Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 9 settembre 2014 - Ricorso n.27516/09 - M.V. c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico.

La pronuncia è disponibile nell’archivio CEDU di Italgiureweb della Corte Suprema di Cassazione www.italgiure.giustizia.it
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

DECISIONE

Ricorso n. 27516/09

M. V.

contro l’Italia


La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 9 settembre 2014 in una Camera composta da:
Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
András Sajó,
Helen Keller,
Paul Lemmens,
Robert Spano,
Jon Fridrik Kjølbro, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato, presentato il 19 maggio 2009,
Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

1. Il ricorrente, sig. M.V., è un cittadino italiano nato nel 1956 e residente a Lussemburgo. Dinanzi alla Corte è stato rappresentato dall’avv. V. Fasce, del foro di Genova.

2. I fatti della causa, così come esposti dal ricorrente, si possono riassumere come segue.

A.  Le attività imprenditoriali del ricorrente

3. Nel 1980 e nel 1981 il ricorrente fondò le società V. e S., la cui attività principale era l’acquisto e la vendita di beni immobili. Il ricorrente desiderava acquistare degli hotel e trasformarli in residence. Avendo bisogno di finanziamenti, ne ottenne dal sig. M., proprietario della società I., il cui amministratore, secondo il ricorrente, era il sig. R.

4. Una holding, chiamata Lucky Stars Holding International, fu costituita in Lussemburgo. Il ricorrente deteneva l’8,75% delle quote di tale società.
Il ricorrente sostiene che solo il sig. R. era veramente operativo nelle società situate in Italia e che egli stesso si occupava quasi esclusivamente della società holding in qualità di amministratore.

5. A causa, secondo il ricorrente, della svalutazione della lira italiana e dell’insolvenza di un potenziale socio, tutte le società sopra menzionate si trovarono in una situazione finanziaria precaria nel 1993. Questo causò il loro fallimento nello stesso anno.

B.  Il procedimento di primo grado

6. Successivamente, il ricorrente fu accusato di vari episodi di bancarotta fraudolenta. Tale reato è previsto dagli articoli 216 e 223 del regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942 (di seguito la «legge fallimentare»).
Nelle parti pertinenti al caso di specie, tali disposizioni recitano:

Articolo 216 c. 1

«È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che:

  1. ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
  2. ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.»

Articolo 223

«Si applicano le pene stabilite nell'art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo.
Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell'art. 216, se:

  1. hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile;
  2. hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.»

7. Secondo il capo di accusa, agendo nella sua qualità di amministratore delle società I., S. e V., il ricorrente aveva tenuto i libri e le scritture contabili in maniera tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari delle società suddette. In particolare, alcune scritture erano irreperibili, altre indicavano dati contraddittori o falsi e certe operazioni venivano omesse o presentate in maniera ingannevole. Inoltre, il ricorrente avrebbe sottratto delle somme e dei beni al patrimonio di tali società e avrebbe presentato la loro situazione finanziaria in modo tale da provocarne l’insolvenza e ingannare il pubblico.

8. I curatori delle società I. e V. si costituirono parte civile nel procedimento penale intentato contro il ricorrente.

9. Il dibattimento, suddiviso in quindici udienze, si tenne dal 14 gennaio 2003 al 21 gennaio 2004. Furono sentiti cinque testimoni e due periti, la cui audizione era stata chiesta dalla procura. La difesa ottenne la convocazione e l’esame di dodici testimoni e di un perito. Anche il ricorrente fu interrogato e le parti produssero numerosi documenti. Le richieste del ricorrente al fine di ottenere una perizia contabile e una perizia grafologica furono respinte.

10. In data non precisata, il ricorrente chiese il trasferimento del processo ad altra sede, affermando che, in quanto marito della sig.ra S. (magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Genova), un’eventuale assoluzione avrebbe potuto essere interpretata come un trattamento di favore dovuto alla sua situazione coniugale, il che secondo lui giustificava l’assegnazione della causa a un tribunale diverso da quello di Genova. La domanda fu respinta.

11. Con sentenza del 21 gennaio 2004, depositata il 23 marzo 2004, il tribunale di Genova condannò il ricorrente a cinque anni e quattro mesi di reclusione. Nei confronti del ricorrente furono inoltre disposti l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e il divieto di esercitare un’impresa commerciale per dieci anni. Egli fu condannato a risarcire i danni subiti dalle parti civili – il cui importo doveva essere fissato nell’ambito di un procedimento civile separato – e a versare a queste ultime delle provvisionali immediatamente esecutive per un importo totale di 600.000 euro (EUR).

12. Il tribunale rilevò varie irregolarità nella gestione delle società in questione  e osservò che, durante l’interrogatorio del 22 novembre 1994, il ricorrente stesso aveva dichiarato che si era reso conto che la contabilità della società S. era «completamente stravolta» e che, tuttavia, egli sosteneva di non essersi mai occupato di tale contabilità e di averla esaminata attentamente la prima volta solo dopo la dichiarazione di fallimento. Il tribunale considerò che, in ogni caso, l’imprenditore era responsabile delle scritture contabili delle società che gestiva, a maggior ragione quando, come nel caso di specie, le irregolarità constatate non derivavano da errori o negligenze ma dall’intenzione accertata di simulare una situazione finanziaria non corrispondente alla realtà.

13. Il tribunale osservò che vari elementi dimostravano che il ricorrente aveva occupato una posizione di rilievo nelle società in questione, all’interno delle quali aveva posto varie persone della sua cerchia. Esso rilevò che più di otto testimoni avevano dichiarato che il ricorrente era attivo all’interno delle società e si occupava delle assunzioni. Per il tribunale la tesi dell’interessato, secondo la quale il suo ruolo era stato minimo, era stata dunque confutata.

14. Il tribunale osservò peraltro che alcune vendite immobiliari dichiarate dalla società V. erano fittizie e che il corrispettivo di tali vendite non era stato versato nelle casse di detta società. Per quanto riguarda alcuni trasferimenti di denaro tra le società amministrate dal ricorrente, esso osservò inoltre che, anche a voler supporre che vi fosse una connessione tra tali società, ciò non dispensava l’interessato dall’obbligo di fornire dei documenti giustificativi per le operazioni in questione.

C.  Il procedimento di appello

15. Il ricorrente interpose appello, sostenendo, fondamentalmente, che egli era all’origine dell’idea imprenditoriale nel settore immobiliare, ma che non era stato lui ad attuarla attraverso la gestione delle società. Egli contestò il rigetto della sua richiesta di una perizia contabile, che era volta a far verificare se l’analisi operata dai curatori fallimentari e dai periti della procura fosse corretta, nonché la sua richiesta di perizia grafologica su alcuni documenti prodotti dalla difesa, che avrebbe potuto secondo lui dimostrare che il vero amministratore della società era il sig. R.

16. Il ricorrente chiese una nuova audizione di due testimoni e la convocazione e l’interrogatorio della sig.ra C., una ex impiegata della società S. che, benché regolarmente citata, non si era presentata nel procedimento di primo grado.

17. Nel corso della procedura di appello, il ricorrente giunse a una composizione amichevole con i curatori delle società dichiarate fallite e versò una somma di denaro a titolo di risarcimento danni. Di conseguenza, i curatori suddetti rinunciarono alla costituzione di parte civile.

18. Con sentenza del 28 giugno 2007, depositata il 26 settembre 2007, la corte d’appello di Genova, ritenendo che alcune circostanze attenuanti riconosciute al ricorrente dovessero prevalere su una circostanza aggravante che gli era ascritta, ridusse la pena che gli era stata inflitta a quattro anni e quattro mesi di reclusione.

19. La corte d’appello osservò che la difesa sosteneva che, all’interno delle società in questione, le attività di gestione e decisionali venivano esercitate da persone diverse dal ricorrente, ma considerò che questa tesi non potesse essere accolta tenuto conto degli elementi versati agli atti. Inoltre, essa osservò che, all’epoca dei fatti in questione, il ricorrente era l’amministratore unico o il consigliere delegato della società S. e, inoltre, che gli altri soci, i membri del consiglio di sorveglianza e i consulenti della società S. erano peraltro persone a lui vicine. Condividendo le conclusioni alle quali erano giunti i periti nominati in primo grado, la corte d’appello ritenne che non fosse necessario riaprire l’istruzione.

20. La corte d’appello osservò che il ricorrente aveva chiesto che gli fosse inflitto un solo aumento di pena per i vari fatti di bancarotta fraudolenta, in applicazione dell’articolo 219 della legge fallimentare applicabile quando il colpevole aveva commesso vari reati. La corte d’appello considerò che tale disposizione non fosse pertinente nel caso di specie, in quanto si trattava di fatti di bancarotta fraudolenta riguardanti società diverse e distinte, collegate tra loro solo per la presenza del ricorrente tra gli amministratori, e che non si trattava dunque di un «gruppo» di società.

D.  Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione

21. Il ricorrente presentò ricorso per cassazione, affermando che le società I., S. e V. facevano in realtà parte di un gruppo di società controllate dalla Lucky Stars Holding International, il cui titolare era – secondo le sue affermazioni – il sig. M. Inoltre, egli affermava che era stato definito l’amministratore de facto delle società in questione in mancanza di prove sufficienti. Infine, egli riteneva che, in ogni caso, trattandosi a suo dire di un gruppo di società, i trasferimenti di denaro tra le stesse non erano costitutivi di un reato penale in quanto, secondo lui, erano stati realizzati nell’interesse del gruppo e dei suoi creditori.

22. Con una sentenza resa il 17 dicembre 2008, depositata il 13 gennaio 2009, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, respinse il ricorso del ricorrente.

23. La Corte di cassazione osservò che, secondo una giurisprudenza ben consolidata, era responsabile di bancarotta fraudolenta la persona che esercitava un’attività di gestione costante delle società. Secondo l’alta giurisdizione, è vero che il ricorrente aveva contestato di essere l’amministratore de facto delle società interessate, ma rimaneva comunque il fatto che i giudici di merito avevano considerato che l’interessato avesse tale qualità sulla base di numerose prove, comprese alcune testimonianze.

24. La Corte di cassazione dichiarò che l’esistenza di un gruppo di società non escludeva il reato di bancarotta fraudolenta quando, come nel caso di specie, i trasferimenti di fondi da una società all’altra avevano avuto luogo senza una contropartita seria ed effettiva per la società il cui patrimonio era stato ridotto. Essa considerò che l’articolo 2634 c. 3 del codice civile (di seguito il «CC»), secondo il quale il profitto di una società non era «ingiusto» se compensato dai vantaggi derivanti dal collegamento della società al gruppo, non trovava applicazione nell’ambito delle disposizioni penali della legge fallimentare.

MOTIVI DI RICORSO

25. Invocando l’articolo 7 § 1 della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato condannato per fatti che, secondo lui, non erano più considerati reati dalla legge.

26. Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, il ricorrente lamenta una mancanza di equità del procedimento penale a suo carico, nonché una mancanza di imparzialità dei giudici nazionali.

IN DIRITTO

A. Sul motivo di ricorso relativo all’articolo 7 § 1 della Convenzione

27. Il ricorrente ritiene di essere stato condannato per fatti che non erano più considerati reati dalla legge.

Egli invoca l’articolo 7 § 1 della Convenzione, che recita:
«Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso.»

28. Il ricorrente sostiene che, malgrado – a suo dire – l’opinione contraria della dottrina, la giurisprudenza interna si è rifiutata di riconoscere, nell’ambito del reato di bancarotta fraudolenta, qualsiasi pertinenza all’appartenenza di una società a un gruppo. Aggiunge che il legislatore, con la legge n. 61 dell’11 aprile 2002, ha modificato l’articolo 2634 del CC, punendo l’«infedeltà patrimoniale» degli amministratori che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, cagionano un danno alla stessa al fine di procurarsi un ingiusto profitto. Egli indica in particolare che, al terzo comma di tale disposizione, il legislatore ha precisato che il profitto di una società non è «ingiusto» se è compensato dai vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dall’appartenenza della società a un gruppo. Di conseguenza per il ricorrente, poiché l’articolo 223 della legge fallimentare, che punisce la bancarotta fraudolenta, menziona espressamente l’articolo 2634 del CC, i giudici avrebbero dovuto verificare se vi fosse, nella fattispecie, una aspettativa ragionevole che le perdite di una società fossero compensate dai vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo, cosa che – secondo lui – essi non hanno fatto.

29. Il ricorrente sostiene che, se una tale verifica fosse stata effettuata, i giudici interni sarebbero giunti alla conclusione che i fatti ascritti non erano più considerati reato dalla legge. Egli afferma che il tribunale di Genova ha ammesso l’esistenza di un gruppo di società, mentre la corte d’appello ne ha negato l’esistenza con una motivazione che definisce «sconcertante».

30. La garanzia sancita dall’articolo 7 elemento fondamentale della preminenza del diritto, occupa un posto primordiale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’articolo 15 non autorizza alcuna deroga alla stessa, nemmeno in tempo di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. Come si evince dal suo oggetto e dal suo scopo, essa deve essere interpretata e applicata in modo da assicurare una tutela effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 77, CEDU 2013).

31. L’articolo 7 della Convenzione non si limita a vietare l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato (si vedano, per quanto riguarda l’applicazione retroattiva di una pena, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 36, serie A n. 307-A; Jamil c. Francia, 8 giugno 1995, § 35, serie A n. 317-B; Ecer e Zeyrek c. Turchia, nn. 29295/95 e 29363/95, § 36, CEDU 2001-II; e Mihai Toma c. Romania, n. 1051/06, §§ 26-31, 24 gennaio 2012). Esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene – «nullum crimen, nulla poena sine lege» – (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260-A). Non soltanto esso vieta, in particolare, di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, ma impone anche di non applicare la legge penale in maniera estensiva a scapito dell’imputato, ad esempio per analogia (Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000-VII, e Del Rio Prada, sopra citata, § 78).

32. Ne consegue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta alla giustizia può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo essersi avvalsa di consigli illuminati, per quali atti e omissioni può essere perseguita e in quale pena incorre per tale motivo (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil des arrêts et décisions 1996-V, e Del Rio Prada, sopra citata, § 79).

33. La Corte ha dunque il compito, in particolare, di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale e alla condanna, esisteva una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena imposta non ha ecceduto i limiti fissati da tale disposizione (Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 95, 17 settembre 2009, e Del Rio Prada, sopra citata, § 80).

34. Inoltre, la Corte rammenta che la nozione di «diritto» («law») utilizzata all’articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della Convenzione; tale nozione comprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale ed implica delle condizioni qualitative, tra cui quelle di accessibilità e di prevedibilità (E.K. c. Turchia, n. 28496/95, § 51, 7 febbraio 2002). Tali condizioni qualitative devono essere soddisfatte sia per quanto riguarda la definizione di un reato che per la pena che esso comporta (Del Rio Prada, sopra citata, § 91).

35. Anche per il carattere generale delle leggi, il contenuto delle stesse non può presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche tipiche di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive. Perciò, molte leggi si servono, per forza di cose, di formule più o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica (Kokkinakis, sopra citata, § 40, e Cantoni, sopra citata, § 31). Pertanto, in qualsiasi sistema giuridico, per quanto chiaro possa essere il contenuto di una disposizione di legge, anche di  una disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà sempre chiarire i punti ambigui e adattarsi ai cambiamenti di situazione. Inoltre la certezza, benché fortemente auspicabile, a volte si accompagna ad una rigidità eccessiva; il diritto deve invece sapersi adattare ai cambiamenti di situazione (Scoppola (n. 2), sopra citata, § 100, e Del Rio Prada, sopra citata, § 92).

36. Infine, la Corte rammenta che la portata della nozione di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo in questione, dall’ambito interessato, nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da una determinata azione (Scoppola (n. 2), sopra citata, § 102). Questo vale in particolare per i professionisti, abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell’esercizio della loro professione. Pertanto, è legittimo aspettarsi che essi valutino con particolare attenzione i rischi che questa comporta (Pessino c. Francia, n. 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006; Sud Fondi S.r.l. e altri, sopra citata, § 109; e Soros c. Francia, n. 50425/06, § 53, 6 ottobre 2011).

37. Nel caso di specie, la Corte osserva che il ricorrente è stato accusato di bancarotta fraudolenta, reato previsto dagli articoli 216 c. 1 e 223 della legge fallimentare. Ai sensi del combinato disposto di tali articoli, nei confronti degli amministratori delle società dichiarate fallite si applica una pena della reclusione se hanno distratto i beni delle società o tenuto le scritture contabili in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari delle società stesse allo scopo di recare pregiudizio ai creditori o di procurarsi un profitto (paragrafo 6 supra). Secondo la Corte, le disposizioni in questione costituivano una base giuridica accessibile e prevedibile, nel senso della sua giurisprudenza in materia, per la condanna del ricorrente. Essa osserva al riguardo che il capo di accusa descriveva nel dettaglio le azioni, che rientrano nel campo di applicazione degli articoli 216 e 223 della legge fallimentare, asseritamente commesse dal ricorrente (paragrafo 7 supra), e che i giudici nazionali hanno pronunciato la condanna di quest’ultimo ritenendo provati i fatti enunciati nel capo di accusa.

38. Per quanto riguarda l’argomento del ricorrente secondo il quale i tribunali nazionali avrebbero dovuto verificare se le perdite di una delle società fossero state compensate dai vantaggi derivanti dall’appartenenza di tale società a un gruppo, la Corte osserva che tale tesi si basa sul testo dell’articolo 2634 c. 3 del CC, ossia di una disposizione diversa da quelle sulle quali è stata fondata la condanna del ricorrente. È vero che l’articolo 2634 del CC è menzionato all’articolo 223 c. 2 n. 1 della legge fallimentare (paragrafo 6 supra); tuttavia, quest’ultima disposizione si limita a precisare che gli amministratori possono essere puniti se hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società commettendo alcuno dei fatti descritti in taluni articoli del CC, tra cui l’articolo 2634. In ogni caso, avvalendosi del suo diritto di accertare i fatti, la corte d’appello di Genova ha escluso l’esistenza di un «gruppo» di società (paragrafo 20 supra), e dunque quella dell’elemento fattuale sul quale era fondata la tesi dell’applicabilità per analogia dell’articolo 2634 c. 3 del CC. La Corte di cassazione ha inoltre precisato che la regola della compensazione dei vantaggi e dei danni all’interno di un gruppo non trovava applicazione nell’ambito delle disposizioni penali della legge fallimentare (paragrafo 24 supra).

39. In queste circostanze, la Corte è del parere che il ricorrente sia stato condannato per azioni o omissioni che, al momento in cui sono state commesse, erano costitutive di un reato secondo il diritto nazionale, e che nel caso di specie non sia ravvisabile alcuna apparenza di violazione dell’articolo 7 § 1 della Convenzione.

40. Ne consegue che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

B.  Sui motivi di ricorso relativi all’articolo 6 della Convenzione

41. Il ricorrente considera che il suo processo non sia stato equo e che i giudici di merito non fossero imparziali.

Egli invoca l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita:

  1. « Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…), da un tribunale indipendente e imparziale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (...)

3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

(...)

d)  esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

(...)»

42. Poiché le esigenze del paragrafo 3 dell’articolo 6 della Convenzione si traducono in aspetti particolari del diritto a un processo equo sancito dal paragrafo 1, la Corte esaminerà la doglianza dal punto di vista del combinato disposto di questi due testi (si veda, tra molte altre, Van Geyseghem c. Belgio [GC], n. 26103/95, § 27, CEDU 1999-I). Nel contempo, essa ritiene opportuno analizzare separatamente i motivi di ricorso relativi alla dedotta iniquità del procedimento da quelli relativi ad una mancanza di imparzialità dei giudici nazionali (Previti c. Italia (n. 4) (dec.), n. 1845/08, § 50, 12 febbraio 2013).

1.  Doglianze relative a una mancanza di equità del procedimento

43. Il ricorrente considera che vi sia stata violazione del suo diritto di ottenere l’interrogatorio dei testimoni a discarico. Egli sostiene che un solo testimone lo aveva designato come il «vero padrone» di una delle società e che lo stesso non avevano fatto gli altri undici testimoni interrogati nel corso del dibattimento. Egli indica peraltro che vari elementi dimostravano che l’amministratore della società I. era il sig. R. e aggiunge che, per far accertare questi elementi, aveva chiesto la convocazione della sig.ra C. in qualità di testimone, nonché una seconda audizione di due dei testimoni, e che aveva inoltre richiesto una perizia contabile e una perizia grafologica sulle firme apposte su alcuni documenti. A questo riguardo, egli dichiara che i giudici nazionali non soltanto hanno omesso di accordare un peso decisivo alle testimonianze che andavano in suo favore, ma hanno anche respinto le sue richieste volte a ottenere l’audizione o una seconda audizione dei testimoni e la realizzazione delle perizie.

44. Il ricorrente contesta inoltre le motivazioni con le quali i giudici nazionali hanno ritenuto che egli fosse l’amministratore de facto delle società e hanno concluso per l’esistenza di un dolo. Egli considera che le prove da lui prodotte a discarico non siano state debitamente valutate, e afferma che, malgrado la rinuncia alla costituzione di parte civile operata dai curatori delle società dichiarate fallite (paragrafo 17 supra), la Corte di cassazione ha confermato la sua condanna al pagamento di provvisionali, il che dimostrerebbe l’iniquità del processo.

45. La Corte rammenta che, in linea di principio, spetta ai giudici nazionali valutare gli elementi raccolti e la pertinenza di quelli di cui gli imputati chiedono l’acquisizione (Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, 6 dicembre 1988, § 68, serie A n. 146). Più in particolare, l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione lascia loro, sempre in linea di principio, il compito di decidere in merito all’utilità di una determinata prova testimoniale offerta (Asch c. Austria, 26 aprile 1991, § 25, serie A n. 203). Questa disposizione non esige la convocazione e l’interrogatorio di tutti i testimoni a discarico: come indicano le parole «alle stesse condizioni», essa ha come scopo essenziale una completa «parità delle armi» in materia (Bricmont c. Belgio, 7 luglio 1989, § 89, serie A n. 158). Perciò spetta alla Corte controllare se l’imputato abbia avuto una occasione adeguata e sufficiente per contestare i sospetti che pesavano su di lui (Kajolli c. Italia (dec.), n. 17494/07, 29 aprile 2008).

46. Nella misura in cui il ricorrente lamenta il fatto che i giudici nazionali si siano rifiutati di ordinare una nuova convocazione di due testimoni, la Corte osserva che l’interessato ha avuto la possibilità, per il tramite dei suoi avvocati di fiducia, di porre a tali testimoni le domande che riteneva utili per la sua difesa nel corso del processo di primo grado. Perciò, egli ha avuto un’occasione adeguata e sufficiente per fondare la sua linea di difesa sulle dichiarazioni di tali testimoni. In queste circostanze, la Corte ritiene che non fosse necessario ordinare una nuova audizione di questi ultimi (si vedano, mutatis mutandis, Acampora c. Italia (dec.), n. 2072/08, § 46, 8 gennaio 2013 e Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, § 66, 12 febbraio 2013).

47. Per quanto riguarda il rifiuto della corte di appello di convocare e interrogare la sig.ra C. e di ordinare l’esecuzione delle perizie grafologica e contabile, la Corte osserva che con questi mezzi di prova il ricorrente intendeva dimostrare che non era l’amministratore de facto delle società implicate nella bancarotta. Tuttavia, i giudici di merito hanno ritenuto che tale circostanza fosse dimostrata da numerosi elementi, ossia alcune testimonianze fatte durante il dibattimento ed alcune relazioni peritali (paragrafi 13, 19 e 23 supra): esse hanno pertanto considerato che fosse superfluo produrre le ulteriori prove richieste dal ricorrente, il che – secondo la Corte – non può essere ritento arbitrario. Del resto, la Corte osserva che nulla impediva al ricorrente di far realizzare le perizie in questione da periti di sua fiducia e di depositare le loro relazioni presso le cancellerie dei giudici di merito e che, peraltro, la difesa ha ottenuto in primo grado la convocazione e l’interrogatorio di dodici testimoni e di un perito (paragrafo 9 supra).

48. Tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte non può considerare che le decisioni contestate dal ricorrente abbiano potuto pregiudicare i diritti della difesa al punto di violare l’articolo 6 della Convenzione (si vedano, mutatis mutandis, Acampora, decisione sopra citata, § 47, e Previti, decisione sopra citata, §§ 67-68).

49. Per quanto riguarda la valutazione delle prove a carico e la decisione della Corte di cassazione di confermare la condanna al pagamento di provvisionali, la Corte rammenta che non ha il compito di esaminare gli errori di fatto o di diritto presumibilmente commessi da un giudice interno, salvo se e nella misura in cui questi possano avere pregiudicato i diritti e le libertà salvaguardati dalla Convenzione (Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V), e che spetta in linea di principio ai giudici nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Pacifico c. Italia (dec), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012, e Plesic c. Italia (dec.), n. 16065/09, § 33, 2 luglio 2013). Considerati gli elementi del fascicolo, la Corte non ravvisa alcuna apparenza di violazione dell’articolo 6 della Convenzione derivante dagli errori asseritamente commessi dai giudici nazionali.

50. Di conseguenza, questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve rigettato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

2. Doglianze relative a una mancanza di imparzialità dei giudici nazionali

51.  Il ricorrente fa osservare che la moglie, sig.ra S., era un magistrato del tribunale di sorveglianza di Genova all’epoca dei processi di primo e di secondo grado. Egli considera che questa circostanza sarebbe stata per lui pregiudizievole, e indica che la sua eventuale assoluzione da parte del tribunale o della corte d’appello di Genova avrebbe potuto essere interpretata come un trattamento di favore. Allo scopo di dimostrare le sue affermazioni, il ricorrente dichiara che un procedimento civile era stato avviato dinanzi al tribunale di Torino contro la moglie, al fine di far dichiarare che una vendita immobiliare era stata simulata e che, poiché ella aveva vinto la causa in primo e in secondo grado, la parte avversa, nel ricorso per cassazione, aveva sollevato dei dubbi sull’imparzialità dei giudici torinesi e sulla capacità della moglie di influenzarli. Il ricorrente precisa che aveva richiesto il trasferimento del suo processo per questi motivi ma che la sua domanda era stata respinta.

52. Il ricorrente ritiene inoltre che una mancanza di imparzialità possa essere dedotta dalla violazione, da lui lamentata, dei suoi diritti sanciti dagli articoli 6 § 3 d) e 7 della Convenzione da parte dei giudici nazionali.

53. Per quanto riguarda i principi generali riguardanti i criteri che permettono di valutare l’imparzialità di un tribunale, la Corte rammenta che essi sono esposti, tra le altre, nelle sentenze seguenti: Kyprianou c. Cipro [GC], n. 73797/01, §§ 118-121, CEDU 2005-XIII; Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. Francia [GC], nn. 21279/02 e 36448/02, §§ 75-77, CEDU 2007-IV; Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, §§ 93-99, CEDU 2009; Marguš c. Croazia [GC], n. 4455/10, § 84, CEDU 2014.

54. Per quanto riguarda l’aspetto soggettivo dell’imparzialità del tribunale, la Corte constata che nulla indica, nel caso di specie, un qualsiasi pregiudizio o partito preso da parte dei giudici del tribunale o della corte d’appello di Genova. Il fatto che essi abbiano preso delle decisioni sfavorevoli al ricorrente non basta, da solo, a mettere in dubbio la loro imparzialità. La Corte, che del resto ha appena concluso che i motivi di ricorso relativi agli articoli 6 § 3 d) e 7 della Convenzione sono manifestamente infondati, non può che presumere l’imparzialità personale di tali magistrati (si veda, mutatis mutandis, Previti (n. 4), decisione sopra citata, § 53).

55. Per la Corte, resta da stabilire se la posizione della moglie del ricorrente, che era giudice presso il tribunale di sorveglianza di Genova all’epoca dei processi di primo e di secondo grado, fosse di natura tale da sollevare dei dubbi oggettivamente giustificati sull’imparzialità dei giudici della stessa città.

56. Al riguardo, la Corte rammenta che, nella causa Hajdučeková c. Slovacchia ((dec.), n. 47806/99, 8 ottobre 2002) essa ha rigettato in quanto manifestamente infondata una doglianza della ricorrente relativa al fatto che i giudici del tribunale regionale di Košice erano «colleghi» del suo ex marito, che era membro della procura della stessa città. Essa ha sottolineato che la circostanza che l’ex marito della ricorrente avesse potuto agire in qualità di rappresentante della procura in vari procedimenti giudiziari dinanzi al tribunale di Košice non giustificava i dubbi della ricorrente.

57. La Corte non può che giungere, e a maggior ragione, a conclusioni analoghe nella presente causa. Essa osserva che la causa Hajdučeková (sopra citata) riguardava una controversia che opponeva la ricorrente al suo ex marito, mentre la presente causa verte su un processo penale nell’ambito del quale la moglie del ricorrente non ha svolto alcun ruolo. In effetti, nulla dimostra che la sig.ra S. sia stata in qualsiasi modo implicata in tale processo o che i giudici di merito abbiano avuto contatti con lei. L’affermazione del ricorrente secondo la quale i giudici chiamati a pronunciarsi sul suo caso avrebbero evitato di pronunciare un’assoluzione per timore di essere accusati di essere stati influenzati dalla sig.ra S. (paragrafo 51 supra) non ha alcuna base oggettiva e deriva da mera speculazione. Essa non può, pertanto, in quanto tale e in assenza di altri elementi significativi, essere presa in considerazione dalla Corte.

58. Di conseguenza questo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, all’unanimità,

Dichiara il ricorso irricevibile.

Işıl Karakaş
Presidente

Stanley Naismith
Cancelliere