente una certa forma di trattamento o di pena legittimi (Jalloh c. Germania [GC], n. 54810/00, § 68, CEDU 2006-IX; Enea c. Italia [GC], n. 74912/01, 17 settembre 2009, § 56; Piechowicz c. Polonia, n. 20071/07, 17 aprile 2012, § 159; Horych c. Polonia, n. 13621/08, 17 aprile 2012, § 86).

1. L’applicazione prolungata del regime speciale di detenzione

26. La Corte deve dapprima verificare se l’applicazione prolungata del regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis – che, peraltro, dopo la riforma del 2002 è divenuta una norma permanente della legge sull’ordinamento penitenziario – costituisca una violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Per far ciò, essa deve tuttavia prescindere dalla natura del reato attribuito al ricorrente, perché la «proibizione della tortura o delle pene o trattamenti inumani o degradanti è assoluta, quali che siano i comportamenti della vittima» (Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 119, CEDU 2000 IV; Gallico c. Italia, n. 53723/00, 28 giugno 2005).

27. La Corte ammette che in linea generale l’applicazione prolungata di alcune restrizioni può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Tuttavia essa non può indicare una durata precisa a partire dalla quale questo livello minimo è raggiunto. Al contrario, essa deve controllare se, in un determinato caso, il rinnovo e la proroga delle restrizioni fossero giustificate o se, al contrario, costituissero la reiterazione di limitazioni che non si giustificavano più (Argenti c. Italia, n. 56317/00, § 21, 10 novembre 2005).

28. In questo caso, per giustificare la proroga delle limitazioni, il Ministro della Giustizia ha fatto sempre riferimento alla persistenza delle condizioni che avevano motivato la prima applicazione e i tribunali di sorveglianza hanno controllato la fondatezza di queste constatazioni.

29. Inoltre, la Corte nota che il ricorrente non le ha fornito elementi che le consentissero di concludere che l’applicazione prolungata del regime di detenzione speciale gli ha provocato degli effetti fisici o psicologici che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3. Pertanto, la sofferenza o l’umiliazione che il ricorrente ha potuto provare non sono andate al di là di quelle che inevitabilmente comporta una data forma di trattamento – nel caso di specie prolungato – o di pena legittima (Labita c. Italia, sopra citata, § 120, e Bastone c. Italia, (dec), n. 59638/00, 18 gennaio 2005). Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

2.  Le perquisizioni personali e la videosorveglianza della cella

30. Per quanto riguarda la perquisizione personale dei detenuti, la Corte non ha alcuna difficoltà a comprendere che un individuo che si trova obbligato a sottoporsi a un trattamento di questa natura si senta soltanto per questo fatto offeso nella sua intimità e dignità, più in particolare quando ciò implica che si svesta dinanzi ad altri, e ancor di più quando si trovi a dover adottare delle posture imbarazzanti.

31. Eppure un trattamento di questo tipo non è di per sé illegittimo: delle perquisizioni personali, anche integrali, possono rivelarsi utili per garantire la sicurezza in un carcere - compresa quella del detenuto stesso -, difendere l’ordine o prevenire la commissione di reati.

32. Resta comunque il fatto che queste perquisizioni devono, oltre che essere necessarie per raggiungere uno di questi scopi, essere condotte secondo modalità adeguate, in maniera che il grado di sofferenza o di umiliazione subìto dai detenuti non oltrepassi quello che inevitabilmente comporta questa forma di trattamento legittimo. In caso contrario esse infrangono l’articolo 3 della Convenzione (Frérot c. Francia, sopra citata, § 38; Marco Mariano c. Italia, (dec), n. 35086/02, 23 febbraio 2010).

33. Le asserzioni di maltrattamenti devono, tuttavia, essere sostenute dinanzi alla Corte da elementi di prova adeguati (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, 10 gennaio 2012, § 121). Per l’accertamento dei fatti lamentati, la Corte si avvale del criterio della prova «al di là di ogni ragionevole dubbio»; una prova di questo tipo può tuttavia risultare da una molteplicità di indizi, o di presunzioni non confutate, sufficientemente gravi, precise e concordanti (si veda, tra altre, Labita sopra citata, § 121).

34. Nel presente caso, la Corte rileva che il ricorrente, dopo aver asserito in maniera generale di aver subito una serie di controlli sulla sua persona fisica (paragrafo 8 supra) non ha contestato l’affermazione del Governo secondo la quale le perquisizioni personali sono state eseguite soltanto quando l’interessato è stato in contatto diretto e senza separazione o protezione, con delle persone venute dall’esterno del carcere. Di conseguenza, la Corte constata l’assenza di prove che mostrino al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che le limitazioni e le restrizioni dedotte hanno raggiunto il livello di gravità richiesto dalla disposizione invocata.

35. Allo stesso modo, per quanto riguarda la videosorveglianza della cella, la Corte considera che si tratta di una misura precauzionale volta a mantenere l’ordine e utile per intervenire nel caso un pericolo minacci il detenuto e dunque perseguiva uno scopo legittimo al quale era proporzionata, che non aggrava in misura significativa le limitazioni della libertà individuale e del rispetto della vita privata che sono necessariamente insite nello stato di detenzione. Essa nota che il ricorrente non le ha fornito elementi che le permetterebbero di concludere che la misura in causa lo abbia sottoposto a trattamenti sufficientemente gravi per rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3.

36. Di conseguenza, la Corte ritiene che questa parte del motivo di ricorso sia anch’essa manifestamente infondata e debba essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

B. Articolo 8 della Convenzione

37. Il ricorrente lamenta anche la violazione del diritto al rispetto della sua vita familiare in ragione delle restrizioni alle quali è sottoposto (tra altre, limitazioni delle visite e dei contatti, lontananza dai suoi parenti). Invoca l’articolo 8 della Convenzione, ai sensi del quale:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...).

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla (…) pubblica sicurezza, (…) alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, (…).»

38. Il Governo ribadisce le sue argomentazioni relative alla pericolosità del ricorrente e alla necessità di limitare, per quanto riguarda i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione, il numero di visite e di regolamentarne molto severamente lo svolgimento.

39. Dopo aver esaminato il fascicolo, nella misura in cui le asserzioni sono state sostenute, la Corte ritiene che le restrizioni non siano andate al di là di ciò che, ai sensi dell’articolo 8 § 2, è necessario, in una società democratica, alla sicurezza pubblica, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati. Dunque essa ritiene che non vi siano elementi per discostarsi dalle conclusioni tratte nella sentenza Enea c. Italia [GC], sopra citata, §§ 125 131) e che il motivo di ricorso debba essere rigettato conformemente all’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

40. Il ricorrente sostiene che il controllo della sua corrispondenza ha violato il diritto enunciato all’articolo 8 della Convenzione, che nelle sue parti pertinenti, dispone:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della (...) sua corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (…) alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati (...)»

41. Il Governo dapprima rammenta che il controllo in questione è stato disposto in applicazione dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario. Sottolinea che la Corte ha già ritenuto che questa disposizione non costituisse una base giuridica sufficiente ai sensi della Convenzione, perché non indicava la durata del controllo, né i motivi che potessero giustificarlo, né l’ampiezza e le modalità di esercizio del margine di apprezzamento delle autorità competenti. Questa situazione è stata profondamente modificata nel 2004, con la legge n. 95 dell’8 aprile 2004. Il Governo chiede alla Corte di riconsiderare la sua giurisprudenza e di affermare che nel caso di specie, il suddetto controllo era «previsto dalla legge» e non vi è stata trasgressione della Convenzione.

42. Poi il Governo nota che, per quanto riguarda la corrispondenza scambiata tra il ricorrente e la Corte prima del 2004, il ricorrente ha inviato alla Corte due gruppi di documenti recanti il timbro «visto di controllo» degli istituti penitenziari: il primo gruppo è allegato al formulario di ricorso, il secondo è stato inviato per posta in data 22 agosto 2005.

43. Il Governo sottolinea che nessuno di questi gruppi di documenti contiene le buste nelle quali la posta è stata inviata dal ricorrente o ricevuta da lui. Dunque è impossibile dire chi era il destinatario o il mittente dei plichi che la contenevano. Inoltre, i documenti del primo gruppo recano un timbro senza data, ciò non permette di stabilire quando questi documenti siano stati sottoposti al controllo.

44. La Corte constata che per quanto riguarda la corrispondenza del ricorrente in generale, vi è stata «ingerenza di una autorità pubblica» nell’esercizio del diritto del ricorrente al rispetto della sua corrispondenza sancito dall’articolo 8 § 1 della Convenzione. Una ingerenza di questo tipo viola tale disposizione a meno che l’ingerenza non «sia prevista dalla legge», persegua uno o più scopi legittimi rispetto al paragrafo 2 e, inoltre, sia «necessaria in una società democratica» per raggiungerli (Calogero Diana c. Italia, sentenza del 15 novembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-V, § 28; Domenichini c. Italia, sentenza del 15 novembre 1996, Recueil 1996-V, § 28; Petra c. Romania, sentenza del 23 settembre 1998, Recueil 1998-VII, p. 2853, § 36; Labita sopra citata, § 179; Musumeci c. Italia, n. 33695/96, § 56, sentenza dell’11 gennaio 2005).

45. Prima del 15 aprile 2004, il controllo della corrispondenza del ricorrente è stato effettuato conformemente all’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario. La Corte ha già dichiarato più volte che il controllo della corrispondenza basato su questa disposizione violava l’articolo 8 della Convenzione perché non era previsto dalla legge dal momento che non disciplinava né la durata delle misure di controllo della corrispondenza dei detenuti, né le ragioni che potevano giustificarle e non indicava abbastanza chiaramente l’ampiezza e le modalità di esercizio del potere discrezionale delle autorità competenti nel campo considerato (si vedano, tra altre, le sentenze Labita c. Italia, sopra citata, §§ 175-185, e Calogero Diana c. Italia, sopra citata, § 33). Nel presente caso, la Corte osserva che l’interessato non indica alcun dettaglio riguardante la natura della corrispondenza sottoposta a controllo durante il periodo in esame e nota che il fascicolo del ricorso non contiene nessuna prova del fatto che la corrispondenza indirizzata al ricorrente o proveniente da quest’ultimo sarebbe stata aperta e letta dalle autorità competenti (si veda Gelsomino c. Italia (dec.), n. 2005/03, del 23 maggio 2006).

46. La Corte rammenta che la legge 95 del 2004 ha introdotto un nuovo articolo 18ter sul controllo della corrispondenza che è stato inserito nella legge sull’ordinamento penitenziario. Il comma 2 di questo articolo esclude in particolare dal controllo la corrispondenza del detenuto con il suo avvocato e gli organi internazionali competenti in materia di diritti umani.

47. Nel caso di specie, la Corte ritiene che, mancando le buste timbrate che contenevano la corrispondenza e indicavano i loro destinatari, non è possibile stabilire se il controllo fosse conforme al diritto nazionale (a contrario, Zara c. Italia, n. 24424/03, § 34, 20 gennaio 2009). In queste circostanze, la Corte non rileva alcuna parvenza di violazione dell’articolo 8 della Convenzione. Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

C. Articolo 13 della Convenzione

48. Infine il ricorrente lamenta di non aver potuto disporre di un ricorso interno effettivo per contestare l’applicazione del regime speciale di detenzione in ragione del fatto che il ritardo con il quale il tribunale di sorveglianza ha esaminato il suo ricorso lo ha privato della possibilità di proporre ricorso per cassazione. Egli invoca l’articolo 13 della Convenzione che dispone:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»

49. La Corte rammenta che nella sentenza Ganci c. Italia del 30 ottobre 2003 (n. 41576/98), la Corte si è pronunciata sulla questione del diritto a un tribunale e sulle possibili ripercussioni dei ritardi con i quali i giudici competenti esaminano i ricorsi proposti avverso i decreti ministeriali che impongono il regime speciale di detenzione. Essa ha constatato la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. In precedenza, la Corte aveva esaminato la questione dal punto di vista dell’articolo 13 e aveva concluso per la violazione di questa disposizione (sentenza Messina c. Italia (n. 2), del 28 settembre 2000, n. 25498/94, §§ 84 97).

50. Nel caso di specie, la Corte nota che soltanto due ricorsi – quelli del 15 febbraio e del 1° agosto 1997 – sono stati rigettati dal tribunale di sorveglianza di Perugia (rispettivamente nel settembre 1997 e nel febbraio 1998) per mancanza di interesse del ricorrente, in quanto era scaduto il periodo di validità dei decreti impugnati. Il ricorrente afferma di aver presentato ricorso per cassazione due volte, ma non ha informato la Corte sull’esito di questi ricorsi

51. Di conseguenza, questo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché in parte tardivo e in parte non sostenuto e dunque deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Fatta in francese poi comunicata per iscritto il 24 settembre 2015.

Päivi Hirvelä
Presidente

Fatoş Aracı
Cancelliere aggiunto