Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 23 settembre 2014 - Ricorso n. 61781/08 Giuseppe Torno e altri c.Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale del Contenzioso e dei Diritti Umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Silvia Canullo, funzionario linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Maria Caterina Tecca, funzionario linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC.
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 61781/08
Giuseppe TORNO e altri contro Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 23 settembre 2014 in una Camera composta da:
Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
András Sajó,
Nebojša Vučinić,
Egidijus Kūris,
Robert Spano,
Jon Fridrik Kjølbro, giudici,
e Abel Campos, cancelliere aggiunto di sezione,
visto il ricorso sopra menzionato proposto il 17 dicembre 2008,
dopo aver deliberato, decide:

IN FATTO

  1. I ricorrenti, i sigg. Giuseppe Torno, Ettore Giovanni Torno e Alberto Torno, sono cittadini italiani. Essi sono nati rispettivamente negli anni 1963, 1964 e 1966, e vivono a Milano. Sono stati rappresentati dinanzi alla Corte dagli avv.ti Giorgio De Nova, Daniele Maffeis e Vittorio Pellegatta, del foro di Milano.

    A. Le circostanze del caso di specie

  2. In data 10 febbraio 1981 il Ministero dei beni culturali e ambientali agì in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano nei confronti del padre dei ricorrenti e dei suoi fratelli, sostenendo che diversi reperti archeologici, di epoca romana, greca ed etrusca, che si trovavano nella casa di famiglia dei convenuti, rientravano nella definizione di patrimonio indisponibile dello Stato.
  3. Con sentenza del 10 marzo 1986 il Tribunale di Milano respinse l’azione, ritenendo che, poiché il principio della proprietà statale dei beni archeologici era stato stabilito per la prima volta dalla legge n. 364 del 20 giugno 1909, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che il possesso da parte dei convenuti fosse illegittimo, ovvero che il materiale archeologico in questione provenisse da scavi effettuati successivamente all’entrata in vigore della summenzionata legge.
  4. Il Ministero impugnò la decisione, affermando che l’applicazione del principio generale “possideo quia possideo” all’ambito di beni del patrimonio archeologico (vale a dire il riconoscimento del fatto che il possesso fattuale da parte dei convenuti fosse sufficiente a provare il loro diritto di proprietà) equivaleva a una probatio diabolica [prova impossibile] per lo Stato, mentre per i convenuti – che dovevano conoscere l’origine del loro patrimonio – l’onere di produrre la prova della legittimità del loro possesso, ovvero che i beni in questione provenivano da scavi effettuati anteriormente alla promulgazione della summenzionata legge, era perfettamente fattibile. A ogni modo il Ministero obiettò di aver prodotto tale prova poiché le perizie tecniche esaminate nel corso del processo avevano dimostrato l’illegittimità del possesso da parte dei ricorrenti di due reperti archeologici, ed era indiscusso che il padre dei convenuti avesse messo insieme la sua collezione tra gli anni trenta e gli anni sessanta del secolo scorso, assai dopo l’entrata in vigore della legge n. 364 del 20 giugno 1909.
  5. Il 10 novembre 1992 la Corte di appello di Milano respinse l’appello del Ministero, eccetto che per i due reperti summenzionati che erano stati incontestatamente scoperti dopo il 1909 e che furono pertanto dichiarati di proprietà dello Stato.
  6. Il 2 ottobre 1995 la Corte di cassazione annullò la decisione e rinviò la causa alla Corte di appello, per un nuovo processo, ritenendo che la legislazione applicabile (la legge n. 364 del 20 giugno 1909, la legge n. 1089 del 1° giugno 1939 e gli articoli 826, comma 2, e 840 del codice civile) confermasse un principio già esistente nell’ordinamento giuridico, ovvero l’assunto che, in generale, i reperti archeologici facessero parte del patrimonio dello Stato. Pertanto, poiché la proprietà privata dei resistenti era un’eccezione piuttosto che la regola, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile spettava a loro e non al Ministero ricorrente dimostrare la legittimità del possesso dei beni in questione, in particolare che essi erano stati scoperti e acquisiti prima della promulgazione della legge n. 364 del 20 giugno 1909. Tale principio fu seguito nelle successive sentenze sulla questione (si veda Il diritto e la prassi interni, infra, paragrafo 20).
  7. Il 18 aprile 1999 il padre dei ricorrenti decedette ed essi manifestarono l’intenzione di proseguire il procedimento in qualità di eredi.
  8. Il 20 dicembre 2002 la Corte di appello di Milano dichiarò che i reperti erano di proprietà dello Stato e ingiunse ai convenuti di restituire i beni archeologici al ricorrente.
  9. I ricorrenti presentarono ricorso per motivi di diritto avverso la suddetta decisione, ma esso fu respinto dalla Corte di cassazione il 5 agosto 2008. La Corte osservò in particolare che l’interpretazione delle norme che disciplinavano l’onere della prova nel caso dei ricorrenti non era né sproporzionata né irragionevole, specialmente alla luce del pubblico interesse alla conservazione del materiale artistico, storico e archeologico. Inoltre, a differenza di quanto asserito dai ricorrenti, la suddetta interpretazione non costituiva un esproprio di fatto senza indennizzo poiché non violava il diritto di accesso a un tribunale né il diritto di difesa nei procedimenti relativi ai beni in questione.
  10. In risposta a una richiesta della Corte, il 15 gennaio 2014, i ricorrenti hanno dichiarato che, nonostante una formale notifica emessa il 23 gennaio 2009 seguita da un inventario dei reperti in questione, la sentenza della Corte di cassazione del 5 agosto 2008 non era stata ancora eseguita.

    B. Il diritto e la prassi interni pertinenti

    1. La legge n. 364 del 20 giugno 1909

     
  11. Questa legge disciplina lo status delle cose di interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico, e afferma il principio generale della loro inalienabilità se esse possono essere classificate come patrimonio dello Stato.
  12. Essa stabilisce anche diverse limitazioni al libero uso di tali cose qualora esse appartengano a privati cittadini, al fine di assicurarne la conservazione e impedirne l’esportazione all’estero.
  13. Questa legge stabilisce anche il principio generale che i reperti archeologici, siano essi stati scoperti fortuitamente o mediante scavi, non appartengono al proprietario del fondo o allo scopritore, ma allo Stato.

    2. La legge n. 1089 del 1° giugno 1939
     
  14. Questa legge rafforza il summenzionato principio della proprietà statale del materiale archeologico, impone una serie di restrizioni al suo libero uso, alla circolazione e all’esportazione, e dichiara che tutti i reperti archeologici scoperti in territorio italiano sono di proprietà dello Stato.
  15. L’appropriazione di tali beni e l’omessa denuncia del loro ritrovamento costituiscono reato.
  16. Inoltre, qualsiasi alienazione o atto giuridico eseguito in violazione delle disposizioni vincolanti della summenzionata legge deve essere considerato nullo.

    3. Gli articoli 826, comma 2, e 828, comma 2, del codice civile
     
  17. Ai sensi di queste disposizioni, le cose d’interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico da chiunque o in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato e non possono essere sottratte alla loro destinazione se non nei casi stabiliti dalla legge.

    4. Gli articoli 840, comma 1, e 932, comma 3, del codice civile
     
  18. Queste disposizioni, che fanno riferimento alle leggi speciali relative agli oggetti di valore archeologico e artistico, prevedono delle eccezioni, con specifico riferimento ai reperti archeologici, al principio generale dell’estensione della proprietà privata a tutti gli oggetti rinvenuti nel sottosuolo, e alla norma generale che disciplina le ricompense in caso di ritrovamento di un tesoro.

    5. L’articolo 2697 del codice civile
     
  19. Ai sensi di questa disposizione chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi ne eccepisce l’inefficacia deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

    6. La sentenza della Corte di cassazione n. 22501 del 1° dicembre 2004
     
  20. Secondo questa sentenza, poiché la proprietà privata dei beni archeologici è un’eccezione piuttosto che la regola generale, l’onere di dimostrarne il legittimo possesso ricade sul resistente e non sul ministero ricorrente; in particolare il primo deve dimostrare che i beni in questione sono stati scoperti prima dell’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909 (lo stesso principio è espresso nella sentenza della Corte di cassazione n. 2995 del 10 ottobre 2006).

    DOGLIANZA
     
  21. Invocando l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, i ricorrenti hanno dissentito dall’interpretazione effettuata dalla Corte di cassazione delle norme del diritto interno che disciplinano la proprietà dei beni archeologici. Essi hanno sostenuto in particolare che l’onere di provare la proprietà statale di questi ultimi dovrebbe spettare allo Stato, come correttamente affermato dai tribunali di primo e secondo grado. I ricorrenti hanno argomentato che l’interpretazione della legge effettuata dalla Corte di cassazione costituiva un esproprio di fatto del loro patrimonio senza indennizzo.

    IN DIRITTO
     
  22. I ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione a causa dell’interpretazione effettuata dalla Corte di cassazione della legislazione interna che disciplina la proprietà dei beni archeologici. Tale articolo prevede:
    “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
    Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
  23. La Corte osserva che la sentenza contestata non è stata ancora eseguita. Anche assumendo che vi sia effettivamente stata un’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al pacifico godimento dei loro beni, il ricorso è comunque irricevibile per le seguenti ragioni.
  24. La Corte ribadisce anzitutto che, in via di principio, ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, è difficile che la Corte riveda l’interpretazione o l’applicazione del diritto nazionale da parte delle autorità nazionali a meno che esso non sia stato applicato “in modo manifestamente erroneo o traendo conclusioni arbitrarie” (si veda, tra altri precedenti, Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 108, CEDU 2000 I).
  25. La Corte ribadisce altresì che il primo e più importante requisito dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è che qualsiasi ingerenza di una pubblica autorità nel pacifico godimento dei beni debba essere legittima: la seconda frase del primo paragrafo consente la privazione della proprietà solo “nelle condizioni previste dalla legge” e il secondo paragrafo riconosce agli Stati il diritto di disciplinare l’uso dei beni ponendo in vigore “leggi” (si veda Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 58, CEDU 1999 II). Ciò significa che deve esserci un fondamento nella legislazione nazionale e che tale legislazione deve essere accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione (si veda Carbonara e Ventura c. Italia, n. 24638/94, § 91 e 107, CEDU 2000 VI). La Corte osserva inoltre che, in base alla sua giurisprudenza, qualsiasi ingerenza nel diritto al pacifico godimento dei beni deve trovare un “giusto equilibrio” tra le esigenze degli interessi generali della comunità e la necessità di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo (si veda, tra altri precedenti, Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69, Serie A n. 52).
  26. La Corte ritiene che i fatti in questione debbano essere esaminati alla luce della norma generale enunciata nella prima frase del primo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (si veda Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 106, CEDU 2000 I).
  27. Nel caso di specie, la dedotta ingerenza nel diritto dei ricorrenti era derivata dall’interpretazione effettuata dalla Corte di cassazione delle norme che disciplinano l’onere delle prova. Tale interpretazione ha di per sé un solido fondamento nel diritto, e in particolare nella legge n. 364 del 20 giugno 1909, nella legge n. 1089 del 1° giugno 1939 e negli articoli 826, comma 2, 840 e 2697 del codice civile.
  28. La Corte ribadisce che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento nel porre in essere misure che disciplinano l’uso della proprietà come pure nell’accertare che le loro conseguenze siano giustificate - tenendo conto dell’interesse generale - al fine di conseguire l’obiettivo della legge in questione. Il margine di apprezzamento è ancora più ampio quando si tratta di beni di valore culturale e storico (si veda Ruspoli Morenes c. Spagna, n. 28979/07, §§ 39-40, 28 giugno 2011) o quando, come nel caso di specie, il fine è la conservazione del patrimonio archeologico di un paese, poiché si tratta di un valore fondamentale, la cui tutela e promozione spettano alle autorità pubbliche (si vedano Kozacıoğlu c. Turchia [GC], n. 2334/03, § 54, 19 febbraio 2009; Beyeler c. Italia [GC], sopra citata § 112).
  29. A tale riguardo, la Corte ritiene che la Corte di cassazione abbia ragionevolmente presunto che il materiale archeologico fosse di proprietà statale, e abbia fissato al tal fine una data limite corrispondente all’entrata in vigore della legge n. 364 del 20 giugno 1909. In conseguenza di tale decisione da un lato erano tutelate le persone che possedevano reperti archeologici all’epoca in cui la legge è entrata in vigore, dall’altro erano stabilite regole chiare per il futuro.
  30. La Corte osserva inoltre che i ricorrenti avevano la possibilità di confutare la presunzione della proprietà statale in questione dimostrando di essere stati in possesso del materiale prima del 1909 (si vedano, mutatis mutandis, Papachelas c. Grecia [GC], n. 31423/96, §§ 53-54, CEDU 1999 II e Bergsson e altri c. Islanda (dec.), n. 46461/06, 23 settembre 2008). La Corte ritiene che l’inversione dell’onere della prova in questo caso sembri ragionevole, soprattutto in considerazione degli interessi pubblici alla base del riconoscimento della proprietà statale dei reperti archeologici e della considerazione che era data alla questione di sapere quale parte del procedimento, il ricorrente o il resistente, fosse nella migliore posizione fattuale per dimostrare l’origine legittima di tale materiale.
  31. Infine, la Corte ritiene che il principio della presunzione della proprietà statale del materiale archeologico sia stabilito da una consolidata giurisprudenza interna in materia (si veda Il diritto e la prassi interni pertinenti, supra, paragrafo 20).
  32. La Corte conclude pertanto che la dedotta ingerenza nel pacifico godimento dei beni dei ricorrenti fosse proporzionata. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3, lettera a, e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte all’unanimità

Dichiara il ricorso irricevibile.

Abel Campos
Cancelliere aggiunto

Işıl Karakaş
Presidente