Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 23 giugno 2015 - Ricorso n. 48931/09 - Falcon Privat Bank A.G. c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 48931/09

FALCON PRIVAT BANK A.G.

contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita il 23 giugno 2015 in una Camera composta da:

Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
George Nicolaou,
Ledi Bianku,
Paul Mahoney,
Krzysztof Wojtyczek,
Yonko Grozev, giudici,
e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato, presentato il 2 settembre 2009,
Dopo avere deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

1. La ricorrente, Falcon Privat Bank A.G., è una banca svizzera con sede a Zurigo. Dinanzi alla Corte è rappresentata dagli avvocati A. Giardina e F. Pietrangeli, del foro di Roma.

Le circostanze del caso di specie

2. I fatti di causa, come esposti dalla ricorrente, si possono riassumere come segue.

1.  Le azioni della sig.ra G.

3. Nel 1940 una cittadina francese, la sig.ra G., vendette all’Azienda italiana dei Minerali metallici (Azienda Minerali Metallici Italiani – di seguito, la «A.M.M.I.») alcune azioni della società greca L., il cui oggetto sociale era lo sfruttamento di una miniera, e accordò un’opzione d’acquisto di altre azioni, che furono depositate presso la Banca di Atene.

4. L’8 luglio 1941 le truppe italo-tedesche occuparono Atene. Le azioni depositate presso la Banca di Atene furono prese dalle autorità militari italiane e date all’A.M.M.I.

5. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la firma del trattato di pace, la Grecia chiese che tutte azioni di alcune società – tra le quali la società L. – fossero depositate in Grecia o presso dei consolati di tale paese.

6. La sig.ra G. cercò di ottenere la restituzione delle azioni, ma le autorità greche opposero un rifiuto, in quanto il loro proprietario era formalmente l’A.M.M.I., e dunque una società di uno Stato ex nemico della Grecia.

7. All’esito di una procedura di composizione amichevole, l’A.M.M.I. riconobbe che le azioni controverse appartenevano alla sig.ra G. Tuttavia, l’A.M.M.I. non poté restituirle all’interessata in quanto nel frattempo erano state depositate presso il consolato della Grecia a Roma.

8. La sig.ra G. intentò un’azione di restituzione nei confronti del Governo greco, che fu tuttavia chiusa nel 1957 per mancanza di giurisdizione del giudice italiano.

2.  L’azione di risarcimento intentata dalla sig.ra G. nei confronti delle autorità italiane

9.; La sig.ra G. citò allora la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministro del Tesoro italiani dinanzi al tribunale di Roma al fine di ottenere la riparazione dei danni subiti a seguito della perdita di 54.804 azioni della società L., affermando che lo Stato italiano aveva illegittimamente disposto delle azioni restituendole alla Grecia.

10. Con una sentenza resa l’8 maggio 1961 il tribunale di Roma accolse la domanda della sig.ra G. e condannò i convenuti a risarcirla. L’importo della riparazione avrebbe dovuto essere fissato successivamente. La sentenza divenne definitiva il 22 febbraio 1968.

11. Il 17 febbraio 1970 la sig.ra G. cedette il suo credito nei confronti dello Stato italiano alla banca svizzera X (come indicato al paragrafo 29 infra, il 7 luglio 1995 quest’ultima cedette a sua volta il credito alla AIG Privat Bank, che è il predecessore legale della ricorrente).

12. Il 22 giugno 1970 il tribunale di Roma fissò in 8 miliardi di lire (ITL – circa 4.131.655 euro (EUR)) il valore delle azioni in causa nel settembre 1953 (data in cui la loro restituzione alla sig.ra G. era divenuta impossibile) e condannò la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministro del Tesoro italiani a versare, a titolo di risarcimento, la somma di 14 miliardi ITL (circa 7.230.396 EUR), somma che teneva conto della rivalutazione monetaria e degli interessi legali.

13. Con una sentenza resa il 13 febbraio 1976, la corte d’appello di Roma fissò in 12.940.116.848 ITL (circa 6.683.012 EUR) il valore delle azioni in questione nel 1953. Tenuto conto degli interessi legali, il risarcimento dovuto ammontava a 28.160.928.111 ITL (circa 14.543.905 EUR). La beneficiaria di tale somma era la banca X, che era intervenuta nel procedimento e aveva dimostrato di avere acquistato il credito (paragrafo 11 supra).
14. Tale decisione era provvisoriamente esecutiva.

15. Le parti presentarono ricorso per cassazione, ma l’esame dei ricorsi, che vertevano sulla questione della fissazione dell’importo del risarcimento (quantum debeatur), fu sospeso in attesa dell’esito dei procedimenti di seguito descritti.

3.  La confisca del credito e i relativi ricorsi

16. Il 22 marzo 1976 la sig.ra G. decedette. Con decreto n. 26836 del 24 aprile 1976 il Ministro del Tesoro intimò ai suoi eredi di pagare una multa dell’importo di 4.500.000.000 ITL (circa 2.324.056 EUR), in quanto la sig.ra G., cittadina straniera residente in Italia, aveva ceduto senza autorizzazione a un soggetto non residente (la banca X) un credito sorto in Italia, senza previamente dichiarare all’Ufficio Cambi il corrispettivo in valuta estera da lei percepito.

17. Il 28 dicembre 1976 il sig. D., erede della sig.ra G., chiese al tribunale di Roma di annullare il decreto del 24 aprile 1976.

18. Il 20 dicembre 1976 l’Ufficio cambi informò la banca X di avere pignorato il credito ceduto dalla sig.ra G. Il 1° marzo 1977 la banca X presentò dinanzi al tribunale di Roma una richiesta di annullamento del pignoramento. La stessa impugnò successivamente anche il decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977, con il quale il credito controverso era stato confiscato e acquisito all’erario. Tali procedure furono riunite a quella avviata dal sig. D. (paragrafo 17 supra).

19. Con una sentenza emessa il 16 luglio 1980 il tribunale di Roma dichiarò illegittimi i decreti ministeriali nn. 26836 e 126137, in quanto la sig.ra G. non poteva essere considerata una straniera che esercitava un’attività che genera dei profitti in Italia, e non era dunque soggetta all’obbligo di previa dichiarazione all’Ufficio cambi. I diritti vantati dall’amministrazione erano dunque inesistenti. Il tribunale respinse tuttavia la richiesta di indennizzo che la banca X aveva formulato nei confronti dell’amministrazione italiana, in quanto il dolo o la negligenza di quest’ultima non erano state provate. Tale sentenza fu confermata in appello il 20 marzo 1984.

20. L’amministrazione e la banca X presentarono ricorso per cassazione.

21. Con una sentenza resa il 18 marzo 1986, depositata il 3 novembre 1986, la Corte di Cassazione confermò la sentenza di appello nella parte in cui dichiarava che i decreti ministeriali nn. 26836 del 1976 e 126137 del 1977 erano illegittimi. La stessa corte cassò la sentenza di appello con rinvio nella parte in cui rigettava la richiesta di risarcimento della banca X. La Corte di Cassazione osservò che non era escluso che il titolare del credito avesse subito un pregiudizio a causa della confisca illegittima dello stesso.

22. Nel frattempo, dopo la sospensione (paragrafo 15 supra), era stata ripresa la procedura riguardante l’importo del risarcimento (quantum debeatur) dinanzi alla Corte di Cassazione. Quest’ultima aveva cassato la sentenza resa dalla corte d’appello di Roma il 13 febbraio 1976, che aveva fissato in 12.940.116.848 ITL (circa 6.683.012 EUR) il valore nel 1953 delle azioni della società L. (paragrafo 13 supra).

23. La banca X riprese le due procedure (quella relativa al risarcimento a seguito della confisca del credito e quella sul quantum debeatur) dinanzi alla corte d’appello di Roma. Le due procedure furono riunite.

24. Con una sentenza resa l’11 novembre 1990 la corte d’appello di Roma condannò l’amministrazione a versare alla banca X la somma di 11.453.428.148,726 ITL (circa 5.915.201 EUR), che rappresentava il valore delle azioni nel 1953, maggiorata degli interessi legali per il periodo compreso tra il 1953 e il 1976. La corte d’appello stabilì che il ministero del Tesoro era tenuto a risarcire la convenuta per la confisca illegittima del credito.

25. La banca X e l’amministrazione presentarono ricorso per cassazione.

26. Con una sentenza resa il 20 ottobre 1992 la Corte di Cassazione rigettò il ricorso dell’amministrazione, e accolse invece il ricorso della banca X nella parte riguardante la fissazione del valore delle azioni e il calcolo degli interessi e della somma dovuta per compensare la svalutazione monetaria.

27. In questo modo, la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno subito a causa della confisca illegittima del credito, intervenuta nel 1977, divenne definitiva (di seguito, questa decisione è anche indicata come la «decisione sull’an debeatur»).

28. La procedura di rinvio si tenne dinanzi alla corte d’appello di Napoli.

29. Come indicato al paragrafo 11 supra, il 7 luglio 1995 il predecessore legale della ricorrente acquistò il credito nei confronti dello Stato italiano.

30. Con una sentenza resa il 19 luglio 1995 la corte d’appello di Napoli fissò in 5.980.034.170 ITL (circa 3.088.429 EUR) il valore delle azioni nel 1953 e in 368.520.307.000 ITL (circa 190.324.855 EUR) la somma totale che la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero del Tesoro dovevano pagare alla parte attrice.

31. Per calcolare tali somme, la corte d’appello di Napoli prese in considerazione, tra l’altro, i seguenti elementi:

  • il «reddito medio futuro» della società L. dopo il 1953, ossia 940.331 dollari americani l’anno;
  • il «periodo di attualizzazione» di tale reddito, considerato su un periodo di 29 anni;
  • il «tasso di attualizzazione», ossia il coefficiente da applicare sulla serie di redditi futuri.

Per il calcolo di tale tasso erano state prodotte tre perizie: la prima, effettuata dal perito nominato d’ufficio, indicava un tasso dell’8,3%, mentre quelle dei periti nominati dalle parti proponevano dei tassi del 25,3% (perito dello Stato) e dell’1,80% (perito della banca). La corte d’appello scartò il metodo seguito dal perito nominato dallo Stato ed esaminò in dettaglio il rapporto del perito nominato d’ufficio che teneva conto, tra l’altro, del rendimento delle obbligazioni di Stato degli Stati Uniti d’America, del rischio di impresa e dell’inflazione. Tenendo presenti questi dati e alcune critiche formulate dal perito nominato dalla banca, la corte d’appello fissò il tasso controverso nella misura del 6,2%.

32. Quanto alla somma da accordare per la svalutazione monetaria, la corte d’appello respinse la tesi dello Stato secondo la quale si doveva tenere conto della variazione dei prezzi lordi, e accolse la posizione della banca che mirava a fondare tale calcolo sui dati dell’istituto nazionale di statistica riguardanti la variazione dei prezzi al consumo.

33. Alla luce di questi criteri, la corte d’appello moltiplicò il valore delle azioni nel 1953 (5.980.034.170 ITL – circa 3.088.429 EUR) per un coefficiente di 21,6545, ottenendo così un capitale risarcitorio di 129.494.650.000 ITL (circa 66.878.405 EUR), sul quale dovevano essere calcolati degli interessi compensativi a un tasso del 5% l’anno su una durata totale di 41 anni e 292 giorni (dal 30 settembre 1953 al 19 luglio 1995). Tali interessi ammontavano a 270.821.208.000 ITL (circa 139.867.481 EUR); aggiungendo il capitale da rimborsare, si otteneva la somma di 400.315.858.000 ITL (circa 206.745.866 EUR). Sottraendo un acconto di 31.795.551.000 ITL (circa 16.421.031 EUR) versato dall’amministrazione, la corte d’appello fissò la somma totale restante dovuta in 368.520.307.000 ITL (circa 190.324.855 EUR).

34. Nella motivazione della sua sentenza, la corte d’appello di Napoli precisò in via preliminare che la sua decisione riguardava soltanto gli atti di disposizione delle azioni della società L., in quanto la procedura riguardante le sanzioni illegittime adottate dal Ministro del Tesoro a seguito della cessione del credito si era conclusa quando la decisione sull’an debeatur era divenuta definitiva.

35. Il predecessore legale della ricorrente e l’amministrazione presentarono ricorso per cassazione, che venne respinto con una sentenza resa il 10 dicembre 1996.

36. In tal modo, la condanna al versamento della somma di 190.324.855 EUR divenne definitiva.

4.  La richiesta di risarcimento a causa della confisca illegittima del credito

a)  Il procedimento di primo grado

37. Nel frattempo, il 7 marzo 1996 il predecessore legale della ricorrente aveva citato il Ministero del Tesoro dinanzi al tribunale di Roma, chiedendo a quest’ultimo di fissare l’importo del risarcimento dovuto a seguito della confisca illegittima del credito riconosciuto dalla corte d’appello di Roma nella sua sentenza del 13 febbraio 1976 (paragrafo 13 supra). La parte attrice affermò che se la confisca non fosse avvenuta, la banca X avrebbe potuto investire la somma di 28.160.928.111 ITL sui mercati finanziari, realizzando in tal modo degli utili.

38. Il Ministero del Tesoro eccepì, tra l’altro, che tutti i danni subiti erano ormai interamente compensati dagli interessi accordati dalla corte d’appello di Napoli nella sua sentenza del 19 luglio 1995 (paragrafi 30-34 supra), e spettava alla parte attrice dimostrare l’esistenza di un ulteriore danno.

39. Il tribunale dispose una perizia per determinare gli utili che sarebbe stato possibile ottenere investendo un capitale di 28.160.928.111 ITL nel periodo compreso tra l’8 aprile 1977 (data della confisca – paragrafo 18 supra) e il 3 novembre 1986 (data del deposito in cancelleria della sentenza con la quale la Corte di Cassazione aveva confermato l’illegittimità del decreto ministeriale di confisca – paragrafo 21 supra).

40. L’amministrazione nominò dei periti di fiducia.

41. Con una sentenza non definitiva resa il 27 aprile 2000, il tribunale di Roma dichiarò che la decisione sull’an debeatur era divenuta definitiva e che il procedimento dinanzi alla corte d’appello di Napoli aveva riguardato unicamente la questione del risarcimento dovuto a seguito di un fatto illecito diverso dalla confisca, ossia gli atti di disposizione delle azioni appartenenti alla sig.ra G. Il tribunale precisò che il procedimento dinanzi ad esso verteva solo sull’impossibilità di utilizzare e investire sui mercati finanziari la somma di 28.160.928.111 ITL che la corte d’appello di Roma aveva riconosciuto alla banca X nella sua sentenza del 13 febbraio 1976 (paragrafo 13 supra).

42. Nella stessa sentenza non definitiva il tribunale di Roma, osservando che i criteri di calcolo adottati dal perito nominato d’ufficio non erano corretti, dispose una nuova perizia.

43. Il Ministero del Tesoro interpose appello avverso la sentenza non definitiva del 27 aprile 2000.

44. Con una sentenza resa il 3 marzo 2003 il tribunale di Roma condannò l’amministrazione a versare la somma di 63.819.611,93 EUR alla AIG Privat Bank, predecessore legale della ricorrente.) 

b) L’appello

45. L’amministrazione e l’AIG Privat Bank interposero appello avverso tale sentenza.

46. I procedimenti relativi agli appelli presentati contro le sentenze del 27 aprile 2000 (paragrafo 41 supra) e 3 marzo 2003 (paragrafo 44 supra) furono riuniti.

47. Con una sentenza resa il 10 febbraio 2005 la corte d’appello di Roma rigettò l’appello dell’amministrazione avverso la sentenza non definitiva del 27 aprile 2000, precisando che gli atti di disposizione delle azioni e la confisca del credito erano costitutivi di due illeciti diversi e che la sentenza della corte d’appello di Napoli del 19 luglio 1995 non contemplava la questione del risarcimento per causa di confisca (paragrafi 30-34 supra).

48. Sul merito, la corte d’appello respinse la richiesta di risarcimento, osservando che la parte attrice non aveva provato l’esistenza di un danno e che i calcoli fatti dai periti erano aleatori.

c)  I ricorsi per cassazione

49. L’AIG Privat Bank e l’amministrazione presentarono ricorso per cassazione.

50. L’AIG Privat Bank affermò, tra l’altro, che il danno subito doveva essere calcolato sulla base del guadagno che la banca X, professionista nel settore del credito, avrebbe realizzato investendo in obbligazioni dello Stato la somma di 28.160.928.111 ITL. La stessa affermò anche di avere provato il danno subito per mezzo di numerosi documenti e che un mancato guadagno poteva essere stabilito solo sulla base di un calcolo delle probabilità.

51. Con una sentenza resa il 14 gennaio 2009, depositata il 6 marzo 2009, la Corte di Cassazione respinse i ricorsi della banca e dell’amministrazione.

52. La stessa Corte confermò che la parte convenuta non aveva dimostrato il danno che sosteneva di avere subito. Tale lacuna, tuttavia, non dipendeva dalla natura o dal contenuto delle perizie, bensì dalla circostanza che il tipo di danno lamentato dalla banca, ovvero il fatto di non avere potuto beneficiare dei frutti del capitale confiscato, era già stato interamente compensato nell’ambito del procedimento dinanzi alla corte d’appello di Napoli. In effetti, nel calcolo del risarcimento dovuto a seguito di un fatto illecito extracontrattuale, il giudice doveva tenere conto anche del mancato guadagno provocato dal ritardo nel versamento della somma dovuta, a condizione che la parte lesa provasse l’esistenza di tale mancato guadagno. Il giudice poteva basarsi su presunzioni, e fissare l’importo del risarcimento in via equitativa, alla luce di tutte le circostanze della causa e applicando un determinato tasso di interesse. Nella fattispecie, gli interessi composti accordati dalla corte d’appello di Napoli erano superiori a quelli normalmente applicati dalla giurisprudenza in materia e miravano a risarcire la banca di un eventuale mancato guadagno dovuto all’impossibilità di disporre del capitale.

53. Nella misura in cui la banca sosteneva che tale impossibilità di utilizzo doveva essere risarcita in maniera più generosa, poiché il rendimento del capitale avrebbe potuto essere superiore agli interessi composti, la Corte di Cassazione osservò che questo argomento avrebbe dovuto essere sollevato dinanzi alla corte d’appello di Napoli, e non poteva essere oggetto di un nuovo procedimento.

54. La Corte di Cassazione osservò infine che, poiché il capitale costituito dal valore delle azioni era lo stesso, non si era in presenza di due fatti illeciti distinti, ma di due condotte diverse che avevano provocato un danno unico.

MOTIVI DI RICORSO

55. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, la ricorrente lamenta di non aver ottenuto un risarcimento per il mancato guadagno dovuto alla confisca illegittima del credito nei confronti dello Stato italiano.

56. Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, la ricorrente lamenta una mancanza di equità dei procedimenti civili e una violazione del suo diritto di accesso a un tribunale.

IN DIRITTO

A.  Motivo di ricorso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

57.; La ricorrente lamenta una violazione del suo diritto al rispetto dei beni in quanto non ha potuto ottenere un risarcimento per il danno subito a causa del mancato guadagno dovuto alla confisca illegittima del credito della banca X.

58. La ricorrente invoca l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, che recita:

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

1. Argomenti della ricorrente

59. La ricorrente ritiene di essere titolare di un «bene» in quanto delle decisioni giudiziarie definitive hanno accertato sia l’illiceità della condotta del Ministro del Tesoro che l’obbligo dello Stato di riparare al pregiudizio che tale condotta aveva provocato. Con la confisca, le autorità hanno impedito alla banca X di disporre della somma di 28.160.928.111 ITL, riconosciuta dalla corte d’appello di Roma, e di investirla sui mercati finanziari. Tuttavia, la Corte di Cassazione si sarebbe rifiutata di accordare una riparazione per questo mancato guadagno, il che, secondo la ricorrente, equivarrebbe a una ingerenza nel diritto garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1.

60. L’ingerenza dedotta costituita dalla confisca era chiaramente priva di base legale, come hanno affermato i tribunali nazionali competenti. Quanto all’ingerenza che sarebbe stata realizzata con la sentenza della Corte di Cassazione del 14 gennaio 2009 (paragrafi 51-54 supra), essa sarebbe altrettanto illegale in quanto avrebbe violato il principio della certezza del diritto non rispettando la decisione definitiva sull’an debeatur (si vedano gli argomenti esposti dalla ricorrente dal punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione – paragrafo 87 infra). Inoltre, la sentenza della Corte di Cassazione non avrebbe rispettato le disposizioni interne in materia di fatto illecito extracontrattuale e di danni che possono essere compensati, tra i quali vi è il mancato guadagno. In ogni caso, la sentenza della Corte di Cassazione, che secondo la ricorrente ha violato le decisioni giudiziarie che l’hanno preceduta, non ha soddisfatto il requisito della «prevedibilità».

61. Infine, anche a voler supporre che possa essere considerata «legale», l’ingerenza sarebbe in ogni caso non proporzionata, in quanto non sarebbe stata offerta alcuna compensazione per la confisca e la perdita della possibilità di utilizzare la somma di 28.160.928.111 ITL. Inoltre, quando la Corte di Cassazione ha pronunciato la sentenza, dalla confisca illegittima erano trascorsi trentatré anni, durante i quali avevano avuto luogo lunghi procedimenti giudiziari.

2.  Valutazione della Corte

a)  Sull’applicabilità dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

62. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può lamentare una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 soltanto nella misura in cui le decisioni che egli contesta si riferiscono ai suoi «beni» ai sensi di questa disposizione. La nozione di «beni» può comprendere sia «beni attuali» che valori patrimoniali, compresi, in alcune situazioni ben definite, dei crediti. Affinché un credito possa essere considerato un «valore patrimoniale» rientrante nell'ambito dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, occorre che il titolare del credito dimostri che quest'ultimo ha una base sufficiente nel diritto interno, per esempio che è confermato da una consolidata giurisprudenza dei tribunali. Una volta che ciò è acquisito, può entrare in gioco la nozione di «aspettativa legittima» (Maurice c. Francia [GC], n. 11810/03, § 63, CEDU 2005-IX, e Varesi e altri c. Italia (dec.), n. 49407/08, § 34, 12 marzo 2013).

63. Nella fattispecie, la ricorrente afferma di essere titolare di un «bene» in quanto il suo predecessore legale aveva acquisito un diritto a compensazione a seguito della confisca illegittima di un credito verso lo Stato italiano operata dal decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977 (paragrafo 18 supra).

64. La Corte rileva anzitutto che la ricorrente non era la persona, fisica o giuridica, che ha subito la confisca in questione, e dunque una privazione della proprietà. Quest’ultima era stata disposta nei confronti della banca X che, il 17 febbraio 1970, aveva acquisito il credito della sig.ra G. Il predecessore legale della ricorrente, la A.I.G. Privat Bank, a sua volta ha acquisito questo stesso credito solo il 7 luglio 1995 (paragrafi 11 e 29 supra), ossia diciotto anni e tre mesi dopo l’adozione del decreto ministeriale contestato.

65. La Corte ritiene che le circostanze che caratterizzano l’acquisizione del credito non possano, di per sé, privare la ricorrente della tutela offerta dall’articolo 1 del Protocollo n. 1, e che i fatti si prestino ad essere valutati dal punto di vista della proporzionalità di una eventuale ingerenza nel diritto al rispetto dei beni dell’interessata (si veda, mutatis mutandis, Vistiņš e Perepjolkins c. Lettonia (merito) [GC], n. 71243/01, §§ 120-121, 25 ottobre 2012, in cui la Corte ha esaminato sotto questo profilo la questione di stabilire se il modo in cui i ricorrenti avevano acquisito la proprietà di alcuni terreni giustificava l’attribuzione di una indennità ridotta; si veda anche Zvolský e Zvolská c. Repubblica ceca [GC], n. 46129/99, § 72, CEDU 2002-IX, in cui la Corte ha ammesso che delle circostanze eccezionali – in particolare il modo in cui i beni erano stati acquisiti – potevano servire da giustificazione all’ingerenza). La Corte osserva peraltro che i giudici italiani non hanno messo in dubbio il locus standi del predecessore legale della ricorrente per ottenere il risarcimento che egli reclamava.

66. Ai fini dell’applicabilità dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 la Corte si limita a osservare che, con una sentenza resa il 16 luglio 1980, il tribunale di Roma ha dichiarato il decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977 illegittimo (paragrafo 19 supra), e che in seguito, con una sentenza resa l’11 novembre 1990, la corte d’appello di Roma ha dichiarato che il Ministero del Tesoro doveva versare un risarcimento per la confisca illegittima (paragrafo 24 supra). Queste due decisioni giudiziarie erano definitive nel momento in cui il predecessore legale della ricorrente ha acquistato il credito verso lo Stato italiano.

67. Questi elementi bastano alla Corte per concludere che il diritto a un risarcimento rivendicato dal predecessore legale della ricorrente costituiva un «valore patrimoniale» avente una base sufficiente nel diritto interno. Pertanto, l’interessato era titolare di una «aspettativa legittima», e dunque di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.

68. Di conseguenza, questa disposizione trova applicazione nel caso di specie.

b)  Sul rispetto dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

69. La Corte osserva anzitutto che, non essendo stata la vittima diretta della confisca (paragrafo 64 supra), la ricorrente non può lamentare le condizioni della privazione di proprietà che ne è derivata. Il predecessore legale della ricorrente infatti era solo il titolare di un credito verso lo Stato avente ad oggetto il risarcimento dovuto in conseguenza degli atti che hanno interessato le azioni della società mineraria L. e il credito della sig.ra G. Pertanto, la doglianza dell’interessata può essere intesa solo nel senso di riguardare l’adeguatezza dell’importo accordato a titolo di riparazione dei danni da parte dei giudici italiani.

70. La Corte rileva inoltre che, dinanzi ai giudici italiani, il predecessore legale della ricorrente chiedeva riparazione per due danni: quello derivante dalla presa delle azioni della società mineraria greca L., e quello originato dalla confisca illegittima realizzata con il decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977 (paragrafo 18 supra). Dinanzi alla Corte la ricorrente non contesta che il primo danno sia stato compensato dalla somma accordata dalla corte d’appello di Napoli con la sentenza del 19 luglio 1995 (paragrafi 30-34 supra). L’unica questione che resta da esaminare è dunque quella di stabilire se l’importo del risarcimento ricevuto a livello nazionale per compensare il danno provocato dalla confisca sopra menzionata abbia pregiudicato il diritto al rispetto dei beni dell’interessata, facendo gravare su di lei un onere eccessivo ed esagerato e rompendo il «giusto equilibrio» da mantenere in materia tra gli imperativi dell’interesse generale della comunità e quelli della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (si vedano, tra altre, Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69, serie A n. 52, e Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, § 93, CEDU 2006-V).

71. La Corte rammenta di avere detto, in casi di espropriazione, che la mancanza totale di indennizzo non può giustificarsi dal punto di vista dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 se non in circostanze eccezionali (I santi monasteri c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 71, serie n. 301-A, e Ex-re di Grecia e altri c. Grecia [GC], n. 25701/94, § 89, CEDU 2000-XII). Tuttavia, nel caso di specie non è necessario stabilire se tale principio possa applicarsi, mutatis mutandis, a chi acquista un credito avente ad oggetto la riparazione dovuta a causa di una confisca in quanto, in ogni caso, la Corte non può aderire alla tesi della ricorrente secondo la quale nella sua sentenza del 14 gennaio 2009 la Corte di Cassazione ha negato l’esistenza di un diritto a un risarcimento. Secondo la Corte, l’Alta giurisdizione italiana si è limitata ad affermare che l’impossibilità di godere dei frutti del capitale confiscato era stata già compensata dalle somme accordate dalla corte d’appello di Napoli (paragrafo 52 supra). Resta da determinare se questa conclusione abbia pregiudicato il diritto al rispetto dei beni della ricorrente.

72. A questo riguardo, è opportuno rammentare che, ponendosi sul piano dell’articolo 41 della Convenzione, la Corte ha avuto l’occasione di affermare che in caso di spossessamento illecito di un bene, il risarcimento deve rispecchiare l’idea di una totale rimozione delle conseguenze dell’ingerenza dello Stato (Guiso-Gallisay c. Italia (equa soddisfazione) [GC], n. 58858/00, § 101, 22 dicembre 2009). Inoltre, dato che il carattere adeguato di un risarcimento rischia di diminuire se il pagamento di quest’ultimo prescinde da elementi che possono ridurne il valore, come il decorso di un lasso di tempo considerevole (Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 82, serie A n. 301-B), l’importo originale del credito dovrà essere indicizzato per compensare gli effetti dell’inflazione. Esso dovrà essere anche maggiorato di interessi che possano compensare, almeno in parte, il lungo lasso di tempo trascorso dallo spossessamento (si veda, mutatis mutandis, Guiso-Gallisay (equa soddisfazione), sopra citata, § 105, in cui la Corte ha ritenuto che questi interessi dovessero corrispondere all’interesse legale semplice applicato al capitale progressivamente rivalutato).

73. La Corte considera che, benché enunciati in un contesto giuridico diverso, i principi esposti al paragrafo precedente possano essere utilizzati come punto di partenza per la sua analisi nella presente causa. In effetti, anche se la ricorrente non ha subito personalmente alcuno spossessamento illecito dei suoi beni (paragrafo 64 supra), è utile rammentare che il suo predecessore legale era acquirente di un credito avente ad oggetto, tra l’altro, la riparazione dovuta a seguito di una confisca (quella operata dal decreto ministeriale n. 126137 dell’ 8 aprile 1977) che è stata riconosciuta illegale con una decisione giudiziaria definitiva. In effetti, nella sua sentenza del 16 luglio 1980 il tribunale di Roma ha affermato che, non potendo essere considerata come una straniera che esercita un’attività che genera profitti in Italia, la sig.ra G. non era soggetta all’obbligo di previa dichiarazione all’Ufficio cambi, il che rendeva inesistenti i diritti rivendicati dall’amministrazione, che a loro volta erano alla base della decisione di confiscare (paragrafo 19 supra).

74. Ritornando ai fatti della presente causa, la Corte osserva che la Corte di Cassazione ha basato la sua affermazione secondo la quale qualsiasi danno derivante dalla confisca era coperto dagli interessi accordati dalla corte d’appello di Napoli (paragrafo 71 supra) in base alla constatazione che il capitale ottenuto al momento dell’acquisizione delle azioni e della confisca del 1977 era unico. Pertanto, secondo la Corte, non si trattava nel caso di specie di due illeciti distinti, ma di due condotte diverse che hanno causato un unico pregiudizio (paragrafo 54 supra).

75. La Corte è del parere che il ragionamento seguito dall’Alta giurisdizione italiana non possa essere considerato manifestamente arbitrario, e osserva al riguardo che è vero che la somma confiscata nel 1977 rappresentava il valore indicizzato e maggiorato di interessi delle azioni della società L., fissata dalla corte d’appello di Roma nella sua sentenza provvisoriamente esecutiva del 13 febbraio 1976 (paragrafi 13-14 supra). Pertanto, le due condotte illecite – la presa delle azioni e la confisca con decreto ministeriale – avevano avuto ad oggetto uno stesso capitale iniziale.

76. La Corte ha anche analizzato i criteri di compensazione seguiti dalla corte d’appello di Napoli nella sua sentenza del 19 luglio 1995. Questa decisione ha anzitutto determinato il valore delle azioni della società L. nel settembre 1953, data in cui la loro restituzione alla sig.ra G. era divenuta impossibile (paragrafo 12 supra), fissandola in circa 3.088.429 EUR (paragrafo 30 supra). Essa ha poi indicizzato questa somma, tenendo conto, tra l’altro, del «reddito medio futuro» della società L. e di un «tasso di indicizzazione» (fissato nella misura del 6,2%) da applicare su tutti i redditi futuri su un periodo di 29 anni (paragrafo 31 supra). La svalutazione della moneta è stata calcolata sulla base dei dati forniti dall’istituto di statistica riguardanti la variazioni dei prezzi al consumo (e non, come voleva l’amministrazione, sulla base della variazione dei prezzi lordi – paragrafo 32 supra). Perciò il valore indicizzato del capitale da rimborsare è stato fissato in circa 66.878.405 EUR, somma alla quale si sono aggiunti degli interessi compensativi a un tasso annuo del 5%, e che ammonta a circa 139.867.481 EUR (paragrafo 33 supra).

77. Per la Corte, la somma accordata a titolo di interessi è molto sostanziosa, e può essere considerata una compensazione equa. Per di più, gli interessi sono stati calcolati su una durata totale di 41 anni e 292 giorni (dal 30 settembre 1953 al 19 luglio 1995), coprendo così anche il periodo successivo all’8 aprile 1977, data della confisca illegittima del credito operata dal decreto ministeriale n. 126137 (paragrafo 18 supra).

78. Nella misura in cui la ricorrente afferma, sia dinanzi ai giudici nazionali che dinanzi alla Corte, che il risarcimento non ha tenuto conto del fatto che se la confisca non avesse avuto luogo la somma illecitamente sottratta nel 1977 avrebbe potuto essere investita sui mercati finanziari, realizzando in tal modo degli utili considerevoli (paragrafi 50 e 59 supra), si deve osservare che se offrono la possibilità di realizzare dei profitti, i mercati finanziari si caratterizzano anche per una certa volatilità. Gli investimenti prospettati dalla ricorrente avrebbero dunque potuto apportare dei profitti, ma anche condurre a delle perdite. Poiché la realizzazione ipotetica degli uni o delle altre, così come il loro importo, non possono che derivare da una certa dose di speculazione, la Corte non può considerare irragionevole l’approccio seguito dalla Corte di Cassazione, volto a compensare l’impossibilità di utilizzare la somma confiscata accordando interessi composti.

79. Inoltre, la Corte ribadisce che, all’epoca della confisca controversa, la ricorrente non era titolare del credito confiscato (paragrafi 64 e 69 supra). Nel 1970 quest’ultimo era stato acquisito dalla banca svizzera X, che l’ha ceduto al predecessore legale della ricorrente solo il 7 luglio 1995 (paragrafi 11 e 29 supra). Di conseguenza fino a questa data i guadagni ipotetici per i quali la ricorrente richiede una compensazione non avrebbero potuto essere ottenuti dall’interessata stessa o dal suo predecessore legale, ma da un terzo.
80. La Corte ritiene inoltre che, per valutare la proporzionalità della compensazione accordata alla ricorrente, non si possa prescindere dalle modalità con le quali l’interessata ha acquisito la proprietà del credito controverso (paragrafo 65 supra). Il credito verso lo Stato italiano, per quanto riguarda sia l’acquisizione delle azioni della società greca L. che la confisca operata dal decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977, è stato acquistato il 7 luglio 1995, alcuni giorni prima della pronuncia della sentenza della corte d’appello di Napoli, dal predecessore legale della ricorrente, una banca. Anche il venditore era una banca. Secondo la Corte, la trasmissione di un credito tra due istituti bancari non poteva che rientrare nella logica di una operazione speculativa, in cui l’acquirente decideva, in cambio di altri corrispettivi, di assumere consapevolmente il rischio che l’importo del risarcimento accordato dalle autorità giudiziarie italiane fosse inferiore alle sue aspettative. La Corte è del parere che sia opportuno tenere presente questa assunzione volontaria di rischio nel bilanciamento degli interessi pubblico e privato in gioco nella presente causa.
81. Inoltre, per quanto riguarda la lunghezza, sottolineata dalla ricorrente (paragrafo 61 supra), delle procedure giudiziarie di risarcimento, la Corte rammenta che, nella misura in cui la violazione del diritto di proprietà è strettamente legata alla durata di un procedimento e ne costituisce una conseguenza indiretta, la «legge Pinto» permette di chiedere una decisione che può rientrare nella logica della giurisprudenza della Corte per quanto riguarda l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (Capestrani c. Italia (dec.), n. 46617/99, 27 gennaio 2005; Recupero c. Italia (dec.), n. 77713/01, 17 marzo 2005; De Filippo c. Italia (dec.), n. 72112/01, 27 marzo 2007; e Contessa e altri c. Italia (dec.), n. 11004/05, § 34, 17 settembre 2013).

82. Nel caso di specie, la Corte constata che il predecessore legale della ricorrente ha presentato dinanzi al tribunale di Roma un’azione di risarcimento nei confronti del Ministero del Tesoro a causa della confisca illegittima operata dal decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977 (paragrafo 37 supra), e poi, considerando l’importo accordato insufficiente, ha interposto appello avverso la sentenza del tribunale di Roma del 3 marzo 2003 (paragrafo 45 supra). Infine, l’A.I.G. Privat Bank ha presentato ricorso per cassazione contro la sentenza della corte d’appello di Roma del 10 febbraio 2005 (paragrafo 49 supra). La Corte sottolinea che, se la durata di questi procedimenti fosse sembrata eccessiva all’interessata, essa avrebbe potuto presentare un ricorso ai sensi della «legge Pinto». Ora, la Corte constata che la ricorrente non ha affermato che un tale ricorso sia stato esercitato da lei o dal suo predecessore legale (si veda, mutatis mutandis, Contessa e altri, decisione sopra citata, § 35).

83. Considerate le circostanze particolari della presente causa, e avendo proceduto a una valutazione globale dei fatti, la Corte ritiene che le modalità di compensazione per la confisca, nel 1977, del credito acquisito nel 1995 dal predecessore legale della ricorrente, non abbiano pregiudicato il giusto equilibrio da rispettare, in materia, tra l’interesse pubblico e l’interesse privato, e che la ricorrente non sia stata costretta a sopportare un onere eccessivo e sproporzionato. Pertanto, nel caso di specie non è ravvisabile alcuna apparenza di violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.

84. Di conseguenza questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

B. Motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 1 della Convenzione

85. La ricorrente lamenta una violazione dei suoi diritti di accesso a un tribunale e a un processo equo.

Essa invoca l’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita:

«1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...).»

86. La ricorrente afferma, in primo luogo, che il sequestro e la confisca, da parte del Ministero del Tesoro, dell’importo (28.160.928.111 ITL) accordato il 13 febbraio 1976 alla banca X dalla corte d’appello di Roma equivale a un ostacolo all’esecuzione di una decisione giudiziaria. La sentenza del 13 febbraio 1976 era provvisoriamente esecutiva e l’illiceità della condotta del ministro è stata definitivamente accertata dai giudici italiani. Nonostante questo, nella sua sentenza del 14 gennaio 2009, la Corte di Cassazione ha rifiutato di accordare un risarcimento specifico per questo fatto illecito e di compensare il mancato guadagno dedotto dal predecessore legale della ricorrente.

87. La ricorrente sostiene inoltre che la Corte di Cassazione ha violato il principio della certezza del diritto, in quanto ha contravvenuto alla sentenza dell’11 novembre 1990 (paragrafo 24 supra), nella quale la corte d’appello di Roma ha affermato che l’amministrazione doveva risarcire il danno subito a causa della confisca illegittima, avvenuta nel 1977, del credito della banca X. Secondo la ricorrente, il fatto che la sentenza dell’11 novembre 1990 costituisse la decisione interna definitiva sull’an debeatur è stato riconosciuto sia dalla corte d’appello di Napoli nella sua sentenza del 19 luglio 1995 (paragrafi 30-34 supra), che dal tribunale e dalla corte d’appello di Roma nelle loro decisioni del 27 aprile 2000 (paragrafi 41-42 supra), 3 marzo 2003 (paragrafo 44 supra) e 10 febbraio 2005 (paragrafi 47-48 supra). Nonostante ciò, la Corte di Cassazione ha ritenuto che tutti i danni subiti fossero stati compensati dagli interessi accordati dalla corte d’appello di Napoli, deludendo in tal modo le aspettative legittime della parte lesa. Secondo la ricorrente, le affermazioni della Corte di Cassazione su questo punto sono illogiche e contraddittorie. L’Alta giurisdizione italiana avrebbe in sostanza ignorato sia l’illiceità della confisca in quanto condotta autonoma, che la sentenza della corte d’appello di Napoli del 19 luglio 1995, che aveva indicato di avere risarcito unicamente il danno causato dalla presa delle azioni della società L.

88. La ricorrente considera che l’articolo 6 § 1 della Convenzione sia stato violato anche in quanto la Corte di Cassazione non ha cassato la sentenza d’appello con rinvio a un altro giudice, che avrebbe dovuto pronunciarsi sulla questione di stabilire se il danno subito fosse stato interamente compensato dalla somma accordata dalla corte d’appello di Napoli. Inoltre, la Corte di Cassazione non avrebbe effettuato un calcolo preciso del danno subito alla luce delle prove prodotte nel corso del processo.

89. In via preliminare, la Corte osserva che la ricorrente non può lamentare pretese irregolarità procedurali che siano avvenute prima del 7 luglio 1995, data in cui il suo predecessore legale ha acquisito il credito nei confronti dello Stato italiano (paragrafi 11 e 29 supra), divenendo in tal modo parte ai procedimenti controversi.

90. La Corte rammenta per di più che il diritto a un processo equo deve essere interpretato alla luce del preambolo della Convenzione, che enuncia la preminenza del diritto come elemento del patrimonio comune degli Stati contraenti. Ora, uno degli elementi fondamentali della preminenza del diritto è il principio della certezza dei rapporti giuridici (Brumărescu c. Romania [GC], n. 28342/95, § 61, CEDU 1999 VII), che tende soprattutto a garantire alle persone soggette alla giustizia una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia del pubblico nella giustizia (Nejdet Şahin e Perihan Şahin c. Turchia [GC], n. 13279/05, § 57, 20 ottobre 2011).

91. Questo principio è implicito in tutti gli articoli della Convenzione e costituisce uno degli elementi fondamentali dello Stato di diritto (si vedano, tra altre, Beian c. Romania (n. 1), n. 30658/05, § 39, CEDU 2007-XIII (estratti); Iordan Iordanov e altri c. Bulgaria, n. 23530/02, § 47, 2 luglio 2009; e Ştefănică e altri c. Romania, n. 38155/02, § 31, 2 novembre 2010). In effetti, l’incertezza – che sia legislativa, amministrativa o attinente alle pratiche applicate dalle autorità – è un fattore di cui si deve tenere conto per valutare la condotta dello Stato (Păduraru c. Romania, n. 63252/00, § 92, CEDU 2005-XII (estratti); Beian (n. 1), sopra citata, § 33; e Nejdet Şahin e Perihan Şahin, sopra citata, § 56).

92. Per quanto riguarda, in particolare, le divergenze giurisprudenziali che possono creare una incertezza giuridica, la Corte ha già riconosciuto che una tale eventualità è naturalmente insita in ogni sistema giudiziario che si basi su un insieme di giurisdizioni di merito aventi autorità sul proprio ambito territoriale. Di per sé questo non può essere giudicato contrario alla Convenzione (Santos Pinto c. Portogallo, n. 39005/04, § 41, 20 maggio 2008, e Nejdet Şahin e Perihan Şahin, sopra citata, § 51). In linea di principio, non spetta alla Corte confrontare le varie decisioni emesse, anche in cause a prima vista simili o connesse, da tribunali indipendenti da essa (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 103, serie A n. 22; Gregório de Andrade c. Portogallo, n. 41537/02, § 36, 14 novembre 2006; Ādamsons c. Lettonia, n. 3669/03, § 118, 24 giugno 2008; e Nejdet Şahin e Perihan Şahin, sopra citata, § 50).

93. Peraltro, la Corte ha già affermato molte volte che il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria è uno degli aspetti del diritto a un tribunale (Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997, § 40, Recueil des arrêts et décisions 1997-II, e Simaldone c. Italia, n. 22644/03, § 42, 31 marzo 2009). In caso contrario, le garanzie dell’articolo 6 § 1 della Convenzione sarebbero private di ogni effetto utile. La protezione effettiva della persona sottoposta alla giustizia implica l’obbligo per lo Stato o uno dei suoi organi di eseguire la sentenza. Se lo Stato si rifiuta od omette di dare esecuzione, oppure tarda nel farlo, le garanzie dell’articolo 6 di cui ha beneficiato la persona soggetta alla giustizia durante la fase giudiziaria del procedimento perderebbero ogni ragione di essere (Hornsby, sopra citata, § 41). L’esecuzione deve, inoltre, essere completa, perfetta e non parziale (Matheus c. Francia, n. 62740/00, § 58, 31 marzo 2005, e Sabin Popescu c. Romania, n. 48102/99, §§ 68-76, 2 marzo 2004).

94. La Corte osserva che, nella fattispecie, la ricorrente lamenta, essenzialmente, il fatto che nella sua sentenza del 14 gennaio 2009, la Corte di Cassazione si è rifiutata di accordarle un risarcimento specifico per la confisca del credito operata dal decreto ministeriale n. 126137 dell’8 aprile 1977 (paragrafo 18 supra), mentre la natura illegittima di tale confisca e la sua capacità di dare origine a un diritto a una compensazione erano state accertate da una decisione giudiziaria definitiva, ossia la sentenza della corte d’appello di Roma dell’11 novembre 1990 (paragrafo 24 supra). La Corte è chiamata a verificare se la situazione denunciata possa rivelare una apparenza di violazione del principio della certezza del diritto e del diritto a un tribunale, enunciati nella sua giurisprudenza sopra citata.

95. A tale riguardo, la Corte osserva che è vero che nella sua sentenza dell’11 novembre 1990 la corte d’appello di Roma aveva deciso che il Ministero del Tesoro era tenuto a risarcire la parte convenuta per la confisca illegittima del credito (paragrafo 24 supra), e che questa parte della sentenza (indicata nell’esposizione dei fatti come la «decisione sull’an debeatur») era divenuta definitiva il 20 ottobre 1992, data del rigetto, da parte della Corte di Cassazione, del ricorso dell’amministrazione (paragrafi 26 e 27 supra). Resta comunque il fatto che la Corte non può aderire alla tesi della ricorrente secondo la quale la sentenza della Corte di Cassazione del 14 gennaio 2009 sarebbe contraddittoria rispetto alla decisione sull’an debeatur.

96. A questo riguardo, la Corte rileva che, nella sentenza controversa, l’Alta giurisdizione italiana non ha negato né l’illegittimità della confisca né la circostanza che tale illegittimità dava diritto a un risarcimento. In effetti, la Corte di Cassazione si è limitata ad affermare che il danno derivante dalla confisca illegittima era già stato interamente compensato dagli interessi composti accordati dalla corte d’appello di Napoli (paragrafo 52 supra). Nulla permette di pensare che la sentenza resa da quest’ultima, che accorda un risarcimento al predecessore legale della ricorrente, non sia stata eseguita. Inoltre, il predecessore legale della ricorrente ha avuto la possibilità di presentare ricorso per cassazione contro la stessa sentenza (paragrafo 35 supra) e di intentare un’azione di risarcimento contro il Ministero del Tesoro (paragrafo 37 supra), che è stata esaminata da tre gradi di giudizio.

97. In queste circostanze, la Corte non può rilevare alcuna apparenza di violazione del principio della certezza del diritto e/o del diritto a un tribunale dell’interessata.

98. Infine, nella misura in cui la ricorrente lamenta il carattere contraddittorio della sentenza della Corte di Cassazione del 14 gennaio 2009, l’assenza di un calcolo preciso del danno subito e il mancato rinvio della causa, da parte dell’Alta giurisdizione italiana, ad un altro giudice di merito (paragrafi 87-88 supra), la Corte rammenta che non è suo compito conoscere degli errori di fatto o di diritto presumibilmente commessi da un giudice interno, salvo se e nella misura in cui essi possano aver violato i diritti e le libertà salvaguardati dalla Convenzione (Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V), e che spetta in linea di principio ai giudici nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Waite e Kennedy c. Germania [GC], n. 26083/94, § 54, CEDU 1999-I; si vedano anche Pacifico c. Italia (dec.), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012, e Plesic c. Italia (dec.), n. 16065/09, § 33, 2 luglio 2013).

99. Il ruolo della Corte si limita infatti a verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione (Nejdet Şahin e Perihan Şahin, sopra citata, § 49; si vedano anche Kouchoglou c. Bulgaria, n. 48191/99, § 50, 10 maggio 2007, e Işyar c. Bulgaria, n. 391/03, § 48, 20 novembre 2008). Ora, esaminando gli effetti della sentenza della Corte di Cassazione del 14 gennaio 2009 sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, la Corte è giunta alla conclusione che nel caso di specie non era ravvisabile alcuna apparenza di violazione del diritto al rispetto dei beni della ricorrente (paragrafi 69-84 supra).

100. Di conseguenza il motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 1 della Convenzione è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.
Per questi motivi la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 16 luglio 2015.

Päivi Hirvelä
Presidente

Fatoş Aracı
Cancelliere aggiunto