Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 7 luglio 2015 - Ricorso n. 70462/13 - Gaetano Davide Greco c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita e rivista da Rita Carnevali, assistente linguistico, e dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 70462/13
Gaetano Davide GRECO
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita il 7 luglio 2015 in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
Ledi Bianku,
Nona Tsotsoria,
Paul Mahoney,
Faris Vehabović,
Yonko Grozev, giudici,
e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 28 ottobre 2013,
Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

  1. Il ricorrente, sig. Gaetano Davide Greco, è un cittadino italiano nato nel 1968 e residente a Marsala. È stato rappresentato dinanzi alla Corte dall’avv. F. Frusteri del foro di Marsala.

    A.  Le circostanze del caso di specie
     
  2. I fatti di causa, così come esposti dal ricorrente, si possono riassumere come segue.
  3. Il ricorrente fu accusato di far parte di un’associazione per delinquere di tipo mafioso. In particolare, secondo la tesi del procuratore, egli aveva fornito supporto logistico a dei capi mafiosi latitanti. Queste accuse si basavano, tra l’altro, sulle dichiarazioni rese al procuratore da un mafioso pentito, X, nonché sul contenuto di alcune intercettazioni ambientali e sulla testimonianza di un tale Y.
  4. Il 29 giugno 2007 il procuratore di Palermo chiese il rinvio a giudizio del ricorrente e di altre quattro persone.
  5. Il 6 agosto 2007 si tenne l’udienza preliminare. Il ricorrente e i suoi coimputati richiesero il giudizio abbreviato, un rito alternativo che comportava, in caso di condanna, una riduzione della pena (paragrafi 19-20 infra). La richiesta fu accolta dal giudice dell’udienza preliminare (di seguito il «GUP») di Palermo.
  6. Con sentenza del 30 ottobre 2007 il GUP condannò il ricorrente a sei anni di reclusione. Questa decisione era fondata, essenzialmente, sulle dichiarazioni di X, ritenute precise, credibili e avvalorate da altri elementi di prova, fra i quali il contenuto di una intercettazione ambientale realizzata nel parlatorio di un istituto penitenziario e la deposizione di Y. Quest’ultimo aveva affermato di aver venduto a tale «Tanino Greco», che il GUP identificò nel ricorrente, un vettura in seguito utilizzata da due capi mafiosi latitanti. In particolare, «Tanino» era il diminutivo del nome «Gaetano», e Y aveva indicato che l’acquirente della vettura lavorava, come il ricorrente, presso la discoteca O.
  7. Il ricorrente interpose appello contestando la forza probante degli elementi a suo carico e la legalità delle intercettazioni ambientali.
  8. Con sentenza del 4 maggio 2009, la corte d’appello ridusse la pena inflitta al ricorrente a cinque anni e quattro mesi di reclusione, confermò l’analisi del GUP e ritenne insussistenti i dubbi circa l’identificazione del ricorrente nell’acquirente della vettura utilizzata dai capi mafiosi. In queste circostanze, non risultò necessaria una nuova audizione di Y, richiesta dalla difesa. Per quanto riguarda la misura della pena, la corte d’appello ritenne opportuno ridurla, tenuto conto soprattutto del fatto che il contributo del ricorrente alle attività dell’associazione per delinquere di cui faceva parte era stato limitato, essenzialmente, a un supporto logistico.
  9. Il ricorrente presentò ricorso per cassazione.
  10. Con sentenza del 13 maggio 2010, la Corte di cassazione annullò la sentenza d’appello e rinviò alla corte d’appello di Palermo.
  11. In particolare la Corte di cassazione osservò che, ai sensi del codice di procedura penale (il «CPP»), soltanto in circostanze eccezionali le intercettazioni potevano essere realizzate con strumenti che non appartenevano alla procura. Nel caso di specie, tuttavia, in alcune delle ordinanze che disponevano le intercettazioni non era stata debitamente motivata l’esistenza di queste circostanze, fatto che impediva di utilizzare le intercettazioni in questione per decidere sulla fondatezza delle accuse.
  12. Il procedimento riprese dinanzi alla corte d’appello di Palermo, in funzione di giudice di rinvio.
  13. Con sentenza del 18 aprile 2011, quest’ultima confermò la sentenza del GUP del 30 ottobre 2007 (paragrafo 6 supra).
  14. Essa osservò che, anche se i risultati delle intercettazioni ambientali realizzate nel parlatorio dell’istituto penitenziario non potevano essere utilizzate contro il ricorrente, le dichiarazioni di X rimanevano precise, credibili e avvalorate da un sufficiente numero di elementi, ossia: a) le indagini eseguite sulla vettura utilizzata dai capi mafiosi; b) i verbali di due interrogatori di una tale sig.ra A.; c) le registrazioni video della casa della sig.ra A., dove era stata trovata la vettura in causa e dove si erano nascosti i capi mafiosi; d) le dichiarazioni di Y.
  15. Il ricorrente presentò ricorso per cassazione. Ripropose le sue doglianze relative alla sufficienza e alla pertinenza degli elementi a suo carico e affermò che la sua condotta poteva, tutt’al più, essere qualificata come connivenza personale. Inoltre eccepì la violazione del principio del divieto di reformatio in pejus, sancito dall’articolo 597, comma 3, del CPP (paragrafo 21 infra). Osservò che la pena inflitta in primo grado (sei anni di reclusione) era stata ridotta in appello a cinque anni e quattro mesi; poiché solo l’imputato aveva impugnato queste sentenze, il giudice di rinvio non poteva applicare una pena superiore a cinque anni e quattro mesi. Tuttavia, confermando la sentenza del GUP, la corte d’appello di Palermo aveva condannato il ricorrente a sei anni di reclusione, fatto che, secondo l’interessato, non si conciliava con una giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale il divieto di reformatio in pejus si applicava anche al processo di rinvio (il ricorrente citò, in particolare, le seguenti sentenze della Corte di cassazione: sezione V, 16 gennaio 1999, n. 493; sezione I, 3 luglio 2001, n. 26898; sezione II, 8 maggio 2009, n. 34557, Gaeta, rv. 245234; e sezione VI, 30 settembre 2009, n. 44488, Zaccaria, rv. 245107).
  16. Nei suoi mezzi di ricorso, il ricorrente non contestava il rigetto della sua istanza con la quale chiedeva venisse disposta una nuova audizione di Y.
  17. Con sentenza del 19 marzo 2013, depositata il 3 maggio 2013, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’appello di Palermo avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, respinse il ricorso del ricorrente.
  18. In particolare, essa ritenne che non vi era stata alcuna violazione del principio del divieto di reformatio in pejus. In effetti, la giurisprudenza citata dal ricorrente (soprattutto la sentenza della VI sezione, Zaccaria), indicava anche che quando, come nel caso di specie, la sentenza d’appello era stata annullata per motivi procedurali, l’articolo 597, comma 3, del CPP vietava unicamente di applicare una pena più severa di quella inflitta nella sentenza di primo grado.

    B.  Il diritto interno pertinente

    1.  Il giudizio abbreviato
  19. Il giudizio abbreviato è disciplinato agli articoli 438 e da 441 a 443 del CPP. Esso si basa sull’ipotesi che la causa possa essere definita allo stato degli atti nel corso dell’udienza preliminare. La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino che non siano state formulate le conclusioni all’udienza preliminare. In caso di adozione del giudizio abbreviato, l’udienza si svolge in camera di consiglio ed è dedicata alla difese orali delle parti. In linea di principio le parti devono basarsi sugli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, anche se, a titolo eccezionale, possono essere ammesse delle prove orali. In particolare, l’articolo 438, comma 5, del CPP prevede che
    «L’imputato (...) può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzati. In tal caso, il pubblico ministero può chiedere l’ammissione di prova contraria. (...).»
  20. Se il giudice decide di condannare l’imputato, la pena inflitta è ridotta di un terzo (articolo 442, comma 2). Le disposizioni interne pertinenti sono descritte nella sentenza Hermi c. Italia ([GC], n. 18114/02, §§ 27-28, CEDU 2006 XII; si vedano anche Fera c. Italia, n. 45057/98, §§ 30-34, 21 aprile 2005, e Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, §§ 27-28, 17 settembre 2009).

    2.  Il divieto di reformatio in pejus
     
  21. Nelle sue parti pertinenti, l’articolo 597, comma 3, del CPP è così formulato:
    «Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici (…).»

    3.  La riparazione per «ingiusta» detenzione
     
  22. L’articolo 314 del CPP prevede un diritto alla riparazione per la custodia cautelare detta «ingiusta», in due casi distinti: quando, al termine del procedimento penale di merito, l’imputato è stato prosciolto (articolo 314, comma 1) o quando risulti accertato che il prosciolto sia stato sottoposto o mantenuto in custodia cautelare senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 del CPP (articolo 314, comma 2; si veda, per la giurisprudenza interna che applica ciò, N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, §§ 30-31, CEDU 2002-X).

    MOTIVI DI RICORSO
     
  23. Invocando l’articolo 6 della Convenzione, il ricorrente lamenta una mancanza di equità del procedimento penale a suo carico.
  24. Invocando l’articolo 7 della Convenzione, il ricorrente sostiene di essere stato condannato a una pena più severa di quella prevista dalla legge.
  25. Invocando gli articoli 5 e 13 della Convenzione, il ricorrente afferma di avere subito una detenzione illegale e di non disporre di alcun ricorso efficace per far valere il suo diritto a una compensazione.

    IN DIRITTO

    A. Motivo di ricorso relativo all’articolo 6 della Convenzione

     
  26. Il ricorrente lamenta di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni fatte durante le indagini preliminari da X e Y, due testimoni che la difesa non ha avuto la possibilità di interrogare. Egli deplora anche il rigetto della sua domanda volta a ottenere una nuova audizione di Y e contesta la pertinenza e la forza probante degli elementi sui quali si basa la sua condanna. Lamenta infine che i giudici nazionali non abbiano tenuto debitamente conto di alcune circostanze favorevoli alla difesa.
    Il ricorrente invoca l’articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita:
    «1.  Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale (...) il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (...).
    (...).
    3.  In particolare, ogni accusato ha diritto di:
    (...)
    d)  esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
    (...).»
  27. La Corte osserva anzitutto che il ricorrente non ha potuto «interrogare o far interrogare» X e Y, i due principali testimoni a carico. In effetti i giudici di merito hanno utilizzato, per decidere sulla fondatezza delle accuse, le dichiarazioni che i testimoni in questione avevano fatto alla procura nel corso delle indagini preliminari. Essa osserva tuttavia che si trattava di una conseguenza dell’adozione del rito abbreviato, una procedura semplificata la cui ragione d’essere è l’intenzione dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti, cioè sulla base degli atti compiuti durante l’istruttoria.
  28. La Corte rammenta che il rito abbreviato comporta dei vantaggi indiscutibili per l’imputato: in caso di condanna, questi beneficia di una importante riduzione di pena e il pubblico ministero non può interporre appello avverso le sentenze di condanna che non modificano la qualificazione giuridica del reato. In compenso, il rito abbreviato è accompagnato da un’attenuazione delle garanzie procedurali offerte dal diritto interno, in particolare per quanto riguarda la pubblicità del dibattimento e la possibilità del dibattimento e la possibilità di chiedere la produzione di elementi di prova non contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (Kwiatkowska c. Italia (dec.), n. 52868/99, 30 novembre 2000; Hermi, sopra citata, § 78; e Hany c. Italia (dec.), n. 17543/05, 6 novembre 2007). In effetti, nell’ambito del rito abbreviato le parti devono basarsi sui documenti presenti nel fascicolo del pubblico ministero anche se, in via eccezionale, possono essere ammesse prove orali (Scoppola (n. 2), sopra citata, §§ 27 e 134, e Campisi c. Italia (dec.), n. 10948/05, § 24, 12 febbraio 2013).
  29. La Corte osserva poi che il ricorrente ha chiesto l’adozione del rito abbreviato e ricorda che né la lettera né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare spontaneamente in maniera espressa o tacita alle garanzie di un processo equo, ma una tale rinuncia deve essere non equivoca e non deve contrastare con nessun interesse pubblico importante (Håkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie A n. 171-A; Kwiatkowska, decisione sopra citata; e Hermi, sopra citata, § 73).
  30. Nel caso di specie il ricorrente, che era assistito da un avvocato, era senz’altro in grado di conoscere le conseguenze derivanti dalla sua richiesta di adozione del rito abbreviato. A questo riguardo essa osserva che l’articolo 438 c. 5 del CPP permette all’imputato di subordinare la propria domanda alla produzione di nuove prove necessarie alla decisione (paragrafo 19 supra). Tuttavia, ciò non è avvenuto nel caso di specie, in quanto il ricorrente ha accettato di essere giudicato esclusivamente sulla base degli elementi raccolti dalle autorità durante le indagini preliminari. Pertanto, egli sapeva o avrebbe dovuto sapere, grazie al suo avvocato, che l’udienza sarebbe stata limitata, in linea di principio, alle difese orali delle parti, senza assunzione di prove o interrogatori di testimoni (si vedano, mutatis mutandis, Hermi, sopra citata, § 87). In queste circostanze, la Corte considera che l’interessato ha rinunciato inequivocabilmente al proprio diritto di ottenere la citazione dei testimoni. Per di più, la controversia non sembrava sollevare questioni di interesse pubblico che si opponessero a una tale rinuncia (si veda, mutatis mutandis, Kwiatkowska, decisione sopra citata).
  31. Del resto, la Corte osserva che, nell’ambito del secondo ricorso per cassazione, il ricorrente non ha contestato il rigetto della sua domanda volta a ottenere una nuova audizione di Y (paragrafo 16 supra), e non ha dunque esaurito, su questo punto, le vie di ricorso che gli erano aperte nel diritto italiano.
  32. Infine, nella misura in cui il ricorrente lamenta la valutazione delle prove fatta dai giudici di merito, la Corte rammenta che non è suo compito esaminare gli errori di fatto o di diritto asseritamente commessi da un giudice interno, salvo se e nella misura in cui questi possano aver pregiudicato i diritti e le libertà sanciti dalla Convenzione (Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V), e che spetta in linea di principio ai giudici nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Pacifico c. Italia (dec.), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012; Plesic c. Italia (dec.), n. 16065/09, § 33, 2 luglio 2013; e Sampech c. Italia (dec.), n. 55546/09, § 98, 19 maggio 2015).
  33. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte non vede alcuna apparenza di violazione dei principi del processo equo e/o delle disposizioni dei paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 della Convenzione.
  34. Di conseguenza questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

    B. Motivo di ricorso relativo all’articolo 7 della Convenzione

     
  35. Il ricorrente lamenta di avere subito un aggravamento della pena da parte del giudice di rinvio in violazione del divieto di reformatio in pejus previsto dall’articolo 597 comma 3 del CPP. In effetti, benché in appello la pena del ricorrente sia stata ridotta a cinque anni e quattro mesi, il giudice di rinvio ha confermato la condanna di primo grado, ossia sei anni di reclusione. Il ricorrente rammenta che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 597 sopra citato anche al procedimento di rinvio e afferma che solo una nullità assoluta del processo di appello poteva giustificare la conferma della pena inflitta dal GUP. Tuttavia, nel caso di specie, la sentenza di appello è stata cassata semplicemente a causa dell’impossibilità di utilizzare le intercettazioni.
    Il ricorrente invoca l’articolo 7 della Convenzione, che recita:
    «1.  Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso.
    2.  Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.»

    1. Principi generali

  36. La Corte rammenta che l’articolo 7 della Convenzione sancisce il principio della legalità dei delitti e delle pene – «nullum crimen, nulla poena sine lege» – (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260-A). Se vieta in particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a danno dell’imputato, ad esempio per analogia (Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000-VII, e Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 78, CEDU 2013).
  37. Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo essersi rivolta a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil des arrêts et décisions 1996 V; Del Rio Prada, sopra citata, § 79; e Sampech, decisione sopra citata, § 123).
  38. Pertanto, il compito della Corte è, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha comportato l’esercizio dell’azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione (Achour c. Francia [GC], n. 67335/01, § 43, CEDU 2006 IV; Scoppola (n. 2), sopra citata, § 95; e Del Rio Prada, sopra citata, § 80).
  39. Inoltre, la Corte rammenta che la nozione di «diritto» («law») utilizzata nell’articolo 7 della Convenzione corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della Convenzione: essa include il diritto di derivazione sia legislativa che giurisprudenziale, e implica delle condizioni qualitative, tra cui quelle dell’accessibilità e della prevedibilità (E.K. c. Turchia, n. 28496/95, § 51, 7 febbraio 2002). Queste condizioni qualitative devono essere soddisfatte sia per quanto riguarda la definizione di un reato che per quanto riguarda la pena che quest’ultimo implica (Del Rio Prada, sopra citata, § 91).
  40. Anche a causa del carattere generico delle leggi, il contenuto delle stesse non può presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche tipiche di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generiche piuttosto che a liste esaustive. Pertanto molte leggi utilizzano, per forza di cose, formule più o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla prassi (Kokkinakis, sopra citata, § 40, e Cantoni, sopra citata, § 31). Di conseguenza, in qualsiasi sistema giuridico, per quanto chiaro possa essere il contenuto di una disposizione di legge, ivi compresa una disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà sempre chiarire i punti ambigui e adattarsi ai cambiamenti di situazione. Inoltre la certezza, benché altamente auspicabile, è accompagnata a volte da una eccessiva rigidità; ora, il diritto deve sapersi adattare ai cambiamenti di situazione (Scoppola (n. 2), sopra citata, § 100, e Del Rio Prada, sopra citata, § 92).
  41. Infine la Corte rammenta che la portata della nozione di prevedibilità dipende in larga misura dal contenuto del testo di cui si tratta, dall’ambito che copre e dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si oppone a che la persona interessata sia indotta a rivolgersi a consulenti illuminati per valutare, ad un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (Scoppola (n. 2), sopra citata, § 102; Soros c. Francia, n. 50425/06, § 53, 6 ottobre 2011; e Sampech, decisione sopra citata, § 123).

    2. Applicazione di questi principi nel caso di specie

     
  42. La Corte osserva anzitutto che il ricorrente non lamenta una mancanza di chiarezza e precisione dei testi che punivano gli atti per i quali è stato condannato. L’interessato non contesta nemmeno che la pena inflitta rispettasse i limiti previsti nella disposizione che puniva il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Egli afferma, invece, che tale pena era contraria al divieto di reformatio in pejus sancito dall’articolo 597 comma 3 del CPP. In particolare, secondo il ricorrente, tale disposizione vietava al giudice di rinvio di applicare una pena superiore a cinque anni e quattro mesi, che era la sanzione inflitta dalla corte d’appello di Palermo nella sua sentenza del 4 maggio 2009 (paragrafo 8 supra).
  43. La Corte è pronta ad accettare che, benché faccia parte del CPP, le cui disposizioni regolano di norma la procedura da seguire per perseguire e giudicare i reati, l’articolo 597 comma 3 sopra citato possa essere considerato una disposizione di diritto penale materiale, in quanto verte sulla severità della pena da infliggere quando l’appello viene interposto unicamente dall’imputato (si vedano, mutatis mutandis, Scoppola (n. 2), sopra citata, §§ 110-113, e, a contrario, Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, §§ 78-80, 12 febbraio 2013).
  44. La Corte osserva per di più che la disposizione in questione prescrive che quando, come nel caso di specie, l’appello viene interposto soltanto dall’imputato, « il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità» di quella enunciata nella sentenza appellata. Come il ricorrente ha indicato nei suoi motivi di ricorso, la Corte di cassazione aveva precisato che tale regola si applicava anche al processo di rinvio (paragrafo 15 supra). Tuttavia, come ha osservato la Corte di cassazione nella sua sentenza del 19 marzo 2013, questa stessa giurisprudenza indicava anche che, quando, come nel caso di specie, la sentenza di appello era stata annullata per motivi procedurali, l’articolo 597 comam 3 del CPP vietava unicamente di applicare una pena più severa di quella inflitta nella sentenza di primo grado (paragrafo 18 supra), ossia, nel caso del ricorrente, sei anni di reclusione. Questa è stata precisamente la sanzione definitiva applicata al ricorrente dal giudice di rinvio.
  45. Secondo la Corte, l’interpretazione data all’articolo 597 comma 3 del CPP dalla Corte di cassazione non è andata oltre il testo della legge e non è né estensiva né analogica. Essa non è pertanto incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Sampech, decisione sopra citata, § 130). Inoltre, la giurisprudenza controversa risaliva al 2009 ed era dunque anteriore alla pronuncia della sentenza del giudice di rinvio, adottata il 18 aprile 2011 (paragrafo 13 supra).
  46. In queste circostanze la Corte non può concludere che al ricorrente sia stata inflitta una pena più grave di quella prevista dalla legge. Pertanto nel caso di specie non è ravvisabile alcuna apparenza di violazione dell’articolo 7 della Convenzione.
  47. Di conseguenza, questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

    C. Motivo di ricorso relativo agli articoli 5 e 13 della Convenzione
     
  48. Il ricorrente sostiene che il sistema giuridico italiano non gli garantisce un ricorso effettivo per ottenere una compensazione per la sua privazione della libertà, secondo lui illegittima. Egli sottolinea di avere tentato tutte le vie di ricorso contro la sua condanna e afferma che il suo caso non rientra tra quelli che, ai sensi dell’articolo 314 del CPP (paragrafo 22 supra), permettono di chiedere la riparazione per l’ingiusta detenzione.
    Il ricorrente invoca gli articoli 5 e 13 della Convenzione.
    Nelle sue parti pertinenti l’articolo 5 recita:
    «1.  Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
    a)  se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;
    (...).
    5.  Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione.»
    L’articolo 13 recita:
    «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
  49. La Corte ha appena concluso che la condanna del ricorrente è stata pronunciata a seguito di un processo conforme alle esigenze dell’articolo 6 della Convenzione e che la pena inflitta non era più severa di quella prevista dalla legge. In queste circostanze, la privazione della libertà del ricorrente non può essere considerata illegale o arbitraria e si traduce in una detenzione regolare «in seguito a condanna da parte di un tribunale competente» ai sensi dell’articolo 5 § 1 a) della Convenzione. Pertanto nel caso di specie non è ravvisabile alcuna apparenza di violazione di questa disposizione. Il ricorrente non è dunque titolare di un diritto a una compensazione ai sensi del paragrafo 5 dell’articolo 5, che presuppone che una violazione di uno degli altri paragrafi della stessa disposizione sia stata accertata da un’autorità nazionale o dalle istituzioni della Convenzione (N.C. c. Italia, sopra citata, § 49).
  50. Infine, la Corte rammenta che l’articolo 5 § 5 costituisce una lex specialis rispetto alle esigenze più generali dell’articolo 13 (Tsirlis e Kouloumpas c. Grecia, 29 maggio 1997, § 73, Recueil 1997 III, e Andrei Georgiev c. Bulgaria, n. 61507/00, § 70, 26 luglio 2007). Non è dunque necessario esaminare la causa anche dal punto di vista di quest’ultima disposizione.
  51. Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 ) e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 24 settembre 2015.
Fatoş Aracı
Cancelliere aggiunto

Päivi Hirvelä
Presidente