Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 16 giugno 2015 - Ricorso n. 20485/06 - Mazzoni c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

CAUSA MAZZONI c. ITALIA

(Ricorso n. 20485/06)

SENTENZA

STRASBURGO

16 giugno 2015

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
 
Nella causa Mazzoni c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
George Nicolaou,
Ledi Bianku,
Nona Tsotsoria,
Paul Mahoney,
Yonko Grozev, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 26 maggio 2015,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 20485/06) proposto contro la Repubblica italiana con il quale un cittadino di tale Stato, sig. Giuseppe Mazzoni («il ricorrente»), ha adito la Corte l’11 maggio 2006 in virtù dell'articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. Il ricorrente è stato rappresentato dall'avvocato M. Cento, del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, Paola Accardo.

3. Il 4 gennaio 2011 il ricorso è stato comunicato al Governo.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

4. Il ricorrente, sig. Giuseppe Mazzoni, è un cittadino italiano, nato nel 1940 e residente a Udine.

A. I procedimenti relativi alla responsabilità penale e civile del ricorrente e la relativa procedura «Pinto»

1. Il procedimento penale

5. Nel 1973 il ricorrente, all'epoca militare in servizio, e alcune altre persone furono accusati di peculato ai danni del Ministero della Difesa e furono provvisoriamente sospesi dalle loro funzioni.

6. Con sentenza del 14 marzo 1980, il tribunale di Pordenone riconobbe gli imputati colpevoli e li condannò al risarcimento del danno provocato allo Stato, in particolare al Ministero della Difesa costituitosi parte civile, da quantificare successivamente. La decisione fu confermata in appello e, in seguito al rigetto del ricorso presentato dal ricorrente, divenne definitiva con sentenza della corte di Cassazione depositata il 2 maggio 1983.

2.  Il procedimento per quantificare i danni subiti dall’erario

7. A seguito della sentenza del tribunale di Pordenone, il Ministero della Difesa, nel 1984 e 1985, nominò due commissioni d'indagine amministrativa allo scopo di valutare i danni subiti.

8. L'11 agosto 1987 il procuratore generale presso la Corte dei conti citò il ricorrente dinanzi a quest’ultima corte affinché fosse condannato al versamento di alcune somme a titolo di risarcimento danni. Chiese anche il sequestro conservativo dell'indennità di fine servizio che fu confermato con ordinanza della sezione giurisdizionale del 25 marzo 1988. Con sentenza del 20 ottobre 1995, depositata il 1° aprile 1996, la Corte dei conti riconobbe il ricorrente responsabile dei fatti ascritti e lo condannò a versare 699.952 euro (EUR) all’erario.

9. Il 14 giugno 1996 il ricorrente interpose appello dinanzi alle sezioni riunite della Corte dei conti. Con sentenza depositata il 6 ottobre 1998, la formazione plenaria della Corte dei conti rigettò l’appello.

10. In una data non precisata, fu disposto il pignoramento del quinto dello stipendio del ricorrente in esecuzione della sentenza.

3. La procedura «Pinto»

11. Dopo aver presentato un primo ricorso dinanzi alla Corte il 21 febbraio 1998 (Mazzoni c. Italia, n. 62355/00), nel 2002 il ricorrente si rivolse alla corte d'appello di Roma ai sensi della legge «Pinto» chiedendo di dichiarare che vi era stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione e di condannare il governo italiano al risarcimento dei danni subiti. In particolare, il ricorrente chiese 30.000 EUR per i danni morali e materiali.

12.; Con decisione del 29 maggio 2003, depositata il 19 giugno 2003, la corte d'appello considerò separatamente ogni fase e grado della procedura. Giudicò che la durata di ciascun grado del procedimento penale non era stata irragionevole, tenuto conto anche della complessità della causa, e che comunque il ricorrente non aveva provato di aver subito dei danni patrimoniali. Non si pronunciò sul danno morale.

13.; Per quanto riguarda il periodo che era trascorso per l’indagine ministeriale, la corte ritenne che questa non era da considerare ai fini del termine ragionevole, in quanto le commissioni incaricate dell'indagine avevano natura amministrativa e non giudiziaria.

14. Anche per quanto riguarda i due gradi del procedimento svoltosi dinanzi alla Corte dei conti, la corte d’appello constatò che la durata era stata ragionevole ed escluse quindi l'esistenza di qualsiasi pregiudizio per il ricorrente.

15. Con lettera del 29 settembre 2003, il ricorrente informò la Corte del fatto che la corte d'appello aveva respinto il suo ricorso e che da parte sua non vi era l'intenzione di ricorrere per cassazione. Il primo ricorso del ricorrente fu così dichiarato irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (Mazzoni c. Italia (dec.), n. 62355/00, 25 marzo 2004).

16. Il 22 giugno 2004 il ricorrente presentò ricorso per cassazione sostenendo, in particolare, che la corte d'appello aveva ignorato la giurisprudenza della Corte in quanto aveva considerato ragionevole la durata dei procedimenti penale e contabile e non aveva preso in considerazione la durata della fase amministrativa svoltasi dinanzi alle due commissioni di indagine. Sosteneva dunque la violazione del suo diritto ad essere indennizzato.

17. Con sentenza del 22 giugno 2005, depositata il 17 novembre 2005, la Corte di cassazione dichiarò il ricorso inammissibile. Avendo confermato la decisione della corte d'appello per quanto riguarda l’impossibilità di riparare il danno derivante dalla durata del procedimento svoltosi dinanzi alle autorità amministrative, essa rilevò che i motivi di ricorso del ricorrente non riguardavano le considerazioni della corte d'appello secondo le quali il ricorrente non aveva subito danni patrimoniali a causa della durata del procedimento penale, né danni materiali o morali a causa della durata del procedimento svoltosi dinanzi ai giudici contabili. Secondo la sua consolidata giurisprudenza, la Corte di cassazione giudicò che, pur supponendo fondato il motivo di ricorso del ricorrente, la decisione impugnata poteva essere considerata basata sull'altra ratio decidendi della motivazione, ossia l'esclusione del danno morale, nel caso di specie non contestata. E aggiunse che non poteva essere attribuito alcun peso al fatto che la corte d'appello, per quanto riguardava la durata del procedimento penale, avesse omesso di pronunciarsi sul danno morale, dal momento che il ricorrente non aveva sollevato questo motivo di ricorso.

B.  Il riconoscimento del credito del ricorrente nei confronti del Ministero della Difesa e la compensazione di quest’ultimo

18. Nel frattempo, con sentenza del 23 marzo 2001, il tribunale amministrativo regionale (TAR) del Friuli aveva riconosciuto il diritto del ricorrente a percepire gli arretrati dello stipendio.

19. Il Ministero della Difesa esaminò innanzitutto la possibilità di procedere alla compensazione tra il credito del ricorrente e la somma di cui quest'ultimo era debitore in seguito alla sentenza della Corte dei conti e che, per effetto della rivalutazione e degli interessi, ammontava a 1.373.188 EUR. Interpellato a questo proposito, il 30 maggio 2004, l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato diede il suo parere e concluse che il credito del ricorrente, nonostante si riferisse agli arretrati, aveva natura salariale. La compensazione poteva essere attuata soltanto entro i limiti previsti dall'articolo 1246 del codice civile (escludendo la possibilità di compensare «i crediti impignorabili»), in combinato disposto con gli articoli 1 e 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 180 del 5 gennaio 1950 (ai sensi dei quali gli stipendi e le pensioni dei dipendenti pubblici sono pignorabili soltanto «a concorrenza di un quinto, per debiti verso l’Amministrazione derivanti dal rapporto di impiego »). Con decreto del 5 luglio 2004, il Ministero della Difesa dispose la compensazione delle somme dovute al ricorrente entro i limiti legali.

20. In una data non precisata, il TAR del Friuli fissò a 149.300,06 EUR l'ammontare del credito del ricorrente.

21. Nel novembre 2004 e nel gennaio 2007, il Ministero della Difesa si rivolse nuovamente all'ufficio dell’Avvocatura dello Stato in merito allo stesso argomento. L'ufficio espresse due opinioni favorevoli sulla possibilità di compensazione integrale. A tale proposito, si basò su due ordini di considerazioni, rilevando, da una parte, che la natura del credito permetteva di escludere l'applicazione del limite legale di un quinto e, dall'altra parte, che nel caso di specie poteva trovare applicazione la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla compensazione atecnica. Secondo questa consolidata giurisprudenza, la compensazione atecnica è possibile quando il debito e il credito originano dallo stesso rapporto giuridico (in particolare il rapporto di lavoro). In questo caso, non si tratta di una compensazione in senso proprio ma di una semplice «verifica contabile degli attivi e dei passivi con neutralizzazione automatica dei rispettivi crediti» (definita compensazione atecnica), fatto che esclude l'applicabilità dei limiti legali alla compensazione. L'ufficio dell’Avvocatura dello Stato suggerì al ministero di procedere alla compensazione integrale e di difendere questa posizione in un eventuale contenzioso.

22. Con decreto del 26 giugno 2007, ritenendo che nel caso di specie non fossero applicabili i limiti alla compensazione, il ministero dispose la trattenuta del totale della somma dovuta al ricorrente in parziale compensazione della somma di cui quest'ultimo era debitore.

23. Il 7 novembre 2007 il ricorrente si rivolse al TAR del Friuli con un ricorso per annullamento. Prima di tutto, egli sosteneva che il debito opposto in compensazione era prescritto. In secondo luogo sosteneva che poiché il credito si riferiva ad arretrati di stipendio, poteva essere oggetto di compensazione soltanto a concorrenza di un quinto del suo ammontare totale. In terzo luogo, sosteneva che al ministero era precluso eccepire la compensazione del totale perché l’aveva esclusa in un primo tempo.

24. Con sentenza del 21 maggio 2008, depositata l'11 luglio 2008, il TAR del Friuli respinse il ricorso del ricorrente. Avendo rigettato il primo e il terzo motivo di ricorso per manifesta infondatezza, il TAR giudicò che i limiti alla compensazione dei crediti di natura salariale non erano applicabili nel caso di specie. Da una parte, il TAR rilevò che, benché di natura salariale, le somme contestate si riferivano ad arretrati e avevano quindi perduto il carattere di credito vitale che giustificava l’impignorabilità. Dall’altra parte, il TAR si basò sulla giurisprudenza relativa alla compensazione atecnica.

25. Con sentenza del 17 aprile 2009, il Consiglio di Stato rigettò il ricorso del ricorrente per gli stessi motivi.

II.  IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A.  Sul ricorso indennitario per violazione del diritto a un processo entro un termine ragionevole

26. Il diritto e la prassi interni pertinenti relativi alla legge n. 89 del 24 marzo 2001, detta «legge Pinto», sono riportati nella sentenza Cocchiarella c. Italia ([GC], n. 64886/01, §§ 23-31, CEDU 2006 V).

B.  In materia di compensazione e pignoramento di stipendi, pensioni e altre somme assimilate

27. L'articolo 1246, comma 1, n. 3 del codice civile italiano esclude la compensazione di un debito con un «credito dichiarato impignorabile».

1. Il sequestro degli stipendi e delle pensioni nell'ambito del rapporto di lavoro di diritto privato

28. In materia di rapporto di lavoro di diritto privato, i limiti al pignoramento degli stipendi sono previsti dall'articolo 545, quarto comma, del codice di procedura civile, ai sensi del quale le somme dovute a titolo di stipendio o altra indennità relativa al rapporto di lavoro possono essere pignorate per credito (al di fuori dei crediti vitali) nei confronti del lavoratore entro il limite di un quinto del loro ammontare.

29. In questo quadro normativo, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (si vedano, tra l'altro, le sentenze nn. 9904/03, depositata il 20 giugno 2003, e 7337/04, depositata il 17 aprile 2004) il debito del datore di lavoro a titolo di salario e quello del lavoratore a titolo di risarcimento danni per atto illecito commesso nell'ambito delle sue funzioni devono essere considerati avere origine nello stesso rapporto giuridico. Di conseguenza, in questo caso, vi è soltanto una verifica contabile degli attivi e passivi con automatica neutralizzazione dei rispettivi crediti e non si applicano i limiti alla compensazione stabiliti dal codice civile. La compensazione in senso proprio può aver luogo, e i suoi limiti possono trovare applicazione, soltanto se i rapporti giuridici sui quali i debiti reciproci si basano sono autonomi.

30. Con la sentenza n. 259 del 21 giugno - 4 luglio 2007, la Corte Costituzionale ha giudicato che questa interpretazione dell'articolo 545 del codice di procedura civile non era incompatibile con gli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 36 (diritto ad una retribuzione proporzionata e adeguata) della Costituzione.

2.  Il pignoramento degli stipendi e delle pensioni dei dipendenti pubblici

31. Il decreto del Presidente della Repubblica n. 180/1950 stabilisce in generale l’impignorabilità degli stipendi, delle pensioni e di altre somme assimilate dei dipendenti pubblici (articolo 1) fatti salvi alcuni casi e entro certi limiti. In particolare, questi crediti possono essere oggetto di pignoramento fino a concorrenza di un quinto del loro importo per «debiti verso lo Stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto di impiego o di lavoro» (articolo 2, comma 1, n. 2 del suddetto decreto).

32. Nel caso particolare di credito dello Stato nei confronti del dipendente o dell’ex dipendente a titolo di risarcimento dei danni che quest'ultimo ha causato all’erario, la formulazione degli articoli 4 della legge n. 424 dell'8 giugno 1966 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1032 del 29 dicembre 1973 prevedeva la possibilità di pignorare o trattenere le somme dovute a titolo di pensioni e di qualsiasi altra indennità o somma da liquidare in conseguenza della cessazione del rapporto lavoro. Soltanto la pensione in senso proprio poteva essere pignorata e trattenuta solo a concorrenza del quinto del suo ammontare. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha esteso questa disposizione alla indennità di fine rapporto dei dipendenti dello Stato (sentenza n. 225 del 19 giugno - 4 luglio 1997) e di altri dipendenti pubblici (sentenza n. 438 del 30 novembre - 9 dicembre 2005). In particolare, la Corte Costituzionale ha giudicato che:

«Non si può infatti asserire, di contro, che l'assenza di limiti al pignoramento o al sequestro [del trattamento di fine rapporto] conosca le sue ragioni giustificatrici nella tutela rafforzata, prevista per l'erario, se (e quando) esso debba realizzare il ristoro per il danno cagionato da dipendenti incapaci e infedeli, in quanto è proprio tale privilegio che (…) non può prevalere sul diritto al trattamento di fine rapporto del lavoratore, pubblico o privato che sia».

33. La Corte dei conti, autorità giudiziaria competente in materia di pensioni dei dipendenti pubblici, pronunciandosi sulla possibilità di compensare integralmente degli arretrati di pensione con un credito a titolo della responsabilità civile dell'ex dipendente, ha giudicato in una causa che:«Il fatto che nel caso di specie si tratti di arretrati pagati in una unica soluzione non autorizza una compensazione che ecceda il quinto delle somme dovute. Infatti, è chiaro che la circostanza che gli emolumenti a titolo di salario o di pensione siano pagati in ritardo dalla Amministrazione non genera la mutazione della loro natura - alla quale è legata l'impignorabilità legale - e, di conseguenza, non giustifica alcuna deroga alla regola [che prevede la loro impignorabilità relativa]».

IN DIRITTO

I.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE (DIRITTO A UN TRIBUNALE)

34. Il ricorrente lamenta il rigetto del suo ricorso per un motivo eccessivamente formale, in questo caso il fatto di non aver impugnato per cassazione l'omissione da parte della corte d'appello della questione del danno morale. Deduce una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, così formulato:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (...) da un tribunale (...), il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...)»

35. Il Governo si oppone a tale tesi.

A.  Sulla ricevibilità

36. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e che non incorre peraltro in altri motivi di irricevibilità; lo dichiara dunque ricevibile.

B.  Sul merito

37. Il ricorrente ritiene di aver sottoposto alla Corte di cassazione un ricorso completo contro la decisione della corte d'appello di Roma che negava il superamento del termine ragionevole, di modo che spettava alla alta giurisdizione esaminare quest'ultimo sul merito. Rigettando il suo ricorso a causa di un semplice vizio di forma, la Corte di cassazione avrebbe dato prova di un «eccessivo rigore formale». Il ricorrente sottolinea che la corte d'appello di Roma si era limitata ad escludere la violazione del termine ragionevole, senza pronunciarsi sul danno morale. Egli sostiene che la decisione impugnata si basava di conseguenza su un unico argomento, quello che era stato oggetto del suo mezzo per cassazione. Inoltre, in questo motivo di ricorso il ricorrente sosteneva la violazione del suo diritto all’equa soddisfazione in ragione del danno morale sofferto.

38. Il Governo espone che, nel caso di specie, la Corte di cassazione ha applicato la sua consolidata giurisprudenza secondo la quale il solo esame dei motivi relativi alla valutazione del termine ragionevole non avrebbe avuto alcun risultato utile per il ricorrente, in quanto l'esclusione dell'esistenza del danno morale costituisce l'altro pilastro della motivazione. Secondo il Governo, questo argomento corrisponde alla logica procedurale di diritto interno che non può essere rimessa in discussione. Inoltre, il Governo si basa sull'articolo 2 del Protocollo n. 7 per sottolineare che il diritto a un doppio grado di giudizio esiste soltanto in materia penale e che, al contrario, in materia civile gli Stati possono imporre dei limiti al riesame di una causa in ragione del margine di apprezzamento di cui essi godono. Infine il Governo fa osservare che il ricorrente non ha fornito alcuna prova dei danni patrimoniali subiti in ragione della durata del procedimento.

1.  Principi generali

39. La Corte si richiama alla sua costante giurisprudenza secondo la quale essa non deve sostituirsi ai giudici interni. Spetta in primo luogo alle autorità nazionali e, in particolare alle corti e ai tribunali, interpretare la legislazione interna (si veda, fra molte altre, García Manibardo c. Spagna, n. 38695/97, § 36, CEDU 2000 II). Peraltro, il «diritto a un tribunale», di cui il diritto di accesso costituisce un aspetto particolare, non è assoluto e si presta a limitazioni implicitamente ammesse, soprattutto per quanto riguarda le condizioni di ricevibilità di un ricorso, perché per sua stessa natura richiede anche una regolamentazione da parte dello Stato, il quale a tale proposito gode di un certo margine di apprezzamento. Tuttavia, queste restrizioni non possono limitare l'accesso disponibile alla parte in causa in maniera o a un punto tali che il suo diritto a un tribunale venga leso nella sua stessa sostanza; infine, esse si conciliano con l'articolo 6 § 1 soltanto se tendono ad uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito (si veda, fra molte altre, Edificaciones March Gallego S.A. c. Spagna, 19 febbraio 1998, § 34, Recueil des arrêts et décisions 1998 I). In effetti, il diritto di accesso ad un tribunale viene leso quando la sua regolamentazione cessa di essere utile agli scopi della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia e costituisce una sorta di barriera che impedisce alla parte in causa di vedere la sostanza della sua lite esaminata dall'autorità giudiziaria competente.

40. In secondo luogo la Corte rammenta che l'articolo 6 della Convenzione non costringe gli Stati contraenti a creare delle corti d'appello o di cassazione. Tuttavia, uno Stato che si dota di giurisdizioni di tale natura ha l'obbligo di vigilare affinché le parti in causa beneficino presso di esse delle garanzie fondamentali dell'articolo 6 (si veda, in particolare, Delcourt c. Belgio, 17 gennaio 1970, §§ 25-26, serie A n. 11). Inoltre, la compatibilità delle limitazioni previste dal diritto interno con il diritto di accesso a un tribunale, riconosciuto dall'articolo 6 § 1 della Convenzione, dipende dalle particolarità della procedura in causa e dall'insieme del processo condotto nell'ordinamento giuridico interno (si vedano, fra molte altre, Khalfaoui c. Francia, n. 34791/97, CEDU 1999–IX; Mohr c. Lussemburgo (dec.), n. 29236/95, 20 aprile 1999).

41. Infine, la Corte osserva che, secondo la sua giurisprudenza, uno Stato che si dota di una Corte di cassazione ha l'obbligo di vigilare affinché le parti in causa beneficino presso di essa delle garanzie fondamentali dell'articolo 6 (si veda Ekbatani c. Svezia, 26 maggio 1988, § 24, serie A p.12 n. 134). Il modo con cui applicare l'articolo 6 § 1 dipende dalle particolarità del procedimento in causa. Per valutarlo, occorre prendere in considerazione tutto il processo condotto nell'ordinamento giuridico interno e il ruolo che vi ha svolto la giurisdizione di cassazione, in quanto le condizioni di ammissibilità di un ricorso possono essere più rigorose di quelle previste per un appello (si vedano, fra molte altre, Brualla Gómez de la Torre c. Spagna, sentenza del 19 dicembre 1997, Recueil 1997-VIII, p. 2956, §37; Mohr c. Lussemburgo (dec.), sopra citata).

2.  Applicazione al caso di specie dei principi sopra citati

42. A titolo preliminare la Corte nota che il Governo ha sostenuto la tesi secondo la quale il diritto a un doppio grado di giudizio esisterebbe soltanto in materia penale mentre in materia civile gli Stati possono imporre dei limiti al riesame di una causa in ragione del margine di apprezzamento di cui beneficiano. Ora, nella sentenza Delcourt sopra citata (paragrafi 25-26), la Corte ha già osservato che, è vero che l'articolo 6 della Convenzione non costringe gli Stati contraenti a creare delle corte d'appello o di cassazione, tuttavia, uno Stato che si doti di giurisdizioni di tale natura ha l'obbligo di vigilare affinché le parti in causa beneficino presso di esse delle garanzie fondamentali dell'articolo 6.

43. Nel caso di specie, il compito della Corte consiste nel verificare se il rigetto per inammissibilità del ricorso per cassazione abbia privato il ricorrente del suo diritto di veder esaminare il motivo di ricorso eccepito.

44. Si deve constatare che la Corte di cassazione ha dichiarato il ricorso del ricorrente inammissibile, rilevando che quest'ultimo si era limitato ad impugnare uno dei due motivi di rigetto della decisione della corte d'appello «Pinto». In particolare, il ricorrente contestava il rifiuto di riconoscere il superamento del termine ragionevole, e non l'altro considerando, ossia l'esclusione del danno.

45. La Corte constata che la Corte di cassazione ha applicato la sua consolidata giurisprudenza secondo la quale, quando la decisione impugnata si basa su più consideranda, ciascuno idoneo a giustificarla logicamente e giuridicamente, il fatto di contestare uno solo di questi ultimi provoca l’inammissibilità del ricorso per cassazione per omessa contestazione degli altri consideranda.

46. La Corte rileva che nel caso di specie, la decisione della corte d’appello «Pinto» si è basata su due consideranda autonomi, ossia la constatazione del mancato superamento del termine ragionevole e l’esclusione del danno subito dal ricorrente. Di conseguenza, quest’ultimo era tenuto ad impugnare i due consideranda autonomi.

47. Così, la Corte considera che la precisione richiesta dalla Corte di cassazione, nella formulazione del motivo di ricorso controverso, non fosse irragionevole o arbitraria perché quest’ultima potesse esercitare il suo controllo (si veda Em Linija D.o.o. c. Croazia (dec.), n. 27140/03, 22 novembre 2007).

48. In tali condizioni, la Corte ritiene che il ricorrente non può sostenere che l’inammissibilità del suo ricorso per cassazione costituisca un ostacolo sproporzionato al suo diritto di accesso alla giustizia (si veda Veselsky c. Repubblica Ceca (dec.), n. 30020/11, 31 marzo 2015) e che, pertanto, non è stata lesa la sostanza del suo diritto a un tribunale come garantisce l’articolo 6 § 1 della Convenzione (si veda la sentenza Brualla Gómez de la Torre c. Spagna, sopra citata, §39). Pertanto, non vi è stata violazione di questa disposizione.

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE (DIRITTO A UN PROCESSO ENTRO UN TERMINE RAGIONEVOLE)

49. Il ricorrente lamenta, secondo il punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, la eccessiva durata dei procedimenti che si sono svolti dinanzi ai giudici penali e contabili, che egli considera connessi e l’assenza di risarcimento nell’ambito della procedura «Pinto». Le disposizioni pertinenti dell’articolo 6 § 1 sono così formulate:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…), il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversi sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...) »

50. Il Governo contesta questa tesi.

Sulla ricevibilità

51. Il Governo sostiene l’irricevibilità della causa in quanto il ricorrente non avrebbe osservato l’obbligo previsto dall’articolo 35 § 1 della Convenzione di esaurire le vie di ricorso interne.

52. Da parte sua il ricorrente sostiene che, dichiarando inammissibile il suo ricorso, la Corte di cassazione ha dato prova di un eccessivo formalismo ed ha violato il suo diritto ad un tribunale, impedendo che venisse esaminato nel merito quanto da lui eccepito sulla durata eccessiva della procedura.

53. La Corte rammenta che la norma dell’esaurimento delle vie di ricorso interne enunciata dall’articolo 35 § 1 della Convenzione impone ai ricorrenti di avvalersi dapprima dei ricorsi normalmente disponibili e sufficienti nel sistema giuridico del loro paese per permettere loro di ottenere riparazione delle violazioni che essi deducono (si veda Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], n. 17153/11 e 29 altri ricorsi, §§ 69-77, 25 marzo 2014). Questi ricorsi devono esistere con un sufficiente grado di certezza, sia in pratica che in teoria, altrimenti mancherebbero loro l’effettività e l’accessibilità richieste. L’articolo 35 § 1 impone anche di sollevare dinanzi all’organo interno competente, almeno in sostanza e nelle forme e termini prescritti dal diritto nazionale, i motivi di ricorso che si intendono formulare in seguito, ma non impone di far uso di ricorsi che sono inadeguati o non effettivi (si vedano, ad esempio, Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, §§ 65-67, Recueil 1996-IV; Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, §§ 51-52, Recueil 1996-VI;

54. La Corte rimanda alle sue conclusioni relative al ricorso per cassazione «Pinto», dichiarato inammissibile per «vizio di forma», in quanto il ricorrente non ha formulato correttamente le sue doglianze (si vedano i paragrafi 45-48). Di conseguenza, essa ritiene questo motivo di ricorso debba essere rigettato per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione (si vedano, fra altre, Pugliese c. Italia, n. 2 (dec.) n. 45791/99, 25 marzo 2004; Ben Salah Adraqui e altri c. Spagna (dec.), n. 45023/98, 27 aprile 2000).

III.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

55. A titolo preliminare, il ricorrente chiede alla Corte di non versare al fascicolo la documentazione trasmessa dal Governo dopo il 2 maggio 2011, termine fissato per il deposito delle osservazioni.

56. Occorre notare che, a seguito delle osservazioni della parte ricorrente, ricevute l’8 agosto 2011, il Governo è stato invitato a sottoporre prima del 7 ottobre 2011 «le sue osservazioni riguardo le domande di equa soddisfazione della parte ricorrente nonché tutte le osservazioni supplementari che volesse formulare». Il Governo ha dunque presentato le sue osservazioni e i documenti entro i termini impartiti (si veda Todorova c. Italia, n. 33932/06, § 50, 13 gennaio 2009).

57. Il ricorrente contesta la compensazione integrale del suo credito con una parte del suo debito verso l’Amministrazione.
Invoca l’articolo 1 del Protocollo n. 1, così formulato:

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

58. Il Governo contesta qualsiasi violazione di tale disposizione.

A.  Sulla ricevibilità

59. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. La Corte rileva peraltro che esso non incorre in altri motivi di irricevibilità e lo dichiara dunque ricevibile.

B.  Sul merito

60. Il ricorrente denuncia che la compensazione integrale del suo credito è particolarmente insostenibile a causa delle sue difficoltà economiche, della sua età e del suo stato di salute delicato e precario. Sostiene che le decisioni contestate sono in contraddizione con una decisione resa dal giudice amministrativo in una causa simile che lo vede come controparte dell’Amministrazione. Per questo denuncia un conflitto di giurisprudenza.

61. Il Governo considera innanzitutto che in caso di arretrati salariali, il limite del pignoramento di un quinto dell’importo complessivo non è applicabile. La ragione di tale limite si basa sulla necessità di lasciare al pignorato il minimo vitale, e non è così nel presente caso. In secondo luogo, il Governo osserva che non si tratta di un caso di compensazione, in senso proprio, ma di una semplice verifica contabile detta compensazione «atecnica», come elaborata a una giurisprudenza consolidata. A tale riguardo, quando le rispettive posizioni di credito e di debito hanno origine nello stesso rapporto, è consentito procedere ad una semplice operazione contabile fino a compensazione.

62. La Corte osserva che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 tutela sostanzialmente il diritto di proprietà. Ogni violazione di questo diritto deve essere conforme al principio di legalità e deve perseguire uno scopo legittimo con mezzi ragionevolmente proporzionati a quest’ultimo (per un richiamo dei principi pertinenti si veda, ad esempio, Metalco Bt. c. Ungheria, n 34976/05, § 16, 1° febbraio 2011, con altri riferimenti).

63. Una misura di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve mantenere un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (si veda, fra altre, Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69, serie A n. 52). La preoccupazione di assicurare tale equilibrio si riflette nella struttura dell’intero articolo 1 del Protocollo n. 1, dunque anche nella seconda frase, che deve essere letta alla luce del principio sancito dalla prima. In particolare, deve esistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito per ogni misura che lo Stato applica, comprese le misure che privano una persona della sua proprietà (si vedano, fra altre, Pressos Compania Naviera S.A. e altri c. Belgio, 20 novembre 1995, § 38, serie A no 332; Ex-re di Grecia e altri c. Grecia [GC], n. 25701/94, § 89-90, CEDU 2000-XII; Sporrong e Lönnroth, sopra citata, § 73).

64. Nel caso di specie, con sentenza del TAR del Friuli del 23 marzo 2001, il ricorrente ha ottenuto il riconoscimento di un credito per arretrati dello stipendio. In seguito, la compensazione integrale tra questo credito e il suo debito nei confronti dell’Amministrazione militare è stata riconosciuta dai giudici amministrativi, da ultimo la sentenza del Consiglio di Stato del 17 aprile 2009. Vi è stata dunque una ingerenza nel diritto dell’interessato al rispetto dei suoi beni in riferimento all’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Bourdov c. Russia, n. 59498/00, § 40, CEDU 2002 III).

65. I giudici interni hanno basato la loro decisione di compensazione integrale su una giurisprudenza ben stabilita della Corte di cassazione che ha sviluppato una interpretazione consolidata dell’articolo 1241 del codice civile secondo la quale esiste una distinzione tra la compensazione tecnica (alla quale si applica il limite del pignoramento di un quinto dei salari e delle pensioni ai sensi dell’articolo 1246, comma 1, n. 3 del codice civile) e quella detta atecnica.

66. Questa interpretazione è stata confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 259/2006. In questa sentenza, la Corte Costituzionale ha dichiarato che in caso compensazione «atecnica» non deve essere applicato il limite di pignoramento di un quinto. I criteri per questo tipo di compensazione atecnica sono soddisfatti quando le posizioni di credito di ciascuna parte hanno origine nello stesso rapporto. In questo caso, è legittimo procedere ad un semplice calcolo contabile dove le posizioni attive e passive di ogni parte sono definite e cancellate fino a compensazione reciproca.

67. In particolare, nella sua sentenza, la Corte Costituzionale ha affermato che, quando il credito del datore di lavoro ha origine in un delitto commesso dal dipendente, nel quadro della sua attività lavorativa, contro il datore di lavoro stesso, è pienamente giustificato non applicare il limite di un quinto.

68. Nel caso di specie, la Corte rileva che l’ingerenza nel diritto tutelato dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 costituita dalla compensazione integrale era prevista dalla legge ed era oggetto di una giurisprudenza consolidata.

69. Per quanto riguarda l’esigenza di un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito, la Corte ha riconosciuto che gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento sia per scegliere i mezzi per recuperare i crediti che per giudicare se le loro conseguenze sono legittimate, nell’interesse generale, dalla preoccupazione di raggiungere l’obiettivo della legge in causa. In simili casi, la Corte si affiderà al giudizio delle autorità nazionali per quanto riguarda l’interesse generale, a meno che questo sia manifestamente privo di base ragionevole (Benet Czech, spol. s r.o.
c. Repubblica Ceca, n. 31555/05, §§ 30 e 35, 21 ottobre 2010).

70. La Corte nota che la compensazione in causa riguarda solo i crediti per arretrati salariali riconosciuti da una sentenza del TAR del Friuli. Gli altri redditi del ricorrente, in particolare la sua pensione, sono pignorati nel limite legale del quinto in applicazione delle disposizioni del codice civile.

71. La Corte osserva, inoltre, che l’ingerenza in causa non priva il ricorrente dei mezzi di cui egli necessita per provvedere ai suoi bisogni e alle sue esigenze vitali. Dai documenti sottoposti alla Corte non risulta che il ricorrente non sia stato in grado di mantenere un livello di vita sufficientemente adeguato e degno, indipendentemente dal rimborso del suo debito nei confronti dell’Amministrazione (si veda Laduna c. Slovacchia, n. 31827/02, § 85, CEDU 2011).

72. Tenuto conto delle informazioni in suo possesso, e considerando il margine di apprezzamento accordato agli Stati contraenti nelle cause simili, la Corte ritiene che l’ingerenza in causa non sia sproporzionata rispetto allo scopo perseguito.

73. Non vi è stata dunque violazione dell’articolo 1 del Protocollo n.1.

IV.  SULLE ALTRE VIOLAZIONI DEDOTTE

74 Invocando l’articolo 6 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamenta infine che il processo contabile sarebbe stato avviato in una data in cui il diritto al recupero da parte dell’Amministrazione era già prescritto. La Corte nota che le doglianze dell’interessato rientrano essenzialmente in un quarto grado di giudizio e non possono essere prese in considerazione dalla Corte. Peraltro, le decisioni giudiziarie della Corte dei conti, messe in discussione dal ricorrente, hanno motivato adeguatamente i punti controversi, permettendo così di scartare qualsiasi rischio di arbitrio.

75. Ne consegue che il motivo di ricorso deve essere rigettato per manifesta infondatezza, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

76. Invocando l’articolo 13 della Convenzione, il ricorrente lamenta l’ineffettività del rimedio «Pinto» in ragione del mancato indennizzo.

77. Tenuto conto della giurisprudenza Delle Cave e Corrado c. Italia (n.14626/03, § 43-46, 5 giugno) e Simaldone c. Italia (n. 22644/03, § 71-72, 31 marzo 2009), la Corte ritiene che nel caso di specie l’assenza dell’indennizzo «Pinto» non rimetta in discussione l’effettività di questa via di ricorso. Pertanto, questo motivo deve essere dichiarato irricevibile per manifesta infondatezza ai sensi dell’articolo 35 §§ 3a) e 4 della Convenzione.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÁ,

  1. Dichiara, il ricorso ricevibile per quanto riguarda i motivi relativi agli articoli 6 § 1 della Convenzione (diritto a un tribunale) e 1 del Protocollo n. 1 e irricevibile per il resto;
  2. Dichiara, che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione (diritto a un tribunale);
  3. Dichiara, che non vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 16 giugno 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Päivi Hirvelä
Presidente

Françoise Elens-Passos
Cancelliere