Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 21 luglio 2015 - Ricorso n. 38369/09 - Schipani e altri c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata dal Rita Carnevali, assistente linguistico, e rivista con la dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

CAUSA SCHIPANI E ALTRI c. ITALIA

(Ricorso n. 38369/09)

SENTENZA

STRASBURGO

21 luglio 2015

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Schipani e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
George Nicolaou,
Ledi Bianku,
Paul Mahoney,
Krzysztof Wojtyczek,
Yonko Grozev, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 30 giugno 2015,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1.  All'origine della causa vi è un ricorso (n. 38369/09) proposto contro la Repubblica italiana con il quale quindici cittadini di tale Stato («i ricorrenti») hanno adito la Corte il 6 luglio 2009 in virtù dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2.  I ricorrenti sono stati rappresentati dall’avvocato M. Giungato del foro di Cosenza. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, G.M. Pellegrini.
3.  I ricorrenti denunciano che il procedimento civile da loro intentato non è stato equo e che sono stati vittime di un trattamento discriminatorio e di una violazione del diritto al rispetto dei loro beni.
4.  Il 16 aprile 2014 il ricorso è stato comunicato al Governo.

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5.  L'elenco dei ricorrenti è riportato nell'allegato.
6.  I ricorrenti sono medici che si erano iscritti a dei corsi di specializzazione prima dell'anno accademico 1991/1992.
7.  Il 20 luglio 1996 essi citarono il Presidente del Consiglio dei Ministri a comparire innanzi al tribunale di Roma per ottenere la riparazione dei danni che ritenevano di aver subito in ragione della inerzia dello Stato italiano nel recepire nel diritto interno le direttive comunitarie n. 363 del 16 giugno 1975 e n. 82 del 26 gennaio 1976.
8.  Essi sostenevano che, ai sensi di queste direttive, i medici avevano il diritto, durante il periodo di formazione professionale, a una remunerazione adeguata e che gli Stati membri dovevano assimilare nel loro sistema giuridico i principi enunciati nelle direttive in questione entro un termine che era scaduto il 31 dicembre 1982. I ricorrenti indicavano che l'Italia aveva adempiuto a tale obbligo soltanto con il decreto legislativo n. 257 dell'8 agosto 1991. Secondo loro, quest'ultimo prevedeva che, a decorrere dall'anno accademico 1991/1992, i medici ammessi a seguire dei corsi di specializzazione avevano diritto a una remunerazione il cui importo sarebbe stato, per l'anno 1991, di 21.500.000 lire italiane (ITL – circa 11.103 euro (EUR)), e che il diploma ottenuto al termine di questo corso dava diritto a punteggi valutabili nell'ambito dei concorsi di accesso ai profili professionali medici.
9.  Secondo i ricorrenti, il recepimento tardivo nel diritto interno dei principi enunciati nelle direttive sopra menzionate li aveva privati, prima del 1991, dei diritti riconosciuti dalle disposizioni comunitarie. Essi pertanto chiedevano 21.500.000 ITL ciascuno per ogni anno di specializzazione seguito prima del 1991, più una somma da fissare in via equitativa per il danno conseguente alla mancata attribuzione del punteggio valutabile nell'ambito dei concorsi riservati ai medici.
10.  Con sentenza del 21 febbraio 2000, depositata il 1° marzo 2000, il tribunale di Roma rigettò la domanda dei ricorrenti.
11.  Il tribunale osservava che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee  (CGCE) aveva ritenuto che lo Stato doveva risarcire le persone che avrebbero subito un pregiudizio conseguente al mancato rispetto degli obblighi comunitari, fra i quali figurava il dovere di recepire nel diritto interno le direttive dell'unione europea (UE).
12.  Sempre secondo il tribunale, la CGCE (sentenza del 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari) aveva indicato che la direttiva n. 363 del 16 giugno 1975 era sufficientemente chiara dal momento che essa avrebbe stabilito il diritto del medico iscritto a una scuola di specializzazione di percepire una remunerazione. Lo Stato avrebbe tuttavia avuto libertà nel fissare l'importo di quest'ultima, nel determinare l'organo competente a corrisponderla e nello stabilire le condizioni per beneficiarne (soprattutto per quanto riguarda le modalità della formazione). Pertanto, i ricorrenti non sarebbero stati titolari di un diritto soggettivo, ma di un semplice interesse legittimo, ossia una posizione individuale protetta in maniera indiretta e subordinata rispetto all'interesse generale (si veda, ad esempio, Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, § 25, CEDU 2012). Per il tribunale questa constatazione non era sufficiente per respingere la domanda dei ricorrenti, perché la Corte di cassazione aveva ormai ammesso che gli interessi legittimi potessero dar luogo a risarcimento (si veda, in particolare, la sentenza delle sezioni unite n. 500 del 1999).
13.  Sempre secondo il tribunale, il ritardo nel recepire le direttive costituiva una violazione «manifesta e grave» degli obblighi statali; inoltre, secondo il tribunale, non vi erano disposizioni transitorie che regolamentassero la situazione dei medici che avevano iniziato un corso di specializzazione prima del 31 dicembre 1983, in quanto il decreto legislativo n. 257 del 1991 si applicava soltanto a partire dall'anno accademico 1991/1992. Il tribunale riteneva che il pregiudizio denunciato dai ricorrenti derivasse dunque dal comportamento dello Stato e meritasse tutela.
14.  Tuttavia, esso indicava che, per ottenere un risarcimento, i ricorrenti dovevano provare che i corsi di specializzazione che avevano seguito soddisfacevano le condizioni previste dal diritto comunitario e che i diplomi ottenuti non erano stati valutati conformemente a quest'ultimo nell'ambito dei concorsi riservati ai medici. Concludeva che, poiché nella fattispecie non era stata prodotta alcuna prova di questo tipo, la domanda degli interessati doveva essere rigettata.
15.  I ricorrenti interposero appello avverso questa decisione, sostenendo, essenzialmente, che non spettava loro provare l'esistenza di un pregiudizio, in quanto quest'ultimo sarebbe stato una conseguenza automatica e necessaria della condotta, secondo loro negligente, dello Stato (damnum in re ipsa).
16.  Con sentenza del 18 settembre 2003, depositata il 6 ottobre 2003, la corte d'appello di Roma rigettò l'appello dei ricorrenti.
17.  Essa osservava che l'applicabilità immediata delle direttive comunitarie nel sistema giuridico nazionale era oggetto di un dibattito giurisprudenziale. Indicava che, con delle sentenze emesse a pochi giorni di distanza (n. 4915 del 1° aprile 2003 e n. 7630 del 16 maggio 2003), la terza sezione della Corte di cassazione era giunta a conclusioni opposte su questo punto. Secondo la corte d'appello, le direttive invocate dai ricorrenti non potevano avere applicazione immediata, in quanto esse enunciavano il principio della «remunerazione adeguata» senza fissarne l'importo. Sempre secondo la corte d'appello, non si poteva presumere che questo importo fosse lo stesso di quello indicato nel decreto legislativo n. 257 del 1991 il quale non si applicherebbe retroattivamente. La corte d'appello riteneva che questa interpretazione fosse coerente con la giurisprudenza sviluppata dalla Corte di cassazione in una causa analoga (si veda la sentenza 9842 del 2002) e concludeva che, in mancanza di una maggiore precisione del diritto comunitario, non poteva essere ritenuta alcuna responsabilità dello Stato per il ritardo nel recepimento delle direttive in causa.
18.  Ad abundantiam, la corte d'appello precisava che i ricorrenti non avevano prodotto la documentazione necessaria per provare la durata e l'intensità dei corsi di specializzazione che avrebbero seguito.
19.  I ricorrenti presentarono ricorso per cassazione indicando che essi non avevano chiesto il pagamento della remunerazione prevista dalle direttive comunitarie, ma avevano eccepito l'omesso recepimento di queste direttive nel diritto interno. In tali circostanze, secondo loro non era pertinente sapere se la direttiva n. 363 del 16 giugno 1975 fosse o meno immediatamente applicabile in Italia. Secondo i ricorrenti, in una causa analoga riguardante un medico che non avrebbe avuto la possibilità di frequentare un corso di specializzazione e di ricevere la relativa remunerazione, la Corte di cassazione aveva riconosciuto l'esistenza di una responsabilità dello Stato (sentenza della terza sezione, n. 7630 del 16 maggio 2003, sopra citata).
20.  I ricorrenti sostenevano anche che, secondo la CGCE, lo Stato era tenuto a risarcire le persone: a)  quando una direttiva, anche non direttamente applicabile nel diritto interno, conferiva dei diritti alla persona; b) quando questi diritti potevano essere individuati sulla base delle disposizioni della direttiva; e c) quando vi era un nesso di causalità tra la violazione degli obblighi dello Stato e il pregiudizio subito dalla persona. Ora, secondo loro, la corte d'appello non avrebbe motivato la sua decisione relativamente alla presenza o all'assenza di questi elementi.
21.  All'argomento della corte d'appello secondo il quale essi non avevano prodotto la documentazione che avrebbe potuto provare la durata e l’intensità dei corsi di specializzazione seguiti, gli interessati rispondevano che, secondo la sentenza n. 7630 del 2003 (sopra citata), l'inerzia dello Stato aveva impedito ai medici di fornire questa prova.
22.  Peraltro, essi sostenevano che, nella sentenza Carbonari (sopra citata), la CGCE aveva affermato che le persone lese dal mancato recepimento delle direttive in questione avevano diritto alla riparazione dei danni, ossia a misure che li ponessero, quanto più possibile, nella situazione nella quale si sarebbero trovati se il diritto comunitario non fosse stato ignorato. Essi indicavano che, pertanto, l'unica prova che potevano fornire era quella di aver seguito dei corsi di specializzazione tra il 1982 e il 1991. Il pregiudizio che ne derivava per loro sarebbe stato in re ipsa. La CGCE stessa (sentenza del 3 ottobre 2000, causa C-371/97, Gozza) avrebbe precisato che i medici iscritti alle scuole di specializzazione prima dell'anno accademico 1991/1992 avevano seguito una formazione conforme alle disposizioni comunitarie.
23.  Alla luce di questi argomenti, i ricorrenti chiedevano alla Corte di cassazione di accogliere il loro ricorso. A titolo sussidiario, chiedevano anche di sottoporre alla CGCE una questione pregiudiziale per sapere: a)  se il mancato recepimento, da parte dello Stato italiano, delle direttive nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976 entro il termine stabilito, costituisse una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, che comportava l'obbligo dello Stato di riparare il pregiudizio subito dalle persone lese; b) se le condizioni previste dal decreto legislativo n. 257 del 1991 rendessero impossibile o eccessivamente difficile ottenere questo risarcimento.
24.  Con la sentenza del 14 novembre 2008, depositata il 9 gennaio 2009, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d'appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti punti controversi, respinse il ricorso dei ricorrenti.
25.  Essa ribadiva quanto affermato dalla corte d'appello secondo la quale le direttive nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976 non erano direttamente applicabili in Italia in quanto non fissavano l'importo della «remunerazione adeguata». Essa indicava inoltre che il ritardo nel recepire queste direttive faceva sorgere, secondo la giurisprudenza della CGCE, il diritto alla riparazione dei danni subiti dalle persone. Questi danni sarebbero consistiti nella perdita della possibilità di ottenere i benefici previsti dalle direttive in questione (si vedano, in particolare, Corte di cassazione, sentenze n. 3283 del 12 febbraio 2008 e n. 6427 dell'11 marzo 2008).
26.  La Corte di cassazione notava che i ricorrenti non avevano chiesto al giudice d'appello la riparazione di questo danno specifico, ma che essi avevano sostenuto che il danno conseguente al ritardo in causa era in re ipsa e che il decreto legislativo n. 257 del 1991 aveva creato una discriminazione tra i medici che avevano seguito dei corsi di specializzazione prima della sua entrata in vigore e quelli che li avevano seguiti dopo quest'ultima. Essa riteneva che la corte d'appello avesse motivato la sua decisione relativamente a queste questioni e ammetteva che la sua motivazione sarebbe stata insufficiente se si fosse trattato di un motivo di ricorso relativo alla perdita della possibilità di ottenere i benefici in questione, ma che non era questo il caso per quanto riguardava il motivo dei ricorrenti sollevato dinanzi alla corte d'appello.
27.  La sentenza della Corte di cassazione non conteneva alcun riferimento alla questione pregiudiziale che i ricorrenti avevano sollevato a titolo sussidiario.
28.  Il 19 gennaio 2009 la cancelleria della Corte di cassazione informò il rappresentante dei ricorrenti che la motivazione della sentenza del 14 novembre 2008 era stata depositata e che poteva essere consultata.

II.  IL DIRITTO INTERNO E IL DIRITTO EUROPEO PERTINENTI

A.  Le disposizioni in materia di riparazione dei danni causati nell'esercizio di funzioni giurisdizionali

29.  L'articolo 2 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 relativo alla riparazione dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali e alla responsabilità civile dei magistrati, nella sua versione in vigore all'epoca dei fatti, era così formulato:
«1.  Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per il diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2.  Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3.  Costituiscono colpa grave:
a)  la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b)  l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c)  la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d)  l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.»
30.  Ai sensi dell'articolo 3 comma 1 della legge n. 117 del 1988 costituivano un diniego di giustizia:
«il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria.»
31.  Gli articoli seguenti della legge precisavano le condizioni e le modalità dell'avvio di un'azione di riparazione ai sensi degli articoli 2 o 3 di questa legge, nonché le azioni che potevano essere avviate, a posteriori, nei confronti del magistrato che si era reso colpevole di dolo o di colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, o di un diniego di giustizia. In particolare, ai sensi dell'articolo 4, comma 2, di questa legge, l'azione contro lo Stato doveva essere esercitata, a pena di decadenza, entro due anni a decorrere, tra l'altro, dalla data in cui la decisione in causa era divenuta definitiva.
32.  La legge n. 117 del 1988 è stata modificata dalla legge n. 18 del 27 febbraio 2015, entrata in vigore il 19 marzo 2015. Questa riforma ha tenuto conto, tra l'altro, dei principi enunciati dalla CGCE nella sua sentenza Traghetti del Mediterraneo (paragrafi 33-35 infra). Essa precisa, in particolare, che si è in presenza di «colpa grave» quando vi è manifesta violazione della legge italiana o del diritto dell’UE, e che tale violazione si valuta tenendo conto soprattutto della inosservanza dell'obbligo di porre una questione pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267 § 3 del Trattato sul funzionamento dell'UE nonché dell'eventuale incompatibilità della decisione giudiziaria interna con l'interpretazione del diritto dell'UE da parte della CGCE. La legge n. 18 del 2015 ha inoltre portato da due a tre anni il termine previsto dall'articolo 4 comma 2 della legge n. 117 del 1988 (paragrafo 31 supra).
B.  La giurisprudenza della CGCE
33.  Nella sua sentenza Traghetti del Mediterraneo c. Italia (13 giugno 2006, causa C-173/03), la CGCE è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla questione pregiudiziale sul «principio e sulle condizioni per la sussistenza della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per i danni arrecati ai singoli da una violazione del diritto comunitario, allorquando tale violazione è imputabile a un organo giurisdizionale nazionale». La CGCE ha rammentato che, nella sua sentenza Köbler c. Austria (30 settembre 2003, causa C-224/01), essa aveva ribadito che il principio secondo il quale uno Stato membro era obbligato a riparare i danni provocati alla persona da violazioni del diritto comunitario che gli erano imputabili era valido per tutti i tipi di violazione del diritto comunitario e per qualsiasi organo di questo Stato la cui azione od omissione fosse all'origine della trasgressione. Pertanto, secondo la CGCE, le persone dovevano, sotto alcune condizioni, ottenere la riparazione dei pregiudizi che erano stati loro provocati da una violazione del diritto comunitario ascrivibile alla decisione di un organo giurisdizionale nazionale che statuiva in ultimo grado. La CGCE ha ammesso che la responsabilità dello Stato in questo settore non era illimitata e che sussisteva soltanto nel caso eccezionale in cui l’organo giurisdizionale nazionale in questione avesse «manifestamente ignorato il diritto applicabile». Essa ha aggiunto che una «manifesta violazione» di questo tipo poteva essere commessa nell'esercizio dell’attività interpretativa, da parte giudice nazionale, soprattutto nelle due ipotesi seguenti:

  • se il giudice dava ad una regola di diritto materiale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare riguardo alla giurisprudenza pertinente della CGCE in questa materia;
  • se la sua interpretazione del diritto nazionale era tale da arrivare, in pratica, alla violazione del diritto comunitario applicabile.

Per la CGCE, questa manifesta violazione si valutava in particolare rispetto ad un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere giustificabile o ingiustificabile dell'errore di diritto commesso o la mancata esecuzione, da parte del giudice in causa, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale, ed era comunque presunta quando la decisione interessata interveniva violando manifestamente la giurisprudenza della CGCE in materia.

34.  Sviluppando i principi enunciati nella sentenza Köbler, la CGCE ha poi affermato che sarebbe in contraddizione con il diritto comunitario una legislazione che escludesse, in maniera generale, l’esistenza della responsabilità dello Stato quando la violazione imputabile a un organo giurisdizionale di questo Stato derivava da una valutazione dei fatti e delle prove. In effetti, secondo la CGCE una siffatta valutazione poteva anche condurre, in alcuni casi, a una manifesta violazione del diritto applicabile. Sempre secondo la CGCE, se il diritto nazionale poteva precisare i criteri che dovevano essere soddisfatti perché sussistesse la responsabilità dello Stato, questi criteri non potevano tuttavia imporre esigenze più severe di quelle che derivavano dalla condizione di una manifesta violazione del diritto applicabile. Essa ha precisato che la persona aveva diritto alla riparazione se era provato che la norma del diritto comunitario manifestamente violata aveva come oggetto quello di conferirgli dei diritti e che esisteva un nesso di causalità diretto tra la violazione denunciata e il danno subito dall'interessato. Essa ha aggiunto che il diritto comunitario si opponeva anche ad una legislazione nazionale che - come quella dell'Italia a quella epoca, (paragrafi 29-31 supra) - limitava la responsabilità statale ai soli casi del dolo o della colpa grave del giudice, se una limitazione di questo tipo portava ad escludere l’esistenza di una responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui era stata commessa una manifesta violazione del diritto applicabile.

35.  Alla luce delle considerazioni che precedono, la CGCE ha enunciato nella sua sentenza Traghetti del Mediterraneo, i seguenti principi di diritto:
«46.  (...) Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.»
«Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53 - 56 della sentenza Köbler del 30 settembre 2003 (C-224/01).»

IN DIRITTO

I.  QUESTIONE PRELIMINARE

36.  Nell'allegato alle sue osservazioni di replica del 10 dicembre 2014, la rappresentante dei ricorrenti ha prodotto due dichiarazioni con le quali i signori Pasquale Marra e Piersandro Tresca (che figurano ai numeri 7 e10 dell’elenco dei ricorrenti allegato alla presente sentenza) dichiarano di rinunciare al loro ricorso.

37.  La Corte ha preso nota della loro rinuncia. Essa considera pertanto che il settimo e il decimo ricorrente non intendono più mantenere il loro ricorso ai sensi dell'articolo 37 § 1 a) della Convenzione. Peraltro essa ritiene che il rispetto dei diritti dell'uomo tutelati dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non richieda che essa prosegua l'esame del ricorso per quanto riguarda i due ricorrenti in questione.

38.  Ne consegue che il ricorso deve essere cancellato dal ruolo per quanto riguarda i signori Pasquale Marra e Piersandro Tresca.

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

39.  I ricorrenti sostengono che la procedura che si è svolta dinanzi al tribunale di Roma non è stata equa.
A tale proposito invocano l'articolo 6 § 1 della Convenzione, che, nelle parti pertinenti al presente caso di specie, è così formulato:
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale (...), il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...).»

40.  Il Governo contesta questa tesi.

A.  Sulla ricevibilità

1.  L'eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne

a)  L'eccezione del Governo

41.  Il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Esso indica che, se la Corte di cassazione ha applicato male la teoria dell'atto chiaro e non ha adempiuto l’obbligo di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE, i ricorrenti possono avviare un'azione di risarcimento danni contro lo Stato dinanzi al giudice civile, come inviterebbero a fare le sentenze della CGCE Köbler e Traghetti del Mediterraneo (sopra citate).

42.  Il Governo ritiene che un'azione di risarcimento danni per non aver adempiuto all'obbligo di porre una questione pregiudiziale sia un ricorso autonomo ben distinto dall'azione di risarcimento danni per il ritardo nel recepimento di una direttiva. Ora, i ricorrenti non avrebbero intentato quest'ultima azione e, di conseguenza, non avrebbero esaurito le vie di ricorso che, secondo il Governo, erano loro aperte nel diritto italiano.

b)  La replica dei ricorrenti

43.  I ricorrenti indicano di aver sollevato le loro doglianze, ossia la responsabilità dello Stato per un tardivo recepimento delle direttive europee, nei tre gradi di giudizio (tribunale, corte d'appello e Corte di cassazione) e ritengono di aver così fatto un uso normale delle vie ordinarie di ricorso interno. Essi obiettano al Governo di non aver indicato quale tipo di procedura giudiziaria ulteriore avrebbero dovuto seguire né quale giudice nazionale fosse competente per esaminare la questione. Aggiungono che i cittadini non hanno accesso diretto alla CGCE.

c)  Valutazione della Corte

44.  La Corte rammenta che, ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita soltanto dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, essendo la finalità di questa norma quella di riservare agli Stati contraenti l'opportunità di prevenire o di correggere le violazioni lamentate contro di loro prima che la Corte ne sia investita (si veda, tra altre, Mifsud c. Francia (dec.) [GC], n. 57220/00, § 15, CEDU 2002-VIII).

45.  I principi generali relativi alla regola dell'esaurimento delle vie di ricorso interne sono esposti nella sentenza Vučković e altri c. Serbia ([GC], nn. 17153/11 e altri, §§ 69-77, 25 marzo 2014). La Corte rammenta che l'articolo 35 § 1 della Convenzione prescrive l'esaurimento dei soli ricorsi che siano al tempo stesso relativi alle violazioni lamentate, disponibili e adeguati. Un ricorso è effettivo quando è disponibile sia in teoria che in pratica all'epoca dei fatti, vale a dire quando è accessibile, può offrire al ricorrente la riparazione delle violazioni denunciate e presenta ragionevoli prospettive di esito positivo (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 68, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, e Demopoulos e altri c. Turchia (dec.) [GC], nn. 46113/99, 3843/02, 13751/02, 13466/03, 10200/04, 14163/04, 19993/04 e 21819/04, § 70, CEDU 2010; si veda anche Saba c. Italia, n. 36629/10, § 43, 1° luglio 2014).

46.  Nella fattispecie, la Corte nota che, secondo il Governo che dice di basarsi sulle sentenze della CGCE Köbler e Traghetti del Mediterraneo, i ricorrenti avrebbero potuto intentare un'azione di risarcimento danni contro lo Stato dinanzi al giudice civile. Essa rileva che, nelle sentenze succitate, la CGCE ha affermato che i singoli cittadini dovevano poter ottenere la riparazione dei danni derivanti da una manifesta violazione, da parte di un giudice di ultimo grado, del diritto comunitario applicabile (paragrafo 33 supra). La CGCE ha anche ritenuto incompatibile con il diritto comunitario una legislazione nazionale che, come prevedeva quella dell'Italia all'epoca, escludesse la responsabilità statale in quanto la violazione in causa derivava da una interpretazione delle norme di diritto o la limitasse ai soli casi del dolo o della colpa grave. Inoltre, secondo la CGCE, una limitazione di questo tipo violava il diritto comunitario se portava ad escludere la responsabilità dello Stato in altri casi in cui era stata commessa una manifesta violazione del diritto applicabile (paragrafi 34 e 35 supra).

47.  La Corte deduce da ciò che la CGCE non ha affermato che la legislazione italiana dell'epoca garantisse, con un sufficiente grado di certezza, il diritto al risarcimento danni in caso di «manifesta violazione», da parte del giudice di ultimo grado, del diritto comunitario applicabile. Ai sensi della legge n. 117 del 1988, come era in vigore all'epoca dei fatti (paragrafi 29 e 30 supra), la persona poteva ottenere la riparazione dei danni subiti soltanto se la violazione del diritto comunitario che essa lamentava era dovuta a dolo o colpa grave del giudice o se costituiva un diniego di giustizia. Ad ogni modo, ai sensi dell'articolo 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988, «non [poteva] dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto».

48.  Tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte nutre dubbi in merito alle ragionevoli prospettive di esito positivo che avrebbe incontrato una eventuale azione di risarcimento danni dei ricorrenti basata sulla manifesta violazione del diritto comunitario da parte della Corte di cassazione. In particolare, gli interessati avrebbero potuto vedersi opporre che l'omissione da parte della Corte di cassazione di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE derivava dalla «interpretazione delle norme di diritto» o che non rientrava in un caso di dolo o colpa grave del giudice. Inoltre, il Governo non ha indicato alcun esempio di cause in cui un'azione di questo tipo sarebbe stata intentata con un risultato positivo in circostanze analoghe a quelle del presente caso.

49.  Infine, è opportuno osservare che la riforma della legge n. 117 del 1988 è entrata in vigore soltanto il 19 marzo 2015 (paragrafo 32 supra), ossia più di sei anni dopo la pronuncia della sentenza da parte della Corte di cassazione nella causa dei ricorrenti. In tale data, il termine previsto dall'articolo 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988 per introdurre una richiesta di risarcimento danni a carico dello Stato (paragrafo 31 e 32 supra) era scaduto. Peraltro, il Governo non ha sostenuto che i ricorrenti potessero avvalersi delle nuove disposizioni introdotte dalla legge n. 18 del 2015.

50.  Ne consegue che l'eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere rigettata.

2.  Altri motivi di irricevibilità

a)  Argomenti delle parti

i.  I ricorrenti

51.  I ricorrenti sostengono in primo luogo che la Corte di cassazione ha motivato il rigetto del loro ricorso in maniera approssimativa e contraddittoria, basandosi secondo loro su una descrizione erronea e su una cattiva comprensione del motivo che hanno sottoposto all’esame del tribunale di Roma.

52.  I ricorrenti rammentano inoltre che, nel loro ricorso essi avevano citato una sentenza (n. 7630 del 16 maggio 2003), nella quale la terza sezione della Corte di cassazione avrebbe accolto una istanza identica alla loro, presentata da un altro medico. Essi ritengono che, non menzionando questa sentenza e non spiegando perché non venga considerata pertinente, la Corte di cassazione si è discostata dalla sua giurisprudenza. Inoltre, secondo gli interessati, l’alta giurisdizione italiana ha citato uno dei suoi precedenti (la sentenza n. 3283 del 12 febbraio 2008), che avrebbe concluso nel senso caldeggiato dai ricorrenti. Nonostante ciò, essa ha deciso di respingere il loro ricorso.

53.  I ricorrenti sostengono poi che il rigetto del loro ricorso da parte della Corte di cassazione non era motivato in maniera adeguata e che, inoltre, questo organo giudiziario ha regolarmente dato ragione a persone che si trovavano in situazioni identiche alla loro. Essi rinviano alle sentenze n. 7630 del 16 maggio 2003, n. 3283 del 2008, nn. 24088 e 24092 del 17 novembre 2011, n. 24816 del 24 novembre 2011, n. 4785 del 2012 e n. 7961 del 2012 in cui, applicando la giurisprudenza della CGCE in materia, l’alta corte italiana avrebbe accordato un risarcimento ad alcuni medici che non avevano potuto partecipare a dei corsi di specializzazione in ragione dell’inerzia dello Stato italiano nel recepire nel diritto interno le direttive comunitarie nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976. I ricorrenti indicano anche che, nelle sue conclusioni, il procuratore generale presso la Corte di cassazione, che avrebbe espresso la necessità di garantire l’uniformità nell’applicazione del diritto, aveva chiesto di accogliere il loro ricorso. Vi sarebbe stata dunque violazione del principio della certezza del diritto, senza che, secondo i ricorrenti, il mutamento di giurisprudenza in causa fosse giustificato da un imperioso bisogno sociale, al punto che il rigetto del ricorso sarebbe stato imprevedibile e arbitrario.

54.  Inoltre, i ricorrenti rimproverano alla Corte di cassazione di avere anche violato il diritto dell’UE, in quanto essa avrebbe dichiarato che le direttive nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976 non erano immediatamente applicabili negli Stati membri, mentre dalla CGCE sarebbe stato affermato il principio inverso (si vedano, in particolare, le sentenze Carbonari e Gozza, sopra citate).

55.  I ricorrenti indicano inoltre che il tribunale di Roma aveva riconosciuto l’esistenza teorica del loro diritto al risarcimento. Essi ritengono che, poiché l’amministrazione non aveva impugnato la sentenza di primo grado, la Corte di cassazione non avrebbe dovuto rimettere in causa questa valutazione, che, secondo gli interessati, era passata in giudicato.

56.  Infine, i ricorrenti rimproverano alla Corte di cassazione di aver ignorato la loro domanda di rinvio pregiudiziale, e ciò secondo loro in violazione dei principi del processo equo.

ii.  Il Governo

57.  Il Governo ritiene che, poiché per i ricorrenti la sentenza della Corte di cassazione del 14 novembre 2008 si basa su errori di fatto e di diritto, il loro ricorso sia di competenza di una quarta istanza. Ad ogni modo, il Governo è convinto che nel caso di specie tali errori non sono stati commessi. In effetti, indicando che gli interessati potevano rivendicare un diritto al risarcimento per il recepimento tardivo della direttiva, la Corte di cassazione avrebbe applicato in maniera corretta il diritto interno ed europeo. Tuttavia, secondo il Governo, l’alta giurisdizione ha indicato che nel caso di specie i ricorrenti non avrebbero richiesto una compensazione per mancanza di chances reali, ma si sarebbero limitati a contestare la irretroattività del decreto legislativo n. 257 del 1991. Sempre secondo il Governo, non vi è nella fattispecie alcun disconoscimento di una decisione definitiva, dal momento che la sentenza di primo grado avrebbe rigettato tutte le istanze dei ricorrenti (paragrafo 10 supra).

58.  Per quanto riguarda la decisione della Corte di cassazione di non sottoporre alla CGCE la questione pregiudiziale sollevata dai ricorrenti, il Governo ritiene che si tratta di una doglianza minore e secondaria. Inoltre, la Corte di cassazione non avrebbe avuto l'obbligo di motivare il suo rifiuto su questo punto.

b)  Valutazione della Corte

59.  La Corte rammenta innanzitutto che, ai sensi dell'articolo 19 della Convenzione, il suo compito è quello di assicurare il rispetto degli impegni che discendono dalla Convenzione per le Parti contraenti. In particolare non deve esaminare gli errori di fatto e di diritto che si presumono essere stati commessi da un organo giudiziario interno, a meno che e nella misura in cui questi possano aver leso i diritti e le libertà salvaguardati dalla Convenzione (si vedano, tra molte altre, García Ruiz c. Spagna [GC], n. 30544/96, § 28, CEDU 1999-I, Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V, e Rizos e Daskas c. Grecia, n. 65545/01, § 26, 27 maggio 2004), e spetta per principio ai giudici nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Pacifico c. Italia (dec.), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012, e Plesic c. Italia (dec.), n. 16065/09, § 33, 2 luglio 2013).

60.  Nel caso di specie, la Corte ha esaminato i motivi dei ricorrenti criticando il carattere sufficiente e pertinente nel diritto interno e nel diritto dell’UE degli argomenti avanzati dalla Corte di cassazione per rigettare il loro ricorso (paragrafi 51-55 supra), e non ha rilevato alcuna parvenza di violazione dei principi del processo equo e della certezza del diritto, come garantiti dall'articolo 6 § 1 della Convenzione. A tale proposito, essa nota in particolare che l'alta giurisdizione italiana non si è esplicitamente discostata dalla sua consolidata giurisprudenza, ma ha motivato il rigetto in causa basandosi sulla natura della istanza introdotta dai ricorrenti (si vedano anche le considerazioni contenute nei paragrafi 79 e 80 infra).

61.  Ne consegue che questi motivi sono manifestamente infondati e che devono essere rigettati, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

62.  La Corte ritiene al contrario che il motivo relativo alla mancanza di risposta della Corte di cassazione alla loro domanda di rinvio pregiudiziale non sia manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. Rilevando peraltro che non incorre in altri motivi di irricevibilità, essa lo dichiara ricevibile.

B.  Sul merito

1.  Argomenti delle parti

a)  I ricorrenti

63.  I ricorrenti rimproverano alla Corte di cassazione di aver completamente ignorato la loro domanda di rinvio pregiudiziale. In particolare, la CGCE avrebbe affermato che l'obbligo di remunerare in maniera adeguata i periodi di formazione dei medici specialisti era incondizionato e sufficientemente preciso e che soltanto un'applicazione retroattiva e completa delle direttive era sufficiente per riparare il danno causato da un recepimento tardivo delle direttive in questione. Peraltro, quest'ultimo comporterebbe la responsabilità dello Stato. Il giudice nazionale sarebbe stato tenuto a seguire questa giurisprudenza, che si imporrebbe erga omnes. Secondo i ricorrenti, la Corte di cassazione aveva quindi due possibilità: confermare l'interpretazione della CGCE e accogliere il loro ricorso o sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE . Essa avrebbe tuttavia scelto una terza via, secondo loro, contraria alla Convenzione: rigettare il loro ricorso senza sottoporre la questione pregiudiziale e senza motivare la sua decisione su questo punto. Gli interessati dicono di fare riferimento ai principi enunciati dalla Corte nelle cause Vergauwen e altri c. Belgio ((dec.), n. 4832/04, §§ 89-90, 10 aprile 2012) e Dhahbi c. Italia (n. 17120/09, 8 aprile 2014).

b)  Il Governo

64.  Secondo il Governo, nel caso di specie la Corte di cassazione non aveva alcun obbligo di motivare il suo rifiuto di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE. In effetti, a suo parere, l'istanza dei ricorrenti, come descritta al paragrafo 23 supra, usciva dal campo di applicazione dell'articolo 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea (ossia l'attuale articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE)) ed era irricevibile in quanto a) una questione pregiudiziale non avrebbe lo scopo di accertare la responsabilità di uno Stato per il ritardo nel recepimento di una direttiva (spetterebbe in questo caso alla Commissione dell’UE avviare una procedura in carenza ai sensi dell'articolo 258 del TFUE); e b) la CGCE non avrebbe competenza per pronunciarsi sul grado di prova richiesto da un organo giudiziario nazionale, anche quando questo organo giudiziario - come la corte d'appello nel caso di specie - deve applicare il diritto dell’UE. Su quest'ultimo punto, il Governo precisa peraltro che non è per mancanza di prova che la corte d'appello aveva rigettato l'appello dei ricorrenti.

65.  Secondo il Governo, l'interpretazione data dalla CGCE alle direttive comunitarie nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976 non era contestabile e la sentenza della Corte di cassazione non si basava su una diversa interpretazione di queste direttive.

66.  Ad ogni modo, il Governo ritiene che nel caso di specie fosse particolarmente difficile per la Corte di cassazione motivare il suo rifiuto dal momento che la domanda dei ricorrenti sarebbe stata formulata a titolo sussidiario e non sarebbe stata supportata da alcun argomento giuridico pertinente. Pertanto, secondo il Governo, la Corte di cassazione poteva interpretare la domanda in questione come se quest’ultima dovesse essere esaminata soltanto se la causa non poteva essere trattata senza aver sottoposto una questione pregiudiziale alla CGCE, cosa che non sarebbe avvenuta nel caso di specie.

67.  Il Governo aggiunge che la CGCE si era già pronunciata sul punto di stabilire se le direttive controverse fossero di applicazione immediata (si vedano le sentenze Carbonari e Gozza, sopra citate), fatto di cui la Corte di cassazione avrebbe preso atto indicando che il mancato recepimento di queste direttive faceva sorgere, secondo la giurisprudenza della CGCE, il diritto alla riparazione dei danni subiti dalle persone (paragrafo 25 supra).

68.  Il Governo considera infine che la presente causa si distingue dalla causa Dhahbi (sopra citata) nella quale la Corte avrebbe concluso per la violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione per la mancata motivazione da parte della Corte di cassazione del suo rifiuto di sottoporre una questione pregiudiziale formulata dal ricorrente. Il governo indica che, nel caso di specie, nella sua sentenza del 14 novembre 2008, la Corte di cassazione ha fatto esplicito riferimento alla giurisprudenza della CGCE sull'interpretazione delle direttive in causa. Di conseguenza, è del parere che era possibile comprendere le ragioni per le quali essa avrebbe deciso che non era necessario sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE.

2.  Valutazione della Corte

69.  La Corte rammenta che, nella decisione Vergauwen e altri (sopra citata, §§ 89-90), essa ha espresso i seguenti principi (si veda anche Dhahbi, sopra citata, § 31):

  • l'articolo 6 § 1 della Convenzione pone a carico degli organi giudiziari interni un obbligo di motivare rispetto al diritto applicabile le decisioni con le quali essi rifiutano di sottoporre una questione pregiudiziale;
  • quando su questo terreno viene adita per una violazione dell'articolo 6 § 1, il compito della Corte consiste nell'assicurarsi che la decisione di rifiuto contestata dinanzi a lei sia debitamente accompagnata dai motivi richiesti;
  • se le spetta procedere rigorosamente a questa verifica, non le spetta esaminare gli eventuali errori che avrebbero commesso i giudici interni nell’interpretare e applicare il diritto pertinente;
  • nel quadro specifico del terzo comma dell'articolo 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea (ossia l'attuale articolo 267 del TFUE), ciò significa che i giudici nazionali le cui decisioni non possono essere oggetto di un ricorso giurisdizionale di diritto interno sono tenuti, quando si rifiutano di sottoporre alla CGCE a titolo pregiudiziale una questione relativa all'interpretazione del diritto dell’UE sollevata dinanzi ad essi, a motivare il loro rifiuto riguardo alle eccezioni previste dalla giurisprudenza della CGCE. Essi devono dunque indicare le ragioni per le quali ritengono che la questione non sia pertinente, o che la norma di diritto della UE in causa sia già stata oggetto di un'interpretazione da parte della CGCE, o ancora che l'applicazione corretta del diritto della UE si impone con una evidenza tale da non lasciare spazio ad alcun ragionevole dubbio.

70.  Nella fattispecie, nel caso in cui il loro ricorso non fosse stato accolto, i ricorrenti avevano chiesto alla Corte di cassazione di sottoporre alla CGCE la questione pregiudiziale per stabilire: a) se il mancato recepimento, da parte dello Stato italiano, delle direttive nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976 entro il termine stabilito costituisse una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, che comportava l'obbligo dello Stato di riparare il danno subito dalle persone lese; b) se le condizioni previste dal decreto legislativo n. 257 del 1991 rendessero impossibile o eccessivamente difficile ottenere questo risarcimento (paragrafo 23 supra). Poiché le decisioni della Corte di cassazione non sono impugnabili nel diritto interno, essa aveva l'obbligo di motivare il suo rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale riguardo ad alcune eccezioni previste dalla giurisprudenza della CGCE (Dhahbi, sopra citata, § 32).

71.  La Corte ha esaminato la sentenza della Corte di cassazione del 14 novembre 2008 senza trovare alcun riferimento alla richiesta di rinvio pregiudiziale formulata dai ricorrenti e alle ragioni per le quali è stato considerato che la questione sollevata non meritasse di essere trasmessa alla CGCE (paragrafo 27 supra). È vero che, nella motivazione della sentenza, la Corte di cassazione ha indicato che il ritardo nel recepimento delle direttive controverse faceva sorgere, secondo la giurisprudenza della CGCE, il diritto alla riparazione dei danni subiti dalle persone (paragrafo 25 supra). Il Governo sostiene, in sostanza, che questa affermazione può costituire una motivazione implicita di rigetto della prima parte della questione pregiudiziale sollecitata dai ricorrenti (paragrafo 67 supra). Tuttavia, pur volendo supporre che sia così, l'affermazione di cui si tratta non spiega le ragioni per le quali la seconda parte della questione pregiudiziale - la questione di stabilire se le condizioni previste dal decreto legislativo n. 257 del 1991 rendessero l'ottenimento del risarcimento impossibile o eccessivamente difficile - era irricevibile.

72.  La motivazione della sentenza contestata non permette dunque di stabilire se quest'ultima parte della questione sia stata considerata come non pertinente o come relativa a una disposizione chiara o come già interpretata dalla CGCE, oppure se sia stata semplicemente ignorata (si veda, mutatis mutandis, Dhahbi, sopra citata, § 33; si veda anche, a contrario, Vergauwen, sopra citata, § 91, dove la Corte ha constatato che la Corte costituzionale belga aveva debitamente motivato il suo rifiuto di sottoporre delle questioni pregiudiziali).

73.  Questa constatazione è sufficiente per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.

III.  SULLE ALTRE VIOLAZIONI DEDOTTE

74.  I ricorrenti sostengono che i fatti denunciati secondo il punto di vista dell'articolo 6 della Convenzione costituiscono anche un trattamento discriminatorio e una violazione del diritto al rispetto dei loro beni. Essi invocano l'articolo 14 della Convenzione e l'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. Queste disposizioni recitano:
Articolo 14
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»
Articolo 1 del Protocollo n. 1
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

A.  Argomenti delle parti

1.  I ricorrenti

75.  I ricorrenti indicano che, nella sua motivazione, la Corte di cassazione ha citato un precedente (la sentenza n. 3283 del 12 febbraio 2008) che avrebbe concluso nello stesso senso caldeggiato dai richiedenti. Essi si stupiscono che, nonostante ciò, la suprema corte italiana abbia rigettato il loro ricorso, violando così, secondo loro, l'articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 6 § 1.

76.  Inoltre, secondo il punto di vista dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, i ricorrenti sostengono di non aver potuto ottenere i vantaggi economici che sarebbero riconosciuti dalle direttive comunitarie e di cui altri medici avrebbero beneficiato. Essi indicano che è attualmente all'esame del Parlamento un disegno di legge (n. 679 del 2013) che propone di versare ai medici iscritti a una scuola di specializzazione tra il 1983 e il 1991 la somma di 13.000 EUR per ogni annualità di corso. Essi sostengono che l'eventuale adozione di questo disegno di legge non rimedierebbe alla loro situazione in quanto le loro richieste ormai sono state rigettate da una sentenza passata in giudicato.

2.  Il Governo

77.  Il Governo ritiene che i ricorrenti non siano stati oggetto di alcuna discriminazione e che non abbiano subito ingerenze nel diritto al rispetto dei loro beni. Esso sostiene a tale proposito che una motivazione esplicita sul rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale alla CGCE non avrebbe cambiato il merito della decisione emessa dalla Corte di cassazione. Da ciò il Governo deduce che i motivi dei ricorrenti relativi all'articolo 14 della Convenzione e all'articolo 1 del Protocollo n. 1 dovrebbero essere dichiarati irricevibili per incompatibilità ratione personae con le disposizioni della Convenzione.

78.  Inoltre, il Governo indica che, nel sistema giuridico italiano, un ricorso per cassazione può vertere soltanto su questioni di diritto. Precisa che, nel caso di specie, la suprema corte italiana non doveva esaminare se i ricorrenti avessero diritto a un risarcimento, ma doveva soltanto pronunciarsi sul punto di stabilire se il ricorso proposto avverso la sentenza d'appello fosse fondato o meno. Il compito della Corte di cassazione non sarebbe stato dunque quello di evitare qualsiasi discriminazione de facto. Il Governo aggiunge che, anche se il sistema italiano non è un sistema di common law fondato sul principio stare decisis, nella presente causa la Corte di cassazione non si è discostata dalla sua consolidata giurisprudenza, ma ha concluso per il rigetto del ricorso sulla base della qualificazione giuridica della domanda formulata dai ricorrenti in appello.

B.  Valutazione della Corte

79.  La Corte osserva che i motivi dei ricorrenti vertono in sostanza sul rigetto della loro istanza di risarcimento. Quest'ultima è stata respinta perché, nell'applicare il loro diritto di valutare i fatti e di caratterizzarli in diritto, i giudici italiani hanno ritenuto che i ricorrenti non avessero richiesto la riparazione del danno derivante dalla perdita della possibilità di ottenere i benefici previsti dalle direttive comunitarie nn. 363 del 16 giugno 1975 e 82 del 26 gennaio 1976. In particolare, secondo la Corte di cassazione, gli interessati si erano limitati a sostenere che il danno derivante dal ritardo nel recepimento delle direttive in causa era in re ipsa e che il decreto legislativo n. 257 del 1991 aveva creato una discriminazione tra i medici che avevano seguito dei corsi di specializzazione prima della sua entrata in vigore e quelli che li avevano seguiti dopo (paragrafo 26 supra).

80.  Anche a voler supporre che nel caso di specie sia applicabile l'articolo 14 della Convenzione, la Corte, nella interpretazione che la suprema corte italiana ha dato alla istanza dei ricorrenti, non scorge alcuna parvenza di violazione del diritto degli interessati al rispetto dei loro beni. Inoltre, i ricorrenti non hanno dimostrato di essere stati trattati diversamente da altre persone che avrebbero presentato una domanda identica o analoga.

81.  Ne consegue che questi motivi di ricorso sono manifestamente infondati e che devono essere rigettati, in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

IV.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

82.  Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A.  Danno

83.  I ricorrenti indicano di non aver ricevuto la «remunerazione adeguata» che sarebbe stata prevista dalle direttive europee né i punti che essi si aspettavano di vedersi attribuire nell’ambito del diploma di specializzazione «comunitario». Essi aggiungono che non hanno potuto far valere il loro diploma di specializzazione al di fuori del territorio italiano nell’esercizio della professione medica in altri Stati dell’UE. Al riguardo rilevano che il decreto legislativo n. 257 del 1991 che recepisce le direttive non era retroattivo e che non ha previsto alcuna remunerazione per il periodo 1982-1991. Per il danno materiale, essi reclamano 13.000 EUR ciascuno per ogni annualità di corso di specializzazione compreso nel periodo 1982-1991, ossia l’importo che è, secondo loro, previsto dal disegno di legge n. 679 del 2013 (paragrafo 76 supra), al quale essi hanno aggiunto gli interessi legali e una somma per compensare la svalutazione della moneta.

84.  Per quanto riguarda la mancata attribuzione dei punti e l’impossibilità di utilizzare i diplomi di specializzazione all’estero, i ricorrenti ritengono che questo pregiudizio possa essere riparato soltanto con l’introduzione di una legge ad hoc.

85.  Essi chiedono inoltre 10.000 EUR ciascuno per danno morale.

86.  Il Governo afferma che i motivi relativi ad una discriminazione e a una lesione del diritto al rispetto dei beni sono irricevibili, e che non può essere concessa nessuna somma a questo titolo. Comunque, le somme richieste sarebbero eccessive e calcolate sulla base di un disegno di legge non ancora esaminato dal Parlamento. Per quanto riguarda la dedotta violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, questa non avrebbe provocato alcun pregiudizio. In effetti, il Governo è del parere che, anche se la Corte di cassazione avesse motivato il suo rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale, la decisione sul ricorso dei ricorrenti non sarebbe cambiata. La semplice constatazione di violazione costituirebbe dunque un’equa soddisfazione sufficiente.

87.  La Corte rammenta di aver constatato una violazione della Convenzione soltanto per ciò che concerne l’omessa motivazione del rifiuto della Corte di cassazione di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE. Essa non scorge il nesso di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale dedotto e rigetta questa richiesta. Al contrario, essa ritiene dover riconoscere a ciascuno dei ricorrenti, ad eccezione dei sigg. Pasquale Marra e Piersandro Tresca, che non intendono più mantenere il loro ricorso (paragrafi 36-38 supra), 3.000 EUR per danno morale, ossia la somma complessiva di 39.000 EUR.

B.  Spese

88.  I ricorrenti chiedono anche il rimborso delle spese sostenute per i ricorsi presentati dinanzi agli organi giudiziari interni e dinanzi alla Corte. Essi indicano che, per la procedura che si è svolta dinanzi alla Corte di cassazione, queste spese sono state fissate a 1.903,20 EUR, ai quali si aggiungono le spese di registrazione della sentenza (168 EUR). Del resto , i ricorrenti chiedono alla Corte di fissare in via equitativa le somme che sarebbero loro dovute a questo titolo.

89.  Il Governo sostiene che la richiesta di rimborso delle spese affrontate per il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione è priva di giustificazione e deve essere rigettata.

90.  Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, essa nota che i ricorrenti non hanno avviato alcun procedimento interno per la riparazione della violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione commessa dalla Corte di cassazione. Si deve dunque rigettare la domanda di rimborso delle spese sostenute per i procedimenti svoltisi dinanzi agli organi giudiziari interni. Invece, tenuto conto dei documenti di cui essa dispone e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la somma complessiva di 5.000 EUR per la procedura svoltasi dinanzi ad essa e l’accorda congiuntamente ai ricorrenti.

C.  Interessi moratori

91.  La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÁ,

  1. Decide di cancellare il ricorso dal ruolo per quanto riguarda il settimo e il decimo ricorrente (sigg. Pasquale Marra e Piersandro Tresca);
     
  2. Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda il rifiuto della Corte di cassazione di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE, e irricevibile per il resto;
     
  3. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione in ragione del rifiuto non motivato della Corte di cassazione di sottoporre una questione pregiudiziale alla CGCE ;
     
  4. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare congiuntamente ai ricorrenti, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme
      1. 39.000 EUR (trentanovemila euro) più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per danni morali,
      2. 5.000 EUR (cinque mila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dai ricorrenti per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 21 luglio 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Françoise Elens-Passos
Cancelliere

Päivi Hirvelä
Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Wojtyczek.
P.H.
F.E.P.

ALLEGATO

  1. Giovanni SCHIPANI è nato nel 1955 e risiede a Melito Porto Salvo
  2. Salvatore BELMONTE è nato nel 1955 e risiede a Belvedere Marittimo
  3. Serafino CONFORTI è nato nel 1957 e risiede a Marano Marchesato
  4. Francesco IACONO è nato nel 1964 e risiede a Bologna
  5. Giovanni IACONO è nato nel 1961 e risiede a Cosenza
  6. Domenico INTROINI è nato nel 1953 e risiede a Scalea
  7. Pasquale MARRA è nato nel 1956 e risiede a Rende
  8. Francesco ROMANO è nato nel 1952 e risiede a Cosenza
  9. Francesco SCHIARITI è nato nel 1960 e risiede a Cetraro
  10. Piersandro TRESCA è nato nel 1955 e risiede a Rende
  11. Annunziata COLESANTI è nata nel 1953 e risiede a Scalea
  12. Angela Maria D’AMATO è nata nel 1952 e risiede a Cosenza
  13. Anna GALANTUCCI è nata nel 1954 e risiede a Rende
  14. Angela GIARDINELLI è nata nel1962 e risiede a Belvedere Marittimo
  15. Lorella MASSENZO è nata nel 1959 e risiede a Cosenza

 OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK

  1. Nella presente causa ho votato con i miei colleghi per constatare una violazione della Convenzione, tuttavia non sono convinto dall’argomentazione sviluppata dalla maggioranza.
     
  2. È innegabile che il diritto a un processo equo presuppone l’obbligo di motivare in maniera adeguata le decisioni giudiziarie. La Corte ha sviluppato una ricca giurisprudenza in materia di motivazione delle decisioni giudiziarie. Secondo questa giurisprudenza, le garanzie implicite dell’articolo 6 § 1 comprendono l’obbligo di motivare le decisioni giudiziarie (si veda ad esempio H. c. Belgio, § 53). Benché il giudice interno disponga di un certo margine di apprezzamento nella scelta degli argomenti e nell’ammissione delle prove, esso deve giustificare le sue azioni precisando le ragioni delle sue decisione (si veda ad esempio Suominen c. Finlandia, § 36). Premesso ciò, l’articolo 6 non esige una risposta dettagliata a ciascun argomento (si veda ad esempio Van de Hurk c. Paesi Bassi, § 61, Garcia Ruiz c. Spagna [GC], § 26, Jahnke e Lenoble c. Francia (dec.) e Perez c. Francia, [GC] § 81). Inoltre, l’ampiezza dell’obbligo di motivazione può variare in funzione della natura della decisione giudiziaria interessata e deve essere esaminata alla luce delle circostanze del caso di specie (si veda ad esempio Ruiz Torija c. Spagna, § 29, e Hiro Balani c. Spagna, § 27).
    Peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte, il margine di apprezzamento lasciato elle giurisdizioni superiori è ancora più ampio. La Corte accetta che certi tipi di ricorso siano rigettati senza alcuna motivazione (si veda, ad esempio, Sawoniuk c. Regno Unito, Webb c. Regno Unito, o ancora Lutz John c. Germania). La Corte stessa ha sviluppato una prassi costante secondo la quale essa non motiva le decisioni emesse da un giudice unico che dichiara l’irricevibilità di un ricorso.
    È anche importante notare che la giurisprudenza della Corte giunge a lasciare agli Stati un margine di apprezzamento particolarmente ampio per quanto riguarda la motivazione delle decisioni giudiziarie nel diritto penale. Così, la Corte ha ammesso in alcune decisioni che l'articolo 6 non richiedeva che i giurati fornissero le ragioni della loro decisione (si veda ad esempio la decisione Saric c.Danimarca). Essa considera che «dinanzi alle corti d'assise in cui partecipa una giuria popolare, occorre adattarsi alle particolarità della procedura in cui, molto spesso, i giurati non sono tenuti o non possono motivare le loro convinzioni (paragrafi 85-89 supra). Anche in questo caso, l'articolo 6 impone di verificare se l'accusato abbia potuto beneficiare di garanzie sufficienti tali da eliminare qualsiasi rischio di arbitrio e da permettergli di comprendere le ragioni della sua condanna (paragrafo 90 supra)» (Taxquet c. Belgio, § 92). Inoltre, nella decisione Judge c. Regno Unito, la Corte ha giudicato che le varie garanzie offerte all’accusato nel diritto scozzese erano sufficienti per accettare che il verdetto emesso dai giurati non fosse motivato.
     
  3. A mio avviso, il parametro principale di cui occorrerebbe tener conto applicando l'obbligo di motivare le decisioni giudiziarie è la gravità dell'ingerenza nella sfera dei diritti umani. È evidente che anche altri fattori entrano in conto, come il carattere incidentale o principale della questione esaminata o l'urgenza di statuire. Tuttavia, la qualità della motivazione deve essere modulata in funzione della gravità dell'ingerenza nella sfera dei diritti dell'uomo. Più questa ingerenza è marcata, più la motivazione della decisione giudiziaria deve essere dettagliata e sostenuta da argomenti forti. Ora, io noto che l'ampiezza del margine di azione che la Corte lascia agli Stati in materia di motivazione delle decisioni giudiziarie non è sempre adeguato alla gravità dell'ingerenza nella sfera dei diritti umani, soprattutto se tale ingerenza è di natura penale. In questo contesto, è possibile legittimamente porsi la questione della coerenza e della forza persuasiva della giurisprudenza sviluppata dalla Corte. L'approccio adottato necessita dunque di essere ripensato e rivisto.
     
  4. Occorre qui sottolineare che l'obbligo di motivare le decisioni giudiziarie può anche discendere da altre disposizioni materiali della Convenzione. Secondo la giurisprudenza della Corte, una ingerenza delle autorità nazionali nelle libertà tutelate dalla Convenzione deve essere giustificata da motivi pertinenti e sufficienti (si veda ad esempio Morice c. Francia, § 144). Se l'ingerenza assume la forma di una decisione giudiziaria, ne discende che il giudice che emette questa decisione deve fornire dei motivi pertinenti e sufficienti.
     
  5. La giurisprudenza della Corte relativa al rifiuto di sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea è evoluta nel tempo. All'inizio, la Corte sembra aver adottato un criterio incentrato sulla questione dell'arbitrio, giudicando che tale rifiuto non doveva essere arbitrario. Così, nella decisione Coëme, essa ha ritenuto che era «conforme al funzionamento di un meccanismo [di questione pregiudiziale] che il giudice verifichi se può o deve sottoporre una questione pregiudiziale, assicurandosi che questa deve essere risolta per permettere di definire la lite di cui è stato investito». Essa ha dunque aggiunto: «stando così le cose, non è escluso che, in alcune circostanze, il rifiuto opposto da un giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi in ultimo grado, possa ledere il principio dell'equità della procedura, così come è enunciato all'articolo 6 § 1 della Convenzione, in particolare quando un rifiuto di questo tipo appare viziato da arbitrio (Dotta c. Italia (dec.), n. 38399/97, 7 settembre 1999, non pubblicata; Predil Anstalt S.A. c. Italia (dec.), n. 31993/96, 8 giugno 1999, non pubblicata).»
    In un secondo tempo, la Corte ha dedotto dall'articolo 6 della Convenzione l'obbligo di motivare il rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea proveniente da un giudice nazionale le cui decisioni non possono essere impugnate (Ullens c. Belgio). Essa ha dunque spiegato che il rifiuto risulta arbitrario se «le norme applicabili non prevedono eccezioni al diritto di proporre o riformulare un rinvio pregiudiziale, quando il rifiuto si basa su ragioni diverse da quelle previste da queste norme, e quando non sia debitamente motivato riguardo a queste ultime» (ibidem, § 59 in fine), aggiungendo: «in questo contesto l'articolo 6 § 1 pone a carico dei giudici interni un obbligo di motivare tenendo conto del diritto applicabile le decisioni con le quali esse rifiutano di porre una questione pregiudiziale, tanto più se il diritto applicabile ammette tale rifiuto soltanto a titolo di eccezione» (ibidem, § 60). Questa giurisprudenza è stata poi confermata da altre sentenze.
    Ne risulta che l'argomento delle parti fondato sul diritto dell’Unione europea e orientato sull'obbligo di sottoporre la questione pregiudiziale esige una risposta particolarmente accurata da parte del giudice nazionale. Nel contesto della giurisprudenza generale della Corte relativa alla motivazione delle decisioni giudiziarie, le questioni e l'argomentazione fondate sul diritto dell’Unione Europea beneficiano dunque di un trattamento più favorevole rispetto ad altre questioni e argomenti sollevati dalle parti, soprattutto le questioni di responsabilità penale. Ora questo trattamento preferenziale non sembra sufficientemente giustificato sulla base della Convenzione. Non sono persuaso che l'assenza di motivazione del rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea costituisca automaticamente una violazione dell'articolo 6 della Convenzione, anche se questo rifiuto proviene da un giudice nazionale le cui decisioni non possono essere impugnate nel diritto interno.
     
  6. La Corte ha adottato un approccio molto più prudente e sensibilmente più convincente riguardo alle questioni pregiudiziali indirizzate dal giudice nazionale al giudice costituzionale sulla costituzionalità delle leggi. Nella causa Pronina c. Ucraina, ha dichiarato quanto segue (§ 24):
    «Nel sistema giuridico ucraino, dove le persone fisiche non hanno diritto di ricorso individuale dinanzi alla Corte costituzionale, spetta ai giudici interni verificare la compatibilità dei testi di legge con la Costituzione e, in caso di dubbio, chiedere l'apertura di una procedura costituzionale (paragrafi 14 e 15 supra). Tuttavia, tenuto conto della legislazione pertinente, questo sistema non può essere interpretato come una imposizione ai giudici ordinari di esaminare in dettaglio o di trasmettere alla Corte costituzionale le questioni di costituzionalità sollevate da una parte nella procedura civile. Sembra che i tribunali aventi competenza generale esercitino un certo potere discrezionale quando trattano le questioni di costituzionalità sollevate nell'ambito della procedura civile. La questione di sapere se un tribunale abbia omesso di motivare la sua decisione su questo punto può dunque essere esaminata soltanto alla luce delle circostanze della causa, come precedentemente indicato.»
     
  7. Nelle circostanze del caso di specie, posso ammettere che la motivazione della sentenza emessa dalla Corte di cassazione nella presente causa non soddisfacesse interamente l'esigenza generale di motivazione adeguata delle decisioni giudiziarie che discende dall'articolo 6 della Convenzione. Al contrario, il presupposto secondo il quale l'assenza di motivazione del rifiuto di sottoporre la questione pregiudiziale equivale a una violazione dell'articolo 6 della Convenzione mi sembra problematica. Da parte mia preferirei un approccio più sfumato in questo campo.